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Autore Discussione: JEAN-PAUL FITOUSSI - Democrazia e globalizzazione  (Letto 2467 volte)
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« inserito:: Gennaio 19, 2011, 06:43:52 pm »



◄ Democrazia e globalizzazione
    di Jean-Paul Fitoussi


Si pensa, oggi, che il capitalismo abbia trionfato sul socialismo. Forse è vero, e sarà la storia a giudicare, ma non si può certo affermare che abbia vinto anche sulla democrazia, cioè su una ricerca incessante di forme superiori di contratto sociale. La concezione tutta liberale dell’avvenire sembra, infatti, essere fondata su un controsenso: la felicità delle persone non si costruisce loro malgrado, ed è per questo che i regimi comunisti dell’Est sono crollati. A trionfare è stata, dunque, la democrazia, più che l’economia di mercato.
Se il capitalismo, escludendo la politica, diventasse totalitario, rischierebbe di crollare a sua volta, dal momento che in nessun altro ciclo della nostra storia – eccezion fatta per il periodo transitorio degli anni Trenta – le di-sfunzioni dell’economia mondiale sono state tanto gravi quanto lo sono oggi: disoccupazione di massa e crescita impressionante dell’illegalità e della povertà nei paesi ricchi, miseria insostenibile in molti paesi in via di sviluppo, incremento delle disuguaglianze di reddito procapite tra i paesi. Tutto ciò non può lasciare indifferente la democrazia.
È opportuno non dimenticare che il sistema economico è sempre controllato dal regime politico e che, in questo senso, possono esistere solo sistemi “impuri”. Noi viviamo in democrazie di mercato e non in economie di mercato. In un sistema siffatto che ci governa, ogni singola parola è importante perché ciascuna definisce un principio d’organizzazione differente. Da un lato, il mercato è retto dal principio del suffragio per censo, in cui l’appropriazione dei beni è proporzionale alle risorse di ciascuno – un euro: una voce; dall’altro, la democrazia si basa sul principio del suffragio universale – una donna, un uomo: una voce. Questa contraddizione era stata già percepita fin dalle origini della teoria politica nella Grecia antica. Il nostro sistema procede, dunque, da una tensione tra questi due insiemi, l’individualismo e la disuguaglianza da una parte, lo spazio pubblico e l’uguaglianza dall’altra, e ciò obbliga alla continua ricerca di una via intermedia tra i due estremi. Una simile tensione è dinamica, in quanto permette al sistema di adattarsi e di non collassare, come invece capita generalmente ai sistemi retti da un solo principio organizzativo (il sistema sovietico). Solamente le forme in movimento possono, infatti, sopravvivere; le altre si sclerotizzano.

Democrazia e mercato

Tuttavia, all’interno di questa tensione, una normale gerarchia di valori esige che il principio economico sia subordinato alla democrazia, e non il contrario. Ora, i criteri generalmente utilizzati per giudicare la bontà di una politica o di una riforma sono criteri di efficacia economica. Già circa vent’anni fa, Dan Usher proponeva di utilizzare un altro criterio: questa o quella riforma rafforzano la democrazia o, al contrario, la indeboliscono? Accrescono l’adesione della popolazione al regime politico o, invece, la riducono? Oggi è evidente che quello fosse un buon metodo. Quale sarà il destino di una riforma alla quale la gente non aderisce? E in nome di quale presunta efficacia si costringerà la popolazione a vivere in maniera diversa da quella che essa stessa desidera? A mio parere, la democrazia di mercato presuppone una gerarchia tra sistema politico e sistema economico e, dunque, un’autonomia della società nelle scelte di organizzazione economica. La democrazia non è solo un regime politico, ma anche un valore; mentre il mercato è un mezzo che, per ora, si è rivelato compatibile con essa.
Fortunatamente, il rapporto tra democrazia e mercato non è esclusivamente conflittuale, ma anche complementare. La democrazia, infatti, impedendo l’esclusione da parte del mercato, accresce la legittimità del sistema economico, e il mercato, limitando l’influenza della politica sulla vita delle persone, favorisce una più ampia adesione alla democrazia. Amartya Sen ha dimostrato in particolar modo che, a parità di risorse, nei regimi democratici non si verificano carestie. Ciascuno dei princìpi che regolano la sfera politica ed economica trova, così, la propria limitazione nell’altro.
Di fatto, poche persone aderirebbero alla democrazia se il loro destino dipendesse interamente dall’esito di ogni votazione. Per cui, in un modo o nell’altro, ogni società deve decidere chi sarà ricco e chi sarà povero, chi comanderà e chi sarà comandato, chi occuperà i posti di rilievo e chi quelli poco appetibili. Affidare la distribuzione delle ricchezze e degli oneri alla democrazia può portare solo a un risultato instabile, che rimetterebbe in discussione proprio l’esistenza della democrazia stessa. È questo un fenomeno conosciuto in teoria politica con il nome di “problema delle fazioni”: ogni coalizione può disfare ciò che un’altra ha fatto, visto che una minoranza può diventare maggioranza, offrendo ad alcuni membri della maggioranza in carica una posizione ancora più invidiabile se passano all’opposizione. È un circolo vizioso che può terminare solo con un cambiamento del regime politico.
Altri sistemi di distribuzione – di “equità” secondo Dan Usher – indipendenti dal gioco politico, devono dunque esistere, come ad esempio il sistema del merito, quello del mercato, quello dell’economia sociale. Un sistema di equità deve rispondere a due condizioni: deve essere fattibile (cioè praticabile) e accettabile. La fattibilità è una questione di numero: se il reddito nazionale fosse ripartito al 100% senza l’intervento politico, non vi sarebbe più posto per la politica e, quindi, per la democrazia; se, al contrario, l’80% dei redditi dipendesse dall’esito di un’elezione, gli individui formerebbero delle fazioni che renderebbero impossibile la vita democratica. Ebbene, un sistema di equità è realizzabile se una cospicua parte del reddito di ciascuno è determinata da processi non politici; è accettabile se non ci sono circostanze tali per cui una maggioranza relativa di cittadini presagisca di poter guadagnare sul lungo termine cambiando sistema, perché si ritroverebbe sul momento vittima di una parziale estromissione.
D’altra parte, nel meccanismo del mercato non c’è niente che garantisca l’inclusione o, se si preferisce, niente che non impedisca l’esclusione, a volte definitiva. Il risultato più consistente della teoria pura del capitalismo liberista può essere così enunciato: in un’economia retta dalle leggi della concorrenza pura e perfetta, in cui il governo si astiene da ogni intervento, la piena occupazione è garantita... per chi sopravvive. Non è una battuta. Ciò è stato confermato in modo scientifico e rigoroso, e dimostra esattamente il contrario di quanto gli ideologi del liberismo vorrebbero farci credere: l’esclusione non è la necessaria conseguenza del mal funzionamento dei mercati, dato che essa è compatibile con il perfetto funzionamento di questi mercati. Così si stabilisce la necessità dell’intervento dello Stato nel gioco economico.
In ogni società esiste una pluralità di sistemi di equità, la cui stabilità nel tempo testimonia che gli elettori non desiderano rimetterli in discussione. Tale stabilità è, però, relativa in quanto il lavoro lento e permanente della democrazia è proprio quello di correggere di continuo questi sistemi quando appaiono lontani (per effetto dell’accumularsi delle decisioni politiche) dal principio originale che li definisce. Nelle democrazie attualmente esistenti, i prelievi fiscali obbligatori non sono mai stati così elevati: tra il 30 e più del 50% del reddito nazionale. Ciò significa che i governi redistribuiscono una parte importante dei redditi primari percepiti dalle popolazioni. Questa redistribuzione potenziale non si è realizzata in un giorno. Essa sta a significare che il sistema che governa la distribuzione dei redditi, degli impieghi e delle ricchezze integra i princìpi iniziali con tutta una serie di decisioni politiche prese sotto il governo della democrazia (sistema di protezione sociale, struttura della fiscalità, regolamentazione dell’accesso a certe funzioni o professioni). In altre parole, i sistemi d’equità sono democraticamente manipolabili al fine di accrescerne l’accettabilità.

L’economia di mercato e la globalizzazione

Questo quadro di analisi, per elementare che sia, consente di riconsiderare due questioni connesse e molto discusse nel nostro tempo: l’economia di mercato e la globalizzazione, considerando la prima il motore della seconda.
Si potrebbe descrivere la storia degli ultimi trent’anni con un’allegoria: alla vigilia della globalizzazione, le popolazioni europee si riuniscono in una stanza; al suo interno si colgono differenze di ricchezza, di reddito e di classi sociali; ma quali che siano le difficoltà della vita quotidiana, ciascuno è socialmente integrato, ciascuno possiede un impiego e prevede un aumento del proprio reddito lungo il corso della sua esistenza; ciascuno, infine, è certo che i propri figli avranno un futuro migliore. Nell’arco di una sola notte, ecco la globalizzazione. Il giorno dopo, le stesse persone – esattamente le stesse – si ritrovano nella medesima stanza; alcune, un numero esiguo, si sono considerevolmente arricchite; altre, un numero più elevato, hanno guadagnato molta sicurezza, sono più scaltre perché hanno applicato il dogma che i primi hanno ordinato loro di predicare: “Non ci sono alternative”. Una parte non trascurabile della classe media ha perduto molto, e piange per il proprio avvenire e per quello dei suoi figli. Una minoranza consistente è disoccupata o ridotta in povertà. Allora, i vincitori dicono ai vinti: “Siamo sinceramente desolati della sorte che vi è toccata, ma le leggi della globalizzazione sono spietate, e bisogna che vi adattiate rinunciando alle protezioni che vi restano. Se volete che l’economia europea continui a crescere, è necessario che accettiate una precarietà maggiore. Questo è il contratto sociale del futuro, quello che ci farà ritrovare la strada del dinamismo”.
Tale messaggio è evidentemente inaccettabile, tanto più in democrazia, e questa allegoria fa apparire la globalizzazione per ciò che essa è realmente: un alibi, un discorso retorico. I vincitori, sapendo che i dadi del destino sono caduti a loro favore, non vogliono più partecipare al sistema di protezione sociale.
Con questa metafora, non voglio dire che il passato rappresenti l’età dell’oro – la nostalgia non è un metodo di analisi. Nel trentennio glorioso che va dal 1945 al 1975, la popolazione del mondo era molto più povera di oggi e le condizioni di vita, comprese quelle dei paesi sviluppati, erano molto più difficili. Ciò che va sottolineato è un elemento ancora più significativo: in quel passato le persone avevano un futuro, la politica svolgeva la sua missione di indicare la strada, di mettere in scena l’avvenire. Oggi, invece, prevale un sentimento di incertezza; l’autonomia dell’economia e i vincoli che essa dovrebbe imporre alla politica riducono il campo della “sicurezza collettiva”, la quale rappresenta la democrazia.
Il duplice trionfo dell’individualismo e del mercato limiterebbe dunque le ambizioni redistributive della società (la resistenza del contribuente) e quelle interventiste dei governi. La ricerca della stabilità dei prezzi e dell’equilibrio del bilancio (a spese pubbliche decrescenti) sono le sole politiche che possono rassicurare i mercati. Sono queste le componenti ordinarie del liberismo. Io personalmente non ho nulla contro il liberismo, se è oggetto di una scelta politica esplicita come accade nei paesi anglosassoni; ma generalmente tale scelta è presentata come un obbligo imprescindibile all’insieme dei governi europei continentali: “Non ci sono alternative”. In realtà, una simile evoluzione non ha nulla di ineluttabile  e il capitalismo deve scendere a patti con una grande varietà di istituzioni e di politiche.

L’impotenza della politica

Questi discorsi convergono su un punto essenziale del problema. La tutela dei mercati, l’inasprimento degli obblighi imposti ai governi nazionali, la riduzione della pretesa redistributiva dei governi sono altrettanti elementi che vanno a modificare il sistema di equità delle nostre società mediante il ritorno ai princìpi puri e alla cancellazione progressiva del campo della democrazia. Ma non solo. All’interno del sistema di equità, la globalizzazione accresce il ruolo del mercato e riduce quello della democrazia, in nome dell’efficacia del mercato stesso e di un ordine superiore a quello della democrazia. Tale fenomeno è stato chiamato “l’impotenza della politica”. Il cambiamento del sistema di equità non deriva, infatti, da una decisone politica – nel qual caso corrisponderebbe a un voto popolare – ma da una costrizione esterna imposta alla democrazia. Questa imposizione sarebbe legittimata da una maggiore efficacia del sistema – il che è discutibile – ma comporterebbe il capovolgimento della gerarchia naturale dei valori: al primo posto l’efficacia, all’ultimo la democrazia.
Questa sensazione di dover ratificare scelte fatte da altri, e non condivise, ha suscitato tanta acrimonia verso la mondializzazione. È una rabbia che avrebbe ragion d’essere anche se la scelta imposta fosse la più assennata. Legittimare con la globalizzazione la crescita delle disuguaglianze tra i paesi, e all’interno di ogni paese, indebolisce la democrazia e rende un pessimo servizio alla globalizzazione stessa. Questa, infatti, non è un problema di per sé, anzi potrebbe produrre importanti benefici, ma nascendo all’interno di uno squilibrio di rapporti di forze tra attori, provoca una sofferenza sociale. Quindi, ciò che genera tale sofferenza non è la globalizzazione in sé, ma il ritorno a una logica di pseudo impotenza degli Stati che adducono a pretesto la tutela dei mercati. L’ideologia ha interesse a far sì che noi continuiamo a percepire i mercati come luoghi fittizi di coordinamento, mentre, quando non sono controllati dagli Stati, sono luoghi di rapporti di forza. Sembriamo aver dimenticato che già nel Medioevo si faceva una netta distinzione tra principio di mercato e mercato concreto, il cui funzionamento esigeva l’intervento del potere pubblico.
Ora, ciò che la nostra epoca, come un tempo la Belle Epoque, ci mostra è che le evoluzioni in corso producono vincitori e vinti; e talvolta la vincita è talmente elevata da sembrare impensabile, sotto il profilo concettuale prima ancora che sul piano reale. Come spiegare l’analisi statistica secondo la quale la fortuna di un pugno di persone supera il reddito di paesi popolati da centinaia di milioni di abitanti? Ciò che risulta ancor più sconcertante è che i guadagni e le perdite all’interno delle nazioni stesse non sono distribuiti in maniera casuale, ma si potrebbe pensare che esistano soggetti che sistematicamente e strutturalmente guadagnano e altri che perdono. Come può la democrazia intraprendere un’azione che porti a una situazione del genere, senza pensare prima ai mezzi per porvi rimedio? È una questione di sovranità o di imprevidenza?

Il principio di compensazione

Immaginiamo un mondo ideale in cui vengano applicati i princìpi democratici. Tra questi ce n’è uno che sembra evidente ed essenziale, e che propongo di definire “principio di compensazione”: i governi dovrebbero predisporre regole o istituzioni che assicurino che i guadagni dell’uno siano parzialmente utilizzati per compensare le perdite dell’altro quando, sia i primi che le seconde, sono conseguenze di decisioni prese in nome della collettività. In un mondo simile, la globalizzazione degli scambi appare come una decisione saggia, e non c’è alcun conflitto tra democrazia e mondializzazione: la seconda crea un surplus che la prima distribuisce in modo che nessuno subisca perdite nette. L’attuazione di questo principio è più complessa di quanto non appaia, perché ciò che va preso in considerazione sono i guadagni e le perdite concrete, che possono essere entrambi transitori e più che compensati nel tempo.  Possiamo immaginare che sia stato un principio di questo tipo ad essere messo in atto alla fine della Seconda guerra mondiale in tutto il mondo industrializzato: l’internazionalizzazione delle economie si è accompagnata, infatti, allo sviluppo delle sicurezze sociali.
Ma che cosa ne è oggi di tutto questo? L’apertura delle economie favorisce, per definizione, la mobilità non solo del capitale finanziario, ma anche di certi tipi di sapere: nel momento in cui si aprono le porte, ne traggono vantaggio soprattutto coloro che hanno competenze specifiche. Ne risulta un surplus che non nuoce alla collettività, perché la creazione di nuove possibilità, anche se migliora la condizione solo di pochi, non lo fa necessariamente a spese degli altri. Sono pochi gli sviluppi strutturali che non abbiano effetti asimmetrici sul destino delle persone, ma ciò non è una ragione sufficiente per opporvisi. Il problema si pone solamente quando le categorie che dal cambiamento traggono vantaggio lo assumono a pretesto per ottenerne altri. La popolazione degli “stanziali” si vedrà così chiamata a pagare lo scotto ai vincitori. Il principio di compensazione è allora applicato al contrario, non a causa della mondializzazione in quanto tale, ma a causa dell’indebolimento dell’idea repubblicana.
È quello che di fatto succede oggi – secondo alcuni non abbastanza rapidamente – al punto che l’Europa continentale rischia il declino. Ovunque lo stesso grido di dolore: la regione si sta svuotando delle sue forze vitali, sta perdendo i suoi elementi più brillanti. Rischia di perdere non solo le grandi fortune, ma anche semplicemente i suoi giovani migliori o le persone più preparate, cui la globalizzazione ha aperto nuove prospettive e che preferiscono trasferirsi altrove per ragioni fiscali. Per arrestare questa emorragia e creare un nuovo dinamismo, l’unica soluzione è quella di abbassare le imposte pagate sui redditi elevati. Realtà o fantasia, questa fuga di fortune e di cervelli condannerà all’insuccesso tutti i tentativi di applicazione del principio di compensazione. È ormai chiaro: la globalizzazione genera vincitori e vinti, ma noi non abbiamo altra scelta se non quella di fare sì che i vincitori siano ricompensati con un sovrappiù, un premio supplementare che i perdenti danno loro. Coloro che si vedono offrire nuove opportunità, soprattutto per opera dello Stato, si augurano di ridurre la loro partecipazione agli oneri della nazione, che, dunque, pesano ancor più che in passato sulle spalle di chi, dalla globalizzazione, non ha tratto vantaggio alcuno. Ecco perché non vi è altra soluzione che quella di ridurre questi oneri, in particolare le garanzie sociali. Come scrive Hans Werner Sinn, “qualunque paese che provi a mantenere il welfare state finirebbe fallito, perché si troverebbe dinanzi all’emigrazione dei più fortunati, che si ritiene siano quelli che producono ricchezza, e all’immigrazione degli sfortunati, che dovrebbero essere i beneficiari del sistema”.
Dunque, la globalizzazione come principio trascendentale di organizzazione non va d’accordo con la democrazia. Essa modifica, infatti, il sistema di equità nei diversi paesi senza che vi sia stata una scelta esplicita scaturita da una discussione aperta, e restringe lo spazio delle decisioni collettive, delle garanzie sociali, della redistribuzione, dei servizi pubblici. O almeno, così è vissuta e pensata. Nessuno dei mutamenti succesivi alla Seconda guerra mondiale alimenta la convinzione secondo cui la ricerca della coesione sociale sarebbe un ostacolo all’efficienza economica. Al contrario, ovunque, anche se in forme diverse, la democrazia ha saputo imporre istituzioni di solidarietà; e le società più solidali non sono certo le meno valide. L’apertura dei paesi agli scambi internazionali si è accompagnata alla crescita potenziale dei sistemi di protezione sociale. Dunque, quest’apertura non deve essere rimessa in discussione; ciò che deve essere rimesso in questione è invece il discorso retorico di legittimazione di un capitalismo liberista e dominante che considera la democrazia e la politica come ostacoli allo sviluppo, in netta contrapposizione con i fatti. Il problema reale è che questa ideologia – più mercantilistica che non globale – ha pervaso tutti gli animi. Quelli che non vi oppongono resistenza si rassegnano, e tentano di salvare il salvabile. Invece, bisognerebbe inventare un nuovo futuro, discuterne apertamente sulla pubblica piazza e restituire alla democrazia quel vigore che mai avrebbe dovuto perdere.

Traduzione di Romina Croce

JEAN-PAUL FITOUSSI

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