DIARIO TRI/VENETO (2)
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Domenica, 2 Settembre 2007
Si aspira al sacro non per diritto nè per dovere, ma come inevitabile bisogno esistenziale, quella necessità di sublimare e di spiegare le idee che transitando al di là dell'essere e al di là di ciò che la razionalità o la razionalizzazione da sempre dispiega e interpreta con o senza la complicità della scienza. Il sacro e la sacralità stanno dirimpetto alla spiritualità e allo spirituale e sono fortemente in antitesi con tutto il mondo dell'organizzazione e dell'interpretazione che sta all'interno delle religioni.
Le tentazioni
C'è inoltre il senso del sacro che si manifesta e si caratterizza per i simboli, i rituali, i dogmatismi che nella storia dell'umano sono stati veicolo della sua stessa origine. E oggi c'è tuttavia nel tessuto sociale e nei comportamenti un conflitto in atto tra il bisogno di sacralità e negazione e fallimento dell'immagine di riferimento, identificazione e testimonianza non solo della sacralità, ma della stessa spiritualità che è sia dogmatica che laica. Don Sante, la presunzione egocentrica di essere portatore esso stesso di un'idea di sacro intrisa di pulsioni, bisogni, diritti che nulla hanno a che fare con la spiritualità e le sue rappresentazioni, che se le sposi, se diventi sacerdote, mago, stregone, guru, è irrilevante il nome, ma di fatto se scegli di rappresentare la sacralità la devi conoscere, sostenere, amare, non declinarla nella sconfitta spesso pulsionale che nel corso della vita molti uomini, grandi o piccoli, rappresentanti della fede di tutti i tempi possono tradire, subire e modificarne le sue stesse iniziali passioni. È l'abito che non fa il monaco, mai massima fu più veritiera e mai come oggi è pesante la sconfitta per la fede, per le religioni, per le rappresentanze e si va dai pedofili americani a quelli nostrani, dagli innamoramenti urlati di forza e democraticità al delitto sociale planetario nei fondamentalismi. L'uomo si impossessa del sacro e lo violenta con un umanesimo consumistico che nulla ha a che fare con quei meccanismi interiori da un lato e ancestrali dall'altro e fa sì che l'individuo si emozioni di fronte all'incognita della vita, si intreccino gli universi emotivi dell'anima e del pensiero guardando il cielo e le stelle come la via della conoscenza, quella a cui si aspira da sempre, ma che non potendo essere intrappolata dalla ragione, dal razionale, dal certo e assoluto, diventa sacro, ossia l'inviolabilità della conoscenza dell'universalità della nostra stessa appartenenza.
Il problema non è certamente il don Sante padovano di turno, con storia diversa dal più algido ed enigmatico Milinko, è in realtà il bisogno di lacerarne inconsciamente il tabù del sacro, violarlo e mutuarlo nella barbarie delle pulsioni, agognata aspirazione del relazionismo dell'ultimo nostro decennio, ma in realtà il tentativo di toglierci l'angoscia dell'esistenza educendo e facendo sì che l'individuo sia incapace oggi di potersi esprimere nella diversità proprio insita nella capacità di vivere di spiritualità andando oltre alla forma stessa molto più rassicurante dei nostri bisogni. E così se da un lato le religioni inseguono l'uomo, con la paura di perdersi e di perdere potere contrattuale oltre che spirituale, da un altro lato l'umanità è alla ricerca spasmodica proprio di sacralità dentro l'umanesimo, ma è il rigore, la capacità di rinunciare alle pulsioni, l'ascetismo caro alle grandi figure come Gandhi, i profeti, i santi che rinunciano alla paura riduttiva della morte, spiritualità ed eroismo dove la fede in realtà è la capacità di non invadere con l'ossessione della risposta e del controllo la nostra vita, la fede è un'occasione di affermare alternative alla nevrosi e alla fatica della vita stessa. Alla base della catastrofe del sacro, lacerato e condannato per ora all'esilio, c'è il meccanismo dell'onnipotenza, il dominare gli altri, il possedere lo stupore e l'ammirazione, meccanismi psicologici il cui danno l'ha vissuto persino madre Teresa di Calcutta e che la spiritualità è quella grande capacità di andare oltre se stessi e diventare così motivo e possibilità di identificazione e modello di vita indispensabile per renderla più sostenibile. È il peccato originale mai superato e ben compreso l'ossessione di tutti coloro che, per non condannare il disastro e l'incapacità, trasformano un fallimento in un'apoteosi dove l'amore non c'entra nella paternità, nella moralità, ma è un semplice beffardo trucco per non dire a chi ha bisogno di credere che l'errore e la debolezza, se guardati con coraggio, sono la vera via verso il sacro, che non è il tabù del nuovo millennio, ma l'autentica rivoluzione del futuro.
Vera Slepoj
da gazzettino.quinordest.it
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Don Contarini parla della sofferenza che la vicenda ha creato nei genitori del parroco
«Un incontro con il Vescovo per trovare il coraggio della verità»
Aldo Comello
Villani: nessuna speculazione con la Curia, la casa l’ho comprata altrove La vicenda del parroco di Monterosso fa venire in mente il film «Lo spretato», regista il francese Leo Joannon. Tratta un problema che, nell’ispirazione di Franois Mauriac, ha stuzzicato la sensibilità del cattolicesimo francese, con la profondità del sentimento, con la dignità dei voti sacerdotali, con la quotidiana bagarre tra fede e problemi del secolo. Non un capolavoro quello di Joannon: enfatico e melodrammatico con qualche sdrucciolata nel ridicolo.
Ma ebbe comunque, ai suoi tempi, un impatto formidabile: il tema del prete che si innamora o che devia e getta la tonaca alle ortiche stimola curiosità e finisce per saltare a piè pari il mare di sofferenza che, di solito, caratterizza queste situazioni. Don Cesare Contarini, direttore della Difesa del Popolo, settimanale diocesano, sottolinea quell’aspetto doloroso che è rimasto fuori dall’occhio del ciclone mediatico. «La sofferenza del vescovo, profondamente addolorato, dei preti, dei laici, della comunità cristiana, dei genitori del sacerdote con i quali Mattiazzo si è incontrato. Un vulnere profondo è stato inferto all’immagine dei preti che si spendono in silenzio, offrendosi con dedizione e alla loro comunità». Di fronte all’effetto distruttivo di una notizia che si è gonfiata come una bubbone ed è esplosa in schegge del tutto marginali, in pettegolezzi, in commenti anche irridenti e irriverenti, secondo Contarini il rimedio sta nel trovare la misura del rispetto e il coraggio della verità. Sarà probabilmente risolutivo l’incontro tra Sguotti e il vescovo; finora il sacerdote si è negato, ma non potrà farlo a lungo. E l’esito dovrebbe essere di chiarezza. «Dal colloquio - dice Contarini - nasceranno le decisioni successive. In base alla presunta paternità e all’annunciato «fidanzamento», allo stile di rapporto tra un prete e il suo vescovo, al rispetto della comunità cristiana di Monterosso».
E’ facile da prevedere il trasferimento di don Sguotti, magari per un periodo sabbatico, per rivedere tutta la situazione e recuperare tranquillità interiore. Punto cruciale: non si può non verificare se il bambino sia geneticamente figlio di don Sguotti e non magari figlio dell’anima, creatura su cui il sacerdote riversa sentimenti paterni. Su questo non devono esserci equivoci o doppie verità. Il celibato dei preti non è dogma, non è articolo di verità rivelata, nei vangeli non se ne parla. Il celibato ecclesiastico si affermò gradualmente, congruo alle esigenze spirituali e pastorali del sacerdozio, una sorta di patto di dedizione esclusiva al servizio. Esso fu fissato nel concilio di Elvira in Spagna all’inizio del quarto secolo, come condizione per essere ammessi alla consacrazione sacerdotale. Nel concilio romano del 386 papa Siricio promulgò una legge dello stesso segno per estendere l’obbligo del celibato a tutta la Chiesa.
«Non è un dogma il celibato ecclesiastico - dice don Giancarlo Minozzi, presidente onorario della Fondazione Lanza e presidente del consiglio di amministrazione del gruppo editoriale della Difesa del Popolo - ma fa parte della normativa ecclesiastica, è legge della Chiesa, la consacrazione prevede il voto di castità che non può essere violato». E in effetti il procedimento disciplinare scatta anche senza la prova. Nella vicenda di Monterosso, poi, il fumus mediatico ha fatto assumere alla vicenda le dimensioni dello scandalo, ma nello stesso tempo ha messo in evidenza la dicotomia che minaccia di «mangiare» il prete: l’efficacia del suo apostolato, il suo carisma nella comunità di cui è guida, la dipendenza dalla gerarchia della Chiesa. Non è detto che il caso di don Sguotti sia sintomatico di un disagio più generalizzato che coinvolge parte dei pastori della Diocesi, e tuttavia una recente ricerca rende conto di una situazione di particolare delicatezza. La ricerca, con 319 questionari distribuiti tra 450 sacerdoti diocesani è stata realizzata dal docente di psicologia don Pierlugi Barzon, affiancato da Giorgio Ronsoni e Marcantonio Caltabiano, e pubblicata sulle pagine del settimanale diocesano. Dall’analisi risulta che le tipologie di moda (maggior frequenza) sono date dai 124 per cui tutto va bene e da altri 124 che risultano «bruciati» (il fenomeno si chiama burnout). Si trovano cioè in sofferenza di fronte a un impegno complesso per la spartizione tra esigenze della gente e direttive dell’autorità ecclesiastica, sviluppano una stanchezza cronica che si traduce in un collasso emotivo e nella graduale spersonalizzazione della propria attività. Secondo alcuni interpreti influisce anche, per certi caratteri, la solitudine affettiva connessa al celibato e l’implosione degli obiettivi. Sono in programma incontri formativi e un graduale ridisegno dei ruoli, provvidenze rivolte soprattutto ai sacerdoti più giovani. Don Sguotti è affetto dalla sindrome del buon samaritano deluso?
(03 settembre 2007)
da espresso.repubblica.it
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Splendida la sfida al remo, pessimo dopo-gara.
E ad alcuni dei protagonisti saltano i nervi
Igor: «Cacciari, vieni qui».
Il sindaco: «Questa la paghi»
Lite furibonda sul palco.
Il filosofo sbotta: «Basta, stavolta vanno fermati tutti per un anno»
D’Este velenoso con i rivali: «Forse si sono stancati di vogare e allora ci rovinano» «Ehi, Cacciari! Non scappare, vieni qui». Igor Vignotto ha cominciato così, pochi secondi dopo il traguardo, il suo pesante attacco a organizzazione, giuria e rivali in quello che sarà ricordato come il peggior dopo gara della storia moderna della Storica. «D’Este-Tezzat non dovevano neppure gareggiare perché sono in attesa di giudizio. Ma la Commissione non si è riunita perché ha paura di D’Este», sbraita Igor in faccia a Cacciari.
«D’Este-Tezzat non dovevano neppure gareggiare perché sono in attesa di giudizio. Ma la Commissione non si è riunita perché ha paura di D’Este», sbraita Igor in faccia a Cacciari. «Basta, avete finito di vogare! Vi avevo avvisato, ora avete superato ogni limite», ribatte coraggioso il sindaco prima che Igor scarichi la rabbia sulle bandiere per i vincitori, scaraventate in acqua, dopo aver aggredito pure Piero Rosa Salva.
I Vignotto sono furiosi, ma mentre Rudy, nero in volto, rimane a poppa del gondolino, a sfogarsi per due è Igor che a un certo punto, assediato da giornalisti e vigili urbani, rischia di far affondare il pontiletto che per qualche secondo sbanda paurosamente.
«E’ pazzesco, siamo arrivati ai peggiori livelli del calcio», aggiunge Cacciari con gli occhi fuori della testa mentre affiancato da un allibito Salvadori e dal vicesindaco Vianello che chiede lumi alla giuria. Alla fine arriva un giudice che spiega: «Abbiamo richiamato i Vignotto al paletto e D’Este-Tezzat a San Marcuola. L’arrivo ufficiale è quello che avete visto». Ma dalle scarne spiegazioni sembra di capire che la giuria è scontenta del comportamento di entrambe le coppie tanto che il sindaco sentenzia subito: «Vanno fermate tutte e due le coppie per un anno».
Igor riprende: «Io tanto non vogo più. E’ uno schifo! Nel calcio le commissioni ci mettono 2 giorni a decidere e qui impiegano settimane». Dietro di lui D’Este ribatte: «Non chiedete a noi perché la giuria ha tempi lunghi. Piuttosto se Igor ha deciso che nessuno gareggi più, gli faccio i complimenti perché è riuscito nell’intento di rovinarci tutti. Ma forse è stanco di vogare...».
«Andavano squalificati durante la gara e poi alla fine hanno tentato di agganciarmi col remo. La giuria ha visto tutto», aggiunge Tezzat.
Questo l’assurdo epilogo di quella che è stata una delle più belle regate di sempre, col lungo testa a testa dei gondolini arancio e rosso addirittura affiancati, da San Stae fin quasi all’arrivo, dagli strepitosi Bertoldini-Vianello.
«Abbiamo dimostrato d’essere al loro livello, ma non possiamo essere contenti per quello che è successo. Ormai - spiega Bertoldini - i Vignotto e D’Este-Tezzat vanno alla stessa velocità, c’è grande rivalità e agonismo e basta un niente per far scatenare le polemiche. Se la giuria ha perso il controllo delle regate? Forse un po’. Per evitare contestazioni si potrebbero cercare giudici assolutamente slegati dal mondo della voga».
(03 settembre 2007)
da espresso.repubblica.it
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Giovedì, 13 Settembre 2007
Istanza legata a Camp Ederle 2
Vicenza fuori dall'Unesco
Rigoni Stern primo a firmare
Vicenza
Dopo mesi di intenso lavoro che ha mosso centinaia di persone da tutta la provincia di Vicenza per realizzare l'opera "The wandering cemetery", il cimitero itinerante, Alberto Peruffo, incontrerà i vicentini in corso Palladio e in piazza dei Signori per illustrare l'istanza "Vicenza fuori dall'Unesco", documenti scritto a più mani come estremo tentativo di informare i cittadini sui reali e immediati pericoli che corre la città con la messa in opera della base Dal Molin.
Gli autori dell'istanza sono convinti che sia un difetto di informazione e di conoscenza della propria storia che porti a credere che la costruzione di una nuova base militare all'interno del tessuto urbano sia un vantaggio e un fatto irreversibile. Con documenti storici alla mano, l'istanza dimostra con logicità disarmante l'impossibilità per Vicenza di conservare il Patrimonio Mondiale dell'Unesco.
L'istanza è rivolta a far riflettere tutti i vicentini, siano essi di destra o di sinistra, senza distinzione di clase, condizione e credo, che dovranno prendere atto dell'uscita di Vicenza dall'Unesco nel momento in cui sarà messa in opera la base Dal Molin, con i relativi e verificabili danni economici, sociali e culturali. Questo è ciò che dovrebbero capire i vicentini e tutti gli italiani, ovvero sia "nel convento altrui non si porta la propria regola", come ha siglato Mario Rigoni Stern, primo firmatario dell'istanza. La raccolta di firme procederà su più fronti, locali e nazionali, mentre otti alle 10.30 l'istanza verrà distribuita ai cittadini tra corso Palladio e piazza dei Signori.
da gazzettino.quinordest.it
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Schio
NOSTRO INVIATO
«Toh... una pecora pacifista». Nella vecchia portineria della Fabbrica Alta della Lanerossi a Schio, diventata ormai un monumento dell'archeologia industriale tessile, il vicepremier Francesco Rutelli si ferma per un attimo, colpito dai colori del vello che ricopre l'ovino dall'aria mite, che lo guarda mansueto con i suoi occhi formati da un paio di bottoni verdi. È una delle molte copie variopinte delle pecore, che un tempo resero ricca di opifici questa terra, realizzate da decine di artisti per l'anniversario dei due secoli e mezzo di vita del Lanificio Conte. È l'opera di Matteo Gaule che ha utilizzato mille batuffoli di lana, dai colori dell'arcobaleno, che ora sembrano quasi irridenti visto che il ministro dei Beni Culturali sta per affrontare a Vicenza le contestazioni dei No-Dal Molin.
Rutelli è venuto a Schio per prendere visione dei lavori di recupero del Teatro Civico e di ciò che rimane dell'architettura che nell'Ottocento disegnò una delle città famose in Italia per la produzione della lana. Ma dopo aver risposto alle richieste del sindaco Luigi Dalla Via, assicurando l'interessamento del Ministero per inserire tra i programmi il restauro del teatro, è inevitabile che risponda, in anticipo, ai motivi della contestazione.
A Vicenza le hanno preparato un'accoglienza piuttosto rumorosa, anche perchè è il primo rappresentante del governo che arriva dopo il via libera ufficiale alla nuova base americana.
«Io sono qui per valorizzare il teatro italiano e la cerimonia di consegna degli oscar al teatro Olimpico è un appuntamento importante, l'appuntamento più importante per tutto il teatro italiano».
Ma da dieci giorni si stanno preparando a darle il benvenuto con pentole, coperchi e fischietti.
«Penso che faccia parte della democrazia non condividere una scelta e protestare. Sono rispettoso di chi la pensa in modo diverso. Ma la scelta sul Dal Molin è stata ormai presa dal governo e dal parlamento».
Un anno fa lei però aveva lasciato intravvedere qualche possibilità di stop al progetto.
«Un anno fa venni nella stessa occasione e dissi che attendevamo il pronunciamento della città di Vicenza e del consiglio comunale. Così è avvenuto e noi abbiamo rispettato gli impegni internazionali assunti dall'Italia».
Ma la contestazione non si è placata.
«È in corso un lavoro molto serio affidato al commissario Paolo Costa. E mira a raggiungere tre obiettivi importanti».
Il primo?
«Mitigare l'impatto dell'opera con una localizzazione delle costruzioni che deve essere fatta in modo da incidere il meno possibile con la città e con la congestione del territorio».
Il secondo?
«Remunerare la città di Vicenza per questa decisione, con opere pubbliche attese e utili, come ad esempio la realizzazione della tangenziale».
Infine?
«C'è una questione di trasparenza. Bisogna spiegare che l'impatto della nuova base al Dal Molin è molto, molto, ma molto più ridotto di quanto si sia fatto credere alla cittadinanza. La maggioranza della popolazione ha diritto ad avere risposte in ordine a preoccupazioni e allarmi della città».
Molti nel centrosinistra sono delusi.
«I passaggi di questa vicenda sono sotto gli occhi di tutti. Ma se qualcuno è completamente contrario alla base, forse rimarrà tale».
G. P.
da gazzettino.quinordest.it
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