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Autore Discussione: FRANCESCO BEI.  (Letto 70635 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Settembre 22, 2011, 04:59:31 pm »

RETROSCENA

L'ultima offerta di Bossi a Berlusconi

"Dimissioni? Ne parliamo a gennaio"

Il premier chiede al principale alleato se deve "lasciare subito", il senatur: "Vedremo a fine anno".

Incontro al Quirinale con Napolitano: il capo dello Stato contesta l'ottimismo dell'esecutivo su spread e mercati

di FRANCESCO BEI e UMBERTO ROSSO


"UMBERTO, cosa devo fare? Pensi anche tu che mi debba dimettere? Se me lo dici tu io lo faccio subito". Al termine di un incontro drammatico a Palazzo Grazioli con lo Stato Maggiore del Carroccio, il Cavaliere tenta il tutto per tutto. Getta sul tavolo in anticipo la carta delle dimissioni per poterla subito rimettere nel mazzo. È un bluff, visto che a passare la mano a un nuovo governo non ci pensa affatto. E dall'altra parte trova Bossi disposto a concedergli un altro giro di tavolo. Ma senza entusiasmo. "Io voglio solo la Padania", gli risponde laconico il Senatùr senza offrire ulteriori garanzie sul futuro. "Poi ne riparliamo a gennaio...". Ma tanto basta a Berlusconi per salire in serata al Quirinale e scacciare, in un colloquio teso e preoccupato con il capo dello Stato, il fantasma della crisi di governo.

E tuttavia la mano più difficile, quella che si gioca oggi alla Camera sull'arresto di Marco Milanese, il premier sembra essersela aggiudicata. Roberto Maroni non ha la forza necessaria per sostenere uno strappo così violento, visto che l'arresto dell'ex collaboratore di Tremonti provocherebbe lo squagliamento della maggioranza. Il ministro dell'Interno ha valutato con preoccupazione le conseguenze di una crisi di governo provocata dai suoi: "Non ce lo possiamo permettere - racconta un suo fedelissimo - perché ce la imputerebbero totalmente e noi saremmo finiti". E dunque Maroni garantirà oggi il voto dei suoi a favore di Milanese. La resa dei conti è spostata in avanti.
A gennaio. Oppure molto prima, quando a fine settembre si voterà la sfiducia al ministro Saverio Romano.

Così, forte della sponda offerta dalla Lega, il Cavaliere alla sette della sera può salire baldanzoso al Quirinale per conferire con il capo dello Stato. Un colloquio richiesto da palazzo Chigi il giorno prima, per capire dalla viva voce di Napolitano il significato di quella sorta di "consultazioni" che hanno fatto irritare e preoccupare il Cavaliere. Nell'ora e un quarto di incontro, il capo del governo ripete il suo mantra e spande ottimismo sulla situazione finanziaria: "Il peggio è passato. Abbiamo presentato una manovra che ha ricevuto consensi da tutta Europa e adesso tocca al piano per la crescita. Stavolta lo seguirò personalmente. Ho messo al lavoro un nucleo di esperti per elaborare delle proposte da presentare al Consiglio dei ministri al più presto". Napolitano resta in ascolto. Scettico e preoccupato svolge un'analisi che non coincide con quella rosa e fiori del premier. "Il paese resta in grave difficoltà, lo spread è tornato a salire e oggi anche le nostre principali banche sono state declassate. Non possiamo permetterci alcun ritardo". Berlusconi elenca una serie di titoli senza riempirli di contenuti, ma dal presidente della Repubblica arriva l'invito pressante a trasformare quel libro dei sogni in realtà. Per Napolitano è questa "la vera sfida dopo la manovra", quella su cui "ci stiamo giocando tutto". Chiede misure per la crescita "il più possibile condivise", anche attraverso "ampie consultazioni in Parlamento e con le parti sociali".

E tuttavia per Berlusconi "l'unica garanzia perché il paese sia al riparo da ulteriori tempeste è proprio la stabilità dell'esecutivo". Il suo, ovviamente. "Presidente, non c'è alcun problema per la tenuta della mia maggioranza. Ne ho parlato anche con Bossi, il nostro rapporto è solido". Quanto alle ripetute sconfitte della maggioranza in aula, "non hanno valore politico, sono solo incidenti parlamentari". Eppure Napolitano insiste nel chiedere certezze sulla tenuta della coalizione. "Siete sicuri sui vostri numeri?". E Berlusconi: "Lo vedremo su Milanese".

La giustizia è sempre il tormentone che accompagna ogni incontro di Berlusconi al Quirinale. "Sono un perseguitato, per fortuna ho trovato un Gip a Napoli che ha acclarato quello che vado dicendo da tempo. La competenza sull'inchiesta Tarantini è di Roma". Ma Napolitano, infastidito, cambia discorso e lo riporta sulle questioni concrete. L'economia, la tenuta del centrodestra. Alla fine si lasciano dopo aver parlato per tutto il tempo due lingue diverse. Ma Berlusconi, per un altro giorno, è convinto di averla sfangata. Tanto che ai suoi, tornato a palazzo Grazioli per un vertice sulla giustizia, consegna una battuta un po' irriverente sul capo dello Stato: "Tranquilli, Napolitano non si dimette. E andiamo avanti".

(22 settembre 2011) © Riproduzione riservata
DA - http://www.repubblica.it/politica/2011/09/22/news/berlusconi_gennaio-22040208/?ref=HREA-1
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« Risposta #46 inserito:: Ottobre 20, 2011, 06:01:28 pm »

IL RETROSCENA

Bankitalia, stallo per i veti incrociati gelo tra Napolitano e il premier

Tutti i veti contrapposti che bloccano la scelta del nuovo governatore.

Tremonti e Bossi insistono ancora su Grilli.

Il capo dello stato: "Serve un largo consenso per una nomina autorevole"

di FRANCESCO BEI

ROMA - Al telefono con un interlocutore misterioso, alle sei di sera, Giulio Tremonti offre una fotografia veritiera dell'avvitamento del governo sulla nomina del successore di Mario Draghi: "Fidati di me - dice a voce bassa il ministro dietro una colonna in Transatlantico - su Bankitalia non è deciso nulla". Lo stallo è totale e in qualche modo Berlusconi, che ha annunciato per oggi la decisione, dovrà districarsi tra i veti contrapposti. Sembrava esserci riuscito ieri mattina quando, salito al Quirinale per la cerimonia dei cavalieri del lavoro, in un breve colloquio con il capo dello Stato aveva avanzato timidamente il nome di Lorenzo Bini Smaghi. Un candidato che ha un grandissimo pregio agli occhi del premier: andando a guidare la Banca d'Italia libererebbe la poltrona della Bce che spetta adesso a un francese. Dando modo così al Cavaliere di presentarsi domenica al Consiglio europeo senza patemi d'animo, potendo guardare in faccia Sarkozy.

Fatto sta che, nonostante dal Quirinale non sia venuto alcun veto formale sull'attuale membro del board Bce, la reazione di Napolitano deve aver provocato qualche ripensamento nel premier. Quando infatti il capo dello Stato lo ha invitato a valutare bene se il prescelto ("chiunque esso sia") rispondesse alle tre caratteristiche necessarie per l'incarico - autorevolezza, autonomia e, soprattutto, continuità - Berlusconi ha capito che doveva ricominciare tutto da capo. "Costruire un largo consenso su una candidatura autorevole", questo l'imperativo del Colle. Un "consenso" che, allo stato, sul nome di Bini Smaghi non sembra esserci.
E non sono soltanto le critiche politiche piovute ieri da Fli e Udc sul "comportamento vergognoso" che avrebbe tenuto l'economista fiorentino non dimettendosi spontaneamente dalla Bce. O la nota congiunta di Casini e Bersani che chiede a Berlusconi di "rispettare le competenze interne" della Banca, lasciando così intravedere la fotografia di Saccomanni, numero due di Bankitalia. I problemi maggiori Bini Smaghi li avrebbe proprio dentro l'Istituto che dovrebbe andare a dirigere. Tanto che le voci dall'interno di via Nazionale si spingono ad ipotizzare conseguenze forti nel caso il Cavaliere insista con la sua candidatura. Che potrebbe a questo punto ricevere un voto contrario del Consiglio Superiore della Banca, con parere negativo alla nomina.
Uno strappo istituzionale clamoroso. Certo si tratterebbe di un parere "non vincolante" e, in teoria, palazzo Chigi potrebbe comunque procedere con Bini Smaghi. Con il rischio tuttavia che si dimettano in massa i componenti del Consiglio Superiore, come arma estrema di dissenso. Per uscire dall'impasse Berlusconi le sta pensando tutte, mentre le lancette corrono. Ieri sera è circolata l'ipotesi che, nel caso Bini Smaghi riesca a superare gli ostacoli e planare sulla scrivania di Draghi, per l'attuale direttore generale Saccomanni si aprirebbe la strada di una nomina a presidente dell'Antitrust. Mentre Ignazio Visco, attuale vice di Saccomanni, avrebbe la promozione a direttore generale.

Con Bini Smaghi che balla, è ricominciata inevitabilmente la tarantella dei nomi alternativi: Fabrizio Saccomanni, Ignazio Visco e, new entry, Anna Maria Tarantola, attuale vice direttore generale di Bankitalia. Una donna, un'esperta, un'interna all'Istituto. In più con la discreta benedizione del cardinal Tarcisio Bertone, segretario di Stato vaticano. E vista la preoccupazione del premier per il franare della sponda cattolica (dopo il convegno di Todi), l'idea di nominare una candidata gradita anche al Vaticano ha solleticato la mente del Cavaliere.
C'è poi ancora tutta aperta la questione di Vittorio Grilli, il candidato sponsorizzato da Tremonti e, indirettamente, da Bossi.

Il ministro dell'Economia infatti non molla e quanto possa essere un osso duro lo ha sperimentato ieri il ministro Paolo Romani, incaricato da Berlusconi di seguire il decreto Sviluppo. Tra i due c'è stato un aspro confronto a palazzo Grazioli, davanti al premier, a Letta e Angelino Alfano. Sono volate parole grosse, con Tremonti che smontava una ad una le proposte del collega. Un vertice concluso dopo soli 40 minuti, con il ministro dell'Economia che si congeda bruscamente rinfilando nella borsa le proposte approntate da Romani: "Queste non vanno. Se vi viene in mente un'idea migliore avvertitemi".

Stallo sulla Banca d'Italia, stallo sul decreto Sviluppo. Le preoccupazioni del premier per la tenuta del governo crescono ogni giorno di più, nonostante la fiducia appena incassata. Così, per puntellare la maggioranza, Berlusconi starebbe pensando di offrire un posto da ministro a Claudio Scajola, leader di un reggimento di deputati insofferenti. 

(20 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/economia/2011/10/20/news/bankitalia_gelo_napolitano-premier-23535913/
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« Risposta #47 inserito:: Novembre 05, 2011, 11:27:42 am »

RETROSCENA

Letta, Alfano e Verdini uniti "Silvio, la maggioranza non c'è più"

Drammatico vertice a Palazzo Grazioli dopo il ritorno in Italia di Berlusconi reduce dal G20. "Meglio fare subito un passo indietro".

Ma il premier resiste. Martedì il d-day. Spunta un nuovo esecutivo

dal nostro inviato FRANCESCO BEI


CANNES - Alle otto di sera, nel salotto di palazzo Grazioli, la bandiera bianca viene alzata dall'ultimo uomo da cui il Cavaliere si aspetterebbe il colpo: Gianni Letta. "Silvio, i numeri sono questi, forse è arrivato il momento di farsene una ragione". Berlusconi è stanco, fissa i suoi interlocutori. Ha davanti a sé Denis Verdini, Letta, Angelino Alfano e Paolo Bonaiuti. Li guarda senza davvero capire quello che gli stanno dicendo. È finita. Ha passato la notte precedente a trattare con Obama e Sarkozy, ora gli stanno dicendo che la fine della sua stagione politica è stata decisa da Stracquadanio e Bertolini. Ma è così.

Denis Verdini, l'uomo che ha garantito nell'ombra tutte le trattative con i parlamentari, stavolta ammette che i numeri non ci sono più. Se si votasse domani sul rendiconto dello Stato i numeri si fermerebbero a 306 deputati. Ma il coordinatore stavolta è anche più pessimista: oltre a quelli che sono già andati via c'è anche un'altra area di dissenso, un'area grigia di una quindicina di deputati pronti a staccarsi dalla maggioranza, portando così la conta finale a 300. Sarebbe la fine. Sono ore drammatiche, il premier incassa questi numeri ma non ci sta. Si ribella, alza la voce. E prova a resistere. "Non ci credo. Li chiamerò uno ad uno personalmente. È tutta gente mia, mi devono guardare negli occhi e dirmi che mi vogliono tradire. Io lo so che sono arrabbiati, è gente frustrata, si rompono le palle a pigiare tutti i giorni
un pulsante, ma non hanno un disegno politico. Ci parlerò". Verdini e Alfano non condividono l'ottimismo del Cavaliere e stavolta non hanno paura a dirlo: "Ci abbiamo già parlato noi, è stato inutile".

Berlusconi li ascolta, a volte sospira e sembra rendersi conto della gravità della situazione. Per la prima volta le sue certezze traballano, inizia a prendere in considerazione l'impensabile. "Io potrei anche lasciare il posto a qualcun altro, come dite voi. Se vedessi un nuovo governo potrei fare un passo indietro, il problema è che non lo vedo". E tuttavia i suoi uomini insistono. La pressione per allargare la maggioranza all'Udc è sempre più forte. Nel governo, nella componente dei forzisti, ormai è un coro. E non resta molto tempo, le lancette corrono veloci. Martedì si voterà il Rendiconto dello Stato, poi probabilmente partirà una mozione di sfiducia. A quel punto sarà troppo tardi. Così, nella lunga notte di palazzo Grazioli, viene elaborata una strategia per affrontare i prossimi passaggi. Prendendo in considerazione i numeri ma anche l'insistenza del Cavaliere nel provare a resistere. Viene studiato un possibile atterraggio morbido. Da oggi a lunedì Berlusconi farà le sue telefonate ai ribelli e le sue convocazioni. Prima del voto alla Camera verrà fatto un ultimo controllo, un check nome per nome, tracciando il bilancio definitivo. Sarà in quel momento che verrà presa la decisione finale perché, se i numeri saranno ancora negativi, al Cavaliere hanno consigliato di andarsi a dimettere senza passare per un voto di sfiducia.

"Possiamo anche andare allo scontro - gli hanno spiegato Alfano e Letta - ma se perdiamo, e stavolta è probabile che perdiamo, la palla passa agli altri. A quel punto possiamo solo subire". Al contrario, se Berlusconi si decidesse a pilotare il passaggio con delle dimissioni volontarie, continuerebbe a essere il regista dell'operazione. Spianando così la strada a un nuovo governo, a maggioranza Pdl, a cui il Terzo polo non potrebbe dire di no. Un governo guidato da Gianni Letta o Mario Monti. A quel punto la vera incognita sarebbe la Lega. Anche di questo si è discusso a via del Plebiscito, ipotizzando che Roberto Maroni possa restare al Viminale. La strada del voto anticipato, il mantra ripetuto fino a ieri da Berlusconi e dallo stato maggiore del Pdl fin dentro lo studio del capo dello Stato, non viene nemmeno preso in considerazione. Serve alla propaganda, ma i sondaggi sono impietosi. Per il Pdl andare alle urne in questa situazione sarebbe un naufragio rovinoso.

Al contrario, nel caso il Cavaliere accettasse di favorire il passaggio a un governo diverso, per il centrodestra si aprirebbero opportunità vantaggiose. "Con Gianni Letta a palazzo Chigi - hanno spiegato al premier - allarghiamo l'alleanza a Casini e possiamo decidere noi se andare al voto tra sei mesi o tra un anno. Quando ci conviene di più". Ma anche se Napolitano incaricasse Mario Monti per un governo di "salvezza nazionale", con una dura agenda di sacrifici - quella tracciata ieri a Cannes con l'Ue e il Fondo monetario - per il Pdl e Berlusconi ci sarebbero vantaggi. "Avremmo tutto il tempo di riorganizzarci e preparare la candidatura di Alfano nel 2013". Inoltre si alleggerirebbe la responsabilità per il micidiali tagli che dovranno essere approvati. E resterebbe solo Mario Monti come artefice della purga.

Altre strade, nonostante Berlusconi resista, non ci sono. "Oggi siamo a 306, ma potremmo finire a 300", gli hanno ripetuto in coro. L'unica incognita a questo punto resta la data dell'attacco che sarà scelta dall'opposizione. C'è chi pensa martedì, chi punta alla settimana successiva. Tra il Pd e l'Udc su questo punto non c'è identità di vedute. Bersani vorrebbe assestare subito il colpo, sul Rendiconto dello Stato (lasciando che ad approvarlo sia un nuovo governo). Al contrario Pier Ferdinando Casini ormai è convinto che la partita sia già vinta. E tanto vale far passare il Rendiconto con un'astensione, portando l'assalto finale qualche giorno più tardi. Sempre che Berlusconi, come lo imploravano ieri i suoi, non decida di anticiparli e gettare la spugna da solo.

(05 novembre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/11/05/news/berlusconi_dimettiti-24461894/?ref=HRER1-1
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« Risposta #48 inserito:: Novembre 07, 2011, 11:06:08 pm »

Il retroscena

Alfano e Letta: "Meglio andare al Quirinale Silvio, dimettiti prima del Rendiconto"

L'ultimo pressing dei vertici Pdl in un drammatico vertice notturno a palazzo Grazioli.

Il capo del governo insiste: "Bisogna resistere un po'. Poi si vota con noi a Palazzo Chigi".

E pensa di offrire a Napolitano la rielezione

di FRANCESCO BEI


"Silvio è finita". Dopo un pomeriggio passato a Palazzo Grazioli con Alfano, Letta e i capigruppo del Pdl, il Cavaliere è sul punto di mollare. Se il pressing del gruppo dirigente del Pdl sortirà il suo effetto, oggi stesso Berlusconi salirà al Colle per rassegnare le dimissioni.

Si conclude così, in maniera drammatica, una lunghissima giornata, che ha visto le residue certezze del premier cadere una ad una. Fino al colpo annunciato alle 20.22 dall'agenzia TmNews - l'uscita dal Pdl di Gabriella Carlucci 1 - che investe in pieno il capo del governo lasciandolo "incredulo". Da quel momento tutto precipita, finché anche Bobo Maroni, da Fabio Fazio (video 2), non certifica la crisi in atto: "La maggioranza non c'è più ed è inutile accanirsi".

L'epilogo tuttavia non è scritto, e potrebbe rivelarsi più difficile del previsto. Perché il Cavaliere ancora a tarda notte puntava i piedi, minacciando persino una grande manifestazione a Roma contro i "ribaltonisti". Pronto a chiedere il voto anticipato a Napolitano nel caso a Montecitorio la maggioranza, come sembra, dovesse venir meno.

"Io non mi vado a dimettere - ha ripetuto fino all'ultimo nella riunione a via del Plebiscito - perché ci conviene andare a votare a gennaio restando noi a palazzo Chigi". Berlusconi è pronto a tutto, persino ad avanzare un'offerta spericolata al capo dello Stato. "Se ci dà le elezioni noi possiamo garantirgli un secondo mandato al Quirinale nel 2013".

Gli ultimi calcoli fatti durante il vertice non consentono più margini di manovra. Nella migliore delle ipotesi discusse davanti al premier - migliore ma irrealistica - maggioranza e opposizione sono pari a 314 voti (a cui aggiungere Alfonso Papa agli arresti e Gianfranco Fini che non vota). Trecentoquattordici voti, ma in realtà nel Pdl c'è un'intera area di forzisti della prima ora in subbuglio. Non solo Bertolini, Stracquadanio e i firmatari della lettera dell'Hassler. C'è una zona grigia di malessere che sfugge a ogni certezza. Persino Denis Verdini, che da un anno ha saputo garantire al capo del governo una precisione chirurgica sui numeri, stavolta sembra abbia alzato le mani. Non ci sono certezze.

"Rischiamo la slavina", gli hanno ripetuto in coro capigruppo e ministri. "Non puoi fare la fine di Prodi - gli dicono - e cadere per un voto in Aula. Sarebbe un suicidio politico. In questo modo non avresti più titolo di parlare, l'iniziativa ci sfuggirebbe completamente di mano". Il premier, messo alle strette, ancora non ha deciso cosa fare.

L'hanno sentito parlare di tre fantomatici deputati dell'Udc e di uno del Pd in arrivo nel Pdl. Ma i presenti si sono guardati negli occhi senza crederci. Dice di temere per le sue aziende. Racconta che anche i figli sono preoccupati per le ripercussioni su Mediaset, gli chiedono di non mollare.

Ma la realtà è senza scampo. Verdini calcola in 23 deputati l'area del malcontento. Gente che magari domani pomeriggio potrà anche votare a favore del Rendiconto, ma che non garantirà di proseguire l'esperienza di governo. È dunque finita per Berlusconi, ma a questo punto gli uomini al vertice del Pdl stanno facendo di tutto per convincerlo a non trascinare a fondo tutto il centrodestra. Per farlo c'è un unico modo: "Devi anticipare la crisi di governo andando a dimetterti e negoziando le condizioni per il nuovo governo".

Un'impresa resa più difficile dopo la chiusura fatta da Pier Luigi Bersani a un esecutivo guidato da Gianni Letta. Una chiusura a cui è sembrato accodarsi anche Pier Ferdinando Casini che ha detto chiaro e tondo che un nuovo governo non può nascere senza l'apporto del Pd. "Se Casini va dietro Bersani e dice di no a Letta - ragiona preoccupato un ministro del Pdl - è davvero finita. Vuole dire che ha stretto un patto con il Pd per farsi eleggere al Quirinale. Allora ci sono soltanto le elezioni". Quanto a Mario Monti, Berlusconi dicono che non potrebbe mai accettarlo.

A tarda notte nel corso del vertice viene elaborata un'ultima offerta da portare a Casini. Quella di un governo Alfano-Maroni, un ticket che aprirebbe una nuova fase con un'offerta di collaborazione al terzo polo. Al terzo polo, non al Pd. In questo modo, sperano i dirigenti del Pdl, si ricompatterebbe intanto il centrodestra esistente, sedando la ribellione dei deputati. Inoltre si metterebbe in difficoltà Casini, che avrebbe difficoltà a rifiutare quel nuovo esecutivo senza il Cavaliere che proprio l'Udc chiede da un anno a questa parte.

Ma questi sono scenari spericolati visto che, al momento, l'ipotesi elettorale sembra quella più accreditata. Il ministro Romano, uscito dall'Udc, spinge per il voto anticipato. E con lui tutti i falchi del Pdl. Persino Gianfranco Rotondi ha minacciato Berlusconi di non dare il via libera a un nuovo governo con l'Udc. Ha raccolto 27 firme di parlamentari su una lettera in cui si accusa Berlusconi di aver tradito il berlusconismo. Sono i paradossi delle ore di crisi.

(07 novembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/11/07/news/vertice_dimissioni-24564395/
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« Risposta #49 inserito:: Novembre 13, 2011, 11:13:45 am »

IL RETROSCENA

Napolitano gela il Cavaliere "Voto? Io apro le consultazioni"

Letta smonta l'ultima speranza: "Silvio, non sono disponibile".

Già dalla mattina il Quirinale aveva avvertito: senza maggioranza il passo indietro è un gesto obbligato.

La mossa del premier dettata dalla paura che il Colle potesse affidare ad un altro governo il compito di rispettare gli impegni presi con l'Europa

di FRANCESCO BEI e UMBERTO ROSSO


ROMA - È la resa. Alle sette di sera, nello studio del capo dello Stato, un Berlusconi esausto ammette di aver perduto la sua ultima partita. "Le confesso signor Presidente che non me l'aspettavo. Né con questi numeri né per i nomi di chi mi ha tradito, tutti miei fedelissimi come Antonione". Il premier prosegue nel suo sfogo davanti a Napolitano, Letta gli è seduto accanto. "Avevo pensato di venire qui a chiederle un nuovo passaggio di fiducia in Parlamento, ma abbiamo preso degli impegni in Europa e non possiamo permetterci un braccio di ferro sulle mie dimissioni. Sarebbe un pessimo segnale ai mercati, preferisco chiudere in buona coscienza". La parola "dimissioni" non viene mai pronunciata, il Cavaliere proprio non ce la fa. Ma inevitabilmente arriva l'annuncio: "Dopo la legge di stabilità mi farò da parte. È vero, non ho più i numeri per andare avanti". È una mossa dettata da una paura. Berlusconi teme infatti che Napolitano potrebbe affidare a un altro governo il compito di portare a casa gli impegni presi con Bruxelles. Un "governo europeo", guidato da Mario Monti, con la lettera di Berlusconi all'Ue come programma. Una "trappola" per il Pdl che, a quel punto, non potrebbe dire di no.

Napolitano prende atto della "consapevolezza" del premier di essere arrivato al capolinea, sulla base di un risultato parlamentare senza appello. Ascolta ma non è sorpreso. Il capo dello Stato, già dalla mattina, nel giro di colloqui con la Lega e con le forze d'opposizione, aveva avvertito: se davvero sul rendiconto la maggioranza si dissolve, a quel punto le dimissioni del Cavaliere saranno un "gesto obbligato". Del resto anche il Carroccio a Napolitano lo aveva fatto intendere chiaramente: "Se non ci sono più i voti per andare avanti e Berlusconi fa finta di niente siamo pronti a ritirare i nostri ministri dal governo". Un diktat senza vie d'uscita. Quello che preme a Napolitano è il messaggio da dare all'Europa con la rapida approvazione della legge di stabilità. E per questo sono arrivate al Colle le garanzie del Pd e del terzo polo: pronti all'approvazione lampo, come ad agosto con la manovra, se Berlusconi prima annuncia le sue dimissioni. Con questa assicurazione in tasca, certo così che non ci sarà uno slittamento dei tempi, il capo dello Stato ha concesso a Berlusconi di lasciare palazzo Chigi solo dopo l'approvazione della manovra europea. E con ulteriori "caveat" al presidente del Consiglio: "La legge di stabilità credo debba essere ridotta all'essenziale, limitandoci a ciò che ci chiede l'Europa". Un modo per evitare di replicare quel decreto "omnibus" con cui il Cavaliere si era presentato la settimana scorsa al Colle e restituito al mittente da Napolitano perché infarcito di troppe norme estranee al risanamento. "In questo modo - propone il capo dello Stato - si potrebbe approvare in maniera definitiva entro la fine del mese". A Berlusconi, che vorrebbe invece tirarla per le lunghe per arrivare a metà dicembre in modo da far saltare il governo tecnico, non resta altro che abbozzare. E dopo le dimissioni che succederà? Qui le strade di Berlusconi e di Napolitano si dividono.

"Per me - prova a forzare il Cavaliere - questo percorso porta solo a elezioni anticipate il prima possibile, anche a febbraio. Non daremo mai il nostro assenso a un governo tecnico o di larghe intese. Sarebbe un ribaltone". Ma Napolitano lo gela. "Per me questo percorso, dopo le sue dimissioni, porta all'apertura delle consultazioni con tutti i partiti. Sia quelli che hanno vinto le elezioni del 2008, e dentro ci sono anche forze come il Fli, sia i partiti che stanno all'opposizione". Il discorso è chiarissimo. Vuol dire che, pur riconoscendo alla maggioranza un ruolo chiave nelle consultazioni che si apriranno, il capo dello Stato apre la porta a un governo di larghe intese. E che le elezioni anticipate saranno proprio l'ultima carta che resterà sul tavolo. Per Berlusconi è una doccia fredda, si rende conto che dopo la sua uscita da palazzo Chigi si aprirà una partita interamente nelle mani del Colle.
Quaranta minuti di colloquio. Alla fine Napolitano personalmente stende il comunicato dell'addio, chiarendo senza possibili scappatoie che "il presidente del Consiglio rimetterà il suo mandato nelle mani del capo dello Stato". E nel congedarlo gli anticipa il senso della nota, che tuttavia sarà diffusa dal Quirinale senza che al premier venga riletta.

Napolitano dunque si tiene le mani libere. Dando così corpo ai peggiori timori di Berlusconi sull'arrivo di un governo di transizione affidato a Monti. Un fantasma che aveva anche animato la drammatica riunione convocata dal Cavaliere a Montecitorio subito dopo il voto. Facce lunghe, toni concitati. I ministri del Pdl lo supplicano di dare le dimissioni subito, "questa sera stessa", in modo da arrivare all'indicazione di un uomo del Pdl per l'incarico: Letta, Alfano oppure Schifani. "Se facciamo così - assicura Verdini - possiamo tornare facilmente a 320 deputati". Ma, quando Berlusconi si ritrova in auto da solo con Gianni Letta, verso il Quirinale, il sottosegretario smonta anche l'ultima speranza: "Silvio, dubito che Napolitano possa darti oggi garanzie sul nome del tuo successore. E poi io non sono disponibile".

(09 novembre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/11/09/news/retroscena_quirinale-24695065/?ref=HRER1-1
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« Risposta #50 inserito:: Novembre 27, 2011, 03:27:40 pm »

IL RETROSCENA

L'incubo del Professore non convincere Berlino

Monti vuole far presto, teme di perdere "il treno franco-tedesco".

E tratta con la Ue i criteri del pareggio di bilancio

di FRANCESCO BEI


È un gabinetto di guerra quello che si riunisce di sabato, in una Roma semi-deserta, a via XX Settembre. In edicola è arrivato il Financial Times, la bibbia della City di Londra, che sferza Roma e descrive i piani del governo ancora "avvolti nella nebbia". L'ultima giornata di contrattazioni ha lasciato sul terreno uno spread di 500 punti. Mario Monti chiama dunque a raccolta il "nocciolo duro" del nuovo esecutivo: i ministri Corrado Passera (Sviluppo), Elsa Fornero (Welfare), Enzo Moavero (Politiche Comunitarie) e Piero Giarda (Rapporti con il Parlamento). La situazione è molto più grave del previsto, l'Italia rischia di restare fuori dalla futura governance dell'euro. Anche Napolitano chiama il premier e si tiene informato.

Sono ore drammatiche per il futuro della moneta unica e la trattativa segreta tra Merkel e Sarkozy, rivelata ieri dalle indiscrezioni della Bild, punta dritto a un'Europa a due cerchi. Un primo di paesi virtuosi, che andrebbero avanti per conto loro, e un cerchio più largo di paesi cicala, gravati da un debito insostenibile. E l'Italia, ha detto chiaro Merkel a Monti al vertice trilaterale di Strasburgo, rischia di finire in coda. È una sorta di "Schengen dell'euro" quella che si profila, con alcuni paesi del Nord Europa che adottano da subito le nuove regole e gli altri che restano indietro. Le modifiche al patto di stabilità, sostiene la Bild, arriverebbero sul tavolo del Consiglio europeo prestissimo. Già al vertice dell'8 dicembre. Per questo Monti non
ha più un minuto da perdere. "Ci chiedono - riferisce un ministro - di approvare qualcosa di concreto prima del prossimo summit Ue". Un'imposizione più che una richiesta, altrimenti il treno della nuova Europa potrebbe partire senza di noi. "A questo punto - detta la linea Monti - dobbiamo accelerare per non rimanere indietro. Dobbiamo giocare il tutto per tutto per non staccarci dal treno franco-tedesco". Da qui la decisione di inserire anche le pensioni nel pacchetto.

L'Italia, osserva una fonte di governo, si trova oggi in una situazione simile a quella vissuta nel settembre del 1996, quando Romano Prodi andò a Valencia per cercare di convincere Aznar (ma la ricostruzione è sempre stata negata da Prodi) a fare fronte comune per ammorbidire i parametri di Maastricht necessari ad entrare nell'euro. Aznar, come sembra fare oggi la Merkel, ci chiuse la porta in faccia. E l'Italia, con Ciampi ministro del Tesoro, fu costretta a raddoppiare la Finanziaria per centrare l'obiettivo: da 32.500 a 62.500 miliardi di lire. È lo spettro che agita Monti. Quello di dover somministrare al cavallo una cura troppo pesante, che potrebbe aggravare ulteriormente la situazione spingere il paese verso la recessione.

Per questo ieri mattina, prima dell'incontro con i suoi ministri, il premier ha proseguito la due diligence sui conti pubblici del 2012. Una ricognizione fatta insieme al direttore generale di via XX Settembre, Vittorio Grilli, al ragioniere generale dello Stato Mario Canzio e al capo di Gabinetto Vincenzo Fortunato, che starebbe restituendo un quadro della situazione più complicato rispetto alle attese. Se il precedente governo puntava a uno 0,6 per cento di Pil nel 2012, le nuove stime europee vedono un misero 0,1 per cento di crescita. E l'anno prossimo potrebbe arrivare la recessione. Per questo le speranze di Monti sono tutte appese alla trattativa in corso sui nuovi criteri di valutazione del pareggio di bilancio. Un braccio di ferro segreto, giocato sulla richiesta italiana di poter modulare la manovra in base al ciclo economico. "Tutta l'area euro - spiega una fonte di palazzo Chigi - deve rivedere il concetto di deficit. Fermo restando il principio del rigore non si può non tenere conto della congiuntura. Nel rapporto tra il deficit e il Pil bisogna stimolare il denominatore, il Pil, non si può agire solo con i tagli o le tasse". Un concetto che Berlusconi cercò invano di far digerire a Tremonti. Ora il professore intende "verificare a livello europeo" quali margini ci sono per arrivare a un "nuovo approccio" di questo genere. Prima che al Consiglio europeo si compia il blitz della coppia Merkel-Sarkozy sull'euro a due velocità. Monti gioca d'anticipo, proponendo nuovi criteri di misura del rapporto deficit/Pil e una nuova governance dell'euro che non spacchi l'Europa. Già domani potrebbe partire per Bruxelles per prendere contatto con le delegazioni francesi e tedesche prima dell'Eurogruppo.

(27 novembre 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #51 inserito:: Gennaio 21, 2012, 11:08:21 pm »

IL RETROSCENA

Liberalizzazioni, la lunga trattativa di Monti

"Ma in Parlamento non si cambia nulla"

Il governo approva la lenzuolata di riforme, denominata cresci Italia. I partiti ora vogliono trattare per le modifiche in aula.

Ma per il Professore toccare qualcosa rischia di mettere a rischio il dl

di FRANCESCO BEI


ROMA - "È stata una faticaccia ma abbiamo prodotto un risultato equilibrato. A questo punto modificarlo sarebbe un rischio, meglio lasciarlo così. Anzi non si può più cambiare". Esausto per il tour de force, adesso Monti prova a mettere in sicurezza il provvedimento "cresci-Italia" blindandolo in Parlamento. Impresa difficile, a giudicare dalle intenzioni dei partiti della sua maggioranza. Che negli ultimi due giorni hanno fatto fuoco e fiamme per portare a casa il massimo possibile.

"Dicono che il Consiglio dei ministri sia durato otto ore. Non è vero, in realtà ce ne abbiamo messe almeno diciotto: la trattativa è iniziata la sera prima con i partiti!". La confessione serale di un ministro alza un velo sulla notte dei lunghi coltelli che ha portato al provvedimento sulle liberalizzazioni.

Notte insonne, soprattutto per il Pdl. Non che il Pd e il Terzo polo se ne stiano zitti e buoni, anzi. Ma le nuove norme bruciano nella carne viva di categorie in questi anni rappresentate dal centrodestra, come i tassisti, i professionisti, notai, avvocati e farmacisti. Ed è per questo che, fino all'ultimo, persino durante la riunione del governo, gli sherpa del Pdl - supportati dalle carte fornite in queste settimane dalle lobby di categoria - si fanno sentire, alzano la voce, pretendono risposte.

Berlusconi e Alfano agiscono in maniera militare per limitare al massimo le liberalizzazioni, mettono in campo una task-force di esperti. A guidarla sono Maurizio Gasparri e Renato Brunetta, ne fanno parte anche Massimo Corsaro, Paolo Romani e Luigi Casero. E, su tutti, vigila Gianni Letta, che coltiva (insieme a Gasparri) rapporti intensi e molto stretti con il braccio destro di Monti, Antonio Catricalà. "Considerato che questo era il passaggio più indigesto per noi - osserva Raffaele Fitto - non è andata male. Abbiamo limitato i danni. E adesso arrivano le norme sul mercato del lavoro, che saranno molto dolorose per il Pd".

Sull'Ipad di Gasparri scorrono una dopo l'altra le bozze del decreto. La prima giovedì pomeriggio, ritenuta insoddisfacente. Poi la seconda e l'ultima, che il capogruppo del Pdl ottiene a palazzo Chigi poco prima dell'inizio del Consiglio dei ministri.

Ma ieri a mattina a varcare il portone di palazzo Chigi è lo stesso Gianni Letta, ricevuto da Catricalà. Ufficialmente si parla dello spostamento della Protezione civile sotto al Viminale, in realtà è il segnale del pressing fortissimo del Pdl sul governo. Che tocca, incidentalmente, anche la decisione del ministro Passera di stoppare l'assegnazione gratuita delle frequenze digitali a Mediaset per novanta giorni. Per Berlusconi è l'unica, vera sconfitta. Anche se non definitiva.

"Monti - ragiona un ex ministro del Pdl - ha voluto mettere una pistola sul tavolo. Probabilmente consigliato da qualcuno più in alto, ha mandato un segnale al Cavaliere. Il premier tiene in stand-by la questione delle frequenze per fare pressione su di noi e intanto il tempo passa. Tra novanta giorni, quando decideranno, si sarà chiusa la finestra per andare alle elezioni anticipate. E Monti arriverà al 2013".

Il Pdl, comunque, ritiene di aver strappato molto. I farmaci di fascia C potranno essere venduti solo dalle farmacie, come adesso. E l'arrivo di 5000 nuove farmacie, ammettono sconsolati nel Pd, "significa la morte delle 3500 parafarmacie che guardavano a noi nella speranza di poter crescere". Berlusconi incassa anche l'annacquamento delle norme sui taxi, lasciate a una futura decisione dell'autorità delle reti, sentiti i sindaci. E il Pdl è pronto a presentare un emendamento che preveda una decisione solo "d'intesa" con i sindaci.

Così come è vero che aumentano i notai, ma restano tutti i costi legati all'intermediazione notarile. Il Pd infatti mastica amaro. "I grandi temi ci sono tutti - ragiona Francesco Boccia - ma forse in Parlamento dovremo aumentare l'intensità del decreto".

È quello che Benedetto Della Vedova lamenta come "il vizio d'origine" della coalizione: "Nessuno, a parte noi del terzo polo, vuole intestarsi questa manovra. Così si indebolisce sia il governo che la politica. E resta solo la piazza".
 

(21 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #52 inserito:: Gennaio 26, 2012, 10:41:53 pm »

RETROSCENA

E il Professore inizia a temere il Pdl "Non so se riesce a tenere fino alla fine"

Berlusconi attende la sentenza Mills per decidere se staccare la spina all'esecutivo.

L'Udc: "Dobbiamo aiutare il Popolo delle Libertà a non esplodere"

di FRANCESCO BEI


ROMA - La faccia preoccupata di Mario Monti, mentre lascia di corsa Montecitorio prima che l'aula abbia votato la mozione unitaria sull'Europa, contrasta con una giornata che, per il suo governo, dovrebbe assicurargli una navigazione tranquilla. Il voto è stato bulgaro - 468 favorevoli - e, in fondo, si è trattato della prima apparizione formale della nuova maggioranza "tripartita". E questo nonostante i democratici e i berlusconiani si sforzino di ripetere che non si tratta dell'avvio di una coalizione "politica". Eppure il premier inizia a temere che sia solo la quiete prima della tempesta. "Ho paura - confida ai suoi - che il Pdl non tenga".

L'attenzione dei sostenitori del Professore è infatti tutta concentrata su quello che è diventato il vero anello debole della maggioranza "strana": il partito del Cavaliere. E non è stato un bel segnale per il governo vedere quei 64 astenuti del Pdl - nonostante l'ordine ufficiale di votare no - che non se la sono sentita di andare contro la mozione della Lega. Gente di Berlusconi, come Laura Ravetto o Massimo Corsaro, eletti al Nord, che temono la fine rovinosa dell'alleanza con Bossi. "Qua si va a votare - sbotta l'ex ministro Andrea Ronchi - il 90 per cento di noi non ne può più di questo governo".

A preoccuparsi stavolta sono anche gli uomini del Pd e del Terzo polo. Quelli più impegnati nella difesa del governo tecnico. Come Enrico Letta, che ieri in aula è salito ai banchi del Pdl per una serrata
conversazione a quattr'occhi con un'altra colomba, Franco Frattini. Per questo anche i centristi hanno iniziato a costruire i primi "firewall", per evitare che il partito dei falchi berlusconiani travolga tutto e trascini l'Italia al voto. "L'atteggiamento del Pdl - spiega il segretario Udc Lorenzo Cesa - ci inizia a preoccupare. Dobbiamo stare attenti e aiutarli a reggere, è interesse di tutti che il Pdl ora non esploda". Per questo, rivela Cesa, l'Udc sta dando una mano al segretario Alfano rendendogli meno difficile "raggiungere un accordo con noi alle amministrative. Un'impresa non impossibile visto che in molti posti già governavamo insieme". È un modo per allentare la pressione, per abbassare la temperatura interna alla maggioranza che sostiene il governo. E far intravedere al Pdl una via d'uscita alternativa, oltre l'alleanza sempre più difficile con Bossi.

Tanta premura non deve apparire eccessiva. Nel Pdl infatti ogni giorno che passa cresce il malcontento nei confronti del governo Monti. E in tanti iniziano a pensare che proprio il decreto sulle liberalizzazioni, avversato dalle categorie che da sempre hanno guardato al centrodestra, possa essere il terreno ideale per far saltare il banco e andare in campagna elettorale. Aldo Brancher, da sempre il pontiere fra Berlusconi e Bossi, lunedì sera era presente alla cena tra i due leader a via Rovani. E pronostica una svolta a breve: "Berlusconi vede che il decreto Monti colpisce da una parte sola. E i nostri, sul territorio, si devono difendere dall'accusa di votare queste misure impossibili insieme al Pd. Ma pian piano la gente sta iniziando a capire che non era colpa di Berlusconi quello che è accaduto. Bisogna aspettare una quindicina di giorni e poi vediamo". Quella "quindicina di giorni", a cui allude il braccio destro del Cavaliere, porta avanti le lancette della politica a una data chiave per il Pdl: la sentenza del processo Mills. Un processo "politico", secondo l'ex premier, che ieri ha voluto inviare un segnale preciso andando in Tribunale invece che a Montecitorio. Come a dire: è a Milano che per me si gioca la vera partita. "Perché è chiaro - osserva Maurizio Lupi - che una condanna che arriva a un giorno dalla prescrizione significa che anche il collegio dei giudici, oltre alla procura, si è accanito. E per noi sarebbe una sentenza politica con conseguenze politiche. Perché i giudici non vivono sulla luna". Insomma, il Cavaliere ha davanti due strade: la prima porta alla rottura con Monti e al voto anticipato. Strada piena di rischi, anche per i sondaggi negativi che danno in costante caduta il suo partito. Ma avrebbe la certezza di mantenere in piedi l'asse del Nord con Bossi, sia alle politiche che alle amministrative. La seconda strada conduce invece alla rottura con il Carroccio e al sostegno a Monti fino alla fine della legislatura. Ma Berlusconi vuole garanzie: "Non posso sostenere un esecutivo con chi vuole mandarmi in galera. Serve un disarmo e il primo passo è la sentenza Mills". Il secondo passo, spiegano dal Pdl, è quello che si aspetta il partito Mediaset. L'azienda non vuole scherzi sul beauty contest che dovrebbe assegnare le frequenze digitali. Il ministro Passera per ora l'ha bloccato, ma l'asta non è stata ancora indetta. Ecco, anche la partita delle frequenze, oltre alla sentenza Mills, è in questi giorni sul tavolo del Cavaliere. Che si è preso "una quindicina di giorni" di attesa. Per capire se staccare la spina. Oppure andare avanti, come ieri, con la maggioranza "strana".

(26 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #53 inserito:: Febbraio 20, 2012, 11:02:11 am »

I PERSONAGGI

La partita del Pd per la premiership spunta la corrente dei "montiani"

I democratici chiamati a scegliere e si fa strada l'ipotesi di anticipare il congresso.

Tensione anche nel Pdl.

L'eventuale corsa di "superMario" sul tavolo del vertice dei berlusconiani a Villa Gernetto

di FRANCESCO BEI


ROMA - C'è qualcuno che già lavora per candidare Monti nel 2013? Ecco, siamo di nuovo lì. A quella prima pagina del Manifesto del '95, governo Dini, quando la sinistra si chiedeva "Baciamo il rospo?". Quindici anni dopo c'è Mario Monti a dividere il campo, a destra ma soprattutto a sinistra. Il Pd è attraversato da sospetti, acuiti dall'intervista rilasciata ieri da Walter Veltroni a Repubblica. Il governo ha un profilo "riformista" e sarebbe "un grave errore" regalare Monti alla destra, ha detto l'ex segretario. Attirandosi una violenta scomunica di Stefano Fassina, membro della segreteria e vicino alle posizioni della Cgil. Eppure Veltroni tocca un nervo scoperto. "Ha messo il dito nella piega - ha commentato Casini con i suoi dopo aver letto l'intervista - anche se è più facile parlare quando sei un battitore libero: Bersani, da segretario, deve conciliare le due anime del partito".

Che sia questa - Monti o non Monti nel 2013 - la questione centrale lo dimostra del resto la dichiarazione di sostegno arrivata da Enrico Letta, un altro sponsor del Professore: "Berlusconi tenta di berlusconizzare Monti? Chissà. Nel dubbio fa bene Veltroni a ribadire che non dobbiamo cedere Monti alla destra". Il Pd è chiamato a scegliere, tanto che inizia a farsi strada l'ipotesi di anticipare il congresso - previsto nell'autunno 2013 - a una data più ravvicinata, per sciogliere il nodo delle alleanze e dell'identità del partito. Certo l'ala bersaniana inizia
a vivere con una crescente insofferenza la posizione troppo montiana dei veltroniani. Fassina si rivolge a Veltroni senza diplomazia: "Se la tua valutazione fosse giusta alle prossime elezioni il Pd dovrebbe presentarsi insieme al Pdl, oltre che al Terzo Polo". Dalla segreteria di Bersani anche Roberta Agostini dà voce ai sospetti su Veltroni. Baciare il rospo? "Noi - dice Agostini - siamo con Monti ma oltre Monti. Non penso che il Pd possa candidarlo e, se qualcuno lo pensa, sbaglia i propri conti. Sarebbe una scelta suicida. Fassina interpreta un sentimento di malessere che c'è nel paese per i sacrifici non sempre equi imposti da Monti".

Bersani e l'ala sinistra del Pd temono anche la concorrenza sempre più aggressiva di Sinistra e Libertà. Domani a Roma Nichi Vendola aprirà la direzione di Sel in una settimana decisiva per la trattativa sul lavoro. E le premesse vanno tutte in una direzione, tanto che il presidente della Puglia ha già minacciato una "reazione durissima" se il governo intendesse "stracciare il fondamento della civiltà del lavoro" rappresentato dall'articolo 18. Di fronte a una probabile manifestazione targata Fiom-Sel contro il governo cosa faranno nel Pd?

Ma la verità è che la possibile candidatura di Mario Monti e la sua investitura a premier oltre il 2013 minacciano di far saltare anche gli equilibri dentro il Pdl. "Quel che dice Veltroni - ammette Osvaldo Napoli - ha una sua logica. Ma anche nel centrodestra c'è paura che Monti se lo prenda la sinistra. La realtà è che hanno tutti paura di lui". E allora, con Pd e Pdl bloccati, ad avvantaggiarsene potrebbe essere il terzo incomodo. "Non vorrei - osserva infatti Veltroni - che Casini, mettendosi nella scia di Monti, facesse un grande partito di centro, prendendosi anche un pezzo del Pdl e diventando a quel punto il primo polo. A noi ci schiaccerebbero nella foto di Vasto e faremmo la fine della macchina da guerra del '94".

Se il Pd può almeno consolarsi con sondaggi positivi, nel Pdl la questione  "Monti sì-Monti no" s'intreccia invece con l'incubo della piena in arrivo con le amministrative di maggio. Che potrebbero far deflagrare definitivamente il partito. L'allarme rosso suonerà stasera alla cena organizzata a villa Gernetto da Berlusconi. Il Cavaliere è il primo a rendersi conto che la situazione è difficile, tanto da non aver ancora programmato alcun comizio in giro per l'Italia proprio per non firmare con il suo nome una sconfitta. Nei suoi piani, oltre alla presentazione di liste civiche, è tornata persino la vecchia idea di recuperare il simbolo di "Forza Italia" per le prossime politiche. Con buona pace dei mal di pancia che questo potrebbe provocare negli ex An.

(20 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/02/20/news/pd_premiersship-30176514/?ref=HREC1-23
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« Risposta #54 inserito:: Marzo 24, 2012, 03:00:33 pm »

RETROSCENA

Lavoro, alta tensione nel governo i ministri dissidenti contro la Fornero

Critiche da Barca a Balduzzi. Il ministro della Salute, unico costituzionalista, avverte: "Andiamoci piano con l'articolo 18.

Intervento di Monti per mediare.

Poi lo scontro fra Giarda e Grilli sul dl sulle liberalizzazioni

di FRANCESCO BEI

ROMA - Non è andata liscia come al solito. Per la prima volta la "sala professori" si è animata di una discussione tutt'altro che accademica. E nemmeno la chiusura delle porte, imposta da Monti, è servita a evitare che qualche urlo arrivasse all'esterno del Consiglio dei ministri. La riforma del lavoro accende anche gli algidi professori di Monti specie se, come nel caso di Fabrizio Barca, hanno alle spalle una storia familiare di sinistra che parte dalla Resistenza.

E proprio Barca è il primo a sollevare obiezioni a Fornero, per non aver ancora preparato "un vero articolato" da sottoporre all'esame del Consiglio limitandosi a consegnare quella "bozza generica" già letta alle parti sociali. Un rilievo condiviso anche da Piero Giarda. Ma il problema è anche di merito, in particolare sull'articolo 18. Del resto era stato proprio Barca l'unico ministro a esternare in pubblico, qualche giorno fa, il suo dissenso: "Cosa fa un lavoratore per il quale è stato chiesto il licenziamento per motivi economici se invece ritiene di essere stato discriminato? Come tutelerà il proprio diritto? Penso anche ai lavoratori iscritti alla Fiom. Questa è la domanda cruciale". Barca apre un varco e ci si infilano anche altri. Andrea Riccardi, poi Renato Balduzzi. Il ministro della Salute è l'unico costituzionalista della compagnia e sono due giorni che si arrovella sulla riforma Fornero. Tra le altre cose fa notare che la riscrittura
così radicale dell'articolo 18 potrebbe anche confliggere con l'articolo uno della Costituzione, quello che proclama la Repubblica "fondata sul lavoro". "Andiamoci piano", suggerisce Balduzzi.

Il botta e risposta con Fornero si accende, deve intervenire Monti a difendere l'opera "equilibrata" del ministro del lavoro. Il Consiglio si divide tra falchi e colombe, qualcuno reclama ancora il decreto legge. Ma il premier spiega che no, "il decreto sarebbe politicamente una forzatura, anche il capo dello Stato ritiene migliore la strada del disegno di legge". A questo punto, vista la spaccatura, sarebbe stato Corrado Passera a suggerire un rinvio dell'approvazione della riforma a un'altra seduta, "per dare a tutti il tempo di approfondire e arrivare all'unanimità". Una versione smentita dall'interessato. E tuttavia la notizia filtra così. Tanto che Monti avrebbe dovuto agire d'imperio per superare l'impasse. "Se non riusciamo a chiudere oggi la discussione allora è meglio procedere con un voto. Ma io non posso accettare alcuna dilazione: immaginate come titolerebbero domani i giornali internazionali". Dunque la bozza Fornero viene approvata, "salvo intese". E il ministro si può sfogare rivendicando il lavoro svolto, la trattativa estenuante con le parti sociali, le nottate insonni. "Non vi immaginate quello che ho dovuto sopportare", confessa Fornero, che da due settimane è costretta a girare con dieci uomini di scorta. I colleghi applaudono, è l'unico momento in cui la tensione si scioglie. Il ministro dell'Interno, Anna Maria Cancellieri, la proclama "la nostra Giovanna d'Arco". Entrano i commessi con bevande e caffè.

Ma è solo un momento, perché la battaglia si riaccende subito dopo con la delega fiscale. Quando Giarda se la prende con Vittorio Grilli perché il testo ancora non è pronto sembra di rivedere il film degli scontri tra Tremonti e i suoi colleghi, tenuti regolarmente all'oscuro dei provvedimenti fino a un minuto prima della riunione. Il ministro dei rapporti con il Parlamento ce l'ha con Grilli anche per un'altra vicenda. La Ragioneria generale, che dipende dal Tesoro, aveva infatti segnalato la mancanza di coperture per il decreto liberalizzazioni. Ma nessuno dell'Economia, tanto meno Grilli, era andato a spiegare la cosa a Montecitorio, lasciando Giarda a prendersi da solo gli insulti e i pesanti sarcasmi di mezzo Parlamento. Giarda è furibondo e arriva persino a minacciare le dimissioni. Quando Monti lascia prima del tempo la riunione, per andare a cena con Schifani a Milano, dovrebbe essere Giarda a presiedere al suo posto. Ma il ministro se ne va sbattendo la porta e tocca a Piero Gnudi impugnare la campanella del premier. L'elettricità è tanta. Scorre anche sulla linea Catricalà-Patroni Griffi. I due, solitamente tra i più compassati, litigano alzando la voce.

Alla fine, con un rinvio sulla delega fiscale e un'approvazione "salvo intese", il Consiglio più lungo termina. Monti vola a Milano con Fornero per cenare, nella sua abitazione privata, con Renato Schifani e Ferruccio de Bortoli. E al presidente del Senato chiede "una corsia preferenziale" per avere la certezza che la riforma del lavoro sia legge "entro l'estate". Il decreto, reclamato dal Pdl, è stato infatti scartato su pressione di Napolitano. Ma anche Gianfranco Fini, a pranzo giovedì con il premier, aveva sconsigliato a Monti di servirsene per evitare l'accusa di un uso eccessivo della decretazione d'urgenza. "A questo punto - ragiona con i suoi il presidente della Camera - chi ancora oggi chiede il decreto lo fa solo per mettere in difficoltà il governo".

(24 marzo 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/03/24/news/lavoro_dissensi_ministri-32112625/
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« Risposta #55 inserito:: Aprile 13, 2012, 11:57:51 am »

di FRANCESCO BEI

I partiti e il nodo del finanziamento

I partiti si muovono. Con il rischio che il discredito generato dai casi Lusi e Belsito travolga tutti, i leader di maggioranza hanno ora
l’urgenza di dare un segnale. Così il testo di riforma sulla trasparenza nella vita dei partiti, partorito ieri durante un lungo vertice, è già da oggi al vaglio del presidente della Camera Gianfranco Fini. La riforma diventerà un emendamento al decreto fiscale e sarà quindi legge tra pochi giorni. Ma non c’è solo la stretta sui bilanci. Questa mattina c’è stato un nuovo incontro a porte chiuse degli sherpa di maggioranza sulla legge elettorale. E la sensazione è che a breve sarà partorita la bozza definitiva da inviare alle altre forze politiche.

Altro fronte, altra accelerazione: "Le delegazioni di Pdl, Pd e Terzo polo - informa una nota - hanno raggiunto l'accordo sulla proposta di revisione di alcune norme della Costituzione. Nella giornata di oggi consegneranno il testo ai rispettivi gruppi parlamentari, i quali hanno già dichiarato la loro disponibilità a valutarlo in tempi rapidi per dare immediatamente il via all'iter parlamentare, che partirà dal Senato".

Finanziamento pubblico, riforma elettorale, riscrittura della Costituzione sono i tre punti sui quali "ABC" avrebbero dunque trovato l’intesa. Resta alta invece la conflittualità sulla riforma del mercato del lavoro. Questa mattina il Pdl ha ascoltato per ore a via dell’Umiltà una delegazione di Confindustria e di Rete Imprese Italia: il Pdl chiede che sia ripristinata la flessibilità in entrata.

Intanto nella Lega tiene banco lo scandalo dei conti segreti. Nel pomeriggio a via Bellerio si terrà il Consiglio federale che dovrebbe sancire l’espulsione dell’ex tesoriere Belsito e stabilire la data del Congresso. Attese "ad horas" le dimissioni di Rosy Mauro (almeno) da vicepresidente del Senato.

da - http://www.repubblica.it/politica/?ref=HRHM1-2
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« Risposta #56 inserito:: Aprile 30, 2012, 11:20:35 am »

IL CASO

Piano segreto Monti-Merkel road map parallela per la crisi

Trattativa per un patto su rigore e crescita. Approvazione in contemporanea dei due Parlamenti del "fiscal compact". L'obiettivo è orientare i tedeschi verso gli eurobond e lo scorporo dal deficit degli investimenti

di FRANCESCO BEI


UN'ITALIA più tedesca sul rigore, una Germania più italiana sulla crescita. È questa doppia metamorfosi l'obiettivo di una serrata trattativa segreta sull'asse Roma e Berlino. Un asse che potrebbe portare, nel giro poche settimane, alla più spettacolare operazione di marketing politico europeo dai tempi dei Trattati di Roma: la sincronizzazione dei processi di ratifica del Fiscal Compact e del Fondo Salva Stati (Esm) nel parlamenti di Roma e Berlino. Lo stesso giorno. Con la stessa maggioranza larga di unità nazionale. Con Mario Monti e Angela Merkel riuniti insieme ad assistere all'evento, incorniciato da una "dichiarazione solenne" sul comune destino europeo. Per mostrare ai mercati l'immagine di un'Italia definitivamente avviata alla disciplina di bilancio, con biglietto di sola andata. Per insinuarsi nella crisi dei rapporti tra Francia e Germania, favorita dall'ascesa di Hollande all'Eliseo, e sostituire Parigi nel rapporto privilegiato con Berlino. Ma anche per lasciarsi finalmente alle spalle "il rigore cieco" e puntare davvero a un nuovo patto per la crescita, un "Growth Compact" dopo il famigerato "Fiscal Compact".

LA TRATTATIVA
Nel governo ci hanno lavorato in tre nel più totale riserbo. Il progetto è in fase di avanzata discussione. Mario Monti ne ha discusso più volte con la Cancelliera federale. Enzo Moavero e Vittorio Grilli hanno tenuto i contatti con Wolfgang Schaeuble, il ministro delle finanze tedesco,
e con il negoziatore europeo della Merkel, Nikolaus Meyer-Landrut. Ma è stato informato anche il presidente della commissione Esteri Lamberto Dini, perché il piano Monti-Merkel prevede anche un forte coinvolgimento del Parlamento italiano e del Bundestag. Nel progetto una delegazione di deputati tedeschi dovrebbe infatti seguire i lavori di ratifica italiani, mentre analoga missione di onorevoli e senatori - in qualità di "osservatori" - sarà inviata al Bundestag. Allo stesso modo il ministro Schaeuble verrà in audizione davanti alla commissione esteri del Senato. E Moavero o Grilli prenderanno lo stesso giorno il biglietto per Berlino. Così via, passo dopo passo. Sempre insieme. Fino alla prevista ratifica "prima dell'estate", possibilmente in tempo per arrivare al Consiglio europeo di fine giugno con i "compiti a casa" svolti per bene. Il perché lo spiega il ministro Moavero: "Vogliamo mettere la Germania alla prova, ma come si fa con un amico: senza minacce, mano nella mano".

"SINCRONIZZAZIONE POLITICA"
E tuttavia non si tratta solo di un'operazione di immagine. Il governo italiano punta infatti a una forte "sincronizzazione politica" fra le due capitali. Alla ricerca di un "idem sentire" che orienti la Germania verso gli eurobond e la Golden rule, ovvero la possibilità di prevedere un trattamento di favore per gli investimenti (fino a scorporarli del tutto) nel conteggio del deficit. Le uniche mosse credibili per ridare un po' di ossigeno all'economia del Continente. Il fatto è che Angela Merkel, al momento, è in difficoltà a casa sua. E questo, per Roma, costituisce un'opportunità. La Corte di Karlsruhe - visto che il "Fiskalpakt" modifica la legge costituzionale - impone infatti che la ratifica del trattato avvenga con la maggioranza dei due terzi del Bundestag.

IL NODO SPD
Per farla passare la Cancelliera dovrà quindi venire a patti con la Spd. Ed è proprio su questa inattesa sponda politica che contano gli italiani per ammorbidire Frau Merkel. L'opposizione tedesca ha infatti già messo in chiaro che i voti arriveranno solo a condizione che il governo federale si apra alla Tobin tax e a una qualche forma di investimento pubblico europeo per sostenere la crescita. Esattamente quanto chiede da mesi Roma a Berlino.

GRANDE COALIZIONE
Per questo Monti ritiene importante che nelle due capitali, nello stesso giorno, si manifesti lo stesso arco costituzionale - una maggioranza di unità nazionale - a sostegno dei due governi. "Se in Europa - osserva ancora Moavero - si vogliono fare grandi cambiamenti, come quelli che necessariamente vanno fatti perché non crolli tutto, occorre che la questione sia presa in mano dalle grandi famiglie europee. Insieme: popolari e socialisti".

C'È ANCHE LA CRESCITA
Il ministro per gli affari europei, "longa manus" di Monti a Bruxelles, aggiunge anche una nota d'ottimismo: "Le cose si stanno muovendo nella direzione giusta, non c'è più soltanto il rigore cieco. E l'Italia è pienamente coinvolta, per la prima volta da anni, in questi processi". "Quando - racconta - all'inizio del mandato, insieme a Monti, siamo andati in giro per l'Europa, ci hanno detto che era per genufletterci. Poi però, a Strasburgo, Monti è stato invitato da Merkel e Sarkozy: e allora siamo stati accusati di voler fare un direttorio a tre invece che a due. I nostri critici sbagliavano ancora. Tanto che poco dopo abbiamo fatto uscire fuori quella lettera sulla crescita, firmata da dodici premier europei, che rompeva la logica del direttorio. Questo per dire che ci muoviamo a tutto campo, sparigliando, seguendo schemi inattesi. E la parola dell'Italia conta, per la prima volta da tempo, conta. Fidatevi". Intanto qualcosa Roma ha già ottenuto. Nei giorni scorsi poi Moavero è riuscito a convincere quasi tutti gli altri "contributori netti" europei - Germania, Francia, Olanda, Finlandia, Austria, Danimarca - a riorientare i quasi 430 miliardi del bilancio dell'Unione per il quinquennio 2014-2020 dai settori tradizionali come l'agricoltura alla crescita.

(30 aprile 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/economia/2012/04/30/news/piano_monti_merkel-34201290/
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« Risposta #57 inserito:: Maggio 08, 2012, 04:44:14 pm »

Il retroscena

L'allarme di Monti su Berlusconi

"Ma non accetterò logiche di scambio"

I risultati delle amministrative, con il Pdl in forte calo ovunque, preoccupano Palazzo Chigi.

Che però è sicuro che il Popolo della libertà non provocherà la crisi. Si lavora alle misure per la crescita per evitare la paralisi in Parlamento   

di FRANCESCO BEI


RACCONTANO che il presidente del Consiglio Monti abbia passato la giornata pensando più a Parigi che a Palermo, con la testa più sul caos politico ad Atene che su quello a Parma.

Eppure chi ha parlato con il premier, superando la cortina eretta da palazzo Chigi, ha trovato Monti molto preoccupato per l'esito delle amministrative. "Proprio adesso che, grazie all'arrivo di Hollande, siamo in condizione di giocare la nostra partita in Europa - sono le considerazioni che ha svolto il capo del governo - l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un indebolimento sul piano interno". E la crisi interna che sta vivendo il Pdl - diviso tra (pochi) sostenitori dell'esecutivo e quanti puntano allo sganciamento - è diventato di nuovo un fattore di grande allarme per il premier.

Eppure, nonostante tutto, Monti non vede rischi concreti di una crisi di governo come quella che c'è stata in Olanda. "Il Pdl darà qualche colpo in Parlamento - osserva pragmatico un ministro - ma cosa può fare in concreto? Non si può più andare a votare e, in ogni caso, se lo facessero sarebbero spazzati via".

Così, anche se Monti resta aperto al confronto con il Pdl ed è pronto a incontrare Berlusconi "se questi lo riterrà opportuno", sui provvedimenti il governo continuerà ad andare per la sua strada: "Non possiamo accettare logiche di scambio".

Ma il vento dell'antipolitica, che ha gonfiato i risultati di Marine Le Pen e degli antieuropeisti
greci di ogni colore, in Italia ha fatto soffrire anche ai sostenitori del governo. Per questo Monti è consapevole di dover in fretta dare un segnale in controtendenza. "Non possiamo stare fermi", morde il freno un ministro, "nel giro di poco tempo dobbiamo portare in Consiglio dei ministri un pacchetto di misure per dare una risposta al disagio che c'è nel paese".

Ma è sul fronte europeo che Monti è convinto della possibilità di strappare qualcosa di concreto nel giro di poche settimane. "La Germania - ha confidato il premier a un amico - prima di accettare di discutere di crescita voleva che gli europei del Sud piangessero un po'. Adesso abbiamo pianto abbastanza". Secondo il premier "l'unica strada per alleviare le sofferenze dei cittadini è quella di far passare il piano italiano per la crescita in Europa".

Ma c'è anche un progetto di più lungo periodo, che riguarda una possibile riforma dei trattati. Monti, in un'intervista concessa a gennaio a Die Welt, disse di non credere alla prospettiva degli "Stati Uniti d'Europa", eppure in queste settimane si sarebbe convinto della necessità di far fare un passo avanti all'integrazione politica europea. Verso un'Europa federale. Tra pochi giorni un appello "federalista" firmato da autorevoli esponenti europei, tra cui Giuliano Amato (di recente nominato consulente proprio da Monti), Emma Bonino e Jacques Attali, potrebbe fornire al capo del governo un appiglio per rilanciare il tema.

Nel frattempo è alle condizioni della sua maggioranza che dovrà rivolgere qualche attenzione. Perché nel Pdl la tentazione di scatenare un "Vietnam" parlamentare su ogni provvedimento preparato da palazzo Chigi è sempre più forte. Ieri una riunione a via dell'Umiltà sulle amministrative si è trasformata nell'ennesima corrida tra filo Monti e anti Monti.

Solo che stavolta in ballo c'era il voto sulla ratifica del trattato Fiscal compat, il vero banco di prova sul quale Berlino intende valutare l'affidabilità del nuovo partner italiano. Un'ala sempre più forte del partito del Cavaliere non intende più dare per scontato il sì al trattato sulla disciplina rigida di bilancio: Altero Matteoli, Guido Crosetto, Renato Brunetta, Giorgia Meloni, Gaetano Martino, personaggi molto diversi tra loro ma tutti uniti nel dire no a una ratifica data da Monti per scontata. Sembra quindi destinato a saltare il piano italo-tedesco per arrivare a una ratifica congiunta, e in contemporanea, del Fiscal Compact a Roma e Berlino.

Il premier osserva queste scosse con preoccupazione e fastidio. E, parlando con gli amici, non resiste a una battuta sulla sconfitta del Pdl alle elezioni: "Ora danno la colpa a noi, dicono che perdono perché hanno scelto di sostenere il governo. Eppure non mi sembra che Pd e Terzo Polo, che pure fanno parte della maggioranza, abbiano avuto le stesse performance del Pdl".
 

(08 maggio 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #58 inserito:: Maggio 14, 2012, 04:07:13 pm »

   
RETROSCENA

Palazzo Chigi vede la svolta "Il vento d'Europa fa largo alla crescita"

La speranza di Monti è che la Merkel eviti "irrigidimenti" dopo la sconfitta in Wesfalia.

Il primo obiettivo è la golden rule sugli investimenti.

Venerdì il primo bilaterale con Hollande

di FRANCESCO BEI


"QUALCOSA sta cambiando, la svolta è a portata di mano". La nota di ottimismo con cui Monti colora la sua giornata, dopo che aveva descritto un'Italia preda di "forti tensioni sociali", è la vera novità di giornata. Stando attenti a non lasciar filtrare un eccesso di gioia per la sconfitta della Merkel nel Nord Reno Westfalia, da Palazzo Chigi avvertono comunque che il vento sta effettivamente girando. E se la Cancelliera federale non si lascerà prendere dalla tentazione di irrigidirsi ancora di più, i prossimi saranno davvero "i dieci giorni che cambieranno il mondo".

Per calibrare bene le prossime mosse Monti, appena rientrato a Roma, ieri sera ha convocato un vertice a Palazzo Chigi con i ministri e i collaboratori più stretti: Antonio Catricalà, Vittorio Grilli, Corrado Passera, Enzo Moavero. Un gabinetto ristretto, prolungatosi fino a notte, per preparare al meglio i prossimi, decisivi, appuntamenti. E lanciare sul tavolo europeo "l'Agenda per la crescita".
Oggi Monti volerà a Bruxelles per la riunione dell'Eurogruppo e dell'Ecofin, con la grande incognita della possibile uscita della Grecia dall'euro e della situazione sempre più nera della Spagna. E in giornata una prima, importante, novità potrebbe arrivare dalla commissione "Econ" del Parlamento europeo, dove sarà messa ai voti la proposta di istituire un "Fondo di redenzione del debito" - sostenuta da Guy Verhofstadt, Daniel Cohn-Bendit e dall'italiano Roberto Gualtieri
- per una garanzia collegiale europea di quella parte dei debiti che eccedono la quota del 60%.

Una rivoluzione culturale, anche se al momento senza ricadute operative, vista con favore dal governo italiano. Con la Merkel in difesa e François Hollande all'Eliseo il vento comunque sta cambiando e Monti può trovare nuove sponde in Europa. Proprio con Hollande, che debutterà in Europa nel consiglio europeo straordinario del 23 maggio, Palazzo Chigi ha lanciato una strategia del sorriso. Raccontano infatti che il leader socialista sia rimasto un po' stupito dall'eccesso di prudenza del governo italiano, che ha evitato accuratamente qualsiasi segnale di simpatia in campagna elettorale, mostrandosi anzi più tedesco dei tedeschi. Ma questo ormai è il passato, Roma è decisa a sfruttare ogni possibile appiglio per far passare in Europa il piano sulla crescita.

E Hollande è un alleato prezioso. Per questo il consigliere diplomatico di Monti, Pasquale Terracciano, ha preso contatto con il suo dirimpettaio dell'Eliseo e in quattro e quattr'otto è stato messo in agenda un primo bilaterale tra Monti e il neo presidente francese. I due si vedranno faccia a faccia venerdì a margine del G8 a Camp David, dove Hollande illustrerà agli altri grandi il suo "New Deal 2.0" imperniato su investimenti infrastrutturali mediante prestiti europei, aumento dei fondi della Bei, Tobin tax europea, rafforzamento del ruolo della Bce ed eurobond. Idee simili a quelle sostenute da tempo da Monti in tutte le sedi. L'Italia persegue con tenacia, dall'inizio dell'anno, almeno tre iniziative: l'apertura del mercato unico dei servizi a professioni e mestieri; la destinazione a crescita e occupazione del nuovo bilancio comunitario 2014-2020; e soprattutto la Golden rule. In particolare su quest'ultima questione - ovvero lo scorporo degli investimenti in ricerca e infrastrutture dai target di bilancio - Roma sta puntando tutte le sue carte e, in vista del summit Ue del 23 maggio, Monti ha chiesto una verifica sullo stato di avanzamento dell'intero dossier. "Nessun paese europeo in una fase come questa può pensare di fare da solo", ha detto recentemente il ministro per gli affari europei, Enzo Moavero, impegnato in una vera e propria spola con Berlino nelle ultime settimane.

Eppure anche sul piano interno Monti non molla. Al vertice di ieri notte si è discusso a lungo del problema della compensazione dei crediti delle imprese verso lo Stato. In settimana, come hanno ribadito sia Grilli che il sottosegretario De Vincenti, arriveranno tre decreti ministeriali per sbloccare i pagamenti da parte della pubblica amministrazione. E consentire alle imprese di farsi certificare i propri crediti per poi andarli a "scontare" in banca. Ma non è tutto. L'altra leva nazionale è quella della spending review, una corsa contro il tempo per trovare 4,2 miliardi di spese correnti da tagliare ed evitare così l'aumento dell'Iva dal 21 al 23 per cento. Sabato sera ne hanno discusso a cena Monti ed Enrico "mani di forbice" Bondi, il superconsulente nominato dal consiglio dei ministri. Nell'appartamento di Bondi a piazza San Michele, nel centro di Arezzo, i due, in compagnia delle rispettive consorti, hanno avuto un primo scambio di vedute fino a mezzanotte. E domani Bondi incontrerà il ministro Piero Giarda per buttare giù un primo schema di tagli. Sabato sera Monti e la signora Elsa hanno poi dato disposizioni per dormire nella foresteria della prefettura di Arezzo. Risparmiando sull'albergo.

(14 maggio 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #59 inserito:: Ottobre 13, 2012, 04:11:23 pm »

VERSO LE ELEZIONI

I piani di Passera: lista civica collegata all'Udc poi patto di governo con il Partito democratico

Il piano illustrato in un pranzo segreto. Serve una narrazione nuova, parliamo di innovazione, di giovani ma serve anche gente di esperienza.
Credo che il futuro sarà determinato da una formazione di centro che dovrà allearsi con il Pd

di FRANCESCO BEI


ROMA - Prima sarà un'associazione. Dopo, a dicembre, arriverà anche una lista civica. Da federare all'Udc o come si chiamerà il nuovo contenitore centrista. C'è questo nei piani a lungo termine di Corrado Passera, 58 anni, il ministro che si sta riprendendo la scena dopo un esordio di governo un po' sottotono. "Quando deciderò di impegnarmi personalmente per la cosa pubblica lo dichiarerò apertamente", ha ribadito giorni fa l'ex capo di Intesa SanPaolo. E quel momento si sta avvicinando.

Il problema di Passera, deciso fin dall'inizio a dare un seguito politico al suo impegno ministeriale, è non presentarsi alla trattativa con Casini forte soltanto del proprio curriculum e del proprio cognome. Serve qualcosa di più. Un network intanto - che cominci da novembre a fare convegni in giro per l'Italia - da trasformare in un movimento politico quando si chiarirà con quale legge elettorale si andrà alle urne. Per partire a fine dicembre con la campagna elettorale.

E visto che Passera ha già molti dossier aperti - dall'Ilva all'Alcoa, dal decreto Sviluppo al patto sulla produttività - si è affidato per lo "scouting" a due fidatissime teste d'uovo. Il primo è un amico di famiglia: Riccardo Monti (nessuna parentela col premier), già piazzato dal ministro al vertice di Ice e nel Cda di Simest. Un esperto di internazionalizzazione delle imprese e, in quanto tale, in contatto con imprenditori medi e grandi che puntano sull'export.

Monti, 44 anni, studi alla Columbia e al Brooklyn Polytechnic di New York, è un vero Passera-boy. L'altro dioscuro è Alessandro Fusacchia, che Passera ha nominato suo consigliere al ministero. Trentaquattro anni, già ghost-writer della Bonino e di Prodi al tempo della Commissione europea, Fusacchia è la mente che ha materialmente steso il decreto 2.0 sulle start-up approvato nell'ultimo Consiglio dei ministri. Ha girato per l'Italia ascoltando centinaia di imprenditori per il progetto "Restart Italia", è presidente della Rete per l'Eccellenza nazionale (Rena) e di sicuro la sua agenda si è riempita in queste settimane di conoscenze utili per allargare il network del suo ministro. Fusacchia incontra i potenziali soci dell'impresa politica di Passera lontano dal ministero di via Veneto, ai tavoli di un noto ristorante giapponese del centro. Colloqui informali, con bianchi pannelli di carta di riso a proteggere gli avventori da orecchie indiscrete. Giovedì scorso, tra un sushi e una zuppa di miso, Fusacchia spiegava a un imprenditore l'operazione provando a coinvolgerlo: "Serve una narrazione nuova. Parliamo di innovazione, ci rivolgiamo ai giovani, ma ci serve gente come lei, d'esperienza, che faccia da ponte. Intanto a metà novembre potremmo fare un convegno a Roma, 300 persone, tre oratori sul palco. Dieci minuti a testa e poi domande, molto veloce, molto coinvolgente. L'associazione che organizza i convegni avrà un nome provvisorio, poi la lista ne avrà un altro".

Ma se c'è una persona che davvero sta dietro tutto quanto e sorregge l'ambizione politica del ministro quella è l'intraprendente seconda moglie, Giovanna Salza, madre dei suoi figli più piccoli Luce e Giovanni. Una donna tosta, nonostante la giovane età, tanto che Dagospia la definisce la "marita" di Passera.

Che Passera pensi in grande e non si accontenti di un posticino da deputato dell'Udc nella prossima legislatura è fuor di dubbio. Cattolico (era al convegno di Todi), agli amici ripete spesso che "il futuro sarà determinato da una formazione di centro che dovrà allearsi con il Pd". Una lista che dovrà rivendicare l'opera del governo Monti e portarla avanti. A questo lavora, su questo ha puntato le sue carte.

Del resto fin dall'inizio Passera ha dimostrato di voler stare al governo da protagonista. In molti si chiesero il 17 novembre dello scorso anno perché Monti e Napolitano restassero chiusi così tanto al Quirinale dopo che il premier incaricato aveva dato per chiusa la lista dei ministri. Ebbene il problema era proprio il peso di Passera nel governo, che non si accontentava del solo ministero dello Sviluppo economico (peraltro svuotato da Tremonti) ma pretendeva di avere anche le deleghe delle Infrastrutture e Trasporti, che erano state promesse al povero Piero Gnudi, sostenuto da Casini. Niente da fare: la trattativa non si chiuse finché Passera non fu accontentato.

Sulla sua strada Passera ha tuttavia due grandi ostacoli. Il primo muro da abbattere è formato da mattoni piuttosto solidi: le tante crisi industriali in corso, l'iter del decreto Sviluppo, la trattativa con i sindacati sulla produttività. È chiaro che le ambizioni di Passera potrebbero essere affossate da un eventuale fallimento sul piano del governo. L'altra montagna da scalare si chiama Mario Monti. Il premier infatti è assolutamente contrario a un impegno politico dei membri della squadra. A margine dell'ultimo consiglio dei ministri - quello che ha varato la legge di stabilità con il taglio dell'Irpef - il Professore ha svolto infatti un ragionamento ad alta voce, senza un bersaglio preciso, ma molto netto nei contenuti: "Noi siamo un governo tecnico. Se c'è qualcuno che pensa di presentarsi alle elezioni, forse è meglio che faccia un passo indietro fin da ora. È una scelta legittima candidarsi, ma non possiamo prestare il fianco all'accusa di prendere dei provvedimenti con l'occhio alla campagna elettorale". Un discorso che ha trovato alcune orecchie più attente di altre. Rallentando di fatto la road map del ministro.

(13 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

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