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Autore Discussione: Tiziano Treu. Il lavoro prima di tutto  (Letto 2262 volte)
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« inserito:: Giugno 02, 2010, 12:14:17 pm »

Il lavoro prima di tutto

Solo così si esce dalla crisi

di Tiziano Treu


La questione del lavoro è stata affrontata con impegno nel dibattito in corso all’interno del Partito Democratico. Essa dovrebbe essere al centro dell’attenzione della politica e dell’economia in generale. Invece sembra scomparsa dall’agenda della maggioranza e dalla manovra finanziaria in atto. Le misure presentate dal governo, non sono solo ingiuste per la distribuzione diseguale dei sacrifici, ma non affrontano il problema cruciale di come rimettere in moto il paese, quello economico e quello dell’occupazione.

Questa è la carenza più grave della manovra. Se non riprende lo sviluppo i sacrifici non saranno utili. La ripresa della produzione si profila debolissima non solo per le difficoltà mondiali ma perché il nostro governo non sostiene né le imprese né il lavoro: le due fonti di ricchezza delle nazioni. Così non ci sarà né ripresa ne difesa dell’occupazione. Le risorse per lo sviluppo si possono trovare se si vuole. Ad esempio tassando di più le rendite, che in Italia sono protette, per ridurre le tasse di chi produce (lo fa persino Cameron in Inghilterra), e concentrando su chi lavora e chi produce i miliardi di Euro dispersi in mille rivoli di incentivi (come sostiene anche Confindustria).

E’ urgente intervenire checché né dica il Ministro del lavoro; il tasso di inattività è arrivato al 37,9% (al 25° posto in Europa), la disoccupazione giovanile al 23,5% (18° posto in Europa), l’occupazione femminile al 46% (26° posto in Europa).

Queste sono le priorità che tutti, il PD in testa, dobbiamo sostenere. In questo contesto vanno collocate anche le proposte sul lavoro che il PD ha approvato a larghissima maggioranza nella sua recente Assemblea Programmatica.

Il documento è aperto alla ulteriore discussione. Ma contiene innovazioni di grande rilievo che vanno valorizzate: smettiamola di considerarci poco coraggiosi. E’ la prima volta che si afferma con chiarezza la necessità di allargare le politiche di promozione e di tutela, a tutto il mondo del lavoro, non solo a quello dipendente, ma al variegato mondo dei lavori autonomi e delle professioni e a quell’area grigia intermedia del lavoro parasubordinato o economicamente dipendente.

Si propone, con altrettanta chiarezza, non come timidezza come sostengono i critici interni (la mozione Marino), la necessità di stabilire per questi lavori una base comune di diritti e di sostegni che dia a tutti garanzie e opportunità. Questa base comune comprende tutele universali nei casi di inattività e di disoccupazione, accompagnati da politiche attive e da formazione, un salario minimo, un reddito minimo di solidarietà, sostenuto da iniziative di attivazione, pensioni di base per tutti i cittadini, cui aggiungere ulteriori pensioni contributive e complementari.

E’ con questi diritti e sostegni comuni che si può attuare quella ricomposizione delle condizioni di lavoro una volta garantita dal diritto del lavoro tradizionale e dalla contrattazione collettiva. Così si possono superare le divisioni del mondo del lavoro che sono molte: non solo quelle fra contratto a termine e contratto a tempo indeterminato, ma anche fra lavoro autonomo, dipendente e parasubordinato, fra lavoro nero e regolare ecc.

La necessità di superare queste divisioni è condivisa fra noi. E’ un obiettivo impegnativo perché allargare le tutele costa, come è costoso rendere più conveniente, cioè detassare o ridurre i contributi al lavoro a tempo indeterminato, rispetto a quello precario o alle collaborazioni, per evitare abusi. Ma questa è una sfida che le nostre imprese devono affrontare perché non possono pensare di battere la concorrenza internazionale, puntando sui bassi costi o sulle basse tutele, pagando salari indegni di un paese civile, o peggio frodando sulle regole del lavoro.

Qui però occorre fare alcune precisazioni, anche per chiarire il nostro dibattito ed evitare false critiche reciproche. Le collaborazioni e le partite Iva e simili che fanno lo stesso lavoro dei regolari, i “paria” di cui parla Marino (Unità 27 maggio) vanno tutelati esattamente come i dipendenti perché sono falsi lavoratori autonomi; in realtà dipendenti. Per riconoscere questo non si tratta di inventare nuove leggi o nuovi “contratti unici”. Si tratta di far rispettare le leggi esistenti, di rafforzare controlli e ispezioni; il contrario di quanto fa il governo che riduce le visite ispettive e non rafforza gli ispettori. Per altro verso bisogna ridurre le differenze di costo che favoriscono gli abusi.

Diversa è la questione per i lavoratori che sono in posizione ambivalente. Non sono dipendenti perché hanno margini di autonomia organizzativa e di orari (e magari puntano ad accrescere tale autonomia); ma sono in posizione di debolezza economica perché legati a un committente unico o prevalente. A questi devono essere estese alcune tutele fondamentali specie in caso di crisi economica, con ammortizzatori sociali specifici, e di difficoltà personali (maternità, malattia, infortuni ecc). Possiamo discutere su quanta gradualità serve in questa operazione che è costosa. Si tratta di essere realisti non di tirare il freno a mano.

In ogni caso è sbagliato omologarli al lavoro dipendente, se la loro posizione di autonomia è reale e non abusiva: sia perché alcune norme tipiche del lavoro dipendente non sono applicabili, come gli orari di lavoro, sia perché questi soggetti si sentono “autonomi” e vanno aiutati a diventare tali. Anche per questi non serve un “contratto unico”, perché sono diversi. Serve invece un insieme efficace di tutele e di aiuti all’autonomia, corrispondente alle loro aspettative.

Il punto critico dei sostenitori del contratto unico è un altro: essi si concentrano sulle tutele di fine rapporto, prevedendo un periodo (3 anni) in cui la tutela dal licenziamento è minore di quella attuale e poi va crescendo nel tempo. Questo parifica un solo aspetto dei dualismi attuali, quello fra lavoro a termine e lavoro a tempo indeterminato. Ma in realtà non lo fa del tutto, perché qualche tipo di lavoro a termine continua a essere necessario (lavoro stagionale, sostituzione di lavoratori assenti, ecc).

Il contratto unico è una formula illusoria, non reale. Al di là di questa osservazione formale, noi pensiamo che per ridurre gli abusi del contratto a termine, sia più efficace alzarne i costi e limitarne quantità e durata. Inoltre chi affida un potere taumaturgico al contratto unico mostra di credere alle tesi della destra che basti allentare le tutele dai licenziamenti per ridurre la precarietà e far funzionare meglio il mercato del lavoro. Non è così. Tanto è vero che le piccole imprese, dove non si applica l’art. 18, non assumono a tempo indeterminato più delle imprese grandi dove invece opera. Anzi adottano spesso più contratti precari, perché sfruttano precarietà e bassi costi e sono esse stesse precarie. Come si vede per combattere la precarietà come tutti vogliamo, occorrono misure complesse, non mitiche equiparazioni per legge di una formula contrattuale. Oggi l’urgenza maggiore è rilanciare sviluppo e occupazione e garantire ammortizzatori sociali universali a tutti i lavoratori presenti, per evitare che perdano il lavoro. E’ la mancanza di tutele universali e di sicurezze sul mercato del lavoro che impedisce di trovare senza forzature nuove regole del lavoro, comprese quelle della tutela dei licenziamenti.

Impegniamoci a garantire queste tutele e sicurezze, invece di dividerci su improbabili contratti unici.

01 giugno 2010
http://www.unita.it/news/economia/99463/il_lavoro_prima_di_tutto_solo_cos_si_esce_dalla_crisi
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