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Autore Discussione: La fine dell’industria  (Letto 3740 volte)
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« inserito:: Giugno 08, 2007, 11:04:57 pm »

La fine dell’industria

Sergio Parrinello*


Uno dei piaceri dell'economista consiste nel dimostrare che alcune convinzioni intuitive sul funzionamento dei mercati, condivise dai non addetti ai lavori (politici, non economisti o anonimi uomini della strada), non reggono e devono lasciare il posto a certe proprietà contro-intuitive dedotte con l'analisi economica. In particolare egli si sente soddisfatto quando con l'aiuto della sua disciplina riesce a svelare i risultati sistemici (non intenzionali) prodotti da comportamenti intenzionali. Una delle più blasonate proposizioni non intuitive è quella secondo la quale l'economia di un intero paese, a differenza di un'impresa che può andare in bancarotta, non può mai essere completamente spiazzata dalla concorrenza di altri paesi e diventare assolutamente non competitiva a causa della sua bassa produttività o per gli alti salari. Tale tesi è rivolta non senza supponenza contro quei non economisti che sembrano ignorare un principio la cui verità sarebbe fuori discussione: quello dei vantaggi comparati di Ricardo. Esso implica un paradosso che qui illustriamo con un esempio. Consideriamo l'interscambio fra Cina ed Italia trascurando il resto del mondo e limitiamolo per semplicità a due sole merci: diciamo abbigliamento e macchine utensili. Supponiamo che entrambe le merci siano prodotte ad un costo minore in Cina rispetto all'Italia. L'intuizione suggerisce che l'economia italiana avrebbe nulla da esportare con profitto e che alla Cina converrebbe produrre entrambe le merci. Di conseguenza cesserebbe lo scambio fra i due paesi e cesserebbe anche la produzione italiana se non esistessero altri settori nazionali non esposti alla concorrenza estera. L'economista invece, sulla base della teoria di Ricardo, direbbe che anche in presenza di svantaggi assoluti per l'Italia, se, ad esempio, il rapporto fra il costo di produzione dell'abbigliamento ed il costo delle macchine utensili è più basso in Cina che in Italia, sarà vantaggioso per entrambi i paesi che la Cina si specializzi in abbigliamento e l'Italia in macchine e che la prima esporti abbigliamento in cambio di macchine italiane. È il rapporto fra i costi (misurati in modo appropriato), non i loro livelli assoluti, che spiega il commercio internazionale; così conclude la sua lezione. Questa è una conclusione inattaccabile nell'ambito delle ipotesi; in particolare quella della non mobilità del lavoro e del capitale fra le due economie nazionali.

Sulla base della teoria illustrata sopra, insigni economisti, da Marshall nel XIX secolo al contemporaneo Krugman, hanno insistito appunto nell'affermare che, per quanto bassa possa essere la produttività in tutti i settori di un'economia nazionale e/o per quanto alti siano i suoi salari nazionali relativamente all'estero, anche un'economia ad alti costi di produzione manterrà sempre una posizione competitiva in qualche ramo di attività, dove il suo svantaggio assoluto è minore ed è associato ad un vantaggio comparato. Una tesi del genere oggi suona come una nota rassicurante contro le "ombre cinesi (e indiane)". Tuttavia, permane una ambiguità non risolta nel dibattito fra economisti e politici su tale tema. In particolare in Italia recenti Forum sulla globalizzazione, promossi da Istituzioni accademiche e testate giornalistiche, sembrano esprimere un dialogo problematico a cui non è estranea una certa confusione sulla portata di quella teoria del commercio internazionale. In alcuni miei scritti ho mostrato che la teoria di Ricardo non è robusta rispetto al cambiamento delle ipotesi che si rende necessario per descrivere un'economia globale. La tesi che sostengo, anticipata per certi aspetti da altri, è la seguente: in un regime di mercati globali, caratterizzati dalla mobilità dei capitali e da disoccupazione di lavoro, il principio dei vantaggi comparati di Ricardo deve lasciare il posto al principio, riconducibile ad Adam Smith, dei vantaggi assoluti. In termini della moderna teoria del capitale, tale principio prescrive che in concorrenza la scelta della specializzazione internazionale e la scelta dei metodi di produzione all'interno dei paesi implicano, per dati saggi di salario, la massimizzazione del saggio profitto, assunto tendenzialmente uniforme fra settori e fra economie nazionali in regime di globalizzazione. Uno stato di equilibrio dell'economia internazionale può allora comportare che tutta la produzione si concentri in un solo paese, quello più competitivo in termini di produttività e salari

Le implicazioni dell'abbandono del principio-base ricardiano sono di grande portata per la politica economica e per la valutazione delle prospettive delle economie nazionali coinvolte nella globalizzazione. Esiste allora un nesso diretto fra distribuzione del reddito, condizioni tecniche e specializzazione internazionale. Il concetto di competitività nazionale acquista un preciso significato. In tale contesto, l'economia di un paese può essere spiazzata dalla concorrenza di altri paesi in tutti i suoi settori produttivi. Riguardo i fatti di casa nostra, non è allora più vero che ad almeno un settore dell'economia italiana sia «per forza» assicurata una sufficiente competitività, tale da consentire di esportare merci o servizi in cambio di altre merci o servizi. Le «ombre cinesi» non possono avvicinarsi quanto vogliono senza creare seri contraccolpi, perché il «sistema Italia» non rimarrà per necessità logica competitivo in qualche linea di produzione. La logica associata alla globalizzazione non esclude infatti che un sistema economico cessi al limite ogni produzione capitalistica a seguito di continui processi di delocalizzazione e diventi un mero luogo dove si spendono redditi prodotti altrove (ad esempio un luogo di consumo di servizi turistici). Il capitale non va dove lo porta il cuore, ma dove sono più alte le aspettative di profitto.

Quindi una politica correttiva si impone. Lasciamo al dibattito fra economisti politici e politici individuare quale sia tale politica, ma in quanto economisti teorici sgombriamo il campo dal facile ottimismo ingenerato dall'accettazione acritica del pensiero di Ricardo. Qualche economista, appassionato di contro-intuizioni, potrebbe obiettarmi: ma è ovvio che ottieni risultati in contrasto con la tesi del reciproco vantaggio dell'economia aperta, ma stai cambiando arbitrariamente le ipotesi! Certo, cambio le ipotesi, ma non arbitrariamente, perché le assunzioni, sotto le quali vale il principio di Ricardo, (in particolare la assenza o vischiosità dei movimenti internazionali del capitale) non descrivono adeguatamente i tratti essenziali di un'economia globale. Non è la logica del principio in discussione, ma la sua applicazione al mondo contemporaneo. L'errore consiste nel ritenere che quel principio abbia una validità universale, trascurando le ipotesi più o meno implicite sotto le quali Ricardo lo ha formulato. Queste ipotesi non hanno una validità universale ed in particolare non costituiscono una adeguata «stilizzazione» di un'economia globale caratterizzata da mobilità del capitale e da ampie sacche di disoccupazione.

* economista, docente all’Università La Sapienza di Roma

Pubblicato il: 08.06.07
Modificato il: 08.06.07 alle ore 9.02   
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