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Autore Discussione: Nella città dell’inferno. Angeli e fosse comuni  (Letto 2928 volte)
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« inserito:: Gennaio 16, 2010, 02:55:25 pm »

Il terremoto di haiti

Angeli e fosse comuni

Nella città dell’inferno

I soccorritori scavano con le mani, miracolo alla sede Onu. Nelle strade migliaia di sopravvissuti


PORT-AU-PRINCE — Il «Citation 500» di Jean Marc Sousnier volteggia sopra l'aeroporto, non possiamo atterrare. La torre di controllo è sommersa di richieste. Gli aerei arrivano da tutto il mondo. Siamo partiti da Santo Domingo un'ora e mezza fa. Normalmente, dovremmo già essere a terra. Ma nulla può essere più normale ad Haiti. Invece torneremo indietro alla base dominicana, per poi infine ripartire nel tardo pomeriggio. E sarà la volta buona: il nostro jet privato serve a qualcosa.

Dopo averci fatto sbarcare, Jean Marc prenderà a bordo un funzionario dell’Onu in gravissime condizioni per trasportarlo in un ospedale di Miami. A Port-au-Prince Jean Marc ci abita da 17 anni e opera in una grande catena di negozi surgelati all'ingrosso. Una folta chioma di capelli sale e pepe. Un volto rigato da mille traversie, la t-shirt nera, una catena d'oro piena di ninnoli. Piegandosi verso il finestrino ci indica la città: «Ecco, vedete, quello era il centro, ora è l’Inferno, sì, proprio così, l'Inferno».

Dall’alto, l'Ade è fatto di larghe chiazze biancastre, grovigli di ferro e calce, alternate a edifici sbilenchi o piegati. Più lontane, povere case cadute una sull’altra come in un domino della disperazione. Era andato alla Log base delle Nazioni Unite, martedì pomeriggio, Sousnier. Doveva fare una consegna, saranno state le 16.10. «Il primo rumore sembrava quello di un aereo troppo vicino. Ma poi abbiamo visto i muri cominciare a spaccarsi, a oscillare, il pavimento tremava. Siamo corsi fuori, in tempo per vedere la cafeteria crollare. Sulla pista si aprivano crepe enormi. Per fortuna erano tutti riusciti a mettersi in salvo. È andato avanti per non so quanto. Dicono venti minuti. A me è sembrato di essere rimasto lì a ballare per ore. Poi ho un ricordo confuso, non ho più ragionato. Il primo pensiero quando tutto è apparso più calmo è stato quello di salire in auto e andare a cercare Carla».

Carla è Carla Muñoz, venezuelana, la sua giovane fidanzata. Anche lei è a bordo del jet. Lei e Jean-Marc sono volati via dalla capitale haitiana mercoledì sera con l'aereo privato, per andare a dormire a Santo Domingo: «Siamo privilegiati, lo so, ma avevamo troppa paura», dice la ragazza. La prima notte l’avevano trascorsa in macchina, non hanno neppure provato a tornare a casa. Ma Carla il terremoto lo ha vissuto in città. Lavora come contabile al Megamart, un supermercato del centro. «Ero in ufficio e tutto è cominciato piano, quasi come una dolce ondulazione. Il mio capo si è allarmato subito, ma io gli ho detto di non preoccuparsi, "è come in Venezuela, solo una piccola scossa". Invece non finiva, aumentava, le mura si muovevano in un senso e poi nell’altro». L'ufficio è al primo piano, proprio sopra al supermarket. Carla e i suoi colleghi sono corsi per le scale, «uno di loro è caduto, l'ho aiutato a rialzarsi, ci siamo trovati per strada quasi subito e lì abbiamo visto l'orrore». Il Megamart ha avuto gravissimi danni, ma non si è accartocciato. I palazzi attorno cadevano uno dopo l'altro. «Siamo andati verso il parcheggio, all’aperto, dietro di noi ho visto cadere la Citi Bank, la Capital Bank, altri edifici. Ha presente il film Independence Day? Mi è venuto in testa in quel momento: noi di corsa e tutto intorno la distruzione. La gente che urlava e scappava. Le persone che cadevano nella polvere. E poi quel rumore, profondo, pauroso, come se la terra sotto di noi volesse aprirsi. Come se stessimo camminando sopra un vulcano. Ce l’ho ancora in mente. Però nel parcheggio ci siamo sentiti al sicuro».

A quel punto è successa una cosa straordinaria. «Tra i nostri clienti abituali ci sono soldati brasiliani e funzionari dell’Onu, membri di "Medici senza Frontiere", operatori delle Ong. E quel pomeriggio molti erano lì a fare acquisti. Sono scappati con noi. Ma sono subito tornati indietro. Praticamente si sono messi al lavoro come potevano. Cercavano di tirar fuori i superstiti, di dare assistenza ai feriti, recuperare una vettura per far portare qualcuno verso gli ospedali. Non so quanto sia durato, almeno un’ora credo, tutto nel caos più totale. Poi le loro radio hanno cominciato a gracchiare, li stavano chiamando dalle centrali. Noi, intanto, eravamo rientrati nel negozio. I muri erano crepati, l’ingresso ostruito, ma siamo riusciti a entrare e abbiano iniziato a portar fuori acqua e cibo per distribuirli».

Un’immagine continua a ossessionare Carla. «Quella donna al primo piano di un palazzo, il muro frontale era stato completamente spazzato via. E lei era seduta con le gambe penzoloni, mentre si teneva a un pilastro e urlava. Ma la sua faccia non c'era. Voglio dire la pelle non c’era più. Il volto era un pasticcio insanguinato. Ho chiesto aiuto a uno dei soldati, gli ho detto di andarla a prendere e metterla in macchina. Ma lui mi ha risposto che bisognava aspettare un’ambulanza, non poteva farlo con la sua jeep. Mi sono arrabbiata, ho urlato, però aveva ragione. Poi è venuto un signore che è riuscito a prenderla dalle spalle e a trasportarla giù. L’hanno messa su una vettura e non l’ho più vista». A Port-au-Prince arriviamo alle ultime luci del pomeriggio, c'è silenzio nel centro della città. Migliaia di persone sono per strada, sembrano camminare senza meta, gli spazi sono accampamenti all'aperto, senza tende, senza riparo. Chi è seduto guarda nel vuoto. Qualcuno veglia il morto. Una madre pettina la sua bambina. Il paesaggio odora di morte e racconta dolore, distruzione, povertà assoluta. In giro ci sono le unità di soccorso, i militari dell’Onu, i volontari di cento Paesi venuti a dare una mano. È dalle macerie del loro comando che i caschi blu hanno tirato fuori ancora vivo un ufficiale estone, Tarmo Joveer, rimasto intrappolato per 40 ore. Uno dei piccoli miracoli di questa ingrata operazione. «Abbiamo già seppellito 7 mila vittime in una fossa comune », ha detto il presidente dell’isola, René Preval. La gente ha fame.

Nei quartieri a ridosso del centro crocchi di persone si formano ai punti di distribuzione. Ma non sempre tutto procede con ordine. La tentazione del saccheggio è forte. Esplode la rabbia di una miseria antica su cui il sisma si è accanito. Chi non ruba, prega nei pochi luoghi di culto ancora in piedi. Nei cortili, nelle piazze. A ciascuno il suo Credo, ma tutti in nome del Dio della pietà e della misericordia. I soldati brasiliani dell’Onu vogliono seppellire ognuno secondo i propri riti. Anche le preghiere vudù confortano Haiti.

Paolo Valentino

15 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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