LUCA MERCALLI.
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29/3/2010
Non sparate sulla scienza
LUCA MERCALLI
Dopo le abbondanti nevicate del mese di febbraio su Washington, la percezione del riscaldamento globale negli Stati Uniti si è molto ridotta mettendo in crisi l’autorevolezza di una delle ultime istituzioni inattaccabili della nostra epoca, la scienza.
Il New York Times ha ragionato su quanta parte nella formazione di queste opinioni è legata ai fatti e quanta al modello mentale e culturale delle persone. David Ropeik, esperto in comunicazione del rischio, sostiene che la gente si serve degli estremi meteorologici di freddo o di caldo non come eventi per comprendere il clima, ma come proiettili da sparare contro un diverso gruppo di appartenenza sociale. La questione climatica conduce infatti a una critica dell’attuale modello di sviluppo, quindi i gruppi più conservatori e individualisti, che detengono privilegi in uno status quo di rigido ordine e gerarchia sociale, brandiscono i candelotti di ghiaccio e le palate di neve per screditare la scienza del riscaldamento globale contro i gruppi progressisti, fautori di una società più equa e di un maggior intervento dello stato nelle politiche ambientali e sociali, che a loro volta adotteranno come armi termometri roventi e invasi disseccati. Nessuno dei due schieramenti ha però la minima idea di cosa sia il clima e della differenza che corre tra i fatti meteorologici locali e quotidiani, rispetto agli andamenti globali e a lungo termine. Del resto, mentre Washington era bloccata dalla bufera, a Vancouver l’inverno più caldo della storia obbligava l'organizzazione olimpica a trasportare la neve in camion, mentre migliaia di ettari di foresta di conifere subivano gli attacchi di un coleottero parassita che di norma viene ucciso da temperature sotto i -30 gradi e prospera invece negli inverni miti.
Nel conflitto sul cambiamento climatico, ogni «tribù» adotta punti di vista che riflettono le proprie convinzioni sul funzionamento della società piuttosto che una reale comprensione fisica del problema. A ciò Janet Swim, docente di Psicologia alla Penn State University, aggiunge che il modello mentale è spesso una gabbia che ci fa credere di conoscere argomenti complessi semplificandoli eccessivamente: la neve è un’icona associata con un clima freddo, quindi nell’immaginario esclude che il pianeta si stia riscaldando.
Eric Johnson, della Columbia Business School, precisa che le nostre esperienze più vivide e recenti spesso offuscano informazioni più significative ma astratte e lontane nel tempo, proprio come un malato non si accorge dell’insorgere di una grave patologia, riscontrabile solo da un esame medico e non dal fatto di sentirsi in forma. Insomma, questa miscela di impressioni e interpretazioni soggettive, unita all’informazione talora affidata a giornalisti non preparati, ha mandato a picco la fiducia nella scienza del clima, rafforzata dal fiasco della previsione di mortalità dovuta al nuovo virus influenzale. Eppure la scienza in sé, con tutto questo rumore c'entra poco o nulla. Continua a fare il suo mestiere di ricerca della verità, sbagliando e correggendo, ma offrendoci comunque degli strumenti di decisione basati sulla probabilità. Anche nell’incertezza si possono così fare scelte razionali.
Lo scetticismo è benvenuto quando aiuta a migliorare la qualità dei risultati, non quando mira soltanto a demolire la credibilità di un’intera categoria. Purtroppo vi è anche una scienza deviata che su inevitabili imprecisioni del rapporto sul clima dell’Ipcc-Onu ha costruito una campagna di disinformazione di proporzioni pari a quella che fu messa in atto dalle multinazionali del tabacco contro i medici che ne sostenevano la tossicità. In proposito, Greenpeace ha pubblicato un rapporto su vent’anni di negazionismo climatico ad opera dell’industria dei combustibili fossili, intitolato «Dealing with doubt» («far commercio del dubbio»). Michael Mann, il climatologo della Pennsylvania University ferocemente attaccato per la sua ricostruzione della temperatura della Terra negli ultimi duemila anni, ritenuta fasulla, ha commentato così: «La fazione che sta montando questi attacchi è estremamente ben finanziata e organizzata. Da decenni dispone di un’infrastruttura preparata per aggressioni di questo genere, sviluppata durante le campagne contro il fumo e per la difesa di altri interessi. E’ letteralmente come un marine che fa a botte con un ragazzino scout. Noi non siamo esperti di pubbliche relazioni come lo sono loro, non siamo avvocati, non siamo lobbisti. Siamo scienziati, abbiamo studiato come fare scienza». La scienza ha sì i suoi difetti, come tutte le cose umane, ma in fondo funziona, e anche questo giornale si scrive e si stampa grazie alle sue conquiste.
da lastampa.it
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5/6/2010
Si può fare molto anche da soli
LUCA MERCALLI
Affinché la Giornata mondiale dell'Ambiente non sia la solita celebrazione di facciata come tante, è importante un coinvolgimento personale immediato, senza aspettare, come spesso si sente dire, che siano i grandi a decidere. La Terra è abitata da quasi sette miliardi di persone ed è la somma dei loro comportamenti a incidere sul suo stato sanitario.
I motivi per far qualcosa non sono solo di natura etica o estetica, ma attingono alla difesa del benessere degli individui di oggi e di domani in relazione a un ambiente che, minacciato su ogni fronte, dai cambiamenti climatici alla macchia oleosa sull’oceano, dal sovrasfruttamento di suoli, mari e foreste alla produzione di rifiuti, rischia di non garantirci più, come specie, una dignitosa sopravvivenza. Da che parte cominciare allora? Primo, caccia allo spreco. E' il principio guida a cui guardare. Nella nostra società occidentale si butta via tra energia, cibo e materie prime circa il trenta per cento di ciò che circola sul mercato.
La casa: è un gran colabrodo energetico, d'inverno il prezioso caldo ottenuto da gas o petrolio esce da spifferi, pareti e tetti mal isolati, d'estate a uscire è il freddo prodotto a caro prezzo dai condizionatori. Isolare, isolare e isolare ancora, cambiare infissi, installare pannelli solari per l'acqua calda e fotovoltaici per l'elettricità, mettere una caldaia a condensazione o una pompa di calore. Tutte cose che sembrano costar care sul momento, ma in realtà godono di incentivi e sgravi fiscali, generano nuova economia virtuosa e abbassano per sempre le bollette e le emissioni. E poi non è solo per denaro, farsi la doccia con l'acqua solare deve diventare un punto d'orgoglio, un godimento interiore e spazzare via altri status symbol obsoleti e ingordi.
Ah, tutto ciò si può fare anche in condominio, l'esercizio di democrazia partecipata che si deve superare per mettere d'accordo tutti sarà utile per l'intera società. Ridurre i rifiuti: meno imballaggi, meno acquisti superflui, essenzialità degli oggetti del desiderio, meno cose, più buone relazioni. E quello che resta, lo si ricicla differenziando. Se avete solo pochi metri quadri di terreno, fateci il compost, evitando che un camioncino debba passare a raccogliere bucce di patate e insalata appassita bruciando gasolio laddove i microrganismi fanno tutto gratis in pochi mesi.
E se avete un giardino con i nanetti e il prato all'inglese, uccidete i nanetti, arate il prato - che nel nostro clima ingoia inutilmente un sacco d'acqua - e al loro posto piantate pomodori e zucchine. Ci sono anche tanti orti urbani da creare sulle ceneri di aree dimenticate, nell'orto si produce a chilometri zero e si imparano molte cose sul funzionamento del mondo. Viaggiate di meno, una riunione evitata grazie a Skype è una benedizione anche per il vostro relax e ha emesso molta meno CO2 di un aereo o di un treno. L'auto? Piccola ed efficiente, astenersi dai Suv. Si può cominciare da qui, il resto verrà, anche da parte dei grandi della Terra.
http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7440&ID_sezione=&sezione=
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21/6/2010 - NEVE A GIUGNO
Se l'estate diventa virtuale
LUCA MERCALLI
Al Bar Sport e da Livia Coiffeur non si parla d’altro: che fine ha fatto l’estate? Sarà colpa delle ceneri del vulcano islandese? I climatologi rispondono che si è trattata di un’eruzione di piccola taglia che non ha raggiunto la stratosfera e quindi difficilmente può modificare il clima in modo vistoso.
Sarà la corrente del Golfo che si è fermata? No, per ora è accaduto solo nei film di Hollywood, e anzi quest’anno è proprio l’Atlantico settentrionale a soffrire il caldo, con il ghiaccio di banchisa ai minimi termini. Saranno misteriosi esperimenti militari americani? Mah, almeno finché c’era il muro si poteva anche pensare che fossero sovietici, oggi non c’è più gusto nemmeno a sognar complotti. Il fatto è che pur vivendo nell’epoca dove più di sempre abbiamo avuto a disposizione tanti dati scientifici precisi e tanti modi per diffonderli, non siamo capaci di comprenderli e gestirli, siamo frastornati da migliaia di informazioni che si sovrappongono, si elidono, si annichilano, e ciò che ne rimane è solo la sensazione a pelle dell’immediato e mai la riflessione di testa ad onda lunga. Oggi fa caldo, colpa dell’effetto serra, domani fa freddo, ci avviamo verso l’era glaciale. Così a proposito di questi giorni di giugno effettivamente freschi e piovosi, parliamo d’estate quando la stagione è appena cominciata e tutto luglio e agosto potrebbero ancora ribaltare la situazione facendoci rimpiangere la frescura. Sentenziamo su una settimana di nubifragi dimenticando che i primi dieci giorni del mese ci lamentavamo già per l’afa insopportabile con i condizionatori a manetta per via di quattro gradi oltre la media stagionale, tanto anomali quanto il freddo di oggi. Gridiamo all’eccezionalità senza nemmeno ricordare il tempo del mese scorso e men che meno quello di dieci anni fa.
Fortuna che ci sono i computer: il 1992 fu al Nord Italia un pessimo giugno, freddo e piovoso, il 19 giugno del 1983 cadeva sulle Alpi occidentali quasi un metro di neve, il 15 giugno 1957 da Cuneo alla Val d’Aosta una delle peggiori alluvioni della storia devastava le vallate, il 23 giugno del 1940 gli alpini impegnati con le divise estive nell’attacco alla Francia sulle giogaie della Val di Susa avvolte dalla tormenta, piangevano mani e piedi congelati. È certamente giusto sorprendersi di questa variabilità così accentuata - mancano alla corrente stagione gradualità e continuità - ma nubifragi, grandine e ritorni di freddo in giugno non sono una novità, tant’è che appena in Svizzera questi fenomeni vanno tradizionalmente sotto il nome di «freddo delle pecore», l’ultimo caso è dietro l’angolo, metà giugno 2008, quando anche a Torino e Milano il termometro toccò 13 gradi, come ieri. Piuttosto non sarà che ci stiamo sempre più abituando a stagioni virtuali? L’estate deve essere bella e calda perché lo dice la pubblicità, e quando quella reale non coincide con questo modello, allora andiamo in crisi. E poi negli ultimi dieci anni il riscaldamento globale ha fatto diventare molti mesi di giugno caldi come luglio: dal 2003 al 2006 e poi ancora nel 2009. Hanno fatto in fretta a diventare norma anche se sono l’eccezione.
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7501&ID_sezione=&sezione=
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27/8/2010
Un rischio subdolo in alta quota
LUCA MERCALLI
Ciò che si sta cercando di evitare che avvenga sul Ghiacciaio di Tête Rousse è un Glof. Acronimo onomatopeico per «Glacial lake outburst flood», ovvero alluvione generata dall’improvviso rilascio di un lago glaciale.
In realtà il rumore che fece la sacca d’acqua di 200 mila metri cubi intrappolata nel ventre dell’insignificante ghiacciaietto del gruppo del Bianco quando esplose alle ore 01,25 della notte del 12 luglio 1892, fu ben più di un «glof»: un rombo lugubre, una furiosa colata di fango, alberi e massi che fece tremare il suolo sul suo percorso di 14 chilometri e 2400 metri di dislivello e dopo qualche decina di minuti si abbatté sulle terme di Saint-Gervais. Gli ospiti dello stabilimento termale furono svegliati da un soffio, seguito da un sibilo, una vibrazione, un boato assordante. E poi la morte per 130 di essi. Nelle tenebre, tra muri che crollavano e gorghi di fango che invadevano saloni e corridoi, risuonavano i lamenti dei feriti e le urla dei superstiti seminudi in preda al panico. L'ondata mortifera si propagò fino al villaggio sottostante e in totale le vittime identificate furono 175.
I glaciologi del servizio Eaux et forets che visitarono il ghiacciaio nei giorni successivi videro una grande caverna che si apriva nel ghiaccio là dove il segreto lago endoglaciale, forse per anni, aveva covato la catastrofe. Con i mezzi dell'epoca, senza elicotteri, senza macchinari, furono realizzate opere di prevenzione ammirevoli: entro il 1900 si terminò un tunnel di 150 metri, ramificato in sette branche, per drenare l'acqua alla base del ghiaccio. Nel 1901 venne identificata una nuova sacca d'acqua che costrinse a scavare ancora un tratto di galleria in roccia: raggiunta il 28 luglio 1904 con enormi sforzi, fu drenata senza danni.
Poi per un secolo più nessun evento, ma le gallerie sono state sempre mantenute in ordine e da qualche anno, grazie anche alla possibilità di effettuare sondaggi radar e tramite risonanza magnetica nucleare, l'équipe di Christian Vincent, del Laboratoire de Glaciologie del CNRS di Grenoble ha identificato un nuovo accumulo idrico di circa 65.000 metri cubi che oggi viene drenato più facilmente dall'alto, forando il ghiacciaio con sonde a vapore e utilizzando potenti pompe azionate da gruppi elettrogeni trasportati a quota 3200 metri da elicotteri. Ogni metro cubo d'acqua estratto dal ventre del ghiacciaio allevierà il pericolo che incombe su Saint Gervais.
I laghi glaciali sono tra i rischi più subdoli e impattanti per le montagne di tutto il mondo, dalle Ande all'Himalaya, dove assumono proporzioni enormi, esaltate dal riscaldamento globale, che tuttavia nel caso di Tête Rousse ha un ruolo secondario rispetto alla morfologia del ghiacciaio. Sulle Alpi i laghi glaciali sono stati censiti dal progetto europeo Glaciorisk, che nel 2002 culminò con la crisi estiva del lago Effimero sul ghiacciaio del Belvedere di Macugnaga, alla base della parete est del Monte Rosa. Il gigantesco bacino di tre milioni di metri cubi d'acqua che minacciava la Valle Anzasca fu oggetto di una colossale operazione di protezione civile per abbassarne il livello, e si svuotò poi naturalmente senza danni.
Negli stessi anni un altro grande lago di 600.000 metri cubi sul ghiacciaio del Rocciamelone, sul confine tra Val di Susa e Maurienne, inquietava le autorità francesi e italiane che nel 2004 incaricavano sempre l'équipe di Vincent dello svuotamento, felicemente concluso nell'estate 2005. Storie di buona protezione civile.
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7754&ID_sezione=&sezione=
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2/9/2010
Italia, tristi cartelli di benvenuto
LUCA MERCALLI
Un paese lo si ama se lo si conosce. C’è una geografia che si impara a scuola, e che è in via di estinzione, e c’è una geografia che si impara ogni giorno dai finestrini dell’auto o del treno.
Ma chi guarda ancora al territorio con curiosità, attenzione e senso critico? Ormai in viaggio si fa di tutto per estraniarsi dal contesto attraversato: palmari, lettori di musica, internet, film, vetri oscurati. Così si diventa sempre più insensibili e ignoranti, mentre il brutto avanza e il paesaggio si degrada inesorabilmente. Nel 1876 il lecchese Antonio Stoppani, illustre geologo e geografo oggi dimenticato, pubblicava con strepitoso successo «Il Bel Paese» (oggi ristampato, dopo lunga assenza dai cataloghi, dall’editore Aragno con introduzione di Luca Clerici).
Un libro che è un capolavoro di divulgazione scientifica, nel quale l’autore si rivolge ai suoi giovani nipoti in forma di dialogo, raccontando per ventinove serate in un salotto milanese le peculiarità naturalistiche dell’Italia appena fatta, dalle Alpi all’Etna. Un libro che diventò un long seller, e per un po’ fu il terzo titolo venduto dopo I Promessi Sposi e il Cuore di De Amicis. Oggi tutti parlano del bel paese, ma più che Stoppani ricordano un formaggio così battezzato in onore dello studioso da Egidio Galbani nel 1906. E soprattutto i giovani studenti di oggi, orfani di uno Stoppani e distratti da mille gingilli virtuali, non ricevono più quella semplice abitudine a osservare e godere del mondo fisico che li circonda.
Le strade italiane poi non aiutano. Mai una piazzola ben curata che inviti a una sosta per apprezzare un panorama o scattare una foto, per farsi un’idea di quel pezzo di pianeta Terra. Immensi pannelli pubblicitari impestano l’orizzonte stradale, quando trovi uno scorcio e riesci a fermarti senza creare un tamponamento, vieni in genere accolto da mucchi di piastrelle sbrecciate, vecchie tazze di wc, copertoni usati, cespugli-latrina e vari resti del posto-prostituta. Immagino di essere un turista francese in viaggio verso il bel paese. Arrivo dalla Provenza via Briançon, e poco dopo L’Argentière-la-Bessée in un tornante della Route Nationale 94 trovo una grande statua che simboleggia il turista alpino, un parcheggio e una tavola d’orientamento in ceramica smaltata che illustra le vette degli Ecrins. Un posto qualunque, valorizzato e reso portatore di informazioni e di valori. Ti fermi e apprendi dove sei.
Colle del Monginevro, Clavière, il cartello stradale dice che entri in Italia. All’uscita delle gallerie paravalanghe dello Chaberton c’è un balcone perfetto sull’alta Val di Susa: la vista spazia su Sestriere, Cesana, Sauze d’Oulx, giù fin verso la pianura padana.
Il biglietto da visita dell’Italia è però un magazzino Anas diroccato e uno spiazzo con cumuli di macerie, oggi pure transennato per il cantiere del nuovo tunnel in costruzione. Altro che tavola di orientamento in ceramica! Nemmeno le olimpiadi invernali hanno pensato che valesse più un dignitoso belvedere di mille slogan turistici bugiardi.
Proviamo un altro italico accesso, dall’augusto valico del Moncenisio. Passato il ridente villaggio alpino di Lanslebourg, poco prima del colle, altro semplice parcheggio con tavola d’orientamento verso la Vanoise. Poco dopo a Bar Cenisio appare il vecchio posto di frontiera italiano, abbandonato e devastato: sembra il Kosovo dopo i bombardamenti. Un borgo fantasma, vecchi alberghi con le imposte inchiodate, un ponte a senso unico alternato non ancora riparato dopo i danni dell’alluvione del maggio 2008, una baita ristrutturata con i gerani alle finestre unica tenace nota di civiltà. E poi fino a Susa la Strada Statale 25 costellata dei tristi ruderi delle case cantoniere, imponenti e pericolanti edifici rosso pompeiano, usate oggi come cessi e come supporto per graffiti. Uno spettacolo che ti prende alla gola, perfetta metafora del Bel Paese in rovina.
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