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Autore Discussione: MOHAMMAD GHOUCHANI Noi giornalisti rischiamo il cappio  (Letto 1992 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Giugno 23, 2009, 09:50:15 am »

22/6/2009
 
Noi giornalisti rischiamo il cappio
 
 
MOHAMMAD GHOUCHANI
 
Ecco un estratto dell’ultimo articolo scritto da Mohammad Ghouchani su «Etemad e Melli» prima di essere arrestato, sabato mattina.

C’erano giorni in cui in Iran diventare giornalisti era difficile, giorni in cui i quotidiani e le pubblicazioni erano così pochi che escludevano la prima generazione dei giornalisti iraniani. Ma loro, in quei due decenni, hanno continuato a piangere di fronte ai cadaveri dei loro giornali.

I giornalisti si sono arrangiati: invece che di politica hanno scritto di cinema e di letteratura; invece che scrivere sui quotidiani hanno continuato a scrivere sui mensili; esiliati sui fogli specialistici, ma rimanendo ancora professionisti. Questi rivoluzionari della carta stampata, che al posto delle armi hanno abbracciato la penna e invece di spargere sangue hanno preferito versare inchiostro, hanno guardato con diffidenza i «nuovi arrivati»: la seconda generazione dei giornalisti, gli stessi che hanno occupato tutti i quotidiani relegando la prima generazione ai piccoli mensili.

Così, anche se fare i giornalisti era diventato difficile, rimanere giornalisti era ancora possibile. I nuovi arrivati però non hanno conquistato la fiducia dei vecchi reporter e i segreti e gli enigmi sono rimasti irrisolti. La prima generazione ha dovuto tenersi dentro i titoli buoni, la censura e le devastazioni per non essere accusati loro stessi di questi crimini.

Poi sono arrivati i giorni in cui i giornalisti sono riusciti finalmente a conquistare alcuni posti nel parlamento e nel governo, e c'è stata la necessità di nuove penne, giorni in cui è nata la terza generazione che è riuscita ad esser ben accolta dalla prima generazione. Sono state rotte le catene e dimenticate le paure. Chiunque poteva diventare reporter, scrivere ciò che voleva, utilizzare i blog e internet.

In questi giorni rimanere giornalisti è diventato difficile. Per alcuni questo mestiere è un punto d'arrivo e per altri uno strumento, per alcuni una fermata intermedia e per altri l'ultima casa. Ma con queste gabbie, queste censure, questi stipendi da fame, oggi, si può ancora rimanere giornalisti?

Noi della terza generazione iraniana, siamo i più consapevoli della morte, siamo i più calunniati. Siamo testimoni di persone che non possono prevedere il minuto successivo della loro vita. Sul nostro futuro non governa né ragione, né sentimento, né pietà. Nessuno conosce il proprio futuro, ma tutti possono prevedere o programmare il proprio futuro prossimo. Chiunque, tranne noi. Ogni giorno in cui andiamo in redazione non sappiamo se ci sarà un domani. E se domani fosse mercoledì? Ogni mercoledì c'è la riunione sulla stampa al ministero. E se domani fosse un lunedì o un martedì, un giovedì o un sabato, un mercoledì o una di quelle domeniche in cui i tribunali ordinano la chiusura del nostro giornale? Grazie a Dio il venerdì è festivo!

Noi addobbiamo i nostri fogli di colori sgargianti per le feste ma poi indossiamo il vestito scuro per i giornali costretti a chiudere i battenti. Non guardate le nostre risate, i nostri cuori sono in lutto. Conoscete forse un mestiere in cui per il più piccolo degli errori tutti i dipendenti vengano impiccati? O che per colpa di un solo dipendente tutti vengano licenziati? O dove per un'accusa di 10 anni prima, e dopo 10 anni di reclusione, si viene condannati ad altri 10 anni per lo stesso reato? Diventare giornalisti per la nostra generazione era stato facile, ma rimanere tali è davvero difficile. Per noi è un desiderio irraggiungibile poter invecchiare facendo questo mestiere. Magari potessimo invecchiare. Magari potessimo morire nella nostra redazione.

Magari mio padre, che spera ancora di vedermi affiancare al mestiere del giornalista un impiego in qualche ufficio, ministero o associazione, si convincesse che io un mestiere ce l'ho già da anni! Se ogni giorno non radessero al suolo le mie redazioni, potrei dimostrare a mio padre che lavoro, che non sto giocando ma che sto facendo il giornalista. Magari con la stessa velocità con cui siamo diventati giornalisti potessimo rimanere e morire tali. Magari il giorno in cui moriremo noi ci sarà al cimitero una parte dedicata ai giornalisti, e non com’è avvenuto per il giovane Mehran Ghassemi o per Ahmadreza Daryai. Quel giorno sarà il giorno della libertà di stampa in Iran.

Il giorno in cui vedremo i nostri vecchi giornalisti morire di vecchiaia dietro le loro scrivanie sarà il nostro giorno più felice. Solo il giorno in cui moriremo giornalisti sapremo d'aver vissuto da giornalisti. Quindi, oltre alla morte, non augurate null'altro alla mia generazione.

Traduzione di Hamid Ziavati
 
da lastampa.it
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