GIORGIO AMBROSOLI
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L’Italia pulita di Ambrosoli
Un volume curato da Gerbi per Aragno
A Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore dell’impero di Michele Sindona, ucciso da un sicario del bancarottiere nella notte fra l’11 e il 12 luglio 1979, sono stati dedicati libri e vie cittadine. È oggi riconosciuto un simbolo, un mito, un eroe. Eppure è difficile parlarne e scriverne senza provare un certo disagio. È il disagio che, si capisce, ha convinto Sandro Gerbi a curare il volume Giorgio Ambrosoli, nel nome di un’Italia pulita (Nino Aragno editore, pagine 218, € 12). E che nasce da una semplice consapevolezza: «La battaglia contro il malaffare non è stata vinta, anzi: c’è un’Italia che forse non la vuole vincere e gira consapevolmente la testa dall’altra parte». La questione morale è rimasta irrisolta. L’esempio di Ambrosoli non è stato raccolto in riconoscibili comportamenti collettivi. Ciò vuol dire che le celebrazioni del simbolo, del mito, dell’eroe, immancabili soprattutto quando il calendario si avvicina alla commemorazione, hanno spesso non più del significato di un rito.
Coltivando queste considerazioni amare, Gerbi ha raccolto nel libro alcuni saggi inediti (del figlio di Ambrosoli, Umberto, di Gianfranco Modolo, Giuliano Turone e Salvatore Bragantini) e altri per così dire di archivio, ma che conservano la piena attualità: a cominciare dalla lettera di Ambrosoli alla moglie Annalori, che diventa un testamento morale dell’avvocato. Lavori e documenti che la prefazione del curatore lega nel significato comune: rinnovare l’attualità ma soprattutto la concretezza di una figura di un servitore dello Stato che è diventato eroe «semplicemente» perché ha fatto il suo dovere. Fino al sacrificio, che poteva essere evitato se solo anche lo Stato avesse fatto «semplicemente» il proprio dovere: se l’avesse cioè appoggiato e difeso. Figura che ora è oggetto di un «culto che, proprio in quanto indistinto, induce a qualche riflessione».
Un culto, peraltro, che si è fatto strada a fatica. Perché in realtà Ambrosoli da vivo, con rarissime eccezioni, e subito dopo l’assassinio, è stato lasciato solo. «Noi in Italia, nel procedere alla ricostruzione delle malefatte di Sindona, eravamo isolati», scrive nel ’95 ne La fatica della legalità Silvio Novembre, il maresciallo della guardia di finanza per anni il braccio destro di Ambrosoli. E la solitudine proseguirà dopo i colpi del sicario venuto dall’America, William Joseph Arico: ai suoi funerali le istituzioni sono rappresentate dal solo Governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi. È il «secondo abbandono», lo definisce Gerbi, che subisce l’avvocato, «troppo ingombrante per una classe politica tanto compromessa nello scandalo Sindona». Classe politica che vede in prima fila Giulio Andreotti, che definì fra l’altro Sindona il «salvatore della lira». E che, sottolinea Turone (con Gherardo Colombo autore dell’inchiesta che ha portato alla scoperta degli elenchi della P2), nel suo libro Diari 1976-1979 ignora Ambrosoli e «sotto la data del 12 luglio 1979 si limita a registrare un incontro con il presidente della Tanzania». E nel giorno successivo «annota di aver ricevuto il primo ministro dell’Alto Volta».
Qualcosa cambia solo nel 1991 con il «classico» libro di Corrado Stajano Un eroe borghese. Ricorda Gerbi che il 9 maggio di quell’anno alla presentazione accorre «una folla traboccante». Così come quasi vent’anni dopo un pubblico numeroso e attento accoglie il figlio di Ambrosoli, Umberto, alla presentazione del suo libro Qualunque cosa succeda. Un libro che nasce da anni di riflessioni che lo aiutano a capire una cosa: «Sarebbe bastato un piccolo sì, qualche piccola omissione, non prendere posizione; papà avrebbe avuta salva la vita». Ecco l’eroismo quotidiano di Ambrosoli: fare il proprio dovere. Punto. Un eroismo così vicino perché teoricamente semplice, possibile, ordinario. Ma anche così distante dall’abitudine al compromesso e alla sottomissione. Così il culto resta con poche eccezioni rito. Nell’Italia a cui viene proposto invece l’«eroismo» del mafioso Vittorio Mangano.
Sergio Bocconi
02 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/cultura/10_luglio_02/elzeviro-bocconi-italia-ambrosoli_a83100c2-85ac-11df-adfd-00144f02aabe.shtml
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L’ambiguità del senatore che elogia ancora Sindona e non l’avvocato eroe
«Ambrosoli conosceva i rischi. Alla moglie scrisse: dovrai crescere tu i ragazzi nel rispetto verso il Paese»
Giorgio Ambrosoli non è stato dimenticato. Trentun anni dopo il suo assassinio nel centro di Milano, vicino alla basilica di San Vittore, le ragioni della memoria di quel che accadde —un uomo che si fa uccidere nel nome dell’onestà— sono rimaste intatte.
Una contraddizione in un tempo come il nostro dove la corruzione diffusa impedisce lo sviluppo, dove la violenza dei poteri criminali è pressante, dove la politica ha perso spesso il rispetto di se stessa. Ma questo panorama intristito del paese non ha impedito che negli anni strade, piazze, scuole, biblioteche, aule universitarie siano state dedicate a Giorgio Ambrosoli. Il suo nome è diventato infatti un modello morale e civile.
Stasera alle 23,50 su Raidue, la puntata della «Storia siamo noi» di Giovanni Minoli è dedicata all’avvocato di Milano ucciso l’11 luglio 1979 da un killer venuto dagli Stati Uniti su mandato del finanziere Michele Sindona. Il documentario, «Qualunque cosa succeda. Storia di Giorgio Ambrosoli» di Alberto Puoti, prende il titolo dal libro di Umberto Ambrosoli, il figlio dell’avvocato, uscito nel giugno dello scorso anno, che ripercorre, con dolorosa sobrietà, la vita e la morte del padre. E’ un programma serrato, questo della TV, ricco di emozioni, assai bello, se l’aggettivo si addice a una materia così straziante. I personaggi, Ambrosoli soprattutto, e con lui la moglie Annalori, il figlio Umberto, gli amici, i nemici, ministri, generali, banchieri, il presidente del Consiglio, si muovono su sfondi color del piombo - la giungla delle banche, delle società, delle finanziarie, lo Ior vaticano - tra Milano, Roma, New York, la Svizzera e Ghiffa, sul lago Maggiore, dove l’avvocato possedeva una casa, contrappunto sereno alla cupa realtà.
Che cosa rappresenta oggi la vicenda Ambrosoli, qual è la novità dopo tanto scandagliare, che insegnamento se ne può trarre?
C’è nel documentario una risposta di Giulio Andreotti a una domanda di Alberto Puoti, che fa sobbalzare chi cinico non è, disabituato alle pillole presidenziali di ambigua saggezza. «Perché Ambrosoli è stato ucciso?» domanda il giornalista. «Questo è difficile, non voglio sostituirmi alla polizia e ai giudici, certo è una persona che in termini romaneschi se l’andava cercando».
Soltanto un caso di ordinaria imprudenza, quindi, un episodio da film all’italiana. Lo statista, il sette volte presidente del Consiglio, non fu prosciolto, al processo davanti alla Corte d’appello di Palermo nel 2003: il reato di associazione per delinquere fino alla primavera del 1980 fu semplicemente estinto per prescrizione, giudizio confermato dalla sentenza definitiva di legittimità della Corte di Cassazione, il 15 ottobre 2004.
Erano proprio quelli gli anni dell’affaire Ambrosoli. Andreotti, allora presidente del Consiglio, ne parla sereno, e pensare che doveva averne multiformi saperi.
Anche oggi non smentisce la sua empatia per il bancarottiere definito in passato «il salvatore della lira »: «Dette—conferma—un allarme per quelli che erano i pericoli del sistema finanziario internazionale che nell'immediato pochi compresero. Ma poi si è visto quanto fosse tempestivo».
E' benevolo Andreotti, seguita a fornire a Sindona le sue ambite referenze: «Il fatto che si occupasse sul piano internazionale dimostrava una competenza economico finanziaria che gli dava in mano una carta che altri non avevano. Se non c'erano motivi di ostilità, non si poteva che parlarne bene. Io cercavo di vedere con obiettività, non sono mai stato sindoniano, non ho mai creduto che fosse il diavolo in persona».
Com’è diverso il ritratto di Carlo Azeglio Ciampi, nell'anima e nello stile: «Ambrosoli era il cittadino italiano al servizio dello Stato che fa con normalità e semplicità il suo compito e il suo dovere».
E come piena di nostalgia e di rispetto la memoria di John J. Kenney, il procuratore di New York, che da Ambrosoli ebbe un prezioso aiuto, fonti, prove, documenti, durante l'inchiesta sulla Franklin National Bank, la banca americana di Sindona che segnò l'inizio della sua fine.
L'avvocato di Milano non riusciva a nascondere il suo stupore, lo si capisce leggendo i suoi diari e le sue agendine, di fronte alle rivelazioni continue dei tradimenti, delle trame, delle connivenze che avevano per protagonisti uomini di alto rango dello Stato. Avrebbero dovuto essere naturalmente dalla sua parte, pubblico ufficiale con il compito di sanare una situazione degenerata, protetta dal sistema politico di governo, e invece erano nemici che intralciavano in tutti i possibili modi quel che tentava di fare in nome della comunità condannata, per il malfare del banchiere corrotto, a pagare l’equivalente di 800 milioni di euro di oggi.
Ambrosoli era stato sottovalutato da Sindona e dal suo entourage. E’ invece un giovane avvocato intelligente, non soltanto onesto. Appena entra nella banca di Sindona capisce subito com’è potente e inquinato quel mondo protetto dalla Chiesa romana, dalla massoneria, dalla DC. Con la mafia che fa anche da mano armata. Si saprà soltanto dopo il 1981, quando furono scoperte le carte di Gelli a Castiglion Fibocchi, che era stata la P2 a guidare tutte le manovre per salvare Sindona.
Giorgio Ambrosoli è solo, o quasi. Ugo La Malfa è l’unico uomo politico che si prende a cuore quella verminosa storia nazionale e gli dà aiuto come può. Pochi amici gli fanno da consulenti, il maresciallo della Guardia di finanza Silvio Novembre gli fa persino da guardia del corpo, nell’assenza di ogni protezione da parte dello Stato, nonostante le minacce mortali. E sono poi, con lui, uomini della Banca d'Italia, Paolo Baffi, il governatore, eMario Sarcinelli, che finisce persino in prigione.
E’ ben cosciente, Ambrosoli, di quel che fa—altro che «andarsela a cercare». Basta leggere la lettera scritta alla moglie il 25 febbraio 1975, solo un anno dopo la sua nomina. Un testamento: «Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto (...). Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il Paese, si chiami Italia o si chiami Europa ».
Corrado Stajano
09 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_settembre_09/stajano-andreotti-ambiguo-elogia-sindona-non-avvocato-ambrosoli_e088f23c-bbd4-11df-8260-00144f02aabe.shtml
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10/9/2010
Ambrosoli, nuovo sgarbo di Andreotti
GIORGIO LA MALFA
Caro direttore,
l’11 luglio del 1979 un sicario italo-americano attese sotto casa sua, a Milano, l’avvocato Franco Ambrosoli, liquidatore della Banca Privata Finanziaria, e lo uccise con alcuni colpi di pistola.
Il mandante dell’omicidio fu, come è stato accertato processualmente nel 1986, Michele Sindona, il banchiere italiano cui faceva capo la Banca Privata Finanziaria. Il movente fu certamente la vendetta per il fermo rifiuto opposto dall’avvocato Ambrosoli a collaborare a coprire in qualche modo la bancarotta della Privata Finanziaria. Ma non escludo che Sindona sperasse altresì che l’eliminazione di Ambrosoli potesse aprire la strada alla nomina di un nuovo liquidatore più sensibile alle pressioni politiche, che erano fortissime, per chiudere la vicenda a suo favore.
Dire, come ha detto l’on. Andreotti in una trasmissione televisiva che è stata trasmessa ieri sera sulla terza rete Rai, che l’avvocato Ambrosoli «se l’andava a cercare» è un’affermazione raccapricciante. È come uccidere Ambrosoli una seconda volta. Il senatore Andreotti ha stamane precisato che con le sue parole egli intendeva dire soltanto che Ambrosoli era consapevole dei rischi che correva nello svolgere quell’incarico. Non è una via di uscita.
L’avvocato Ambrosoli non aveva «cercato» quell’incarico. Lo aveva ricevuto, inaspettatamente, nel 1974 dal Governatore della Banca d’Italia Carli e lo aveva svolto senza alcuna iattanza, ma solo con senso del dovere. Ambrosoli aveva compreso quasi subito che gli era stato affidato un incarico difficile e soprattutto pericoloso. Lo testimonia una lettera commovente che egli indirizzò nel 1975 alla moglie Annalori chiedendole di conservare, in ogni evenienza, presso i loro figli, i valori che li avevano uniti fin dagli anni dell’università.
La tragedia si consumò tra la fine del 1978 e la metà del ’79. Nel 1978, Ambrosoli aveva ultimato la sua relazione come liquidatore della Privata Finanziaria. Dalla relazione risultavano chiaramente le manovre fraudolente del Sindona e dunque si prefigurava una condanna per bancarotta che si sarebbe aggiunta ad analoghi guai del Sindona con la giustizia americana. Sindona e i suoi protettori fecero il tentativo disperato di trovare una soluzione che rimettesse in piedi la Privata Finanziaria e quindi evitasse una condanna per bancarotta fraudolenta.
Cominciarono a circolare vari progetti - che Enrico Cuccia cui venivano, sotto varie minacce, sottoposti, chiamava «I papocchi». Contemporaneamente cominciarono le telefonate minatorie ad Ambrosoli. In esse una voce con accento siculo-americano invitava Ambrosoli a non frapporre ostacoli a quello che «a Roma» era stato stabilito per risolvere il problema. Queste telefonate avvenivano di norma in coincidenza con incontri che l’avvocato di Sindona, Michele Guzzi, aveva con il presidente del Consiglio dell’epoca, l’on. Andreotti. Il presidente del Consiglio riceveva successive versioni di appunti volti al salvataggio della Privata Finanziaria, appunti che venivano poi trasmessi, attraverso il sottosegretario alla Presidenza Evangelisti o il ministro Stammati, alla Comit, ai vertici della Banca d’Italia, a Ciampi, a Baffi e soprattutto a Mario Sarcinelli che, per averli seccamente respinti, subì l’onta di una scandalosa e totalmente infondata incarcerazione nel marzo del 1979 da parte di un magistrato che in sostanza apparteneva alla stessa cerchia deviata che si dava da fare, di qua e di la dell’Atlantico, per salvare «il grande banchiere».
Anche il capo di Mediobanca, Enrico Cuccia, che Sindona considerava il vero ostacolo alla soluzione dei suoi problemi, subì una serie di intimidazioni telefoniche, un attentato dinamitardo e soprattutto la minaccia di colpire i suoi figli.
Ma Cuccia, Ciampi, Baffi, Sarcinelli e soprattutto Ambrosoli non si piegarono. Ambrosoli fu la prima vittima, probabilmente, come ho detto, nella segreta speranza che il suo posto potesse essere preso da qualcuno più malleabile di lui. L’on. Andreotti si difese allora sostenendo che egli non poteva immaginare che dietro un banchiere, come egli diceva, stimato da tutti, potesse celarsi un assassino e che egli si era limitato a fare il suo dovere trasmettendo in varie direzioni, senza esercitare pressione alcuna perché fossero accolti, i documenti che l'avv. Guzzi gli sottoponeva. E questo ripete ancora oggi. Ma se questa poteva allora essere una buona linea di difesa (ma non più di questo) prima del processo e della condanna giudiziaria di Sindona, essa non lo è più oggi. Dire oggi che Ambrosoli se la era voluta vuol dire che in fondo Sindona aveva le sue ragioni. Ed io sospetto che quell’espressione che gli è venuta alle labbra significhi che questo sia ciò che davvero pensa il sen. Andreotti. Questo suscita indignazione.
*deputato del Gruppo Misto
http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7807&ID_sezione=&sezione=
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Il caso L'intervento
Mio padre e la difesa del pubblico interesse
Essere responsabili può essere faticoso e doloroso. Ma rende piene di vita anche le scelte più difficili
In ordine all'esempio di mio padre, come a quelli di tante altre persone che hanno perso la vita agendo nell'interesse del Paese, vengono identificati diversi significati: onestà, senso dello Stato, libertà, consapevolezza, capacità di indignarsi, senso del dovere.
Guardiamo quest'ultimo: quell'accezione secondo la quale una persona svolge il proprio dovere, realizza la propria funzione, senza farsi condizionare da nulla e da nessuno. Presupposto del senso del dovere è la responsabilità. Parola questa che etimologicamente significa «risposta» e che non si pone in termini astratti: non è nemmeno un titolo di merito. È piuttosto un debito: verso il mandato, quale che ne sia l'oggetto. È responsabile un genitore in ordine ai figli, un imprenditore verso l'economia e l'esercizio dell'impresa, un lavoratore nell'adempimento delle sue mansioni, uno sportivo per lo svolgimento della sua attività. È responsabile, cioè debitore, in termini più estesi chi ricopre incarichi pubblici: verso la collettività. Ripenso alla lezione di mio padre, riproposta ieri sera in tv da Giovanni Minoli nel programma La Storia siamo noi: il presupposto essenziale per «rispondere» è conoscere l'oggetto della domanda, del mandato. Per essere un buon padre bisogna prima di tutto aver chiare le esigenze dei figli, ed in secondo luogo avere la forza di anteporle alle proprie. Assecondare l'esigenze educative dei figli è più facile: per la peculiarità del rapporto figlio-genitore. Per l'imprenditore, ad esempio, le cose cambiano. Già il livello di comprensione del «mandato» rischia di essere viziato da un potenziale contrasto tra l'interesse proprio e quello dell'economia o dell'esercizio dell'impresa. L'imprenditore può far fatica a concepire, ad esempio, la compatibilità tra l'interesse dell'impresa ed il non corrompere per aggiudicarsi un appalto. Ma in realtà l'imprenditore responsabile non è colui che persegue il proprio immediato interesse (ad esempio assumendo in nero, smaltendo illecitamente i rifiuti, o corrompendo, ecc...), ma è colui che ha la forza di condurre la sua azienda in armonia con le esigenze dell'ordinamento. Ci si può vantare di essere imprenditori solo quando si ha chiaro verso chi è rivolta la responsabilità dell'impresa e quando si è capaci di perseguirla proprio in quei termini. La responsabilità del padre, quella dell'imprenditore e quella di tanti altri soggetti origina in una sfera privata che poi arriva a coinvolgere quella pubblica. Ma l'origine è privata.
La responsabilità dei politici, invece, origina nella sfera pubblica, alle esigenze della quale il politico deve rispondere. La continua attenzione alle esigenze e al rispetto del bene comune può non essere coerente con la realizzazione del proprio interesse contingente, ma la scelta è (dovrebbe essere) fatta a priori ed il fatto stesso di candidarsi a quella responsabilità implica (dovrebbe implicare) la ferma determinazione ad avere sempre chiaro il bene comune e ad aver la forza di sovraordinarlo, sempre, a quello personale. L'alternativa tra «interesse personale ed interesse pubblico», una volta fatta la scelta di candidarsi o di accettare una responsabilità istituzionale, dovrebbe essere risolta a priori. Altrimenti non c'è lo Stato, ma solo un insieme di persone che, rivolte verso se stesse, non possono costituire alcuna coesione, ma la accozzaglia di interessi diversi perseguiti da chi intende la responsabilità come affermazione.
Essere responsabili può essere faticoso e finanche doloroso. Rispettare l'interesse comune nell'immediato (e non solo) può essere durissimo. Ma saper essere responsabili rende piene di vita anche le scelte più difficili. Se il passato o il presente ci consegnano esempi di responsabilità radicalmente fraintese e abdicate, è l'ora per trarne lo stimolo ad un cambiamento necessario.
Umberto Ambrosoli
10 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_settembre_10/ambrosoli_difesa_pubblico_interesse_6a21ed72-bca3-11df-bb9d-00144f02aabe.shtml
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22/3/2012
Ambrosoli "sgradito" al ricordo del padre
MICHELE BRAMBILLA
Al bon ton della politica mancava questo: invitare il figlio di una vittima della mafia a non partecipare alla commemorazione del padre. Lacuna colmata ieri mattina dalla Regione Lombardia, che ha rivolto un gentile «lei è meglio che non si faccia vedere» a Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio, il commissario liquidatore della Banca Privata Italiana ucciso l’11 luglio 1979 su ordine di Michele Sindona.
Chi ha avuto lo stomaco di arrivare a tanto? Ai vertici della Regione Lombardia tutti tacciono, almeno formalmente: informalmente, è partito un rimpallarsi di responsabilità fra presidenza del consiglio (il leghista Boni) e presidenza della giunta (Formigoni). Ma stiamo ai fatti.
Ieri era la prima «Giornata regionale dell’impegno contro le mafie in ricordo delle vittime». Programma: proiezione al Pirellone, a trecento ragazzi delle scuole lombarde, del film «Un eroe borghese», dedicato appunto a Giorgio Ambrosoli. C’era l’ex giudice Giuliano Turone, c’era l’assessore regionale Giulio Boscagli che ha portato il saluto di Formigoni, c’era Francesca Ambrosoli figlia di Giorgio. Ma non c’era Umberto, il figlio. Come mai?
Secondo l’associazione Saveria Antiochia Omicron, che collabora con la Regione per questa giornata contro la mafia, Umberto Ambrosoli è vittima di una ritorsione. Il sito dell’associazione, http://www.centrostudisao.org/, esprime «indignazione perché l’ufficio di presidenza della Regione ha rifiutato la partecipazione di Umberto Ambrosoli, a causa delle sue dichiarazioni a Repubblica sulla necessità di azzerare la giunta». Qualche giorno fa infatti Umberto Ambrosoli aveva rilasciato un’intervista sulla raffica di scandali e di inchieste giudiziarie che ha investito il Pirellone, sostenendo fra l’altro che Formigoni farebbe meglio ad «azzerare la giunta».
Sta di fatto che ieri Umberto Ambrosoli avrebbe dovuto parlare ai ragazzi e invece non c’era. Jole Garruti, direttrice di Saveria Aniochia Omicron, la racconta così: «Lunedì mattina Carlo Borghetti, consigliere regionale del Pd, mi ha detto che l’ufficio di presidenza del consiglio non gradiva la presenza del figlio. Ho chiamato allora un altro consigliere regionale, il leghista Massimiliano Romeo, e ho avuto conferma del “non gradimento”. Gli ho risposto che mi sembrava assurdo, e lui mi ha assicurato che avrebbe fatto presente il problema all’ufficio di presidenza. Morale: nel pomeriggio mi arriva il programma definitivo e il nome di Umberto Ambrosoli non c’è». Una censura, sostiene la direttrice, provocata proprio dall’intervista a Repubblica.
È così? Massimiliano Romeo dà una versione un po’ diversa: «È vero che, parlando con Jole Garruti, ho detto che l’intervista di Umberto Ambrosoli era stata sgradevole, e che certe cose se le poteva risparmiare. Ho detto che eravamo un po’ contrariati. Ma non mi sono mai sognato di dire che c’era un veto dell’ufficio di presidenza. Ieri è venuta la sorella, Francesca, ed è stata accolta benissimo». Sorella che però non aveva rilasciato interviste sul Pirellone. «Sarebbe stato accolto allo stesso modo anche il fratello», assicura Romeo, che parla di «polemica politica pretestuosa». Jole Garruti in serata ha commentato lo scaricabarile parlando sul suo sito di «mistero su chi non ha voluto che ci fosse Umberto Ambrosoli, visto che l’ufficio di presidenza nega tale responsabilità».
E lui, Umberto Ambrosoli? Non getta benzina sul fuoco: «È un episodio spiacevole, sul quale bisogna però evitare le polemiche. Prevale il fatto che tanti ragazzi hanno avuto modo di vedere il film». L’unica lezione di bon ton viene da lui, «lo sgradito».
da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9910
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