Pier Ferdinando Casini
«Una catastrofe se vincono i falchi alla Santanchè»
«Sarebbe un’altra occasione persa», dice l’ex presidente della Camera. Che però ammette di aver chiamato Berlusconi perché «il calcio dell’asino lo lascio ai tanti beneficiati che ora vorrebbero sbranarlo»
Lo incontro sulla terrazza della sua casa romana. Quartiere Parioli. I polsini della camicia bianca sono tenuti insieme da una coppia di gemelli che portano il simbolo di Montecitorio: CD. Domando: ma a Palazzo Madama la fanno entrare con quella roba? Sorride: «Più che presidente della Commissione Esteri del Senato, mi sento ex presidente della Camera. La Camera è il mio primo amore». Pier Ferdinando Casini, 57 anni, ne ha trascorsi trenta in Parlamento. Ha vissuto in prima fila, da forlaniano, le guerre fratricide tra diccì negli anni Ottanta. Ha visto crollare la Prima Repubblica. Nella Seconda è stato il testimone fero di un centro-centrismo con sbandamenti a destra: Dc, Ccd, Udc. Dice: «Finita la sbornia per il bipolarismo muscolare che ha disseminato disastri per il Paese, mi godo lo spettacolo». Quale spettacolo? «Quello dei poli armati, gonfi di falchisti e vetisti, di berlusconiani e di antiberlusconiani, che si sgretolano e sono costretti a convivere nella maggioranza. Io e Monti, che abbiamo perso le elezioni, siamo gli unici davvero soddisfatti».
Nella maggioranza ci sono Letta, Alfano, Lupi e Franceschini.
«La Democrazia cristiana è morta, ma il tasso diccì è molto alto. Ed è quello che ci vuole: serietà, ragionevolezza, moderazione. Non ci scordiamo Renzi. Anche lui non è esente da questo piccolo peccato centrista di gioventù».
Gli ex diccì potranno mai tornare tutti insieme?
«Se facessi questa ipotesi verrei impallinato. Mi sembra prematuro. Impossibile. Piuttosto immagino un futuro con due grandi partiti che si fronteggiano rispettandosi, sul modello europeo Ppe/Pse. Il mio tavolo è quello del Ppe».
Maria Teresa Meli, sul Corriere, ha scritto che Letta avrebbe detto a Renzi di riferire alla Merkel che se non ci fosse Berlusconi il Pd starebbe nel Ppe.
«Mi pare una forzatura. Ma Enrico Letta è stato presidente dei giovani democristiani europei. Nel Ppe è considerato uno della comitiva, non certo un antagonista».
Come anche Alfano…
«Eheh. Nella gestione della vicenda Imu ho riconosciuto la tempra, la malizia e la perfdia democristiana».
Nell’Italia post berlusconiana, un ex democristiano non potrebbe essere in imbarazzo a restare fuori dal Ppe?
«Non interpreto gli imbarazzi altrui. Ma di sicuro in questa prospettiva il Pd si schiaccerà molto di più sul versante del socialismo europeo».
Lei pensa al Ppe, ma una parte del centrodestra si sta organizzando per ripartire con Forza Italia.
«Il mio ragionamento politico ha poco a che fare con i cori della Santanchè. Se prevarrà il falchismo vorrà dire che perderemo un’altra occasione. Ma viste le catastrof degli ultimi venti anni…».
Lei per la maggior parte di questi venti anni è stato un protagonista, alleato di Berlusconi.
«Ho fatto molti errori, ma sono stato coerente. Con Helmut Kohl ho lavorato per far entrare Forza Italia nel Ppe».
Perché Forza Italia portava voti ed europarlamentari.
«Era un partito nuovo e speravo che evolvesse nel solco del popolarismo europeo. Quando Berlusconi ha cercato di impormi l’ingresso nel suo Pdl dall’alto del predellino, mi sono sganciato e sono andato da solo. Pagandone le conseguenze».
Berlusconi ha detto spesso che se non è riuscito a fare la rivoluzione liberale in Italia è colpa di alleati come lei e Fini.
«Mentre lo diceva mi corteggiava perché tornassi al suo fianco. È una balla».
Se è una balla chi ha impedito la rivoluzione liberale?
«Le corporazioni e la burocrazia, che hanno bussato più spesso da Gianni Letta che da noi».
Gianni Letta, altro vestale della Balena Bianca.
«Per carità, lui ha il merito di aver rappresentato e difeso sempre le istituzioni. Ricordo che nel 1994 ci trovammo a casa di Berlusconi, in via dell’Anima. Giuliano Ferrara e Cesare Previti erano per eleggere Carlo Scognamiglio presidente del Senato. Io e Letta volevamo riconfermare Giovanni Spadolini. La vittoria di Scognamiglio fu la prima sconfitta dei moderati nella storia della Seconda Repubblica. L’inizio della ventennale contrapposizione selvaggia tra berlusconiani e antiberlusconiani».
Prima di questi venti anni, ce ne erano stati cinquanta di governo democristiano. Non apprezzati da tutti.
«Sempre più persone stanno realizzando che i governi diccì erano una cosa seria. Per non parlare del personale politico. Se oggi vai a trovare De Mita, il 90% delle cose che dice è distillato d’intelligenza».
Oggi…
«Dobbiamo avere molta fiducia per sperare che Renzi arrivi alle stesse percentuali».
A cena col nemico?
«Con Beppe Grillo».
Grillo vorrebbe andare alle elezioni anche con il Porcellum.
«Non mi stupisce: così può designare i parlamentari».
Lei ha un clan di amici?
«Ne cito uno per tutti: Carlo, di Bologna».
Credevo che mi dicesse il solito Lorenzo Cesa, suo antico sodale nell’Udc.
«Non volevo fare quello noioso che parla sempre di politica».
Lei ha sempre difeso Cesa da chi gli rimproverava un’antica condanna dei tempi di Tangentopoli.
«È un uomo che ha pagato. È restato fuori più di un giro».
Con Mastella, lei fu uno dei pochi ad andare a sostenere Andreotti subito dopo la prima condanna.
«In certe vicende si dà la cifra di se stessi. E non per convenienza. È lo stesso motivo per cui, dopo molto tempo che non lo sentivo, recentemente ho chiamato Berlusconi. Il calcio dell’asino è uno sport molto praticato in Italia, ma lo lascio ai tanti beneficiati che improvvisamente vorrebbero sbranare Silvio».
Qual è l’errore più grande che ha fatto?
«Fare la lista unica di Scelta civica al Senato e andare da soli con l’Udc alla Camera. Era ovvio che non avrebbe funzionato».
La scelta che le ha cambiato la vita?
«L’ingresso a Montecitorio. Prima di entrare mi chiusi in una cabina telefonica, chiamai mio padre e scoppiai in un pianto liberatorio. Pregai la Madonna di San Luca…».
Come quando venne eletto Presidente della Camera…
«Sono un grande peccatore, ma credente. E ho sempre chiesto alla Madonna di aiutarmi».
La leggenda vuole che nel 1983 tra i suoi primi sponsor elettorali ci fosse Dario Franceschini.
«È vero. Allora era il delegato del movimento giovanile di Ferrara. Ci incontravamo in gran segreto al casello dell’autostrada per prendere accordi».
Vi incontrate ancora in gran segreto?
«No, no. Ma nella mia stanza di palazzo Giustiniani, la stanza che fu di Andreotti, conservo una foto in cui ci siamo io, Follini e Franceschini a un comizio di Mariano Rumor».
Che cosa guarda in tv?
«Telefilm come NCIS. Non i talkshow politici».
Dove però è spesso ospite.
«Sempre meno. Ho esaurito le ansie da prestazione. E penso di aver messo per anni la faccia anche dove sarebbe stato meglio non metterla».
Sta parlando della pubblica difesa di Cuffaro, leader siciliano dell’Udc, condannato per favoreggiamento?
«Non puoi voltare le spalle a una persona che fino al giorno prima ha pedalato al tuo fianco. In quel caso si trattava di non fare i vigliacchi. Io ho sempre lasciato le impronte digitali e pagato dazio. Altro che Pier-Furbi».
Il film preferito?
«Le dico l’ultimo che ho visto: La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Mi piacciono il disincanto e l’autoironia di Jep Gambardella. Quando ero all’inizio della mia carriera politica appena sentivo che girava una voce su di me, una chiacchiera, impazzivo, adesso con tutto quel che gira… non me ne frega nulla».
Sono spuntati gossip su di lei anche recentemente.
«Roba da Scherzi a parte. Lasciamo perdere».
Il libro?
«Ho appena finito La crisi dell’impero vaticano, di Massimo Franco».
La canzone?
«Piazza Grande di Lucio Dalla. Un amico».
Sa quanto costano sei uova?
«No. Ma il sabato faccio la spesa».
Conosce i confini della Siria?
«Libano, Iraq… Considero l’idea di intervenire militarmente in Siria una follia allo stato puro».
L’articolo 3 della Costituzione?
«È quello sull’uguaglianza davanti alla legge. La nostra Costituzione è davvero ben fatta. Ogni volta che è stata toccata, abbiamo fatto danni».
Un esempio?
«La riforma del Titolo Quinto è stata disastrosa. Ed è stato un errore eliminare l’immunità parlamentare così come l’avevano immaginata i costituenti».
3 settembre 2013 (modifica il 10 settembre 2013)
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Vittorio Zincone
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