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Autore Discussione: MATTEO RENZI  (Letto 141551 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Agosto 12, 2013, 09:12:14 am »

Renzi e la Liberazione "Come loro, mettiamoci in gioco"

"C'è chi è morto dalla parte giusta e chi dalla parte sbagliata", ha detto il sindaco, che si è rivolto ai rappresentanti dell'Anpi chiamandoli amici e compagni
 

"Rispetto umano e pietas per tutti i morti, ma c'è chi è morto dalla parte giusta e chi è morto dalla parte sbagliata. Ogni tentativo di revisionismo va respinto al mittente". Lo ha detto il sindaco di Firenze Matteo Renzi, nell'anniversario della liberazione della città, durante il suo intervento in Palazzo Vecchio. Il sindaco ha poi ricordato la proposta di legge in cui "si afferma il dovere di dire che viene equiparato al patrimonio culturale ogni bene che sia stato oggetto della Resistenza. Questo significa che la resistenza sta nel Dna come elemento costitutivo di questa comunità".

La nostra intervista a Renzi: "Scommetto sulla mia ricandidatura a sindaco"

"I partigiani ebbero la forza di mettersi in gioco". Pensando a quel periodo "l'idea di fondo che mi è rimasta è che quella generazione là, quando ha avuto bisogno di mettersi in gioco, si è tirata su le maniche e ha mandato in pensione, ha rottamato la parola purtroppo. A noi viene detto 'non si può fare', il contrario di yes we can. La crisi c'è ma serve la forza della proposizione".

Renzi si è rivolto così ai rappresentanti dell'Anpi, Associazione nazionale partigiani: "Ricordare i vostri ricordi, cari amici e compagni dell'Anpi". All'ingresso nel palazzo comunale, il sindaco è stato accolto da 'Bella ciao' suonato dalla banda della città. Sulle scale Renzi ha scherzato con il sottosegretario Gabriele Toccafondi (Pdl). Imitando la voce di Berlusconi, Renzi gli ha detto: "Mi consenta, è una vergogna".

 

(11 agosto 2013) © Riproduzione riservata

da - http://firenze.repubblica.it/cronaca/2013/08/11/news/renzi_e_la_liberazioni_no_ad_ogni_revisionismo-64625747/?ref=HREC1-4
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« Risposta #16 inserito:: Settembre 08, 2013, 07:25:35 am »

POLITICA
08/09/2013

Renzi accolto da star a Modena: “Nel Pd detta la linea chi perde”

Epifani: “No a segretario-premier”

Il sindaco di Firenze fa il pieno di applausi:«Sogno un partito fatto da dirigenti, militanti e gente che sta in strada».

Ma il segretario lo stoppa


Più che la festa dell’Unità, pare il festival di Venezia. Ormai Matteo Renzi non è solo un politico, è definitivamente una star della cultura popolare di questi tempi. L’accoglienza di Modena al sindaco di Firenze è stata la più calda del suo tour emiliano-romagnolo, lo zoccolo più duro da conquistare, secondo gli esperti, nella sua scalata al Pd. E a giudicare dalla reazione del popolo più `rosso´ del partito (qui la Festa in una settimana ha già incassato un milione e passa di euro), tra Renzi e il traguardo non ci sono più ostacoli: lo hanno osannato, abbracciato, baciato, fotografato, gli hanno urlato di continuo `mandali a casa´, interrotto sul palco, lanciato magliette e mandato baci. Nemmeno fosse George Clooney.
 
Agli 8.000 (forse di più) che lo hanno ascoltato nell’Arena del Lago (a differenza di Bologna, la location del suo intervento è stata spostata visto l’atteso grande afflusso), Renzi ha ribadito la sua idea d’Italia. Non solo rottamazione, non solo slogan, ma soprattutto «idee», fatti concreti, una nuova visione del futuro, perché «per me la sinistra è apertura, non chiusura, coraggio e non paura: se dovessi mettere la residenza da qualche parte, sceglierei una frontiera». E così gli applausi più vigorosi sono arrivati sui passaggi dedicati al Pd: «Sogno un partito fatto da dirigenti, militanti, volontari della Festa, invece qui c’è gente che perde anche le elezioni del proprio condominio e che ci detta la linea». Ovazione: «È gente che viaggia in auto blu, con le scorte. Gente che sta dentro al palazzo, invece io voglio persone che stanno in strada». Doppia ovazione: «Se vogliamo cambiare l’Italia, dobbiamo cambiare noi perché se non cambiamo, perdiamo e io non voglio più perdere».
 
La strada verso una nuova Italia passa anche attraverso l’abbattimento del tabù lavoro: «Non è l’articolo 18 il problema - attacca Renzi su uno dei temi più cari al mondo della sinistra - è un simbolo importante, ma riguarda poche persone». E dal tasto `delusi´, il serbatoio dove attingere quei voti che mancano al centrosinistra per vincere, a partire dal Movimento Cinque Stelle: «Quelli fanno alpinismo istituzionale, qualcuno può ricordare ai `grillini´ che li paghiamo per risolvere i problemi e non per fare delle sceneggiate?». Renzi spazia dalla sua partecipazione ad `Amici´ alla lotta contro il colesterolo. Scherza sulla `pitonessa´ e su Fioroni («Ci interessa veramente con chi sta?»), senza citare quasi mai i suoi avversari alle primarie. Poi, inevitabilmente, si arriva a Berlusconi: «Su di lui nessun pastrocchio, non c’è nessun voto che può rimettere in discussione una sentenza», ribadisce, dicendosi convinto, però, che il Caimano non metterà in discussione il Governo. «Secondo me - azzarda Renzi - non si tornerà a votare», poi con quello, scherza, «vatti a fidare...».
 
Epifani: “No ad automatismo segretario-premier” 
Per la data del congresso del Pd rivolgersi all’assemblea nazionale, il 20-21 settembre. Guglielmo Epifani delude chi ancora sperava possibile un’anticipazione del giorno `X´. «La scelta - spiega - spetta al presidente dell’assemblea, lo dice lo Statuto». Dal palco di Genova, nella manifestazione di chiusura della Festa Democratica, il segretario del Pd, davanti ad una folla attenta ed alcuni big del partito (tra gli altri Massimo D’Alema, Rosy Bindi ed il candidato segretario Gianni Cuperlo) suggerisce inoltre: «sarebbe meglio che non ci fosse automatismo tra le candidature a segretario del partito ed a premier». Giusto che «un segretario di alto profilo» possa concorrere sui due fronti, precisa, anzi «ci conviene», ma con l’automatismo «avremmo un problema in più e una flessibilità in meno». E puntualizza: «L’ho detto prima che si conoscesse il nome degli aspiranti candidati’’. Nella partita tra Renzi e gli altri papabili alla segreteria del Partito Democratico, Epifani non entra se non per rassicurare che, alla fine della competizione, il Pd «resterà unito e plurale» e alla fine il vincitore «sarà il segretario di tutte le democratiche e di tutti i democratici». Ma oltre a parlare di nomi, «è bene - ammonisce - che nella discussione non contino solo le persone, ma anche le cose, le questioni importanti».

da - http://www.lastampa.it/2013/09/08/italia/politica/renzi-accolto-da-star-a-modena-ci-detta-la-linea-chi-perde-OJwnwkA6VZVFnhWv59o1QP/pagina.html
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« Risposta #17 inserito:: Ottobre 07, 2013, 05:26:48 pm »

LA CRISI DI GOVERNO - I DEMOCRATICI

Ora Renzi si concentra sulla segreteria «Ma dico no a operazioni neocentriste»

Il sindaco vuole diventare l’azionista di riferimento del governo

Roma.

Per Matteo Renzi si apre adesso una nuova partita: dimostrare di essere l’azionista di riferimento di questo governo. Colui che può decidere se l’esecutivo va avanti o se è bene che si fermi. Già martedì c’è stata la prova generale di questo suo nuovo ruolo quando Enrico Letta lo ha chiamato per avere il suo «via libera» alla nuova operazione con Alfano (provocando il risentimento dell’altro candidato alla segreteria, Gianni Cuperlo, che poi è stato ricevuto anche lui per «par condicio»).
Il «via libera» c’è stato e non poteva essere altrimenti: raccontano che quello che ci teneva di più era il vicepremier. «Enrico - ha detto a un amico il sindaco di Firenze - ha siglato questo patto generazionale con Lupi e Alfano per emarginare Berlusconi, ora vediamo che cosa succederà». Ma che cosa accadrà invece a lui, a Matteo Renzi, che cosa cambierà adesso che, come sottolinea con una punta di malizia il bersaniano D’Attorre, «Letta ha dimostrato che il sindaco fa l’antiberlusconismo a chiacchiere mentre lui lo fa con i fatti»? «Ora per me non cambia proprio niente - spiega il sindaco ai fedelissimi - per me quella alla segreteria è una sfida in cui mi impegnerò al 100 per cento. So che mi gioco tanto ed è quello il mio obiettivo». Però Renzi sa anche qualche altra cosa perché non gli sfuggono i movimenti di palazzo: «So che c’è chi tenta un’operazione neocentrista, so che si pensa a una legge proporzionale, ma quando sarò eletto alle primarie e avrò il mandato di milioni di elettori del centrosinistra porrò il problema come segretario del Pd: noi saremo per il bipolarismo senza se e senza ma, non vogliamo il ritorno all’antico e alla prima Repubblica, non vogliamo che un sistema elettorale che istituzionalizzi le larghe intese, e non ci sono ex democristiani che tengano».
E, incredibile ma vero, in questa battaglia Renzi ha dalla sua la «nemica» Rosy Bindi, la quale osserva: «Questa continua a essere una maggioranza anomala e io contrasterò ogni operazione neocentrista». Operazione, invece, a cui punta senza farne mistero Beppe Fioroni: «In questo modo asfaltiamo anche Renzi», sorride sornione. E aggiunge: «Il nostro campione sarà Letta e con lui saranno tutti gli ex democristiani di tutte le parti, magari troveremo anche un nostro candidato per il congresso». Ma il renziano Guerini gli fa pacatamente notare: «Guarda che in vista dei congressi locali tanti lettiani stanno già nelle nostre liste».
Il sindaco di Firenze, però, non sembra interessato a queste beghe e pensa già al futuro, come ha spiegato ad alcuni compagni di partito: «Io da segretario sosterrò lealmente il governo: l’ho già detto a Letta. Lo sosterrò ogni volta che farà delle cose utili al Paese, non perché deve andare avanti per dare il tempo ad Alfano, Lupi, Cicchitto di organizzarsi... Comunque se il governo dovesse durare fino al 2015 perché sta facendo bene, per me la situazione non muta, vuol dire che avrò più tempo per cambiare il partito e per renderlo più forte . Con Enrico ho un rapporto franco e questo è importante. Se lui fa bene è meglio per il Pd e per il Paese. Ma è normale che io come segretario avanzi le nostre proposte al governo. E poi lo solleciterò quando riterrò che debba fare di più, perché c’è bisogno di cambiamento e su quel fronte non c’è ancora il coraggio sufficiente».
1.   Parla e si muove già come il segretario del Pd, Matteo Renzi. Se ne è accorto anche Vendola che mercoledì è stato a pranzo con lui nella Capitale. Il succo del discorso tra il sindaco e il leader di Sel è stato questo: «Dobbiamo iniziare a lavorare insieme, anche attraverso forme di collaborazione tra i parlamentari, il fatto che siamo in posizioni diverse rispetto al governo non deve dividerci».
Un discorso che sembra dare ragione a chi scommette che alla fine anche tanti dirigenti ex Ds, preoccupati dell’intesa trasversale tra cattolici che sta nascendo al governo, si sposteranno su Renzi. Del resto, mercoledì, gli ex Ds erano gli unici a non avere l’aria troppo soddisfatta. Si sentono un po’ emarginati: «Al banco del governo - osserva Ugo Sposetti - c’erano solo Dc. E tanti di noi quando torneranno al collegio avranno il problema di dare spiegazioni ai loro elettori. Io per fortuna stasera torno a Roma e non a Viterbo...».

03 ottobre 2013
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Maria Teresa Meli

Da corriere.it
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« Risposta #18 inserito:: Ottobre 28, 2013, 10:17:50 am »

Renzi: "Voglia di proporzionale anche nel Pd"

Leopolda, Epifani: "E' forte, ma non c'è solo lui"

Renzi: "Voglia di proporzionale anche nel Pd"

Leopolda, Epifani: "E' forte, ma non c'è solo lui" (ansa)

Alla stazione fiorentina è il giorno degli interventi da quattro minuti. Grandi applausi all'intervento del finanziere Davide Serra: "Si garantiscono i vecchi a spese dei giovani". Applaudito anche il segretario del Pd

di SIMONA POLI E LAURA MONTANARI


FIRENZE - Non ci sono bandiere, non ci sono simboli che riportino al Pd. "Non è un'iniziativa del Pd, è un'iniziativa che parla anche ad altri mondi" dice Matteo Renzi sul web replicando a chi gli chiede come mai alla Leopolda non ci siano insegne di partito. Nella brochure distribuita in sala, a proposito dello stile, si sottolinea: "No loghi politici". Da qui nasce in giornata una polemica con Cuperlo, l'altro candidato alla segreteria del partito che da Trieste commenta: "Ce la immaginiamo la Fiorentina che acquista Messi dal Barcellona, fa la conferenza stampa per presentarlo ai tifosi e alla città e non c'è la foto del giocatore che tiene in mano la maglietta della Fiorentina con scritto Messi? Non potrebbe accadere". Non tarda la replica divertita di Renzi dal palco della Leopolda: "Tu mandaci Messi che una maglia poi si trova". Al di là delle battute e degli applausi che il sindaco fiorentino chiede per tutti i candidati alla segreteria, si percepisce che i nervi sono tesi. "Portiamo il desiderio di spalancare le finestre" dice Renzi.

Nell'ex stazione diventata la casa di questa convention è arrivato per la prima volta il segretario del Pd Guglielmo Epifani, Renzi lo accoglie: "E' una bella novità. Un anno fa c'era la contro manifestazione, stavolta c'è un clima diverso". Alle 13 il segretario sale sul palco: "In molti interventi è stata richiamata la necessità che i politici parlino dei problemi veri del paese e anch'io vorrei far lo di più mentre spesso mi trovo a parlare di cose che interessano poco. La situazione è drammatica, l'Italia si sta dividendo sempre di più tra chi non ha nulla e chi invece, per fortuna o per sue capacità, non ha perso quasi niente. E poi  c'è il dramma dei giovani che vanno all'estero, noi rischiamo di perdere le nostre migliori competenze". Parla di lavoro che non c'è e di giovani: "Questi ragazzi hanno il diritto di per scegliere se restare o no nel loro Paese, la mia generazione ha avuto quella opportunità e ognuno di noi si è realizzato come meglio ha voluto". Anche per Epifani quella Vespa sul palco della Leopolda è un simbolo: "Ricordo quando da ragazzo me la regalarono, dal giorno dopo mi sentii libero di andare dove volevo, senza dipendere da nessuno. Poi ho scoperto una libertà più grande, quella di decidere il proprio futuro e per me coincise con lo sbarco dell'uomo sulla luna...".

"Non abbiamo solo lui". Quando scende dal palco e parla con i giornalisti Epifani dice di Renzi: "Ha un consenso e un seguito, è una persona forte, uno di quelli con cui il Pd può candidarsi a uscire da questa situazione". Poi aggiunge: "Non abbiamo solo lui, ne abbiamo tanti e questa è la nostra forza". Dopo l'intervento Epifani è stato a colloquio con Renzi per circa dieci minuti e poi a pranzo con il sindaco di Firenze e con altri tre dell'entourage del sindaco. Da scommettere che al centro del loro colloquio oltre al congresso del Pd ci sarà stata la situazione del Pdl.

Leopolda secondo giorno. Il secondo giorno dei lavori alla Leopolda è quello degli intervneti liberi, tutti possono salire sul palco e proporre idee o progetti o dire la propria opinione in 4 minuti. Si avvicendano imprenditori, blogger, politici, commercianti, studenti. Intorno c'è il clima di una convention molto dinamica e televisiva nei tempi. Ci sono anche i tavoli con in vendita i gadget della Leopolda, t-shirt, copertine per smartphone, shoppers. Ci sono i video, le canzoni, i grandi poster col titolo dell'iniziativa "Diamo un nome al futuro" e c'è soprattutto la faccia di Renzi riprodotta all'infinito sugli schermi, il sindaco sta fisso sul palco con la camicia bianca aperta sul collo e il microfono vintage davanti alla bocca che amplifica la sue parole. Oggetti del passato sono anche la Vespa 125, la bicicletta di Bartali, le vecchie sedie da bar, la 500 parcheggiata fuori, la lavagna scolastica (in realtà elettronica), simboli che ricordano quello che di buono in Italia è stato fatto e che non va buttato via. Ma con lo sguardo puntato sul domani, come sempre ripete il sindaco rottamatore non pentito.
Il primo a prendere la parola nella mattinata è un blogger, poi una diciottenne, poi una giovane mamma, poi via via tutti gli altri.

Finanziamenti. "Nella serata di ieri sono stati raccolti cinquemila euro per il finanziamento della convention" spiega rispondendo a una domanda sul tema posta via twitter, e ribadendo che il finanziamento della manifestazione avviene mediante donazioni attraverso il sito web matteorenzi.it.

In sala arriva il finanziere Davide Serra che Renzi presenta come "il mio amico" difendendolo dagli attachi sulla vicenda Cayman: "E' stato accusato di essere un vampiro, invece è una persona molto perbene". Dice Serra: "Sono qui per parlare di meritocrazia, non di lobbismo, appartenenza o casta economica". E' convinto che "gli italiani possano vincere ma devono essere messi in condizione di farlo: chi vuole farli perdere, quella cricca di interessi privati e pochi di interessi politici, deve essere cambiata". Serra è diretto: "Negli ultimi 40 anni, l'Italia è riuscita a esprimere al vertice il peggio di quello che ha, e non riesco a capire perché. La classe che ha gestito gli ultimi 40 anni - ha spiegato il finanziere ricscuotendo molto applausi - è stata barbara, perché ha rubato alla mia generazione e a quella dei miei figli". Ha parlato di italiani di serie A e di serie B, questi ultimi sono quelli che in pensione "ci andranno a 70 anni, mentre gli altri si sono andati a 55": quindi, "si garantiscono i vecchi a spese dei giovani". Applausi.

Il giovane finanziere che vive a Londra ha attaccato in un passaggio: "Il board del Corriere della Sera è un'accozzaglia di perdenti" e critica la cacciata nel 2006 dell'allora amministratore delegato Vittorio Colao, che poi ha ottenuto risultati brillanti in Vodafone.

No proporzionale. Prima di Serra era salito sul palco, fra gli altri, il politologo, docente universitario, Roberto D'Alimonte per parlare di legge elettorale: "Una riforma elettorale che va bene a tutti i partiti? No, quello che serve è una riforma che va bene al Paese. Se dobbiamo fare una brutta legge allora meglio tornare a votare col Porcellum. So di dire una cosa molto impopolare, anche qui dentro, ma è quello che penso". E aggiunge: "Sono per l'abolizione pura e semplice del Senato, non il superamento del bicameralismo". Sostiene il sistema elettorale a doppio turno: "Il premio di maggioranza in due turni avvicina al modello dei sindaci". D'Alimonte si dice contrario a una riforma in senso proporzionale: "C'è tanta voglia di proporzionale dentro una parte del Pd, dentro una parte del Pdl, dentro una parte del Movimento 5 Stelle, per non parlare di Casini e soci" attacca il docente della Luiss. D'Alimonte spiega anche che l'argomento secondo cui la riforma deve andare bene a tutti è un alibi insidioso: "La riforma deve andare bene al Paese. Usare l'argomento secondo cui la riforma elettorale deve andare bene a tutti vuol dire mettere nelle mani del Pdl le chiavi della riforma. Il Pdl, anzi Forza Italia, non vuole né collegi uninominali né doppio turno: francamente mi sembrano due veti eccessivi per un partito solo. Se accettiamo i due veti di Forza Italia l'unica soluzione diventa il proporzionale, e oggi in queste condizioni il proporzionale sarebbe un disastro per il Paese". Concorda Renzi che chiosa: "C'è voglia di proporzionale, ma la faremo passare perchè bisogna sapere chi governa, servono le garanzie".

Poi tocca agli imprenditori, parla Brunello Cucinelli che cita Socrate e D'Agostino: "Per essere credibili dobbiamo essere veri" dice. Subito dopo sale sul palco Andrea Guerra, ad di Luxottica: "Viviamo un grande cambiamento. Tre miliardi di nuovi consumatori". Aggiunge: "Trasformiamo il pane in eccellenza, questo è quello che possiamo e dobbiamo fare. Stiamo vivendo una rivoluzione industriale clamorosa, nessun paradigma tecnologico che valeva nel '90 che vale ancora oggi" assicura e spiega che bisogna affrontare le sfide in modo nuovo: "C'è bisogno di un lavoro diverso, chiediamo ai nostri operai straordinari, turni diversi perchè è il lavoro è così".

I giovani. Fra i numerosi interventi anche quello di uno studente diciassettenne: camicia bianca come Renzi, iPad in mano. Marco Pierini, 17 anni era intervenuto anche lo scorso anno: "Siamo qui per prenderci il partito per scardinare il sistema. Farlo sarebbe un terremoto, sarebbe la vera rivoluzione". Si succedono per tutto il giorno gli interventi, al microfono un'insegnante di un'area difficile del sud, poi Frnacesca Vecchioni, figlia del cantautore Roberto che parla della sua famiglia fatta da due mamme con due figlie: "Dobbiamo fare in modo che lo Stato non alimenti i pregiudizi. I diritti sono tali se sono di tutti, sennò si chiamano privilegi".

Chi c'è. Da Giorgio Gori, a Guido Ferradini, da Francesco Clementi a Roberto Reggi, ci sono tutti i renziani della prima ora, ma anche tante new entry: da Marianna Madia, ex Veltroniana di ferro, l'ex mariniana Paola Concia, il governatore della liguria Claudio Burlando, i franceschiniani ettore rosato, piero martino e francesco savero garofani e Antonello Giacomelli. Ci sono anche due su tre componenti del gruppo 'Lothar', il think thank di Massimo D'Alema all'epoca di Palazzo Chigi, e cioè l'ex bersaniano Nicola Latorre e l'imprenditore Claudio Velardi. Su twitter si affollano i dubbi e i sospetti, ma il sindaco fiorentino zittisce tutti: dicendo che bisogna vincere la sindrome degli "happy few" che è stata un tratto distintivo di certa sinistra: "Sul carro non si sale, si spinge". Stasera chiuderà gli interventi Oscar Farinetti (Eataly). Domani i lavori riprendono alle 10 con l'intervento dei due ministri presenti, Graziano Delrio (Affari regionali) e Dario Franceschini (Rapporti col Parlamento), poi lo scrittore Alessandro Baricco e quindi intorno a mezzogiorno la chiusura di Matteo Renzi.

http://firenze.repubblica.it/cronaca/2013/10/26/news/renzi_non_ci_sono_bandiere_pd_parliamo_anche_ad_altri_mondi-69480613/?ref=HRER2-1
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« Risposta #19 inserito:: Novembre 03, 2013, 06:54:56 pm »

Politica
30/10/2013 - il caso

Renzi: “La responsabilità delle toghe non è più un tabù, subito la riforma”
Il sindaco di Firenze accelera: «Ma nessun pasticcio all’italiana»

«Negli ultimi vent’anni è stato impossibile anche discutere soltanto della responsabilità civile dei magistrati perchè aveva un retrogusto di ritorsione. Terminata l’era berlusconiana, è giunta l’ora di una radicale riforma della giustizia che disciplini la responsabilità civile dei magistrati nel rispetto degli standard europei». Lo dice Matteo Renzi nel colloquio avuto con Bruno Vespa per il libro «Sale, zucchero e caffè. L’Italia che ho vissuto da nonna Aida alla Terza Repubblica».

E la riforma della giustizia, secondo Renzi, non deve essere «un pasticcio all’italiana ma una cosa seria che rappresenti la garanzia migliore per il magistrato serio». 

«Abbiamo affrontato per primi questo tema nella Leopolda del 2011, in tempi non sospetti. Ma naturalmente - ha concluso il Sindaco di Firenze candidato alla segreteria del Pd la priorità assoluta è il funzionamento della giustizia». 

Da - http://lastampa.it/2013/10/30/italia/politica/renzi-la-responsabilit-delle-toghe-non-pi-un-tab-subito-la-riforma-8UTBiUYs0bNw9ocGgj20KJ/pagina.html
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« Risposta #20 inserito:: Dicembre 11, 2013, 10:41:51 am »

Primarie 2013 PD
09/12/2013 - colloquio

Renzi: “Decisivi i primi due mesi Voglio lasciare subito il segno”

Il nuovo segretario e la gestione del Pd: sbagliata la logica dei contrappesi

E sul governo: dopo la sentenza della Corte non è più forte, stia in campana


Un trionfo e persino i suoi avversari lo riconoscono. Matteo Renzi è stato incoronato segretario del Pd con quasi il 68% dei voti. E non è solo la percentuale, sotto il 75,8% di Walter Veltroni nel 2007 e sopra il 53,2% di Pier Luigi Bersani del 2009, ma anche l’affluenza a decretare una vittoria senza ombre: al voto sono andate 2,8 milioni di persone

Dice «lo so che l’inizio è decisivo. Ho due mesi per imporre un segno, far capire che non scherzavamo e vedere - soprattutto - se riusciamo a fare questa benedetta legge elettorale». È mezzogiorno in punto, Matteo Renzi è ancora un segretario in divenire e dunque può starsene per conto suo. 

Le mani in tasca e le scarpe coi lacci gialli, è con la moglie Agnese a guardare i figli (Francesco ed Emanuele) giocare a pallone su un campetto di periferia. È il suo ultimo giorno da non-segretario: e forse, per i cronisti, l’ultima occasione per sentirlo parlare con la solita spavalda guasconeria.

Un occhio al campo e un altro, come sempre, al telefonino. Messaggini su messaggini. «Sono la vera scocciatura di queste primarie - dice -. Ma molti amici mi avvertono che ci sono file ai seggi e difficoltà a votare. Alla fine andrà bene, ma questa scelta di non favorire l’affluenza per indebolire il nuovo segretario - lamenta - non la capisco affatto. Così come non capisco Epifani, che ora vuole contrappesi per bilanciare il potere del leader scelto con le primarie. Così si indebolisce il Pd, non me: e onestamente, non mi pare un buon affare».

In questa indimenticabile giornata di sole freddo, anche lui - il sindaco - ha fatto la fila per votare: ore 9,30, strette di mano, saluti e un quarto d’ora d’attesa al seggio affollatissimo di Piazza de’ Ciompi. «Un buon segno», dice: ma non vede l’ora di liquidare telecamere e cronisti. Lo fermano e lo contestano un paio di studenti: dà loro appuntamento per il 16 dicembre, giorno nel quale chissà in cosa e dove sarà indaffarato... Eleganti signore, invece, lo baciano: «È un pischello, ma è bravo». Renzi sorride, ma si dilegua rapidamente.

Se il giovane post-democristiano eletto ieri segretario del maggior partito italiano non cambierà pelle, stile e idee, se ne potrebbero vedere delle belle: basta ascoltare cosa gli pare di quel che accade a Roma, e cosa intende fare. Per esempio: «Dicono tutti che la sentenza della Corte Costituzionale rafforza il governo: io non ne sono così sicuro. Finché c’era il Porcellum, infatti, potevano prender tempo e far finta che al lavoro c’era Quagliariello, uno che la legge elettorale non la farà mai: ora, invece, da Forza Italia alla Lega e da Sel a Grillo, tutti dicono che bisogna intervenire. Ma quando si fa una legge elettorale, poi in genere si va a votare: il governo stia in campana, insomma. E non s’impicci della materia: se proprio vogliono fare un decreto, lo facciano per creare lavoro. In fondo, sono lì per questo».

Il governo, già. E il difficile rapporto con Enrico Letta. A partire da oggi, con lui segretario a Roma, sarà questo il problema dei problemi. Renzi dice di non esser prevenuto, anzi: «Io patti con Enrico non ne ho. Magari li faremo, ma per ora non ne ho. E le dico di più: avrei fatto un accordo per andare anche oltre il 2015, ma non capisco lui che vuol fare, cosa ha in testa e fin dove vuole arrivare: e se non capisco, mi spiace, io patti non ne faccio». I due si parleranno ancora: e ci mancherebbe. Cercheranno un’intesa, certo. Ma quando accadrà, qualcosa di evidente sarà cambiato: di fronte al premier, infatti, non siederà più un giovane sindaco, ma il segretario del suo partito...

Che è la vera preoccupazione - il Pd, intendiamo - che pare avere Renzi mentre controlla il cellulare e tifa per la squadra dei due figli. «È vero che è strano che leader del peso di Epifani, Prodi, Letta e Rosy Bindi non dicano a chi è andato il loro voto. Ma io azzardo: Enrico e Guglielmo per Cuperlo, Romano per Civati e Rosy proprio non saprei. Ma ora, francamente, ho altro per la testa: la segreteria da scegliere tra stanotte e domani, un gruppo dirigente con tante donne come prima mai. E poi, c’è da scegliere il presidente dell’Assemblea...».

Per quella carica circola con insistenza il nome di Fassino. «Credo gli piacerebbe - dice Renzi -, ma è un’idea più sua che mia». E chi allora? «Reichlin, per esempio. Come sarebbe accolto?». Magari è uno scherzo, non capiamo: ma certo scriveremmo che Renzi ha già fatto pace con D’Alema... «Il punto è che deve esser rappresentata al vertice la sinistra. Però, certo, potrei anche rappresentarla con Scalfarotto... Vediamo». Sarà un problema, forse. Come un altro problema - di sicuro più serio - potrebbe esser la maggioranza saldatasi intorno a lui. Veltroni, Franceschini, Fassino... non proprio renziani doc. E se lo abbandonassero al primo tornante?

«Sono pochi», dice. Ma ha chiaro che la questione non la può chiudere così: «Non credo che prenderanno le distanze - aggiunge - o che tradiranno, come usate dire voi. Abbiamo fatto tutti assieme una battaglia su un programma netto e chiaro: ora si realizza quel programma, e sarebbe suicida - per loro, intendo - dire a un certo punto che ci hanno ripensato». Del Grande Nemico, invece - di Massimo D’Alema, insomma - non vuol parlare. Sarà candidato capolista alle europee? «Non rispondo. Sicuro. Nemmeno col coltello alla gola».

La squadra di Francesco ed Emanuele finalmente segna. Poi ci sarà Roma-Fiorentina, un pranzo in famiglia, il rito dell’illuminazione dell’albero di Natale al Duomo e poi di filato verso i risultati delle primarie. Ma quelle elezioni - le europee - meritano ancora qualche parola. «Tra populismi, antieuropeismi, proporzionale e voti in libera uscita, sarà un test rischioso per il Pd. Io non mi candiderò perché quel giorno, il 25 maggio - che forse è anche l’ultima data utile per le elezioni anticipate - si vota per il sindaco di Firenze e di altre città. Andassero male le europee, commenterò il voto amministrativo, che è importante: forse perfino più importante...».

Ore 17: hanno già votato quasi due milioni di persone. Il terrore del flop tramonta, Renzi sorride e comincia a pensare al discorso da fare: l’affluenza è grande e la vittoria larga, proprio come lui sperava. Lentamente il sindaco trasfigura in segretario: e non è azzardato, adesso, immaginare che un’epoca declini e un’altra - indecifrabile e imprevedibile - stia per cominciare.

Era giusto un anno fa (Renzi lo ricorda bene) e ancora oggi è difficile dire se fosse più un avvertimento o una premonizione. «Abbiamo provato a cambiare la politica, non ce l’abbiamo fatta: adesso sarà meraviglioso dimostrare che la politica non riuscirà a cambiare noi. Abbiamo dalla nostra tre cose: l’entusiasmo, il tempo e la libertà...». Era il 2 dicembre, Matteo Renzi annunciava così davanti ai volontari in lacrime la sconfitta nella Grande Guerra con Bersani, e ora si può dire che il tempo della prova finalmente è arrivato: ora può dimostrare che quel che ha promesso manterrà, che l’ambizione non muta, che «la politica» - insomma - non ha cambiato né lui né le idee e nemmeno chi gli sta intorno...

Intendiamoci: può anche essere che Renzi sia un furbacchione. Un populista democratico. O addirittura un demagogo mascherato (e secondo alcuni, nemmeno tanto mascherato). Mettiamo pure che sia così (e del resto come escluderlo, prima che cominci il suo lavoro?). Ma se ha vinto prima nei circoli e poi con le primarie, e se tutti i sondaggi continuano a darlo in cima a qualunque test di fiducia e popolarità, vuol dire che - dopo gli iscritti - anche gli elettori del Pd considerano questo rischio più accettabile dell’alternativa: cioè, andare avanti più o meno come prima. Questo 8 dicembre, insomma, lascia un segno. Accende una speranza. Che sia poi bene o mal riposta, solo il tempo lo dirà...

Da -  http://lastampa.it/2013/12/09/italia/speciali/primarie/2013/pd/renzi-decisivi-i-primi-due-mesi-voglio-lasciare-subito-il-segno-dyj8lqm6PKcmnhVCxVSWXL/pagina.html
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« Risposta #21 inserito:: Dicembre 11, 2013, 06:33:46 pm »

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Scheda, dalla Mozione ai fatti.

La sfida economica di Renzi

di RAFFAELE RICCIARDI


MILANO - La lotta all'evasione fiscale per abbassare la pressione fiscale, la dismissione del patrimonio pubblico per abbattere il debito. Sono i cardini della politica economica di Matteo Renzi, per come emerge dalla sua mozione presentata in occasione del Congresso del Pd a sostegno della sua candidatura. Un documento agile con molte dichiarazioni d'intenti, che necessitano ulteriori sviluppi per assumere connotati concreti. Ma non mancano indicazioni precise, quando ad esempio si parla di stop all'incentivazione a pioggia di settori industriali in cambio di un cuneo fiscale meno pressante. Ecco di seguito gli argomenti estrapolati dal testo:

Austerity. Uno dei passaggi più articolati della mozione di Renzi (la più snella tra quelle dei candidati segretari) in tema economico è dedicato al tetto al 3% del rapporto tra deficit e Pil. Renzi inizia quel paragrafo spiegando che "superare l'austerity come religione e i conti come fine è il primo passo per costruire una Europa politica che sappia scegliere e non solo amministrare"; d'altra parte "le politiche di euro-austerity hanno dimostrato il fiato corto e si sono rivelate inidonee e a rilanciare la ripresa". Il dettame di rigore fissato con il trattato di Maastricht è definito un "parametro anacronistico", che deriva da presupposti percorribili nel 1992: stabilizzare il debito
al 60% del Pil, media dell'epoca, e crescita economica al 3%. Ora non lo sono più. A ciò si aggiunge il fatto che il parametro del 3% "soffre problemi di credibilità: quando nel 2003 l'hanno violato Francia e Germania, si è preferito sospendere il Patto di Stabilità piuttosto che applicare la sanzione". Fatta la diagnosi, se ne indica la via di cura che pare però di difficile attuazione, vista la fermezza sul tema che emerge da Bruxelles; per Renzi serve "disegnare un nuovo e credibile sistema di vincoli che sia al passo coi tempi, che permetta di risanare i bilanci realisticamente (senza uccidere il malato) e che possa essere rispettato da tutti. Se iniziamo a cambiare verso all'Italia, poi abbiamo le carte in regole per chiedere che cambi verso l'Europa".

Lavoro. Nel documento per il Congresso, Renzi riconosce al tema la stessa centralità attribuitagli in passato dal Partito Democratico. Ma aggiunge: "Ne parliamo tanto, ma dobbiamo fare di più. Perché il lavoro è considerato un'emergenza solo a parole". Il cambiamento proposto dalla cabina di regia dei Democratici comincia dalla base del processo di ricerca occupazionale: dai centri per l'impiego. "Qualcosa vorrà pur dire se i centri per l'impiego in Italia danno lavoro a 3 utenti su 100 contro quelli svedesi che arrivano a 41 su 100 o quelli inglesi che raggiungono la cifra di 33 su 100". In seconda battuta, Renzi propone la "rivoluzione nel sistema della formazione professionale, che troppo spesso risolve più i bisogni dei formatori che di chi cerca lavoro", e include anche le amministrazioni locali tra coloro che hanno gestito male la formazione.

La richiesta di semplificazione che permea l'intera mozione attraversa anche il tema del lavoro: "Dobbiamo semplificare le regole del gioco: sono troppe duemila norme, con dodici riviste di diritto del lavoro, con un numero di sindacati e sindacalisti che non ha eguali in nessun paese occidentale". Si preparino a una cura dimagrante, dunque, i sindacati. Questi ultimi, insieme alle organizzazioni datoriali, sono chiamate a un passo di trasparenza, altro tema ricorrente nel testo: "Debbono essere chiamate a una precisa rendicontazione dei vari contributi che ricevono le aziende socie". Annesso a questo tema, si scorge un programma più articolato quando Renzi dice che devono "diminuire i contributi a pioggia che ricevono alcune aziende per abbassare le tasse a tutte le aziende". Di fatto, stop all'incentivazione di alcuni settori da parte dello Stato e - con le risorse risparmiate - un intervento sul cuneo fiscale.

Sempre a sgravi fiscali - ma legati alle assunzioni - si fa riferimento, quando si rimanda a un più complessivo "piano per il lavoro da presentare al Paese prima del prossimo Primo Maggio per raccontare che idee abbiamo noi del lavoro, dalla possibilità di assunzioni a tempo indeterminato per i giovani con sgravio fiscale nelle aziende per i primi tre anni fino all'investimento necessario per chi si trova senza lavoro all'improvviso a cinquant'anni". Ancora nel paragrafo sul lavoro rientrano altre visioni di politica industriale. "Attenzione ai nuovi settori: Internet ha creato 700.000 posti di lavoro negli ultimi 15 anni, ma sembra ancora un settore riservato agli addetti ai lavori", ammonisce Renzi, pronto forse a una primavera digitale tutta italiana.

Tasse. Il bacino della lotta all'evasione è indicato come grimaldello per cancellare l'immagine del Pd come "Partito delle tasse. Non dobbiamo più consentire a nessuno di definirci il partito delle tasse. Perché non lo siamo", rivendica Renzi. "E perché chi lo dice in questi anni non ha ridotto la pressione fiscale", aggiunge. L'innovazione dovrebbe riguardare anche le Entrate, mentre suonano chiare le parole sul tema dell'uso del contante: servono "strumenti veri per combattere l'evasione fiscale, aiutare le aziende rendendo l'Agenzia delle Entrate, non il nemico ma il partner, che prova ad aiutarti prima che a sanzionare, investire sulle fatturazioni digitali ma anche sul pagamento oltre il contante che ancora rappresenta una nicchia di mercato troppo piccola, anche per l'eccessivo costo imposto dal sistema bancario".

Dismissioni. Se il recupero dall'evasione serve per ridurre il cuneo fiscale, "tutto ciò che otterremo dalla dismissione di patrimonio dovrà essere utilizzato soltanto per ridurre il debito, non producendo ulteriore spesa". Pronti dunque ad accelerare con la vendita dell'argenteria di Stato. Uno Stato che, di contro, deve modificare il suo approccio al mercato. "Il Pd non sarà mai subalterno al mercato, che deve regolare. Ma proprio per questo la politica non può interferire con operazioni economiche e finanziarie che devono essere garantite da leggi chiare e non modificabili in corso d'opera". Pensiero chiaro e non tanto in sintonia con il senatore Massimo Mucchetti in relazione alla vicenda Telecom, la società di telefonia in procinto di passare agli spagnoli di Telefonica: per mantenerne l'italianità, il governo sta ora cambiando le regole sull'offerta pubblica di acquisto. "Proprio perché non siamo subalterni non ci interessano le avventure dei capitani coraggiosi o dei patrioti che nel corso dell'ultimo ventennio hanno alimentato un modello di capitalismo all'italiana più basato sulle relazioni che sui capitali", l'aggiunta. Quanto al problema del credito, Renzi chiede "poche regole chiare" per le banche "per consentire ai players dell'economia di giocare a carte scoperte, tutti con le stesse opportunità".

Burocrazia e Fisco. In cima all'agenda del cambiamento, dopo una riflessione sui numeri dell'Italia che "è ferma da vent'anni", va il tema della "semplicità". "L'Italia deve riscoprire la semplicità", dice Renzi. "Ovunque. In un sistema fiscale incomprensibile persino per gli addetti ai lavori", in primo luogo, oltre che nel campo amministrativo e della Giustizia. "La rivoluzione digitale e l'accessibilità alla rete possono essere una parte della soluzione, solo a condizione di modificare la mentalità dei dirigenti pubblici. Mettere online tutte le spese dello Stato e di tutte le amministrazioni locali consente un controllo costante dell'opinione pubblica. Per essere credibili, però, dobbiamo iniziare da noi stessi. Dai nostri comuni, dalle nostre amministrazioni", si legge ancora nel documento. Come detto in molte occasioni, Renzi punta molto sull'attrazione degli imprenditori stranieri, ora frenati "perché oggi la confusione normativa, burocratica, fiscale e i ritardi biblici della giustizia costituiscono il primo ostacolo a investimenti stranieri e quindi alla creazione di nuovi posti di lavoro". Si preparino ad andare in soffitta, dunque, le crociate in difesa dell'italianità che a fasi alterne sono state condotte anche dal Pd. "In un mondo globale, il problema non è se l'imprenditore è italiano o straniero, ma se crea valore alle aziende oppure no, se crea posti di lavoro oppure no. L'italianità da difendere non è il passaporto dell'azionista, ma la qualità dei prodotti, l'investimento e l'occupazione".

(10 dicembre 2013) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/economia/2013/12/10/news/dalla_mozione_ai_fatti_la_sfida_economica_di_renzi-73224921/?ref=HREC1-21
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« Risposta #22 inserito:: Dicembre 16, 2013, 04:50:23 pm »

Politica
16/12/2013 - personaggio

Un uomo solo al comando Matteo ritorna al primo Pd
Il segretario non concorda i discorsi e né annuncia i cambi di linea

Porta sul volto l’emozione del grande evento e per 6 ore non lascia mai la sala proprio come un segretario che si rispetti. Ma Matteo Renzi, nel giorno dell’incoronazione da leader, chiarisce, già dalla colonna sonora dei Negrita, che la nuova generazione, ora alla tolda di comando, resterà «ribelle» per cambiare l’Italia.

L’uomo solo al comando, per dirla alla maniera in cui l’ha detto per mesi Pier Luigi Bersani, ha tagliato ieri il suo traguardo e il Pd - in maniera plasticamente evidente - è già diventato una cosa diversa da quel che era. La metamorfosi, cominciata col trionfo di Matteo Renzi alle primarie (8 dicembre), ha compiuto il suo corso in sette giorni, e si è completata nei grandi spazi della struttura di cemento e ferro della Fiera di Milano. E così, dalla crisalide di un Partito democratico e in divenire, è venuto fuori un organismo sconosciuto ai vecchi dirigenti e ai militanti: una cosa che somiglia assai da vicino a quel che loro stessi definivano, sprezzantemente, un «partito personale».

Nulla a che vedere, naturalmente, con i prototipi classici di cui si è detto e scritto tanto: la prima Forza Italia di Berlusconi (la prima, ma anche quest’ultima riedizione), l’Italia dei Valori di Di Pietro, i partiti di Casini, di Monti e Beppe Grillo. A differenza degli esempi citati, infatti, Matteo Renzi non è né il fondatore né il «padrone» del Pd: ma per formazione, cultura ed età, pare deciso a dirigerlo proprio come ne fosse il «padrone» oppure il fondatore...

E’ una novità travolgente per gli eredi di partiti (la Dc e il Pci) che furono - volutamente - sempre e precisamente il contrario di un «partito personale»: e i rischi di rigetto, dunque, sono solidissimi, concreti e (forse) attuali. Ma se leader indiscussi come D’Alema e Marini, oppure Bersani, Bindi e Veltroni, hanno combattuto la metamorfosi ma deciso - alla fine - di non strappare (di non scindersi, cioè) vuol dire che anche a loro, in fondo, è diventato chiaro che il tempo è inesorabilmente mutato: e che partiti senza una leadership visibile e forte sono destinati - in Italia come già in Europa - al declino ed alla progressiva marginalizzazione.

E’ questo quel che si percepiva ieri, con inedita nettezza, nel giorno del primo discorso di Renzi da segretario proclamato. Nei corridoi e nelle grandi sale della Fiera, infatti, non uno - nemmeno tra i «fedelissimi» del neo-segretario - aveva idea di cosa potesse riservare la giornata. Cosa dirà Renzi? Attaccherà più Grillo oppure Enrico Letta? Ipotesi, tentativi, pareri un po’ azzardati: nessuno sapeva. E c’è qualche nome a sorpresa tra i «magnifici venti» che il neo-segretario aggiungerà di suo ai 120 della Direzione? Braccia larghe e sorrisi di maniera: nessuno sapeva.

 

E’ un po’ quel che accade alla vigilia di ogni discorso di Berlusconi o quando si prova a ipotizzare lo sberleffo prossimo venturo del leader dei Cinque Stelle. Le differenze sono tante, naturalmente: ma non, diciamo così, lo stile di direzione. Questione - forse - di formazione, di cultura e di età. Ma questione anche di efficacia e forse di sopravvivenza: «Molti di quelli che mi hanno votato - ha spiegato Renzi nel suo primo discorso da segretario - l’hanno fatto pensando: “Proviamo anche questo, ma poi basta”. Io sono il destinatario, insomma, di un ultimo appello...».

C’è naturalmente una profonda differenza tra un mero «partito personale» (dizione qui usata per comodità) ed un partito dotato di una leadership credibile e autorevole. Secondo molti, per esempio, proprio il Pd - per la genesi, le ambizioni originarie e la dichiarata vocazione maggioritaria - non avrebbe potuto che esser caratterizzato da una leadership visibile, indiscussa e straordinariamente forte. Fu in qualche modo così (dunque inevitabilmente così) nei primi tempi dell’era Veltroni: e non pochi osservatori spiegano la crisi del Pd proprio con il venir meno di quella leadership ed il riemergere di correnti, gruppi e perfino dei fantasmi di Ds e Margherita.

Con Renzi, insomma, si torna in qualche modo alle origini: uno guida, gli altri a spingere il carro. E chi guida, ha massima autonomia: non concorda i suoi discorsi, non annuncia i cambi di linea, non spiega promozioni, bocciature e inversioni di percorso. E nemmeno avvisa, naturalmente, se ritiene sia venuto il momento di buttar giù il governo. Ieri, alla fine del discorso di Renzi - severo e ultimativo con l’esecutivo - Rosy Bindi ha mandato un messaggino a Enrico Letta: «Ti senti rassicurato?» «Tu che dici?», le ha risposto il premier. «Se vuoi ne parliamo»... Ci sarà tanto di cui parlare, questo è certo: ma con un Pd che, tra avvertimenti, sfide e diktat non concordati, ha riguadagnato il centro del ring. Ancora due mesi fa non ci avrebbe scommesso nessuno.

DA - http://lastampa.it/2013/12/16/italia/politica/un-uomo-solo-al-comando-matteo-ritorna-al-primo-pd-5bKFlH5z92LUzz1gI06ZQI/pagina.html
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« Risposta #23 inserito:: Dicembre 18, 2013, 06:14:11 pm »

Matteo Renzi, il segretario Pd non teme l'arma letale di Napolitano.
E sulla legge elettorale apre a Berlusconi


Pubblicato: 17/12/2013 20:58 CET  |  Aggiornato: 17/12/2013 21:10 CET

Eccola, la prima pistola di Renzi. Quella legata al tempo: “Basta scherzi. Il Pd ha portato la legge elettorale dal Senato alla Camera, segno che le cose si vogliono fare. Entro gennaio la commissione deve licenziare un testo”. Ed ecco la seconda pistola. Quella che porta dritti al confronto con Silvio Berlusconi: “Pronti a discutere nel merito con gli alleati di governo un patto di coalizione ma le riforme costituzionali e la legge elettorale si fanno con tutti”. O meglio: “con chi ci sta”.

È nel corso della diretta twitter #matteorisponde che Renzi dichiara la sua "allergia" ai "buffet istituzionali" e fa capire che la nuova stagione inaugurata col plebiscito alle primarie non può essere chiusa dal cronoprogramma di Napolitano e palazzo Chigi. Nemmeno di fronte all’evocazione dell’arma letale, ovvero le dimissioni del capo dello Stato in caso di crisi di governo. È una trattativa - una sfida - che il sindaco-segretario ha intenzione di gestire con la doppia pistola su tavolo. Perché se c’è un punto non negoziabile è la scadenza del 31 gennaio per licenziare un testo di legge elettorale che blindi bipolarismo e governabilità.

Fine gennaio: è la data più ansiogena per i governisti. Per Alfano che ha chiesto un anno di tempo per organizzare il suo movimento che nei sondaggi non supera il quattro per cento. Ma anche per Letta consapevole che, con una legge elettorale approvata, il governo si deve conquistare una difficile sopravvivenza giorno dopo giorno. Ed è nelle mani di Renzi. Ecco perché la “best option” per il governo è arrivare alla legge elettorale con qualche riforma istituzionale approvata.

E non è affatto un caso che l’accelerata renziana arrivi contemporaneamente alla verifica della possibilità che l’election day tra politiche ed europee è ancora possibile. È scritto nero su bianco su un documento prodotto dagli sherpa del sindaco-segretario e pubblicato dal Foglio: in sostanza, sciogliendo le Camere entro la metà di marzo è possibile andare alle urne. Di qui a dire che Renzi ci punta come primo obiettivo ce ne passa, ma è chiaro che le date, in questo caso, sono sostanza nella trattativa. Lo scenario che ha in mente Matteo è quello di una legge elettorale approvata prima delle riforme (e prima che si chiuda la finestra per andare a votare). A quel punto, riequilibrati i rapporti di forza, il governo diventa il terreno della sua rincorsa a palazzo Chigi (nel 2015). Oppure, cade ma a quel punto per colpa di Alfano o di chi non ci sta.

Ed è per questa operazione – gennaio, non oltre - che Renzi è pronto ad usare la seconda pistola. Che significa confronto con Silvio Berlusconi, sia pur al momento opportuno e senza conferire ad esso quell’enfasi che ci mise Veltroni nella sua “nuova stagione”. E cioè senza “legittimare Berlusconi”. Perché tra i due, Renzi e Berlusconi, c’è un interesse “oggettivo” su una riforma iper-maggioritaria. Attenzione, perché quando si parla di modelli il diavolo è nei dettagli. E allora andiamo alla ricerca del diavolo. Nella sua diretta twitter Renzi ha spiegato che è pronto a confrontarsi su due modelli: il sindaco d’Italia e il Mattarellum (corretto in modo maggioritario). Epperò c’è un non detto, su cui sono al lavoro gli sherpa del sindaco. Il sindaco d’Italia ha una maggioranza oggi, perché Alfano ci sta. E coincide con quella che regge il governo. Ma rischia di non darla domani, nel senso che Renzi è il primo a sapere che funziona a Firenze dove il sindaco ha potere di sciogliere il consiglio comunale, ma in Italia è diverso. Senza riforme costituzionali rischia di favorire la frammentazione e l’ingovernabilità. Non è un caso che piace ad Alfano.

 La prima di Matteo Renzi al Quirinale per gli auguri di Natale: via prima del buffet senza salutare Napolitano. E con l'abito sbagliato... <a href="http://www.huffingtonpost.it/2013/12/16/matteo-renzi-quirinale-via-senza-salutare-napolitano_n_4454286.html" target="_blank">Leggi qui</a>

Il sospetto nelle segrete stanze renziane è che “Angelino voglia fare melina” su questo modello dicendo che ci sta, ma che bisogna prima fare le riforme costituzionali. E allora addio gennaio e tempi lunghi. Per questo è iniziata la strategia dell’attenzione a Berlusconi, coperta e prudente evitando che sia bruciata in nome del “mai patti col Condannato”. Epperò è proprio col Cavaliere che Renzi si sente sicuro di poter portare a casa il Mattarellum riveduto e corretto. Che ammazza Alfano ma garantisce governabilità. Nel centrosinistra piace a Pd, a Sel e Scelta civica. Nel centrodestra a Forza Italia e Lega. Sulla carta è quello che ha una maggioranza parlamentare più ampia. Se non fosse che non piace al governo, visto che costringerebbe Alfano ad andare a elemosinare i seggi ad Arcore.

E allora, eccola la road map di Renzi. Parlare con tutti, ma scoprire le carte a gennaio. Quando sarà “evidente” che Alfano&Co stanno “facendo melina” trasformerà il confronto in un blitz. La presentazione del libro di Bruno Vespa, mercoledì, sarà l’occasione scambiare qualche parola in privato con Alfano. Ma i contatti sono avviati in tutte le direzioni. Non è un caso che il Mattinale parlava di un’intesa Renzi-Forza Italia sul Mattarellum. Ma al momento opportuno la proposta non sarà diretta “a Berlusconi” ma “a tutti”. Se poi il Cavaliere la raccoglie bisognerà farsene una ragione.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2013/12/17/renzi-napolitano-berlusconi_n_4461073.html?1387310327&utm_hp_ref=italy
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« Risposta #24 inserito:: Dicembre 18, 2013, 06:18:45 pm »

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Web tax, Renzi a Letta: “Va eliminata”.

De Benedetti: “Sindaco mal consigliato”

Il segretario del Pd chiede di cancellare l'emendamento che farebbe aprire la partita Iva a Google e Amazon. Non è d'accordo il presidente del gruppo editoriale L’Espresso: "Dire 'risolviamo il problema in Europa' è come buttare la palla in tribuna"

di Redazione Il Fatto Quotidiano | 17 dicembre 2013

“Chiediamo al presidente del Consiglio Enrico Letta e alla maggioranza di eliminare ogni riferimento alla web tax e porre il tema dopo una riflessione sistematica nel semestre europeo”. E’ sempre più esplicita la posizione di Matteo Renzi contro la tassa, inserita nei giorni scorsi all’interno della legge di Stabilità, che obbligherà i giganti del web, da Google ad Amazon, ad aprire la partita Iva per pagare il fisco italiano. “La web tax è un errore per mille motivi”, ha aggiunto, sottolineando che “è giusto evitare l’elusione delle grandi piattaforme informatiche, ma non si rivolve così”.

Il segretario del Pd non si è quindi fatto condizionare dalle parole di Carlo De Benedetti, presidente del gruppo editoriale L’Espresso, che ha dichiarato: “Io penso che Renzi sulla web tax sia stato mal consigliato”. E ha aggiunto: “Rinviare il problema e dire ‘risolviamolo in Europa’ mi sembra un po’ buttare la palla in tribuna”. L’ingegnere si è detto favorevole alla web tax perché “così come le paghiamo tutti le imposte, non si capisce perché non le paghi Google, piuttosto che Facebook, piuttosto che Amazon”.

Il sindaco di Firenze aveva criticato la web tax, tanto voluta dal renziano Edoardo Fanucci, per la prima volta all’assemblea nazionale del partito domenica scorsa, dichiarando che nel digitale “siamo passati dalla nuvola digitale alla nuvola nera di Fantozzi“ e che i temi “della web tax vanno posti in Europa” altrimenti “rischiamo di dare l’immagine di un Paese che rifiuta l’innovazione”. Dichiarazioni, quelle del segretario Pd, criticate duramente dal presidente Pd della Commissione Bilancio della Camera, Francesco Boccia, che si era detto “semplicemente esterrefatto nel riscontrare la quantità di dichiarazioni fuori luogo”.

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/12/17/web-tax-renzi-a-letta-va-eliminata-de-benedetti-e-stato-mal-consigliato/817390/
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« Risposta #25 inserito:: Gennaio 16, 2014, 04:51:35 pm »

Politica
15/01/2014 - La Lettera

“Tutti hanno il diritto di giudicare la riforma del mercato del lavoro”
“Le mie proposte concrete”
“Con il JobsAct ho sottratto la discussione ai soli addetti ali lavori”
“Difficile che la causa delle occasioni perdute sia chi non c’era”

Renzi: stile diverso tra Idem e De Girolamo


Matteo Renzi*


Caro Direttore,

sono un affezionato lettore di Luca Ricolfi e un appassionato di fumetti Disney. Ho letto che il vostro editorialista paragona la mia segreteria a Qui, Quo, Qua.

La cosa, dunque, è stata talmente divertente da far passare in secondo piano la sorpresa per una ricostruzione in cui non mi ritrovo. 

Se fino ad oggi si sono perse occasioni su occasioni, caro Direttore, è difficile dare la colpa a chi non c’era. Per restare alla metafora ricolfiana a Qui, Quo, Qua. Che sono disegnati come molto antipatici, ma – almeno nella rappresentazione disneyana – qualche problema lo risolvono. Zio Paperino è più simpatico ma non ne azzecca una. E soprattutto l’attuale classe dirigente assomiglia molto a Paperoga: dove tocca, sbaglia. Persino volenterosa, intendiamoci. Ma rompe e non paga. E accade da troppi anni.

I fatti. Presentando il JobsAct ho cercato di sottrarre ai soli addetti ai lavori la discussione sull’occupazione, per caricarla sulle spalle del Pd, il primo partito del Paese. Non si tratta infatti di materia semplicemente giuslavoristica, ma della principale sfida politica per una classe dirigente che finge di non vedere come la disoccupazione giovanile al 42% sia una sconfitta terribile per l’Italia.

Ho citato una vecchia frase: «I professionisti hanno fatto il Titanic, i dilettanti hanno fatto l’Arca di Noè» per dire come anche chi non legga tutte le riviste di diritto del lavoro abbia il dovere morale, la responsabilità di commentare il JobsAct, evitando che divenga il solito sfoggio di competenze su regole, codicilli, commi. Non a caso ho chiesto commenti, suggerimenti, spunti, ricevendo ad oggi circa duemila email da piccoli imprenditori, lavoratori, artigiani, pensionati desiderosi di dare una mano.


Anche perché – qui sta il punto politico – io non credo che il problema del lavoro in Italia siano semplicemente le regole dei contratti o l’articolo 18. Ma la burocrazia, il fisco, le infrastrutture tradizionali e digitali e anche la mancanza di una prospettiva, di una visione capace di dare serenità alle famiglie e alle imprese.

Per questi motivi abbiamo lanciato delle proposte, concrete. Siamo partiti dall’accelerazione – innegabile – su una legge elettorale che era finita a «Chi l’ha visto?» e adesso ha scadenze certe alla Camera dei Deputati. Abbiamo chiesto di superare il Senato e le Province come le conosciamo adesso risparmiando soldi, ma anche tempi della procedura legislativa. Abbiamo proposto di eliminare l’assurda «materia concorrente» del Titolo V per dare linearità ai rapporti tra Stato e autonomie. Abbiamo chiesto che i consiglieri regionali riducano la loro indennità a quella del sindaco capoluogo di regione. Abbiamo proposto di abbassare di un miliardo i costi della politica. E anche sul JobsAct abbiamo fatto proposte precise, di sistema: spostare la tassazione dal lavoro alle rendite finanziarie, diminuire del 10% il costo dell’energia elettrica alle piccole e medie imprese, eliminare ex nunc la figura del dirigente a tempo indeterminato in un Paese dominato dai capi di gabinetto, modificare l’impostazione delle Camere di commercio, presentare un progetto immediato di rilancio edilizio con cento gru in cento immobili pubblici dismessi e l’elenco potrebbe continuare. Ci siamo impegnati a destinare tutti i risparmi della revisione della spesa all’abbassamento delle tasse e non lo ha mai fatto nessuno.

Certo, abbiamo detto di fare il Codice del Lavoro in otto mesi anziché in tre mesi come propone Ichino. Ok. Sono cinque mesi di differenza. Ma visto che è quarant’anni che aspettiamo prendersi cinque mesi in più è così grave?

Abbiamo molti limiti, certo. Ma siamo volenterosi, pieni di passione, ricchi di grinta e soprattutto desiderosi di mostrare come le cose – volendo – si possono fare. Una cosa non riusciamo a capire: come si possa ancora insistere con la tiritera «Vuole solo logorare Letta».

Il primo ministro è il capo del governo. Se si logora, si logora per le cose che fa. O che non fa. Non per il tentativo di altri di realizzare finalmente riforme attese da vent’anni.

Se facciamo la legge elettorale, lo facciamo per dare una speranza agli italiani, non per logorare Letta. Se Letta si logora è perché governa male, non perché c’è un nuovo segretario del Pd. Da parte mia mi sento obbligato a dare una mano perché Letta governi bene: gioco nella stessa squadra. E non per lui o per me, ma perché è la cosa giusta per l’Italia.

* segretario del Pd 

Da - http://lastampa.it/2014/01/15/italia/politica/tutti-hanno-il-diritto-di-giudicare-la-riforma-del-mercato-del-lavoro-le-mie-proposte-concrete-jzo5HOLYlL8sjI5BM9HgxN/pagina.html
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« Risposta #26 inserito:: Febbraio 17, 2014, 07:22:47 pm »

Il ritratto del sindaco di Firenze / «Lo chiamavano il Bomba, le sparava grosse»

Quando Renzi al liceo voleva cacciare Forlani
Le battute, il look, gli scout. La carriera costruita (sin da piccolo) sulla guerra all’establishment


Al liceo lo chiamavano il Bomba, perché le sparava grosse. Così almeno raccontò un suo ex compagno in una perfida telefonata a un’emittente fiorentina, Lady Radio. Avevano sorriso anche i professori, leggendo il suo articolo su «Il divino», mensile del liceo ginnasio Dante di Firenze: «Forlani ha commesso molti errori, anche nella formazione delle liste, e dovrà passare la mano, com’è giusto che sia per un segretario che perde il 5%. La Dc deve veramente cambiare, in modo netto e deciso, mandando a casa i Forlani, i Gava, i Prandini e chi si oppone al rinnovamento...». Era il 1992. Matteo Renzi aveva 17 anni.

È laureato in giurisprudenza (con 109; mancò il 110 perché discutendo la tesi litigò con il relatore), ma non ha un curriculum di eccellenza. Parlotta l’inglese con l’accento toscano, ma non ha fatto master all’estero. Matteo Renzi non è frutto delle élites. È un politico puro. Con i suoi limiti, e con due punti di forza: il fiuto e l’energia. Il fiuto gli ha suggerito che l’unico modo per emergere a sinistra era andare contro la vecchia guardia, cavalcando l’insofferenza della base per leader che non vincevano mai. Poi ha usato contro l’intera classe politica lo stesso linguaggio e gli stessi argomenti della gente comune. Infine ha alzato il tiro contro l’establishment, dalle banche ai sindacati. Si è insomma costruito contro il Palazzo. Per questo l’opinione pubblica è perplessa, ora che lui nel Palazzo entra senza passare dal voto popolare. Ma la sua energia può imprimere uno scossone a un Paese sprofondato in una crisi di fiducia.

Il più giovane presidente del Consiglio è nato l’11 gennaio 1975 a Rignano sull’Arno, 9 mila abitanti, 23 chilometri da piazza della Signoria. Il padre Tiziano - piccolo imprenditore che diventerà consigliere comunale per la Dc - e la madre Laura Bovoli vivono in un palazzone di via Vittorio Veneto, con la primogenita Benedetta di tre anni (nel 1983 arriverà Samuele e nel 1984 Matilde, l’unica impegnata nei comitati elettorali del fratello). Dopo un mese di prima elementare, la maestra, signora Persello, lo promuove: il bambino è sveglio, può passare in seconda. Serve messa a don Giovanni Sassolini, parroco di Santa Maria Immacolata. Gioca stopper nella Rignanese, ma riesce meglio come arbitro e come radiocronista. (Ancora l’anno scorso, in una partita di beneficenza, ha preteso di tirare un rigore: parato, per giunta dal sottosegretario Toccafondi, alfaniano). Si fa eleggere rappresentante di classe. Entra negli scout. Guida un gruppo in una gita in Garfagnana: si perdono in un bosco, passano la notte all’addiaccio. I compagni lo chiamano «Mat-teoria», perché parla parla ma poi a lavorare sono sempre gli altri. Il capo scout Roberto Cociancich scrive: «Matteo ha doti di leader. Lo vedremo crescere». Oggi Cociancich è senatore pd, inserito nel listino in quota Renzi.

Nel 1994, mentre l’Italia antiberlusconiana inorridisce nel vedere il padrone delle tv private entrare a Palazzo Chigi, Renzi va nelle tv private di Berlusconi: in cinque puntate della «Ruota della fortuna» con Mike Bongiorno vince 48 milioni. L’anno dopo, a vent’anni, fonda a Rignano un circolo in sostegno di Prodi. Nel 1999 si laurea con una tesi su «La Pira sindaco di Firenze» e sposa Agnese Landini, conosciuta agli esercizi spirituali nell’Agesci.

Organizza la rete di strilloni per conto dell’azienda del padre, per distribuire La Nazione in strada. Con i soldi che ha guadagnato parte assieme agli amici scout per il Cammino di Santiago: una settimana di pellegrinaggio a piedi. Al ritorno i capi gli propongono di candidarsi alla guida del partito popolare di Firenze, che ha appena toccato il minimo storico: 2 per cento. Renzi accetta e vince il congresso. Segretario nazionale è Franco Marini.

Palazzo Vecchio è in mano ai postcomunisti. Ai cattolici, cioè a lui, tocca la Provincia. La trasforma «da cimitero degli elefanti a fucina della propria carriera», come scrive il suo biografo David Allegranti. Si inventa la kermesse culturale «Il Genio fiorentino», la società di comunicazione Florence Multimedia, e Florence Tv, un canale che ne illustra le gesta. Il primo a invitarlo in una tv vera è Corrado Formigli su Sky. Gli spettatori scoprono un ragazzo che non parla come un politico ma come uno di loro. Fa gaffe e le racconta, confonde Churchill con De Gaulle e ne ride. Nel 2006 passa in città Berlusconi. Ai suoi uomini confida: «Quel Matteo è bravo, ma sbaglia a vestirsi di marrone: fa tanto sinistra perdente».

Scrive Claudio Bozza del Corriere Fiorentino che qualcuno lo riferisce all’interessato. Il marrone è abolito. Da allora, Renzi evita anche di vestirsi come un politico. Preferisce i jeans Roy Rogers Anni 80 e il giubbotto di pelle da Fonzie («ma la pelletteria è un settore trainante dell’export italiano!»), oppure le camicie bianche senza cravatta con le giacche blu elettrico di Scervino. Taglia il ciuffo. Dimagrisce mangiando banane e iniziando a correre. Martella i colleghi. Corteggia la categoria che lo attrae di più: gli imprenditori. Una città abituata a perpetrare le sue gerarchie si riconosce nel giovanotto venuto dal contado.

Nel 2009 Renzi si candida alle primarie per Palazzo Vecchio. Il partito ha prescelto Lapo Pistelli, di cui è stato assistente parlamentare. Lo batte con il 40,5% contro il 26,9. Dirà un anno e mezzo dopo: «Non ho vinto io perché ero un ganzo, è che gli altri erano fave». Supera al ballottaggio il portiere Giovanni Galli ed è sindaco. Come primo provvedimento, elimina le auto blu: tutti a piedi. Lui gira in bicicletta (prova anche l’auto elettrica: tampona la macchina davanti. Poi impara). Comunica che la tranvia in centro, di cui si discute da anni, non si farà, anzi: piazza Duomo diventerà pedonale. Addio comunicati stampa: le notizie le dà direttamente lui, su Facebook e poi su Twitter. Nomina dieci assessori, cinque uomini e cinque donne, tra cui Rosa Maria Di Giorgi, che gli chiede: «Ma in giunta si vota?». Lui risponde: «Certo. Però il mio voto vale undici». Oggi non ne è rimasto neanche uno. Il sindaco li ha sempre scavalcati, parlando direttamente con i funzionari. Quando intuisce che qualcuno passa informazioni riservate ai giornalisti, per scovarlo racconta con tono da cospiratore a tre assessori tre piani diversi per il traffico: individua così il colpevole.

Il presidente di Confindustria Firenze, Giovanni Gentile, critica la sua proposta di introdurre la tassa di soggiorno, lui replica: «Gentile conta come il presidente di un club del burraco». In una vecchia stazione ferroviaria, la Leopolda, riunisce i giovani del partito, affida il format a Giorgio Gori e la regia a Fausto Brizzi. Dice che la classe dirigente del Paese va «rottamata», come le automobili. La settimana dopo, va a pranzo da Berlusconi ad Arcore. «Per Firenze questo e altro» si giustifica. In realtà, Renzi non è antiberlusconiano; semmai postberlusconiano. Frase-chiave: «Io lo voglio mandare in pensione, non in galera».

Nell’estate 2012 sfida Bersani per la candidatura a Palazzo Chigi. Ma il vero obiettivo polemico è D’Alema. D’Alema consiglia a Bersani di evitare lo scontro, il segretario fa cambiare lo statuto per indire le primarie: «Renzi non vince». Il giro d’Italia di Renzi in camper è trionfale. Lo slogan: «Adesso!». La nomenklatura del Pd lo avversa come un usurpatore. Bersani è costretto al ballottaggio, ma prevale, anche a causa del regolamento che restringe la partecipazione. Renzi respinge l’idea di una lista con il suo nome, quotata nei sondaggi al 15%. L’appoggio alla campagna del partito è blando; ma neppure lui immagina la débâcle. Quando Bersani tenta di aprire ai Cinque Stelle, Renzi lo gela: «Si è fatto umiliare». Bersani rinuncia a formare il governo.

Si vota per il Quirinale. Marini gli telefona per chiedere appoggio. Renzi sbotta con i presenti: «Ma vi rendete conto? Mi ha chiamato per dirmi di aiutarlo a diventare presidente della Repubblica, perché lui è cattolico. Che vuol dire? Anche io sono cattolico, ma per me è un valore prezioso e privato». I renziani votano Chiamparino, poi Prodi, infine Napolitano. Lui si illude per un giorno che il presidente rieletto possa affidargli l’incarico, che tocca a Letta. È allora che decide di candidarsi alla segreteria del Pd. Per la nomenklatura l’usurpatore è diventato un male necessario. L’obiettivo minimo è evitare che Letta e Alfano si accordino per una legge elettorale proporzionale che renda eterne le larghe intese. L’obiettivo massimo è Palazzo Chigi. Frase-chiave: «La vecchia sinistra ha sempre voluto cambiare gli italiani. Io voglio cambiare l’Italia».

16 febbraio 2014
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Aldo Cazzullo

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_16/quando-renzi-giornale-liceo-voleva-mandare-casa-forlani-0cf39f80-96dc-11e3-bd07-09f12e62f947.shtml
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« Risposta #27 inserito:: Febbraio 17, 2014, 07:26:26 pm »

Nuovo governo, Napolitano dà l'incarico a Renzi che annuncia una riforma al mese

Il premier designato si è riservato di accettare: "Ci metterò tutta l'energia che ho, domani inizieranno le mie consultazioni". Poi annuncia la serrata tabella di marcia: a febbraio Italicum e rinnovate norme costituzionali, poi da marzo lavoro e fisco. Il rebus della squadra dei ministri e le difficoltà per comporla: slitta la fiducia in parlamento. Reazioni straniere, Blair: "Ora i leader europei sostengano Matteo"
   
ROMA - Tutta l'energia di cui dispone per fare una riforma al mese, da qui a maggio. Tutto l'impegno di cui è capace per provocare quello shock necessario al Paese affinché il Paese stesso dimentichi la 'manovra di palazzo' che l'ha portato a prendere il posto di Enrico Letta senza passare dall'investitura popolare: le elezioni. Matteo Renzi oggi è il nuovo premier incaricato. E, in quanto tale, detta il suo timetable anche se la squadra dei ministri tarda a trovare la propria composizione.

"Ho ricevuto l'incarico di provare a formare il nuovo governo, ho accettato con riserva per l'importanza e la rilevanza di questa sfida. Immaginiamo un allungamento della prospettiva politica, in questa situazione difficile metterò tutta l'energia e l'impegno di cui sono e siamo capaci. Domani inizieranno le mie consultazioni formali, abbiamo intenzione di lavorare in maniera molto seria sui contenuti". Al termine di un colloquio al Colle durato oltre un'ora, il segretario del Partito democratico ha accettato con riserva - come da prassi - l'incarico di formare un nuovo governo. Parole rilanciate qualche ora più tardi via Twitter con l'hashtag #lavoltabuona: sul social network Renzi non si 'affacciava' da giovedì scorso, giorno in cui la direzione democratica ha detto sì all'operazione 'staffetta'. Da allora a oggi, solo silenzio.

Con un tono di voce più misurato del solito e già istituzionale, dalla sala stampa del Quirinale il nuovo presidente del Consiglio designato ha subito annunciato al Paese il programma serrato che intende darsi nei prossimi mesi, i primi del suo governo, quelli che, da tradizione,  rappresentano la luna di miele con gli italiani ma che stavolta rischiano di trasformarsi in un frangente che di romantico avrà ben poco se la svolta non dovesse concretizzarsi in fretta: entro febbraio riforme elettorale e costituzionale. Poi, da marzo, lavoro e fisco: "Siamo ben consapevoli dei prossimi passaggi. Bisogna avere una straordinaria attenzione ai contenuti e alle scelte da fare", afferma Renzi. La piattaforma di governo, spiega poi, "prevede entro il mese di febbraio un lavoro urgente sulle riforme costituzionali ed elettorali e subito dopo a marzo immediatamente il lavoro, ad aprile la riforma della pubblica amministrazione, e a maggio il fisco".

L'orizzonte naturale del nuovo esecutivo - prosegue - resta quello della "legislatura", per un "impegno serio e significativo". Tradotto: il 2018. Un "orizzonte" che "necessita di qualche giorno di tempo per sciogliere la riserva". Il primo leader straniero a congratularsi con Renzi è stato l'ex premier britannico Tony Blair: "Ha la forza per riuscire", ha detto, sollecitando poi l'Europa a "sostenere pienamente Matteo mentre assume la responsabilità per il futuro del suo Paese".

Il segretario del Pd era arrivato al Quirinale dieci minuti prima dell'orario fissato alla guida di una Giulietta bianca. Accanto a lui il capo ufficio stampa del Pd, Filippo Sensi.

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano lo aveva convocato alle 10.30 di questa mattina per conferirgli l'incarico di dare vita a un nuovo esecutivo. Dopo l'ingresso del premier in pectore, dinanzi alla residenza del presidente della Repubblica era partita una manifestazione di protesta organizzata da Fratelli d'Italia - con Giorgia Meloni in testa - al grido di "elezioni subito".

Lasciato il Colle, Renzi ha poi raggiunto Montecitorio per incontrare - sempre come da prassi - la presidente della Camera dei deputati, Laura Boldrini, la quale ha auspicato un ricorso più contenuto ai decreti legge. A seguire è andato al Senato per vedere Pietro Grasso, e poi alla stazione Termini per tornare a Firenze: con lui i fedelissimi Graziano Delrio (probabile nuovo sottosegretario alla presidenza del Consiglio) e Lorenzo Guerini.

In  mattinata erano arrivati i primi giudizi positivi dal fronte finanziario, dopo che lo spread tra Btp italiani e Bund tedeschi aveva aperto in ribasso a 195 punti a seguito della decisione di Moody's di alzare l'outlook dell'Italia da negativo a stabile. Il capo dello Stato aveva concesso due giorni al segretario del Pd - da sabato sera, termine delle consultazioni a stamattina appunto - per permettergli di salire al Colle, se non con la lista dei ministri pronta, almeno con una squadra già tratteggiata a grandi linee, anche se i rumors insistono oggi su un esecutivo ancora in alto mare, sia sul versante degli equilibri di maggioranza sia su quello delle persone a cui affidare i singoli dicasteri.

Domenica era stata una delle fedelissime di Renzi, la responsabile Riforme del partito, Maria Elena Boschi (in pole per diventare ministro) a far capire lo stato delle cose: "Ci servirà qualche giorno", aveva detto anticipando quanto confermato oggi dal leader dem.

Il sindaco comincerà le consultazioni domani alla Camera, dopo che avrà riunito a Firenze, per l'ultima volta, il consiglio comunale. I colloqui potrebbero andare avanti fino a giovedì. E il giuramento al Colle potrebbe essere calendarizzato per il fine settimana. Slitterebbe così la fiducia in parlamento, che in un primo momento era stata ipotizzata tra venerdì e sabato.

Sul fronte delle alleanze continua il confronto con Angelino Alfano e il Nuovo Centrodestra. Un appoggio, quello del ministro dell'Interno uscente, ad oggi fondamentale (soprattutto al Senato) per la nascita dell'esecutivo renziano. Alfano, come già fatto intendere dopo le consultazioni al Quirinale, non considera affatto scontato il sostegno al governo se non si realizzano alcune condizioni. Una è la conferma, oltre che di se stesso, degli attuali ministri Maurizio Lupi e Beatrice Lorenzin. L'altra è un perimetro della maggioranza che non si sposti troppo a sinistra e non preveda, al di là dell'accordo sulle riforme, una significativa apertura a Forza Italia.

Senza contare le conseguenze che potrebbe avere sulla definizione del programma e su tempi e modalità di realizzazione delle riforme lo scontro in atto tra Fi e Ncd. Renato Schifani (Ncd) ha detto: "Noi non saremo la stampella di nessuno, e porteremo avanti programmi di centrodestra. Renzi si dovrà misurare prima con il programma, perché il suo non può e non dovrà essere un governo di centro sinistra. Per Ncd il prossimo governo non può che rimanere di larghe intese".

Intanto, dentro al Pd il disagio delle minoranze continua a farsi sentire. Gianni Cuperlo chiede al nuovo presidente un confronto sul programma di governo. E se Pippo Civati ancora è in dubbio se accordare o meno la fiducia al governo 'Renzi 1', a parlare - subito dopo l'affidamento dell'incarico da parte di Napolitano - è stata la deputata Sandra Zampa, che voterà per l'ok al nuovo premier: "Però - dice - non darò per scontato tanto quanto abbiamo dato per scontato nell'anno del governo Letta. Hanno sempre dato per certo che tanto il Partito democratico era quello dei responsabili ed essendo tali noi eravamo quelli che dovevamo ingoiare i rospi".

© Riproduzione riservata 17 febbraio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/02/17/news/governo_renzi_incarico-78811844/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_17-02-2014
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« Risposta #28 inserito:: Febbraio 19, 2014, 12:08:47 pm »

Il guru di Blair: “Attento Renzi il cambiamento è una lotta dura”

Mandelson: “Anche lui parte da zero, dovrà scontrarsi con chi vuole mantenere il potere”


Il «Times» di Londra, quello a cui un tempo si affiancava, con riflesso un po’ provinciale, l’aggettivo «prestigioso», ha scritto qualche giorno fa che Matteo Renzi è il Tony Blair italiano. Una specie di investitura, prima ancora che dall’ufficio dell’ex premier britannico uscisse la dichiarazione di caloroso sostegno. Blair tuttavia non è diventato Blair da un giorno all’altro: ha avuto bisogno di qualcuno che gli spiegasse come fare, non tanto a prendere il potere, ma soprattutto a conservarlo. In questo, più di ogni altro, lo aiutò Peter Mandelson, il «consigliere» (in italiano), tra i primi a essere definito dai giornalisti «spin doctor», uno cioè capace a dare al pallone della notizia un effetto che lo faccia andare dove vuole lui. Una vita ai vertici della politica britannica ed europea, dal 2008 è diventato Lord Mandelson, con un seggio a vita alla camera dei Pari. Attualmente è presidente dell’azienda di consulenza Global Counsel.

Lord Mandelson, Matteo Renzi è ormai diventato il Tony Blair italiano. Secondo lei, che conosce bene anche la politica italiana, è un paragone sensato? 

«Come per Blair nel 1997, nel caso di Renzi l’esperienza di governo è una completa novità: parte da zero, senza macchie di fallimenti passati. Come Blair, Renzi è interessato alla leadership, non si accontenta di navigare e non vuole niente di meno del consenso popolare. Ma come Blair presto si accorse, il vecchio ordine è capace di grande determinazione nel conservare le sue posizioni. Se si vuole un governo di cambiamento, ogni giorno è una lotta».

Nel suo libro di memorie «Il terzo uomo», lei ricorda che all’inizio Blair era abbastanza insicuro e dovette ricorrere spesso ai suoi consigli: qual è la cosa più importante che un leader emergente deve imparare? 

«Un leader deve sapere che senza progetto è come un marinaio senza bussola, è la cosa più importante. Senza una squadra forte e unita e una struttura di potere decisionale è facile essere ignorati. Questo perché se anche uno è consapevole di quello che fa, non significa che gli altri lo siano altrettanto. Una comunicazione costante è fondamentale».

Mentre molti politici cedono alla tentazione di circondarsi di yesmen, Blair scelse con grande cura i suoi collaboratori. Quanto contano dei buoni consiglieri per un leader? 

«È cruciale avere una squadra forte. La squadra migliore è quella composta da persone intelligenti, leali tra di loro e oneste con il capo. Il loro compito è di gettare uno sguardo dietro l’angolo per scorgere i pericoli nascosti e anticiparne l’impatto».

La gente preferiva il sorriso accattivante di Blair al broncio di Gordon Brown: quanto conta la faccia per un leader? 

«Una personalità dinamica che traspare in un volto, deve emanare fiducia ma non arroganza, ottimismo ma non compiacimento. Deve comunicare convinzione ma allo stesso tempo saper ammettere i propri errori. Questo richiede maturità, ma in tal caso non è l’età che conta quanto l’intelligenza emotiva».

Nell’arena politica delle nostre società, così determinate dall’economia locale e globale, pensa che un leader possa veramente cambiare qualcosa? 

«Oggi ogni leader occidentale ha il compito di guidare una società giusta e tollerante, insieme con un’economia aperta e liberale. Non ci sono alternative in un’era di globalizzazione. Una democrazia ben funzionante e il mercato sono i due pilastri indispensabili al successo di una nazione dinamica e moderna. L’Italia ha tutti gli ingredienti per farcela. Però senza riforme il paese non può trarre il meglio da questi ingredienti e rischia di cadere al di sotto del proprio potenziale».

Claudio Gallo

da - http://www.lastampa.it/2014/02/19/italia/politica/il-guru-di-blair-attento-renzi-il-cambiamento-una-lotta-dura-NdJmCZu0Kbh0KjuRlIbbwO/premium.html
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« Risposta #29 inserito:: Febbraio 24, 2014, 07:03:13 pm »

Renzi: "Innovazione e uguaglianza, la mia idea di destra e sinistra nell'Europa della crisi"

Vent'anni dopo l'uscita di "Destra e sinistra", il best-seller di Norberto Bobbio, l'editore Donzelli ripubblica una nuova edizione con una introduzione di Massimo L. Salvadori e due commenti di Daniel Cohn-Bendit e Matteo Renzi. Pubblichiamo l'intervento del presidente del Consiglio. Un vero e proprio manifesto del capo del nuovo governo

Di MATTEO RENZI
   
Renzi: "Innovazione e uguaglianza, la mia idea di destra e sinistra nell'Europa della crisi"
C'è stato un tempo in cui a sinistra la parola "sinistra" era una parolaccia. Sacrificata al galateo della coalizione di centrosinistra, tanto da giustificare dibattiti estenuanti e buffi sul trattino, ricordate?

"Centro-sinistra" o "centrosinistra" era la nuova disputa guelfi-ghibellini, tra chi pensava il campo progressista come un litigioso condominio, caseggiato rumoroso di partiti gelosi delle proprie convenienze e confini e chi, invece, vagheggiava il Partito-Coalizione, area politica aperta, il cui orizzonte schiudeva l'universo del campo progressista.

In questo incrocio, che ha opposto due linee in parte intente a far baruffa ancora adesso, c'è il Partito democratico, la parola "sinistra" come un laboratorio, sempre in trasformazione, sempre ineludibile.
Una frontiera, non un museo. Curiosità, non nostalgia. Coraggio, non paura. Erano quelli gli anni dell'Ulivo, il progetto di Romano Prodi di abbattere gli steccati che separavano gli eredi del Partito comunista da quelli della Democrazia cristiana, di una forza che raccogliesse istanze liberal-democratiche, ambientaliste, in una nuova unità, una nuova cultura politica semplicemente, finalmente potremmo dire, "democratica".

Erano, nel mondo, gli anni della "terza via", di Bill Clinton e Tony Blair, una rotta per evitare Scilla e Cariddi, tra gli estremismi della sinistra irriducibile e la destra diventata, dopo Reagan e Thatcher, una maschera di durezze. Qualcuno pensò allora perfino che la sinistra fosse ormai uno strumento inservibile, non più adeguato a un mondo nuovo, sulla spinta di quella che si chiamava globalizzazione, dove finiva il XX secolo della guerra fredda e cominciava il XXI, tutto individuale e personal, dalla tecnologia alla politica.

A fare da sentinella, non per custodire e conservare, ma per richiamare alla sostanza delle cose, alla loro forza, il filosofo Norberto Bobbio - or sono venti anni esatti - pensò di tirare una linea, per segnalare dove la divisione tra destra e sinistra ancora teneva e tiene. Suggerendo che la scelta cruciale resti sempre la stessa, storica, radicale, un referendum tra eguaglianza e diseguaglianza, come dal XVIII secolo in avanti. Mi chiedo se oggi che la seduzione della "terza via" - che pure nel socialismo liberale, nell'utopia azionista di Bobbio, ha trovato più che un riflesso - si è sublimata perdendo slancio, la coppia eguaglianza/diseguaglianza non riesca a riassorbire integralmente la distinzione destra/sinistra. Basti pensare, a livello europeo, all'insorgere dei populismi e dei movimenti xenofobi contro i quali è chiamato a ridefinirsi il progetto dell'Unione europea, così in crisi. Un magma impossibile da ridurre alla vecchia contraddizione eguali/diseguali a lungo così nitida.

Dal punto di vista del sistema politico, infatti, sono e rimango un convinto bipolarista. Credo che un modello bipartitico, all'americana per intenderci, sia un orizzonte auspicabile, sia pur nel rispetto della storia, delle culture, delle sensibilità e della pluralità che da sempre contraddistinguono il panorama italiano. Ma riflettendo sulla teoria, sui principi fondamentali, non so se, invece, non sia più utile oggi declinare quella diade nei termini temporali di conservazione/ innovazione.

Tiene ancora, dunque, lo schema basato sull'eguaglianza come stella polare a sinistra? In una società sempre più individualizzata, sotto la spinta anche delle nuove tecnologie, dei social network, delle reti che connettono ma anche atomizzano, creando e distruggendo comunità e identità? Come recuperare, dopo anni di diffidenza, anche tra i progressisti, idee come "merito" o "ambizione"? Come evitare che, in un paesaggio sociale tanto mutato, la sinistra perda contatto con gli "ultimi", legata alle fruste teorie anni sessanta e settanta, mentre papa
Francesco con calore riesce a parlare la lingua della solidarietà? Certo, l'eguaglianza - non l'egualitarismo - resta la frontiera per i democratici, in un mondo interdipendente, dilaniato da disparità di diritti, reddito, cittadinanza. Eppure era stato lo stesso Bobbio, proprio mentre scandiva quella sua storica dicotomia, a rendersi conto che forse la sua argomentazione aveva bisogno di un'ulteriore dimensione, un diverso respiro temporale, un'altra profondità. "Nel linguaggio politico - scrive Bobbio - occupa un posto molto rilevante, oltre alla metafora spaziale, quella temporale, che permette di distinguere gli innovatori dai conservatori, i progressisti dai tradizionalisti, coloro che guardano al sole dell'avvenire da coloro che procedono guidati dalla inestinguibile luce che vien dal passato. Non è detto che la metafora spaziale, che ha dato origine alla coppia destra-sinistra non possa coincidere, in uno dei significati più frequenti, con quella temporale".

Ecco perché, venti anni dopo il monito di Bobbio, è maturo il tempo per superare i suoi confini, modificati e resi frastagliati dal mondo globale, come insegnano Ulrich Beck e Amartya Sen. Serve una narrazione temporale, dinamica, più ricca. Che non dimentichi radici e origini, sempre da mettere in questione, da problematizzare, ma che, soprattutto, faccia i conti con i tempi nuovi che ci troviamo a vivere, ad attraversare. Aperto/chiuso, dice oggi Blair. Avanti/indietro, chissà, innovazione/conservazione.

E, perché no, movimento/stagnazione. Se la sinistra deve ancora interessarsi degli ultimi, perché è questo interesse specifico che la definisce idealmente come tale, oggi essa deve avere lo sguardo più lungo. Le sicurezze ideologiche del Novecento, elaborate sull'analisi di un mondo organizzato in maniera assai meno complessa di quello contemporaneo, rendevano più semplice il compito della rappresentanza delle istanze degli ultimi e degli esclusi, e del governo del loro desiderio di riscatto. A blocchi sociali definiti e compatti bisognava dare cittadinanza, affinché condizionassero le decisioni sul futuro delle comunità nazionali di cui erano parte. Per la sinistra che, dopo Bad Godesberg, si organizzava in Europa in partiti socialdemocratici postmarxisti (e anticomunisti) era un compito certo faticoso, ma lineare nel suo meccanismo di funzione politica.

Oggi quei blocchi sociali non esistono più ed è un bene che sia così! In fondo tutta la fatica quotidiana del lavoro della sinistra socialdemocratica, cara a Bobbio, era stato quello di scardinare quei blocchi. Allo scopo di offrire agli uomini e alle donne, che erano in quei blocchi costretti, l'opportunità di una vita materiale meno disagevole e di un'esistenza più ricca di esperienze. Con l'invenzione del welfare quella sinistra aveva provveduto a sfamare le bocche e gli animi degli ultimi e degli esclusi, liberandoli dal bisogno materiale - libertà fondamentale anche per la sinistra liberaldemocratica americana di Franklin D. Roosevelt - e fornendo loro l'occasione di realizzare se stessi. L'invenzione socialdemocratica del welfare aveva così conseguito due obiettivi storici. Da un lato, difatti, il welfare aveva soddisfatto la sacrosanta richiesta di maggiore giustizia sociale. Dall'altro, tuttavia, il miglioramento delle condizioni oggettive di vita degli ultimi aveva determinato un beneficio generale per tutte quelle comunità democratiche che non avevano avuto timore di rispondere "Sì!" alla loro domanda di cambiamento.

La sinistra cara a Bobbio, quella socialdemocratica e anticomunista, ha insomma vinto la sua partita. Ma oggi ne stiamo giocando un'altra. Quei blocchi sociali che prima rendevano tutto più semplice non ci sono più. Gli stessi confini nazionali che erano il perimetro entro cui si giocava la partita dell'innovazione del welfare sono ormai messi in discussione. Più che con blocchi sociologicamente definiti entro Stati nazionali storicamente determinati, oggi la nuova partita si svolge con attori e campi da gioco inediti. Quei blocchi sono stati sostituiti da dinamiche sociali irrequiete. I confini nazionali non delimitano più gli spazi entro i quali le nuove dinamiche giocano la loro partita.

Di fronte a questo potente mutamento di prospettiva sociale ed economica, culturale e politica, la sinistra deve mostrare di avere coraggio e non tradire se stessa. Deve accettare di vivere il costante movimento dei tempi presenti e accoglierlo come una benedizione e non come un intralcio. È questo straordinario, irrefrenabile movimento che sfonda la vecchia bidimensionalità della diade destra/sinistra e le dà temporalità e nuova forza. E invece spesso, in Italia e in Europa, la sinistra ne ha paura. Sembra non rendersi conto che il nuovo mondo in cui tutti viviamo è anche il frutto del successo delle proprie politiche, dei cambiamenti occorsi nel Novecento grazie alla sua iniziativa. Perché l'innovazione, quando ha successo, produce un ambiente diverso da quello da cui si è mosso. Un ambiente mutato che chiama al mutamento gli stessi che più hanno concorso a mutarlo. Cambiare se stessi è l'incarico più gravoso di tutti. Eppure non cambiare se stessi, in una realtà che si è contribuito a cambiare, condanna all'incapacità di distinguere i nuovi ultimi e i nuovi esclusi, e all'ignavia di non mettersi subito al loro servizio. Che è proprio quanto successo alla sinistra di tradizione socialdemocratica al cospetto delle sfide del secolo nuovo.

La sinistra è oggi chiamata a riconoscere e a conoscere il movimento continuo delle nuove dinamiche sociali, contro chi vorrebbe vanamente fare appello a blocchi che non esistono più e che è un bene non esistano più! In Italia, più che altrove, la capacità della politica di saper distinguere le dinamiche sociali che interessano gli ultimi e gli esclusi, di saperle intrecciare per dare loro rappresentanza e, infine, di saperne governare il costante movimento per costruire per loro, e per tutti, un paese migliore, è il compito del Partito democratico. È la missione storica della sinistra.

© Riproduzione riservata 23 febbraio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/02/23/news/manifesto_renzi-79396548/?ref=HREA-1
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