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Autore Discussione: LUIGI BERLINGUER...  (Letto 6944 volte)
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« inserito:: Luglio 25, 2007, 05:45:02 pm »

Se la scuola «ministerializza» i bambini

Luigi Berlinguer


«Ho impiegato 70 anni di lavoro mentale per capire che un uomo è un bambino andato a male». Questo vecchio detto toscano sembra un paradosso ma è la verità. Se guardiamo alla scuola, è proprio così. Pensate quanto è vecchio e noioso il dibattito adulto sulla scuola oggi. Come mai? Perché non si è riflettuto abbastanza su che cosa sia la scuola, che cosa significhi scuola. Ebbene scuola significa appunto imparare. E chi è per eccellenza colui che impara? Il bambino. La sua prima incalzante parola è «che cos’è? Perché?» e cioè la premessa, la molla di ogni apprendimento. Il bambino non ti da tregua: «perché?». Non è immaginabile un bambino che cessa - anche per un attimo - di imparare. Ogni impulso, ogni atto è in lui apprendimento, accrescimento. Il bambino è il prototipo dell’apprendimento. Intelligenza velocissima, disponibile, aperta, che assorbe subito e tanto? Che ricorda, consolida rapidamente ciò che introita. Il bambino ragiona senza schemi, senza veli (pensate al contrario all’ideologismo adulto, deformante e chiuso, mistificatore del reale, come diceva Marx). Il bambino interroga, si interroga, senza limiti, «perché?»; viene fuori con domande e considerazioni fulminanti, ragiona senza rigidità o incrostazioni o pregiudizi. Impara, cioè. Gianni Rodari diceva: «I bambini capiscono più di quello che noi sospettiamo. Sono disponibili per ogni audacia, non soffrono di schematismi, ignorano i regolamenti ufficiali dei generi letterari, apprezzano l’umorismo, adorano i giochi di parole... ».

Il bambino è un vero laico, non è né «clericale» né «laicista», non è neanche fondamentalista, perché tutto vuole verificare. Ha un po’ dello scienziato, curioso di sperimentare e insieme portato a sistemare, definire, con le sue fresche e irriverenti considerazioni. È intellettualmente coraggioso. Impara, cioè.

Allora: vogliamo davvero svecchiare il nostro sistema di istruzione? Non facciamo andare a male il bambino, non allontaniamoci da lui. E invece la nostra scuola secondaria, piano piano, ha finito per sopprimere il bambino. Si è ministerializzata, irrigidita, un po’ incallita. Badate che è difficile ministerializzare i bambini. E di fatti le elementari sono in parte riuscite a sottrarsi alla morsa del neoidealismo detuttivista. Merito degli insegnanti, delle maestre, ma soprattutto della forza incontenibile del bambino. Anche perché la sua anima allo stato naturale non differenzia l’anima del ricco da quella del povero. E in una classe elementare si trovano bambini ricchi e poveri. E questa mistura è stata essa stessa un arricchimento, perché così l’ambiente diviene assai più adatto all’apprendimento di un ambiente di apartheid. Educa alla democrazia, alla civiltà, ai buoni sentimenti, e insieme - fondamentale - ci si impara di più un ambiente bambino.

Ma nella scuola secondaria ministerializzazione, autoritarismo didattico (e, diciamolo, inconfessata intenzione classista), sono riusciti ad allontanare il bambino, e cioè allontanare l’apprendimento come centro vero dell’istruzione. Sull’apprendimento ha prevalso l’insegnamento. Anche con taluni successi, in qualche caso e per qualche tempo, ma sempre per percentuali assai basse di alunni. Ma la centralità del solo insegnamento ha spento la potenzialità e la potenza discente dei più.

Questa nostra istruzione ha reciso sapientemente le corde vibranti dell’apprendimento che il bambino simboleggia, e cioè l’espressività, l’emotività, la curiosità, la passione. Ha escluso l’arte dalla scuola. Voi non ci crederete, ma è così: ha escluso l’arte. Forse perché essa è pratica e quindi non fa parte della cultura (!) non mi si fraintenda: non parlo della storia dell’arte (anche quella) ma della espressività artistica vera e propria. Ha spento la propria personale creatività artistica. Entrate in una scuola elementare e guardate quei deliziosi disegni che ne tappezzano le pareti ridenti. Il bambino vuole dipingere o cantare, e purtroppo non lo si sostiene abbastanza in questo. Crescendo, però, queste emozioni vengono definitivamente spente. Si spegne la passione, quella che Rodari definiva «capacità di resistenza e rivolta, volontà di azione e dedizione, il coraggio di sognare in grande». Si spegne così l’amore per il bello, per il ridere insieme. Ancora Rodari (scusatemi l’abuso): «Nelle nostre scuole si ride poco. L’idea che l’educazione della mente debba essere una cosa tetra e la più difficile da combattere».

Questa stessa nostra vecchia istruzione ha anche escluso l’osservazione scientifica, ha trasformato la natura e la scienza in carta, ha spento la curiosità scientifica. Ha di nuovo allontanato il bambino. Ed ha così indebolito anche un altro aspetto essenziale dell’istruzione, l’educazione alla cittadinanza.

Più di chiunque il bambino, infatti, vive la comunità educante come l’ambiente proprio, di essa è il sale e il pepe, l’anima. Più di altri il bambino sente il bisogno di comunità, di socializzazione, ne assorbe la regola. Ha bisogno di modernità. Più di altri si avvantaggia della democrazia, delle cresciute libertà dei giovani e dei bambini, e sono anche forza dissacrante dell’autoritarismo adulto; è più moderno e divora e domina la tecnologia ne scopre potenzialità creative e risorse ludiche. Si avvantaggia dell’intreccio fra democrazia antiautoritaria e moderne opportunità e potenzialità tecnologiche fino a prendersi una rivincita storica: pretende di essere anche lui, almeno un po’, ad insegnare agli adulti. E già, perché domina il mezzo assai più di loro. Divertente: il bambino rischia di trasformare la gerarchia autoritaria e unidirezionale «cattedra-banco» in un vero e proprio circuito apprendimento-insegnamento, in un processo circolare (o quasi) un tantino dissacrante dell’autorità docente. Obbliga gli adulti a svecchiarsi, darsi una mossa, pena la brutta figura. Il suo coraggio spericolato e la maturazione di inedite abilità cognitive sono le carte vincenti della riscossa del bambino.

Attenzione però. La nostra grande Italia gerontocratica, ove un quarantenne ricercatore universitario è considerato un giovinetto; l’Italia dell’amarezza e del tetro piagnisteo, che non vede altro che bulli fricchettoni e rockettari, che pretende che tutto piova dall’alto e meno si ingegna a risolvere un po’ da sé; la nostra vecchia Italia può ancora uccidere il bambino. Può conservare un’istruzione scolastica deduttiva, come ai bei tempi antichi.

Stia attenta però questa vecchia Italia popolata di amareggiati e nostalgici, perché i bambini sono coraggiosi, testardi, curiosi ed inguaribilmente ottimisti. A scuola vogliono giocare, ridere, provare gioie ed emozioni, passione. Invocano il ricordo e il rispetto dell’insegnamento di Bambini italiani assai grandi, anche loro messi da parte da adulti piccini, neoidealisti tardogentiliani, fra i quali Maria Montessori, Gianni Rodari, Emma Castelnuovo, Loris Malaguzzi e Don Milani. Ce la faranno i bambini a vincere la partita? Mi pare che ci stiano provando, che si stiano mettendo in marcia. Vedo qualche buon segnale nel governo, i contenuti e i metodi - che sono il 90 per cento della scuola - possono tornare così al centro del dibattito e delle politiche scolastiche.

Pubblicato il: 25.07.07
Modificato il: 25.07.07 alle ore 13.56   
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« Ultima modifica: Agosto 06, 2007, 11:08:31 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 27, 2007, 09:48:02 pm »

Luigi Berlinguer: «È finita l’era degli esami da burletta Ora patti chiari con le private»

Massimo Palladino


«I numeri in assoluto sono ancora contenuti ma è chiaro che qualche segnale interessante c’è. Il fatto che sia raddoppiato il numero dei ragazzi bocciati significa che l’esame è ora caratterizzato da un maggior rigore. E poi me lo lasci dire abbiamo finalmente chiuso l’era degli Unni». Giovanni Berlinguer, già ministro della Pubblica Istruzione ai tempi del primo governo dell’Ulivo, valuta positivamente i dati forniti da Fioroni, sui risultati ottenuti dagli studenti nella prima edizione della nuova maturità entrata in vigore quest’anno. Ma soprattutto è sollevato dall’inversione di marcia rispetto al modello di maturità dell’era Moratti.

Professor Berlinguer scegliamo un aggettivo: una maturità più severa o seria?
«Seria e di conseguenza anche più rigorosa. Ma andiamo con ordine. Con la stagione degli Unni (il riferimento è al precente ministro Moratti, ndr) è andata in scena la maturità burla dove le commissioni giudicatrici erano composte da membri interni. Mentre per noi, con la riforma del ‘98, maturità voleva dire essere valutati da un giudice terzo, cioè un docente esterno. Se si è preparati, lo dico sempre ai ragazzi, si è pronti comunque. Con la riforma Fioroni si è fatta giustizia di questa situazione».

Vogliamo commentare qualche dato?
«Intanto sono stati fermati i doppi e tripli salti mortali degli ottisti cioè quegli studenti che con la media dell’otto prima potevano saltare l’ultimo anno ed essere ammessi direttamente all’esame: da 3.800 a 147. Anche i candidati privatisti sono diminuiti passando dai circa 25mila del 2006 ai 20mila di quest’anno. Evidentemente di fronte alle novità qualcuno si è scoraggiato, o forse non era semplicemente preparato. Inoltre sono state introdotte misure che premiano i ragazzi con il 100 e lode. Insomma abbiamo intrapreso la giusta direzione... ».

Ma le scuole private, da quel che dice, non rischiano di essere additate nuovamente come realtà poco serie?
«Al contrario. Ci sono delle buone scuole private che saranno incoraggiate ad andare avanti e a fare sempre meglio, ma altre, quelle per intenderci che chiudono un occhio perché si paga una retta salata, dovranno ripensarsi».

Partendo dai dati della maturità 2007 e parlando più in generale della scuola, si può dire che si è di fronte a una svolta?
«Come detto in precedenza per ora siamo di fronte a una inversione di marcia e diciamo che eravamo arrivati su una china molto pericolosa, però è evidente che occorre ripensare un modello di istruzione diverso, una scuola per tutti ma più qualificata. Oggi l’impianto in vigore in Italia è autoritario, deduttivistico cioè il sapere viene calato dall’alto. Lo studente non è centrale, occorre invece valorizzare la sua creatività emotiva. E per far ciò occorre un nuovo tipo di organizzazione caratterizzata da maggior autonomia e più ricerca didattica. Ai docenti che seguono i ragazzi dico di verificarli continuamente e che la stessa maturità non deve essere un traguardo estraneo alla sensibilità del ragazzo. Sta al docente sollecitare gli stimoli intellettuali che tutti gli studenti hanno».

E ai maturandi che affronteranno la nuova prova che cosa si sente di dire?
«Anche nel ‘98,quando presentammo la nuova maturità, si dicevano tutti preoccupati. In realtà, dati alla mano registrammo un maggior impegno da parte dei ragazzi e una miglior preparazione. Ma poi arrivarono gli Unni... ».



Pubblicato il: 27.07.07
Modificato il: 27.07.07 alle ore 8.17   
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 29, 2007, 06:49:37 pm »

Abolire la scuola?

Furio Colombo


Gianfranco Fini volge lo sguardo su un orizzonte che per lui è vuoto. Non un ideale, non un tentativo di dire quale è la sua destra, non una speranza di subentrare all´unico vero leader. Si accorge che nessuno ha ancora diffamato gli insegnanti (di solito, a partire dalla signora Moratti, li si ignora e basta), teme forse che - dopo tanti anni di caccia al giudice - quella stagione stia per chiudersi, e declama: «Nelle scuole i nostri figli sono in mano a un manipolo di frustrati che incitano all´eversione».

Nel mondo di Berlusconi Fini conta poco. Il suo contratto con la Casa delle Libertà non prevede promozioni. Però conta molto nel mondo dei media (o della ossessiva "rappresentazione politica mediatica" definita giustamente come una maledizione da Giuseppe De Rita (Corriere della Sera, 12 luglio) dove il suo volto grave e abbronzato di finto giovane compare in media ogni 5 minuti in quasi ogni programma di quasi ogni televisione.

Adesso ha avuto un´idea: attaccare, svilire, svergognare gli insegnanti. Vale la pena di esaminare la frase. La parola "frustrati" fa pensare che gli abbiano riferito di qualcuno tutt´altro che passivo, tutt´altro che fannullone. La parola - che è stata usata molte volte per definire il direttore, il condirettore e i giornalisti del l´Unità - significa "non rassegnati", non zitti, non acquiescenti, più o meno come Enzo Biagi. E subito sale la mosca al naso di Fini. «Come si permettono questi impiegati statali, di avere opinioni sui fatti e sulla vita, osando, per giunta di condividere le proprie emozioni e nozioni con gli studenti?».

La parola "eversione" («incitano all´eversione») denuncia probabilmente l´ostinazione di alcuni docenti a insegnare la storia, e non necessariamente sui nuovi testi del revisionismo. Interessante l´uso del verbo "incitare" («incitano all´eversione»). Sono parole che rivelano con chiarezza che cosa è insopportabile in un insegnante: che si dia da fare, che abbia voce e idee, che abbia coscienza e memoria e nessun desiderio di rinunciare.

Ci sono due provocazioni in questo atteggiamento. La prima è che il tipo di insegnanti in questione rifiuta di essere nullafacente e dunque non si può consegnare alla gogna già approntata - e subito divenuta celebre nei media - dei milioni di nullafacenti, soprattutto statali, che infestano la funzione pubblica in Italia (e che, a quanto pare sono tutti appollaiati sulle scale della pensione, come i gabbiani sui tetti di Roma).

Il secondo è che interferiscono, a causa di quel loro darsi da fare "eversivo", con le nuove scuole di partito messe su scegliendo i giovani talenti a uno a uno, da cacciatori di cervelli come Dell´Utri. Interferiscono con le superiori Scuole Superiori inventate da Marcello Pera. Interferiscono con la costituenda "Università del pensiero liberale" appena annunciata da una onorevole Laura Ravetto, controfigura della vice-vice capo di Forza Italia Vittoria Michela Brambilla che ambisce, a sua volta, al posto di Sandro Bondi. Interferisce con l´intenso fiorire di cultura che non è ancora avvenuto ma - ci dicono - dovrà avvenire nei "circoli" di imminente fabbricazione presso il partito unico ex Casa delle Libertà.

Soprattutto questo darsi da fare di certi insegnanti va scoraggiato dalla destra (per una volta di mercato e non solo Dio, Patria, famiglia), come dimostra la storica frase del vice leader Fini: «La prossima volta i sindacati non ci fregano più». Infatti occorre screditare la scuola pubblica.

* * *

Lo sforzo anti scuola pubblica è vasto e ben congegnato. Quel brutto affare che è il bullismo avviene sono nella scuola pubblica. Solo nella scuola pubblica l´insegnante bizzarra castiga l´allievo razzista in modo sbagliato e ridicolo. E c´è sempre una maestra che fa tacere un bambino mettendogli un cerotto sulla bocca. Mai in una scuola privata.

Ora Fini, che altrimenti non comanda nulla, e che non poteva togliere al grande imputato Berlusconi la guida della celebre guerra contro i giudici, ha deciso di mettersi alla testa di una grande campagna contro gli insegnanti. Trova un terreno ben preparato dai media. In tutto il Paese, un solo giornale, l´Unità, ospita regolarmente articoli di insegnanti sulla scuola (soprattutto gli interventi di difesa della scuola pubblica di Marina Boscaino). Non ricordo alcun programma televisivo di grande ascolto che abbia mai insegnanti fra i testimoni e i protagonisti (dico: insegnanti veri, non i pochi politici che di volta in volta un po´ li difendono). E i telegiornali si precipitano una volta ogni anno sugli esami di maturità, soprattutto se è stato trovato l´errore nella traccia di un tema.

Tipica illustrazione mediatica del problema è avvertirci tramite stampa che «gli insegnanti sono un milione», senza dirci, nello stesso contesto, quanti sono gli studenti del sistema pubblico in Italia. Un milione è un grande numero. Quanti saranno, in quell´universo, i nullafacenti, oltre alle bande di "frustrati eversori"?

Precisano prontamente e sistematicamente i media: il 96 per cento delle spese del Ministero se ne va in stipendi. Il suggerimento è chiaro. L´esosità dei docenti si mangia tutto, per i ragazzi non resta nulla. È un po´ l´anatema che si vuole lanciare sugli anziani pensionati: egoisti, vi portate via ciò che spetta ai giovani. Nel caso degli insegnanti l´insinuazione è ancora più arbitraria perché rovescia la situazione vera, che è questa: per la scuola i soldi continuano ad essere così pochi che bastano appena per gli stipendi degli insegnanti. E gli stipendi degli insegnanti italiani sono tra i più bassi d´Europa.

* * *

Proprio in questi giorni An, il partito che Fini ha definitivamente subordinato a Forza Italia (tanto che da An si è appena staccato il ramo Storace-Bontempo per dare vita al nuovo partito "La Destra"), ha presentato in Senato un suo modesto "progetto di legge" sulla scuola che si distingue (stando al Sole 24Ore dell´11 luglio) quasi solo per l´idea di far governare le scuole da consigli di amministrazione in cui siedono rappresentanti di imprese. Quali imprese, a quale titolo, perché? Fa luce, lo stesso giorno, il quotidiano Libero con l´articolo "Solo il buono-scuola può salvare l´istruzione" a cura dell´ex ministro della Difesa ed economista della scuola di Chicago, Antonio Martino.

Scatta dunque la grande offensiva contro la scuola pubblica e viene in mente, con nostalgia, quel tempo fondante della democrazia americana, quando il filosofo e pedagogista John Dewey scriveva nel suo celebre "Public School and Democracy" (1906): «La scuola pubblica è il fondamento dell´uguaglianza e della libertà».

Ma ecco come Libero e Martino motivano il progetto della destra italiana: «La scuola italiana è in crisi (si intende: la scuola pubblica, ndr). Il sistema è inefficiente, intorpidito e allergico al cambiamento, preoccupato più di tutelare gli interessi e di "livelli di occupazione" degli insegnanti anche se incapaci, e spacciano il tutto come libertà di insegnamento. È una scuola liberticida perché tende a imporre alla collettività programmi scolastici uniformi dettati dall´alto. È una scuola fortemente iniqua perché nega ai meno abbienti la possibilità di scegliere la scuola per i propri figli».

Ora sappiamo da dove il vulcano spento di Gianfranco Fini trae i materiali che intende usare contro la scuola pubblica italiana.

Libero però è un motore brillante e bene informato e ci guida, molto al di là di ciò che An desidera farci sapere (o far sapere al suo sindacato e alla sua destra sociale, che è una bella fetta di quel partito). Come abbiamo detto, l´autore dell´articolo è il fedele discepolo del guru liberista Milton Friedman. Poiché Martino è laico, e Friedman si è interessato poco di scuola e molto di "liberazione" dalle tasse, Martino non si occupa dell´altro lato della questione americana, dell´immenso favore alle scuole religiose, con l´espediente del "buono scuola". Ci dice che tutte le scuole vanno equamente finanziate in base al numero degli alunni che vi accedono.

E tutti gli alunni possono accedervi (secondo il disegno liberista di Friedman e di Martino) in base al "buono" che ciascun allievo riceve e che "qualunque scuola" accetta. In apparenza finisce ogni distinzione fra scuola pubblica e scuola privata e fra scuola religiosa e scuola laica. In realtà si sommano ragioni logistiche (dov´è la scuola?), ragioni di programma (che cosa insegnano?), ragioni di fiducia (il mio gruppo contro gli altri gruppi, la mia fede contro le altre fedi). Se parliamo dell´America, tutto ciò produce una scuola frantumata, mille programmi diversi, la fine di quello straordinario processo di assimilazione e di omogeneità che la scuola pubblica americana riusciva a creare. E poiché ­ per ragioni costituzionali e a causa della natura multiculturale della società americana ­ la scuola pubblica di quel Paese è rigorosamente laica, ha sempre educato allo scambio di rispetto e di tolleranza, al punto da vietare le preghiere di qualunque religione prima dell´inizio delle lezioni al fine di evitare che la preghiera di un bambino fosse l´offesa alla preghiera non detta di un altro bambino, il grande argine crolla. E si verifica una corsa disordinata verso tanti tipi diversi di scuole religiose. Queste scuole ­ a volte ­ impediscono persino l´insegnamento dell´evoluzionismo, subordinano la scienza alla fede, escludono ogni contatto con fedi diverse ovvero ciò che è stato finora il punto alto della scuola pubblica democratica.

* * *

In altre parole, sotto le mentite spoglie dell´estremismo liberista, si finanziano a pioggia le scuole private e religiose e si priva il Paese di una scuola pubblica omogenea ("il fondamento della democrazia" di cui parlava John Dewey) con pericolo molto grande di frantumazione dell´apprendimento e di isolamento dei gruppi, delle etnie, delle culture. Ricordo l´inizio di tutto ciò: una grande campagna di screditamento e di abbandono della scuola pubblica, la stessa scuola pubblica che aveva, per decenni, avviato bambini e ragazzi di provenienze diverse, distanti, sconosciute le une alle altre, verso i numerosissimi premi Nobel americani con cognomi impronunciabili.

Gianfranco Fini è alla prima fase dell´attacco alla scuola, quella dell´insulto. Certo lo fa per l´irritazione verso una scuola che, in molte sue parti, è ancora viva. Antonio Martino gli completa la frase con l´invettiva verso "i programmi scolastici unici imposti dall´alto". Comincia così il processo di distruzione, senza trascurare di inserire prontamente e continuamente gli insegnanti nelle categorie dei "fannulloni" o incapaci o parassiti che vivono all´ombra dei sindacati. Subito dopo si fanno avanti le scuole private, ma in Italia l´operazione è più ambigua e camuffata. La talpa privata scava un tunnel da destra sul lato del liberismo, in nome dell´impresa, e un tunnel da sinistra sul lato dei valori, della famiglia, della protezione dei giovani. Il risultato, comunque, è frantumare la scuola di tutti. L´immagine è quella della sfera d´acciaio che sbatte contro la costruzione da eliminare.

Il nascente Partito democratico ha due vie d´uscita. Una è fare della scuola pubblica, della sua difesa, del sostegno che merita, della preparazione, della carriera, della qualità, del compenso per gli insegnanti, il punto alto del suo programma, qualcosa che può davvero, a breve termine e nei tempi lunghi, cambiare l´Italia. L´altra è lasciar perdere e aspettare che questo periodo della storia italiana sia dimenticato.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 29.07.07
Modificato il: 29.07.07 alle ore 14.51   
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« Risposta #3 inserito:: Luglio 30, 2007, 04:26:51 pm »

Caro Borrelli non sono d'accordo

Luigi Berlinguer


Ho grande stima del dottor Borrelli, cui credo che l’Italia pulita debba non poco. Concordo con l’assunto principale della sua intervista di venerdì scorso su Repubblica a proposito del gip Forleo e delle intercettazioni: la magistratura deve andare fino in fondo e accertare la verità e le relative responsabilità, perché - come dice Borrelli - «la questione importante è ora se ci sono state spinte politiche indebite» in quella vicenda finanziaria. Ricordiamoci che quelle operazioni di scalata bancaria sono state un pessimo episodio, nocivo per il Paese.

Ma ricordiamoci anche che esse sono saltate soprattutto grazie alla magistratura, non certo alla vigilanza di bankitalia. Anche per questo motivo l’autorizzazione parlamentare ad utilizzare le intercettazioni deve esser data.

Dissento invece su altre affermazioni del dr. Borrelli. «Le parole usate dal magistrato (Forleo) sono un fatto del tutto marginale», lui dice. Non sono d’accordo. Parlare, in questa fase del procedimento, a proposito di Fassino, D’Alema e La Torre di «inquietanti interlocutori» e di «consapevoli complici di un disegno criminoso di ampia portata» non mi sembra affatto marginale. Né concordo sul fatto che «non invalidi il profilo processuale... anticipare una valutazione che non competeva al giudice». Come mai la Forleo ha indebitamente «anticipato una valutazione»? Semplice svista? Sinceramente non credo. E perché ha usato quella terminologia? Non si è davvero resa conto della forte risonanza che quelle parole, in bocca sua, avrebbero avuto? Né ha valutato la loro enorme afflittività presso l’opinione pubblica ai danni di Fassino e D’Alema? Quelle parole sono state pietre, lapidanti, per una persona onesta, anche perché indebitamente «anticipate». Hanno suonato di fatto come un giudizio; così le ha certamente vissute l’opinione pubblica.

Borrelli critica l’opera di distrazione della gente, che «invece di guardare la luna è stata spinta ad osservare il dito che la indica». Sì, ma chi ha provocato questa distrazione se non lei, la Forleo; se non il modo «anticipato» ed esondante, non appropriato, con cui lei ha accompagnato la certo legittima richiesta sulle intercettazioni? Una «protagonista» come la Forleo può non essere consapevole che questo sarebbe stato il vero effetto mediatico del suo testo?

Un vero magistrato ha il dovere «deontologico» di essere cauto, sobrio, equilibrato. Ci sono svariate decisioni del CSM che lo ribadiscono. Ciampi ce lo ha severamente ripetuto spesso. L’imparzialità del giudice non basta che sia reale, deve anche apparire tale. La credibilità di un magistrato imparziale è affidata anche alla fiducia che egli ispira, che è connotato intrinseco della giurisdizione. La fiducia che trasmette la sua rigorosa compostezza. E deve anche soccorrere il buon senso, il senso delle cose, la misura. Questo è il magistrato, titolare di un «terzo potere», garante della giustizia, bene prezioso della democrazia. Le sue parole - si ricordi - possono essere macigni. Chiedo troppo?

Oggi c’è in Italia una seria questione di rapporti fra magistratura e politica. Certa destra politica la propone in termini gravi, inaccettabili, di attacco continuo contro i giudici ed i pm. E sappiamo anche perché: il giudice rigoroso ed imparziale è assai scomodo per il politico disinvolto. Bisogna essere inflessibili contro questi attacchi. Ma c’è anche un altro profilo comunque rilevante, il profilo vero: il necessario rispetto reciproco. Entrambe le parti devono meritarselo, il rispetto. Esso però è dovuto, è condizione di civiltà e di democrazia. E anche la politica esige rispetto, ne ha diritto, in principio. In Italia ce ne sono tanti di politici onesti, lo voglio gridare contro arbitrarie generalizzazioni. Non mi pare vero, dr. Borrelli, che «siamo sempre allo stesso punto», come lei afferma, che ora sia come 2-3 anni fa. E questo grazie anche alla magistratura, che ha perseguito e condannato alcuni politici e potenti corrotti. È necessario allora che verso i politici onesti (o ancora presunti tali, art.27 della Costituzione) si nutra rispetto. È necessaria cautela e ponderazione (non «anticipazioni») nel comportamento professionale del magistrato, nella valutazione da parte sua della natura ferocemente afflittiva di talune affermazioni, di certo linguaggio inevitabilmente consegnato alla pubblicità, e cioè ai media. Nella società di oggi, così tanto mediatizzata, questo aspetto è parte del profilo professionale del magistrato moderno e democratico. Si badi, non chiamo in causa norme disciplinari (potrei anche), le quali sfiorano questa tematica. Mi riferisco alle prescrizioni deontologiche, che sono profilo contiguo ma diverso da quello disciplinare; alla necessità cioè di comportamenti composti e consapevoli, al buon senso - ripeto - che fanno il vero magistrato. Il quale sa il diritto, è inflessibile, ma anche consapevole di questi altri aspetti della propria professione. Il magistrato che tutti ammiriamo, rispettiamo ed amiamo In Italia ce ne sono tanti, tantissimi. Qualcuno, però, non è così. Un magistrato che esonda nuoce alla magistratura, nuoce alla causa della sua autonomia e indipendenza.

Nella società complessa spesso valori di grande rilievo sono fra loro in conflitto. Diritti fondamentali si presentano anch’essi quasi alternativi, contrapposti. Il diritto all’informazione e quello alla privacy, ad esempio; il diritto ad una giustizia tempestiva e rapida e le esigenze di ponderazione nell’accertamento della verità; le esigenze dell’investigazione o della difesa ed il diritto all’onorabilità o alla privacy. In attesa che l’intero ordinamento si adegui a queste novità teoriche e funzionali, resta affidato alla professionalità e responsabilità dell’operatore la possibilità di trovare equilibrio fra i due beni, quando sono in conflitto fra loro.

In questi anni ho avuto modo di osservare in vari paesi europei lo stato delicato dei rapporti fra il mondo politico e quello giudiziario. In Italia esso ha subito una grave degenerazione soprattutto nella passata legislatura; ma posso assicurare che quel rapporto è sottoposto a tensioni delicate in vari paesi europei. Ebbene, se - al contrario - non si lavora con decisione ed equilibrio a costruire un reciproco rispetto, una «leale collaborazione», contenendo le tensioni, evitando arbitrarie generalizzazioni di patologie presenti ma assai circoscritte in entrambi i campi; se non si ristabilisce fiducia reciproca, la crisi sarà più grave, perché la posta in gioco è più grossa, non investe soltanto la pur rilevante tematica della corruzione politica. Rischia cioè di ledere il fondamento stesso della democrazia. Per questo sono così sensibile al valore della dontologia, dell’equilibrio, della compostezza, al rispetto dei rispettivi ruoli.

Pubblicato il: 30.07.07
Modificato il: 30.07.07 alle ore 7.50   
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« Risposta #4 inserito:: Agosto 05, 2008, 10:23:33 am »

5/8/2008
 
Leggere scrivere e... far di canto
 
 
 
 
 
LUIGI BERLINGUER*
 
Imparare la musica è cosa fra le più impegnative. È più difficile suonare che svolgere un esercizio di matematica o un tema d’italiano. Ma anche più coinvolgente, più emozionante. È fra le attività più formative che si conoscono, giacchè coniuga insieme gioia e fatica. Ma allora, perché la si tiene fuori dall’istituzione educativa principe: la scuola? Mistero. Come mai nella scuola italiana non si pratica l’arte, non si stimola la creatività artistica, che è inclinazione profonda di ogni essere umano? Mistero. Mistero e bestemmia. Vecchia decisione irresponsabile di una dottrina filosofico-pedagogica-politica che da cent’anni ci ha tenuto fuori dal mondo evoluto. Il «Comitato per l’apprendimento pratico per la musica per tutti gli studenti», che presiedo, lavora per lavare il torto subito (ne ha parlato su queste colonne Paolo Gallarati, «Se la musica tornasse a scuola», il 20 luglio). E ha ottenuto già qualche successo: ad esempio, la ripresa dei laboratori musicali nelle scuole e, soprattutto, l’inserimento della musica nel curriculum ufficiale della scuola dai 3 ai 14 anni.

A sostegno della nostra tesi sono le nuove conoscenze neurofisiologiche, che dimostrano che la pratica musicale sviluppa le altre, tutte le facoltà cerebrali e favorisce un miglior rendimento culturale e scolastico complessivo degli alunni. Come anche lìantica esperienza pedagogica, che ha registrato una più matura socializzazione e un reciproco rispetto ottenuti con la pratica musicale d’insieme, straordinario fattore educativo. Aristotele diceva che la musica induce alla virtù e favorisce la libertà. Anche grazie alla nostra azione, nella scuola sono aumentate le attività musicali facoltative, ed è soprattutto cresciuta la domanda di genitori e alunni d’espanderne l’insegnamento. Il comitato è però impegnato in primo luogo nell’azione di rendere operativo il curriculum, che prevede l’apprendimento pratico musicale per tutti gli studenti, visto che l’Italia non è nuova al malvezzo di adottare una norma e lasciarla inapplicata nel cassetto. Per questo abbiamo moltiplicato le iniziative di approfondimento del tema di quale didattica musicale adeguata a tutti gli studenti. Non basta che un musicista sia chiamato a insegnare, abbia un diploma di conservatorio, ma non sappia come la musica s’insegna. E come la s’insegna tenendo conto che è altra cosa insegnarla a chi ha 3 anni, o 10 o 15. Stiamo producendo uno sforzo particolare nei conservatori, nelle università, nelle esperienze scolastiche, in sede dottrinaria, con l’ausilio di teatri, scuole di musica, corali, bande, associazioni musicali.

Un particolare va segnalato, di estrema rilevanza: non si parla d’insegnamento ai futuri musicisti professionisti, ma di musica per tutti. Che deve venire a far parte delle conoscenze e dell’esperienza intellettuale di base per ogni persona. Musica insegnata a scuola a tutti per 2-3 ore settimanali soltanto, che richiede quindi metodi didattici coinvolgenti, accattivanti, che sostengono il percorso formativo e non lo scoraggino fin dai primi passi, e che però siano in grado di produrre allo stesso tempo una vera crescita culturale e artistica, per giungere a risultati di qualità. In più, occorre - in questo periodo di tagli e vacche magre - produrre uno sforzo compatibile col duro momento finanziario del Paese. Il Comitato presenterà a breve un progetto realistico, graduale, pluriennale, tendente a utilizzare razionalmente tutte le risorse già disponibili e avviare la definitiva curricularizzazione in concreto dell’apprendimento pratico musicale per tutti. Il ministro Gelmini ci ha incoraggiato a elaborare e presentarle un tale progetto. Lo faremo. Stiamo così promuovendo in Italia le basi per una nuova cultura musicale.Ma anche per la scuola, per cambiarla, vitalizzarla, deputata - come deve essere - a insegnare a leggere, scrivere, far di conto ma anche far di canto.

* presidente del Comitato per l’apprendimento pratico per la musica per tutti gli studenti
 
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« Risposta #5 inserito:: Agosto 29, 2008, 06:50:27 pm »

Scuola, la cura che non c’è

Luigi Berlinguer


La scuola torna in prima pagina. Aumenta l’attenzione politica su un tema che sembrava tramontato? Lo spero. Non vorrei che fosse una fiammata alimentata dalla benzina della vis politica. Sono anni che la scuola divide, e questo è un male. Da che dipende? Dal fatto - credo - che il dibattito culturale sulla scuola è arretrato di decenni, parla di una scuola che non c’è più. Cambiati i numeri, la natura, la missione; e di questo non c’è traccia nei commenti dei media. È ora invece che si cambino contenuti e metodi. È decisivo ciò che si impara e come. Occorre una rivoluzione curriculare e metodologica, con alla base la sollecitazione delle curiosità, degli interessi culturali e umani. Severità e rigore vanno insieme al coinvolgimento degli alunni. Il sapere è una conquista e non un’iniezione. Esiste una «questione meridionale» della scuola italiana? Temo proprio di sì. Pochi sanno che il «Comitato per lo sviluppo della cultura scientifica» che presiedo ha promosso un’indagine sulla presenza dei laboratori scientifici nelle scuole italiane. Le risultanze sono state rivelatrici. Laboratori ce ne sono, ma sono scarsamente utilizzati.

Nel Mezzogiorno però questo difetto è di media più grave del 20% rispetto al centro-nord. Preoccupante. Osserviamo un altro indicatore: la cosiddetta dispersione scolastica di cui i giornali di ieri hanno parlato, finalmente con interesse: chi abbandona la scuola anzitempo o la conclude con molto ritardo. Ebbene, in Italia questo flagello è più grave della media europea, come si è letto. Purtroppo però, dopo gli articoli di ieri temo che torni il silenzio, perché la pubblicistica ignora il fenomeno; ai nostri soloni non importa se tanti ragazzi vengono perduti nel corso del cammino della conoscenza. Il dato più allarmante, però, è nel Sud, ove le province continentali ed isolane registrano un abbandono ed un ritardo superiore del 5-10% rispetto alla media nazionale, che - si sa - è sotto la media europea, e la stessa media europea non va bene rispetto agli obiettivi di Lisbona. Ancora una volta però in Italia è la parte più debole del Paese che paga.

Ancora: sanno i nostri lettori quale sia lo stato dell’edilizia scolastica nel Sud? Spesso è disastroso. Nel centro-nord un tale problema - più esistente soprattutto in ordine al tipo di architettura degli edifici rispetto alle nuove esigenze didattiche - non si presenta drammaticamente, perché è stato fatto abbastanza. Nel Sud invece è il contrario. Esistono numerosi edifici fatiscenti, improvvisati, inadeguati, precari, sovraffollati, privi di attrezzature (palestre, multimedialità, piscine etc.): insomma scuole vecchie, disastrate, e per questo inefficienti, incapaci di un’offerta didattica e formativa adeguate. Questa situazione ha pesato e pesa ancora per l’esistenza di doppi turni quotidiani, che sono stati un flagello della nostra scuola. Da ultimo, un altro fattore, l’handicap: nel Sud gli interventi sulle barriere architettoniche (scale, servizi igienici, porte, ascensori, trasporti) sono inferiori di almeno un 5-10% rispetto alla media nazionale. Né può trarre in inganno il dato della maturità, ove quest’anno le medie di voti elevati sono state leggermente migliori al Sud che al Nord: attenzione, è diffuso il timore che abbia giocato un brutto tiro il dato preoccupante della disparità di valutazione adottato dalle diverse commissioni esaminatrici locali. Da ultimo vorrei citare i dati Ocse-Pisa, già ricordati in molti interventi in questi giorni: l’Europa non boccia l’Italia e i suoi quindicenni, in tema di competenze scientifico-matematiche o di lettura, ma boccia il Sud e le Isole, assai indietro rispetto alla media europea (mentre il centro-nord la supera nettamente). Mi si faccia ricordare, infine, un dato universitario: nella media italiana soprattutto per il Sud i laureati triennali tendono a proseguire in numero eccessivo negli studi specialistici, in Lombardia e nel Nord invece un’indagine «Stella» ha accertato che circa l’80% lavora dopo la laurea triennale.

Esiste allora una questione meridionale nella scuola? Altroché. Forse si può parlare addirittura di un vero dramma, di un’emergenza nazionale della scuola nel Sud. Le fredde statistiche ricordate rivelano un fenomeno inedito: un abbassamento della complessiva qualità scolastica nel Sud. Nel passato, in piena «questione meridionale» generale, un liceo o una scuola elementare di Napoli aveva in genere un livello analogo alle consorelle milanesi. Oggi non è più così. Il dramma è gravissimo, bisogna fare qualcosa. La spiegazione è - come sempre - complessa. Non è individuale (di docenti o discenti) ma strutturale. Gli enti locali, nel centro-nord, hanno fatto in questi decenni cose straordinarie per la scuola. Assessori capaci, molti fondi, strutture funzionanti, trasporti, attività culturali con relative attrezzature, promozione delle reti e dei contatti scuola-territorio. Insomma una vera bonifica culturale, un ambiente stimolante. Docenti e studenti hanno tante occasioni per arricchirsi e formarsi meglio. Nel Sud tutto questo o è episodico, o non c’è. Nel centro-nord la scuola è tema che influenza le scelte dell’elettorato locale, che stimola così gli amministratori. Al Sud o è episodico o non c’è. Nel centro-nord l’impianto educativo scolastico viene stimolato anche dal problem-solving, dal rapporto baconiano del «setting something in motion», dall’apprendere attenti alla dinamica e non con una conoscenza statica; nel Sud invece...

In altre parole l’ambiente e il territorio oggi - in qualunque Paese evoluto (Scandinavia docet) - è condizione essenziale del successo della scuola. Come pure l’impianto didattico, adeguato alla grande novità di una scuola di tutti, che deve essere stimolante, coinvolgente, aperto è - ovviamente - severo e responsabilizzante. Conta cioè il contesto culturale in cui sono immersi docenti e studenti: nel Sud c’è quasi un deserto, ci sono solo eccezioni ed eroi, e quanta fatica costa lavorare in queste condizioni. Manca un tessuto e un sostegno. Quali potrebbero essere i rimedi? Certamente generali, ma il Sud è una vera emergenza nazionale. Nel Sud pesa assai di più la circostanza che la nostra scuola non stimola, non coinvolge, non favorisce la risposta agli interrogativi di senso, non viene percepita come una cosa propria. Ancor più nel Sud necessita un management strutturale, una riorganizzazione della didattica, un cambiamento epistemologico dei curriculi e dell’insegnamento; occorre motivare il bambino e il ragazzo.

Scuola e territorio, cioè. Ma in Italia appunto non esiste un solo territorio. C’è un territorio Centro-Nord e un territorio Sud. E una parte cospicua di questo territorio sfugge al controllo dello Stato, vi convivono Stato e potere criminale, violenza e pizzo sono vissuti come normalità, contribuiscono anch’essi a «educare», a «formare coscienze» distorte, «cittadini». Una bestemmia, che fa dell’Italia un Paese diverso, di difficile comparazione persino statistica in sede europea. Raccapricciante la rassegnazione con cui accettiamo questa tragedia.

Sono convinto che grave errore sarebbe non approvare il federalismo in Italia, anche per la scuola. Abbiamo bisogno di decentrare, nella scuola. Ma non è questa la vera emergenza nazionale, oggi, da gridare al mondo: è l’«originalità» tutta italiana, è il «doble poder». È questo Sud, ieri Magna Grecia, culla mediterranea, eccellenza culturale mondiale, oggi patria fra le altre di cose che tutto il mondo chiama mafie, assumendo un vocabolo meridionale italiano nel lessico internazionale. Va cambiato questo Sud, va salvata la scuola del Sud. E la scuola tutta.

Pubblicato il: 29.08.08
Modificato il: 29.08.08 alle ore 11.32   
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« Risposta #6 inserito:: Agosto 29, 2008, 07:02:12 pm »

29/8/2008
 
Non basta dare i numeri
 
 
GIOVANNA ZUCCONI
 
A scuola in grembiule, o con i jeans e la felpa, in uniforme, in bikini, vestiti da puffi o da palombari. Con il fiocco e con le trecce, oppure rapati a zero, in blazer e cravattino. In ordine sparso o allineati, in fila per tre col resto di due.

Con una, due, tre, quattro maestre. Per settimane scolastiche di quattro, cinque, sei, sette giorni. Cantando l’inno nazionale sull’attenti, o invece un rap di Fabri Fibra. E alla fine del quadrimestre, o del trimestre, o del pentamestre, portando a casa una pagella con i voti da uno a dieci, o con i giudizi, o anche con dei disegnini esplicativi. A noi va bene tutto. Davvero. Solo, una domanda: ma che scuola è, questa di cui stiamo (stanno) discutendo? Ci si va a imparare, e che cosa, e come?

Il «dacci oggi il nostro annuncio quotidiano» da parte del ministro dell’Istruzione, Maria Stella Gelmini, sta diventando un’abitudine alla quale non sapremmo più rinunciare. Il grembiule sì o no, la maestra unica sì o no, i voti numerici sì o no, il cinque in condotta sì o no, perfino i professori meridionali sì o no: sono tutte questioni interessantissime, sono dibattiti appassionanti, dubbi cruciali. Sui quali però decidiamo di sospendere ogni opinione. A noi va bene tutto, ripetiamo. E non perché ci sfugga quanto la forma sia sempre sostanza, e che quindi dietro l’ordine nell’abbigliamento degli studenti ci sia un’idea di Ordine, o un’idea di Disciplina nella stretta sulla condotta. Però, ecco, viene il dubbio che i ripetuti proclami di un ritorno al passato dei grembiuli e della Signora Maestra, siano altrettanti bocconcini dati in pasto a una società disorientata, spaventata, e quindi incline alla retromarcia: alla restaurazione. Il dubbio che il ritorno al passato sia una chimera consolatoria, o al meglio un wishful thinking (non traduciamo perché, dopo i conclamati successi della morattiana scuola delle tre I, tutti certamente capiscono l’inglese).

La scuola degli insegnanti cialtroni (ce ne sono), degli studenti indisciplinati e maleducati (ce ne sono), dei genitori che intervengono a giustificare ogni manchevolezza dei loro bambini (ce ne sono, e quanti), questa scuola - che è una parte della scuola di oggi, non tutta fortunatamente - è insopportabile. Ma altrettanto insopportabile era quella dei professori autoritari ma non autorevoli, degli studenti sottomessi, dei genitori assenti, che era una parte, neanche trascurabile, della scuola di ieri.

Vorremmo, nella scuola e non soltanto nella scuola, un ritorno al futuro: non a un passato che non c’è più né potrebbe più riproporsi. Vorremmo edifici scolastici a norma, mentre a centinaia sono addirittura illegali. Vorremmo sapere quali mezzi, quante risorse sono destinati all’istruzione, ora che abbiamo appreso che il 97 per cento del bilancio ministeriale va in stipendi agli insegnanti e al resto del personale: e qualche briciola appena all’innovazione, agli investimenti, appunto al futuro. Vorremmo soprattutto sapere che cosa si andrà a insegnare e a imparare, quali materie, per formare a quali professioni, con quale sguardo alla competizione internazionale. Ogni genitore attuale conosce il rituale dell’open day: ciascun liceo cittadino presenta alla clientela la propria offerta di corsi complementari mirabolanti, di laboratori alternativi, di attività strepitose, omettendo giocoforza di fornire l’unica informazione che conta, ovvero se gli insegnanti sanno e sanno trasmettere passione. Il dibattito su voti e grembiuli e altri dettagli rischia di diventare un rituale analogo, propagandistico.

Purché chi è in cattedra sia sapiente e sensibile e motivato, purché ciò che trasmette sia vitale, purché gli esclusi siano accolti, a noi francamente poco importa se scriverà in pagella «8» o «ottimo», e se avrà dinanzi grembiuli o minigonne. Facciamo pure la manicure al corpaccione malato della scuola pubblica, ma non soltanto quella, please.
 
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