Il vero Conservatore

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12/11/2008 (7:3) - COLLOQUIO

Berlusconi: "Caos Alitalia, la sinistra soffia sul fuoco”
 
Il premier: «Usa e Russia si parlino, o sarà Guerra Fredda»

AUGUSTO MINZOLINI


Lula è simpaticissimo. Lo conosco dal 2002. Ci siamo visti in tanti vertici internazionali. E’ capace e si è impegnato per il suo Paese, per difendere i poveri che sono tanti laggiù. Un vero amico. Il Brasile avrà un ruolo importante sulle scelte che il G20 dovrà prendere per affrontare la crisi finanziaria. E’ stato contentissimo di incontrare i suoi calciatori. Lui vorrebbe portare in politica Leonardo che è una persona intelligente, che ha a cuore i bambini. Ha messo su addirittura una Fondazione. E credo che in futuro anche Kakà si interesserà di politica. Io in Brasile andrò a febbraio. Per inaugurare un ospedale costruito in Amazzonia insieme a don Verzè che porterà il nome di mio padre. Da quelle parti fino a poco tempo fa operavano i bambini di appendicite stendendo un lenzuolo sui cofani delle jeep...». Osservando una spilla o un anello di bigiotteria tra le mani («li prendo perché mi viene a trovare una classe elementare e farò un regalino a ogni bambino») Silvio Berlusconi nel negozio di via del Plebiscito che è ormai una meta fissa sulla strada di ritorno a Palazzo Grazioli, parla dopo l’incontro con il Presidente del Brasile a Villa Madama sullo scenario internazionale e sui problemi che assillano l’Italia.

Presidente lei e Lula avete le stesse idee sulla crisi internazionale?
«Per tutti e due la cosa più importante è risolvere la crisi missilistica tra Usa e Russia. Forse è ancora più importante della crisi finanziaria. Se i due Paesi continuano a puntarsi le armi l’uno contro l’altro rischiamo di fare un salto all’indietro, di tornare alla Guerra Fredda. Una cosa pazzesca. Obama mi ha detto che incontrerà Medvedev al più presto. Io mi sto impegnando in un’opera di mediazione. E Obama è il primo a sapere che nessuno come me può aiutarlo in questa impresa».

Che impressione le ha fatto Obama?
«Solo la sinistra italiana poteva pensare che quella battuta, abbronzato, potesse avere qualcosa di razzista. Negli Usa non è scoppiato un caso. E lui con me si è fatto una risata. Ho detto che era intelligente, bello e abbronzato perché stavo per dire alto, ma ero con Putin e Medvedev che sono “alti” come me. Abbronzato per me è un complimento. Noi passiamo intere estati ad abbronzarci e di inverno ci mettiamo sotto la lampada. E poi lui è il primo a scherzare. E’ dotato di “sense of humour”, ha detto che cerca un cane che sia un incrocio come lui».

Carla Bruni, però, per quella battuta ha dichiarato: “sono contenta di essere francese...”
«Preferisco non commentare».

A parte le polemiche, Obama che tipo è?
«Non è il risultato di una campagna pubblicitaria come sostiene qualcuno. Non è assolutamente vero. Anzi, è una persona validissima. Certo ha di fronte una crisi difficile che negli Usa sta peggiorando. Deve imprimere subito una svolta. Come ho fatto io con i rifiuti e quasi con Alitalia. Altrimenti sapete che il consenso si può perdere da un momento all’altro».

Che consiglio gli darebbe?
«Chi ha responsabilità di governo deve dare fiducia alla gente. Deve diffondere ottimismo. Perché la crisi nasce anche da un’ondata di pessimismo che si è diffusa nella popolazione. Obama comunque ha il vantaggio di avere un’opposizione diversa. Avete sentito il discorso di McCain che ha offerto il suo appoggio nell’interesse del Paese? Da noi invece la sinistra vuole fare 4 anni e mezzo di campagna elettorale: polemizza solo, soffia sulla protesta e se ne infischia dell’interesse del Paese. Ad esempio, chi pensa che soffi sulla crisi dell’Alitalia se non la sinistra?». Ma la Cgil ha firmato l’accordo. «Si ma l’opposizione soffia sulle polemiche lo stesso. Non si accorgono che le proteste di questi giorni sono irresponsabili, che non possono essere accettati certi ricatti».

Parla degli scioperi, di queste forme di lotta che bloccano il traffico aereo?
«Io dico solo che i reati vanno puniti e che i diritti dei cittadini vanno garantiti. Comunque, se ne stanno occupando Gianni Letta e il ministro Matteoli».

Ma quale sarà l’epilogo di questa vertenza?
«La nuova società dovrà andare avanti facendo le assunzioni individuali. La sinistra, invece, si accorgerà che sta sbagliando tutto senza acquisire consenso».

In Trentino, però, il centro-sinistra con l’Udc ha vinto le provinciali...
«Era nelle previsioni ma in voti assoluti hanno perso consenso. Inoltre io non mi sono impegnato. Ho fatto solo un’intervista. In Abruzzo, invece, andrò almeno 3-4 volte e vedrete che la musica sarà diversa».

Insomma, questa opposizione, con Veltroni in testa, l’ha proprio delusa?
«Con questi non tratto più».

Il presidente della Camera Fini, però, è tornato a rispolverare insieme a D’Alema l’ipotesi di una Commissione Bicamerale. Che ne pensa?
«Non c’entro nulla. E’ cosa loro. Guardi io mi occupo delle relazioni internazionali, della crisi finanziaria. Di cose importanti... C’è però una cosa che non mi va giù».

Cioè?
«Quello che non sopporto più è questo continuo dileggiarmi sulle Tv e sui giornali. In televisione, in prima serata e contemporaneamente su tutti i canali mi prendono in giro. Anche lì c’è la mano della sinistra. Questa abitudine sta diventando davvero insopportabile».

da lastampa.it

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22/11/2008
 
Il peccato originale
 
 
AUGUSTO MINZOLINI

 
Una fissazione. Una tentazione irresistibile. Per i politici la Rai è inevitabilmente l’oggetto del desiderio. Un comportamento paradossale visto che non mancano argomenti più importanti in questi tempi di crisi economica. E, invece, mamma Rai si ingoia tutto, catalizza l’attenzione, diventa il pomo della discordia o un terreno di dialogo. In questa legislatura è accaduto subito. Walter Veltroni pose il problema Rai nel primo incontro che ebbe a quattr’occhi con il Cavaliere dopo le elezioni: avrebbe potuto parlare di tante altre cose, ma in quei venti minuti il leader del Pd si occupò soprattutto dell’azienda del suo cuore. Dopo sei mesi siamo al punto di partenza. Basta pensare che due giorni fa per spingere il centro-destra a boicottare il presidente eletto alla Commissione di vigilanza, quel Riccardo Villari che sta facendo impazzire Veltroni, il centro-sinistra ha cominciato un’azione di ostruzionismo sul «decreto salva-banche» su cui aveva dato già il suo ok. Un atteggiamento, per usare un eufemismo, a dir poco discutibile. In questi giorni è successo anche di peggio: i presidenti delle due Camere, nel lodevole tentativo di sbloccare la situazione, hanno chiesto a Villari di dimettersi invitandolo ad anteporre le ragioni politiche a quelle giuridiche che, invece, gli consentirebbero di restare al suo posto.

Ora il prima «buttiglioniano», poi «mastelliano», quindi «mariniano» Riccardo Villari può essere considerato una vittima o un furbone, ma in ogni caso l’iniziativa presa dai vertici istituzionali crea un precedente pericoloso. Le alte cariche, infatti, sono tali proprio perché sono garantite da regole giuridiche che consentono loro di essere al di sopra delle parti. Ebbene, subordinare queste regole alle opportunità politiche un domani potrebbe diventare imbarazzante: ad esempio, mutando il rapporto tra Pdl e Pd, qualcuno potrebbe chiedere a Fini o Schifani di lasciare il posto a un esponente dell’opposizione, facendo appello al loro senso di responsabilità, per aprire una nuova fase politica. Insomma, anche questa volta la Rai ha provocato una lunga serie di guai. I problemi, però, nascono sempre da un nodo politico irrisolto. La vicenda, infatti, poteva essere liquidata già un mese fa, c’era l’ipotesi di un accordo equanime che maggioranza e opposizione avrebbero potuto accettare magari turandosi il naso: l’opposizione avrebbe dato il via libera all’elezione di Gaetano Pecorella alla Consulta; Berlusconi avrebbe accettato obtorto collo l’elezione di Leoluca Orlando, che non gli ha mai risparmiato nulla in termini di accuse verbali, alla presidenza della Commissione vigilanza Rai. Invece, alla fine l’intesa è saltata: Veltroni - spinto da Antonio Di Pietro - ha posto un veto su Pecorella per la Consulta e Berlusconi è stato costretto a cambiare candidato; poi, il leader del Pd - convinto da Di Pietro - ha trasformato il nome di Orlando in un’icona senza alternative. Messa così, Berlusconi non avrebbe mai potuto accettare insieme un «veto» e un’«imposizione» di Di Pietro via Veltroni. Per cui siamo arrivati allo scontro e allo «showdown» sulla Rai che il Cavaliere avrebbe sicuramente evitato, non fosse altro perché qualcuno gli avrebbe ritirato o gli ritirerà fuori (Nanni Moretti docet) la solita questione del conflitto d’interessi. Insomma, un lungo elenco di errori. Troppi. L’accordo su Sergio Zavoli è stato siglato tardi. Magari tra qualche giorno la situazione sarà raddrizzata. Magari i commissari del centro-destra, come quelli del centro-sinistra, decideranno - scommette il veltroniano Goffredo Bettini - di non partecipare ai lavori di una Commissione di vigilanza presieduta da Villari. Magari quest’ultimo, abbandonato da tutti, si dimetterà pure. Resta, però, un problema politico irrisolto che produrrà altri guai visto che la politica non sarà precisa come la matematica ma ci si avvicina. Tutto questo «caos» nasce dai limiti di leadership di Veltroni e dalle contraddizioni della sua linea politica. Per dialogare con profitto i capi dei due schieramenti debbono rappresentare una leadership riconosciuta: in queste settimane Berlusconi promuoverà ministro della Salute Ferruccio Fazio, e al Turismo Michela Brambilla, e nessuno tra i suoi alzerà un dito: per Veltroni, invece, ogni intesa, ogni nomina si trasforma in un calvario, tutti ne contestano le decisioni. Ma è soprattutto la linea politica che è piena di ombre. Il «ma anche» veltroniano può essere applicato a tanti argomenti, ma non si può dire: dialogo con Berlusconi, ma sono anche alleato con il campione dell’«anti-berlusconismo» Di Pietro. È una posizione spericolata, foriera di incidenti di cui però ora Veltroni è rimasto prigioniero: il congresso del Pd è virtualmente aperto, si concluderà alle elezioni europee e Veltroni per sopravvivere, per raggiungere l’agognata soglia di salvezza del 30%, non potrà lasciare troppo spazio a Di Pietro sulla sua sinistra, dovrà coccolarselo. Contemporaneamente se Veltroni non romperà definitivamente con l’ex magistrato neppure le magiche doti diplomatiche di Gianni Letta potranno dare un senso al dialogo. Forse Zavoli farà il presidente della commissione di Vigilanza, ma inevitabilmente subito dopo si aprirà una polemica sul presidente Rai in attesa di uno scontro su qualcos’altro. È successo di nuovo ieri sulla giustizia. A un possibile accordo seguirà comunque una rottura. Così il leader del Pd continuerà a mordersi la coda fino alle Europee. Sulla Rai e non solo.

da lastampa.it

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6/3/2009 (7:19) - RETROSCENA - LO SCENARIO PER IL PDL

E ora il premier punta a doppiare gli avversari
 
Pier Ferdinando Casini: «Mi davano per morto»

L’ultimo sondaggio: 42 a 22. Casini: “Dario miope sul terreno dei radical, quelli lo batteranno sempre”


AUGUSTO MINZOLINI
ROMA

Pier Ferdinando Casini può essere considerato un osservatore imparziale visto che occupa quel segmento elettorale che divide il Pdl e il Pd. E a sentirlo ragionare davanti all’ascensore di Montecitorio che porta ai gruppi parlamentari, ci si accorge che nutre più di una riserva sulla politica del nuovo segretario del Pd, Dario Franceschini. «Stanno - spiega - giocando con il fuoco. Immaginano che se si arriva alla rivolta sociale Berlusconi sarà spazzato via. Sbagliano perché un’ondata del genere spazzerebbe via l’intera classe politica e Casini, D’Alema, Franceschini sono parte della classe politica come, se non più, di Berlusconi». Ed ancora: «La storia dell’assegno di disoccupazione è una follia. Dario ha deciso di coprirsi a sinistra e sul fronte Di Pietro ma è una politica miope. Se accetta il loro terreno quelli vinceranno sempre, ne spareranno sempre una più grossa di lui». «Elmentare Watson!» direbbe Sherlock Holmes. Ma per il Pd di oggi, a quanto pare, nulla è elementare.

E Casini lì davanti all’ascensore è in un brodo di giuggiole visto che anche lui usufruisce dei voti in libera uscita dal Pd: «Mi davano per morto - ridacchia -.
E invece... In fondo che colpa ne ho io se hanno messo Franceschini». Già, a parte il battage mediatico, sembra che il «rimedio» Franceschini serva a poco. L’ultimo sondaggio arrivato lunedì sulla scrivania di Berlusconi è impietoso. Si tratta di quei sondaggi che, uno può dire quel che vuole, hanno centrato le previsioni nelle due ultime elezioni politiche. Ebbene la novità è che assegna al Pdl quasi il doppio dei voti del Pd: il partito del Cavaliere è al 42% (il premier ha un indice di gradimento del 64%), quello di Franceschini è al 22%. Se il Pdl aumentasse di un punto e il Pd ne perdesse ancora mezzo, quest’ultimo, per usare il gergo automobilistico, verrebbe “doppiato”. Il dato interessante, quindi, è che l’operazione Franceschini, malgrado l’appeal televisivo tutto da verificare che gli assegna qualcuno, non ha bloccato l’esodo.

Anzi. Nel giro di una settimana (il campionamento è stato condotto venerdì scorso, cioè ad una settimana dall’elezione di Franceschini) il neo-segretario ha perso un punto.
E in tutte le direzioni: il Pdl insieme alla Lega (10%) e all’Mpa (1%) raggiunge il 53%; l’Udc tocca il 5,9%; Di Pietro si posiziona sul 7,5%; la sinistra massimalista nel suo insieme raggiunge l’8,7% (4,5% Rifondazione-Diliberto e il resto sinistra democratica, verdi e gli altri soggetti dell’arcipelago). Quindi, i voti del Pd prendono le strade dell’astensione, della sinistra massimalista, di Di Pietro, dell’Udc e financo - sembra strano ma emerge dalla ricerca che è nelle mani del Cavaliere - della Lega.

Berlusconi non commenta e preferisce occuparsi della disputa tra An e Lega sulle candidature per le amministrative. «La verità - si limita però ad osservare - è che il Pd rischia di esplodere». Aggiungendo nel suo ragionamento un corollario: l’unico punto di riferimento per un’opinione pubblica confusa dall’impatto con la crisi resta il governo; mentre sull’altro versante c’è il vascello del Pd, in balia delle correnti e senza una rotta precisa. «Esploderanno - prevede Fabrizio Cicchitto, uno dei consiglieri - dopo la catastrofe elettorale delle europee. La realtà è che la fusione tra ex dc ed ex pci non funziona. In più il democristiano Franceschini per recuperare voti a sinistra ha cominciato a fare l’estremista. Perderà di qua e di là. Senza contare che Casini sta diventando insidioso per loro: gli toglie voti ma non si alleerà mai con il Pd, altrimenti perderebbe metà del suo elettorato».

Appunto, la leadership di Franceschini si basa su un paradosso: un giovane e una politica vecchia. Il segretario del Pd, infatti, per turare le falle è stato costretto a puntare sulle vecchie identità delle forze che si sono unite nel partito, archiviando di botto quello che restava del nuovo che Veltroni aveva messo in campo al suo esordio. Per riprendere i voti attratti da Di Pietro ha giurato sulla Costituzione e ha definito Berlusconi «un pericolo per la democrazia». Per bloccare quelli in libera uscita verso la sinistra ha lanciato l’idea dell’assegno di disoccupazione («e pensare - ricorda l’ex segretario di Rifondazione Giordano - che ci avevano preso a pernacchie»). Per arginare il movimento di consensi verso l’Udc ha legato il possibile risparmio derivante dalla sua proposta sull’abbinamento tra le elezioni europee e il referendum elettorale, al bilancio delle forze dell’ordine. Franceschini, quindi, si sta agitando in ogni direzione. Ma questo rischia solo di peggiorare le cose. «In un momento di crisi - fa presente Mario Valducci, uno degli strateghi del marketing politico del Cavaliere - la gente si fida di persone di esperienza, che danno stabilità, non di uno che non ha né età né parte».

Né, secondo lo stato maggior del Cavaliere, queste carenze saranno superate grazie al supporto dei media. «Una volta - si lamenta il portavoce Bonaiuti - i quotidiani italiani quando venivano ipotizzate spese sociali, lodavano la prudenza e la parsimonia di Prodi. Adesso, invece, vanno tutti appresso a Franceschini e al suo assegno di disoccupazione che secondo Monorchio costerebbe un punto e mezzo del Pil. L’unico che ha posto qualche dubbio è stato Ricolfi...Probabilmente il solito establishment per colpire il Cavaliere sta puntando su Franceschini tant’è che Di Pietro è scomparso da giornali e Tv. Ma è un altro tentativo che finirà male come i precedenti».

da lastampa.it

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21/3/2009 (7:48) - RETROSCENA

Silvio si trasforma patriarca del Pdl
 

Berlusconi: il congresso? Cambia solo che avrò più responsabilità


AUGUSTO MINZOLINI
BRUXELLES

Forse il segnale più chiaro della metamorfosi che investe il centrodestra è in quell’ipotesi gettata lì da Silvio Berlusconi in una passeggiata tra i negozi di antiquariato della vecchia Bruxelles. «Alle elezioni europee non ci saranno manifesti - ha annunciato, quasi distratto mentre tentavano di rifilargli invano la statua di una danzatrice del ventre per 50 mila euro. Solo Tv e comizi dove è necessario». Magari alla fine - dipenderà dalla campagna elettorale - qualche manifesto ci sarà pure ma rappresenterà solo un personaggio, il Cavaliere, i visi degli altri candidati, invece, non si vedranno sui muri d’Italia. Insomma, ci sarà solo un santino in giro. Un partito fatto a sua immagine e somiglianza. Eh sì perché alla fine di questa dieci giorni di congressi (oggi si apre quello in cui An andrà in soffitta, domenica prossima si concluderà quello che sancirà la nascita del Pdl) il centro-destra avrà un unico Patriarca.

Forse è proprio questa espressione quella che descrive meglio il rapporto tra Berlusconi e la sua creatura, che ha voluto a tutti i costi, che considera «il regalo più prezioso - sono sue parole - che lascerà all’Italia». E’ inutile, quindi, cercare dialettiche interne, diversità. O meglio ce ne saranno pure, ma saranno rinchiuse in un recinto, in «quel teatrino della politica che mi fa schifo» per usare un’espressione coniata qualche giorno fa nel foyer di un teatro dal Cavaliere, perché non metteranno mai in discussione, appunto, la primazia del Patriarca: nessuno, infatti, neppure osa contendere a Berlusconi il presente, tutti puntano sul "dopo", quando sarà. La democrazia dentro il Pdl seguirà, quindi, ben altre regole rispetto a quelle classiche. Tutti potranno parlare, fare proposte, magari dissentire, ma alla fine sarà solo lui a tracciare la strada, magari condendo la decisione con qualche paternale. «In nessun partito - osserva il Premier passeggiando per le vie di Bruxelles - c’è tanta democrazia come nel nostro. Io non decido mai, dò consigli. Da noi chiunque può dire quello che vuole. Avete visto la lettera dei 101 sul decreto sicurezza? Io l’ho letta e l’ho condivisa subito».

Già, è il Cavaliere che avrà l’ultima istanza sia sulla linea politica, sia sulla scelta dei coordinatori regionali, dei membri della direzione, del consiglio nazionale e giù di lì. O, ancora, sui rimpasti di governo, o sulle nomine. Ascolterà proposte, suggerimenti, consigli e poi tirerà le somme. Non con il piglio del premier o del leader di partito, ma, appunto, del patriarca politico. In fondo ce ne sono stati tanti di personaggi del genere, amati e combattuti. Per Berlusconi addirittura si è scomodato anche uno scrittore liberale come Vargas Llosa per coniare l’immagine del caudillo democratico. Un’immagine che si richiama a De Gaulle o Peron. Già, loro non decidevano ma impersonavano loro stessi la «decisione». Il patriarca non sceglie ma interpreta il «bene comune» della famiglia, della tribù, del popolo e, in questo caso, del partito. «Fini è circondato - fa presente il Cavaliere - dalla stima di tutti, gli vogliamo tutti bene. Ora ricopre un ruolo istituzionale fra tre anni deciderà cosa fare». Come anche l’investitura a leader per chi ha creato il partito è un atto dovuto, scontato, naturale.

Ecco perché le polemiche delle settimane scorse sul come votare il Cavaliere per acclamazione o alzata di mano avevano del paradossale: si può votare un patriarca o un padre? «Per me - osservava ieri il Premier per le vie di Bruxelles - con il Pdl non cambia niente, avrò solo maggiori responsabilità. Il passaggio è importante formalmente ma è tanto tempo che con An siamo un’unica famiglia». E il patriarca naturalmente difende tutti i suoi, nessuno escluso. «Non ci saranno problemi nella scelta delle candidature - ha confidato ieri il Premier davanti ad un negozio di arte africana - perché intorno a Fini c’è tutta gente presentabile. Se c’è chi si oppone all’entrata di An nel Ppe? Assolutamente no. C’è solo l’invidia per un partito che già rappresenta il 42% degli italiani e può puntare al 51%. E comunque noi non siamo la destra estremista, radicale. Quella è rappresentata dalla fiamma tricolore».

C’è da chiedersi come tutto questo sia potuto accadere, come il Cavaliere sia riuscito a ritagliare un ruolo del genere per se stesso. Per gli errori degli altri, davvero tanti. E per un’indubbia capacità del personaggio di interpretare il baricentro del suo popolo, l’Italia moderata. «Sono 15 anni - ha spiegato lui stesso ieri a Bruxelles - che faccio da centro del centrodestra. Non ci sono mai state crisi. I rapporti con Fini e con Bossi sono rafforzati, non si è mai andati al di là di una discussione. Poi è chiaro che in vista delle elezioni ci sia competizione». La capacità, in sintesi, di essere il punto di equilibrio dell’Italia moderata, o se necessario di inventarsene un altro: un anno fa con la svolta del predellino lasciò fuori dalla porta l’Udc di Casini che ne aveva messo in dubbio la leadership. Oggi per calmare una Lega troppo intraprendente il Cavaliere è tornato ad usare il calcolatore: «Con l’Udc, che pure fa parte del Ppe, già oggi saremmo al 49%».

da lastampa.it

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28/3/2009 (7:14) - NASCE IL PDL

Balena bianca, l'ambizione del premier
 
Il premier pensa a una sovrapposizione con l'azione di governo

Così Berlusconi immagina il partito del 51 per cento

AUGUSTO MINZOLINI
ROMA


Alla fine il paragone azzardato lo accetta anche Ignazio a Russa, ex-reggente An, uno dei coordinatori del nuovo partito e neo-membro del Ppe. «No - fa presente - non siamo la dc delle correnti, delle congiure, delle crisi di governo. Quella proprio no. Ma se, invece, qualcuno accosta il partito del Popolo delle Libertà alla dc degli albori, quella di Don Sturzo, di De Gasperi, quella che si identificò con lo Stato, anzi lo ha costruito, il paragone va benissimo anche a me».

E’ sempre rischioso fare dei paragoni con il passato, si sa, ma in fondo il partito che Silvio Berlusconi sta fondando, può avere, con le dovute cautele, dei riferimenti a quell’esperienza. E non solo per l’adesione al Ppe. Certo il nuovo partito è calato in un sistema bipolare. E’ attrezzato secondo le esigenze della società di oggi che pretende, impone leadership forti. Come pure raccoglie le esperienze diverse di quei partiti laici (la citazione di Craxi è stata estremamente affettuosa nell’intervento del premier) che governarono l’Italia per quarant’anni, visto che ha l’ambizione di ricomporre, riveduto e corretto, lo stesso blocco politico-sociale. Ma nel giorno in cui Umberto Bossi, dopo aver fatto penare non poco il Cavaliere a due ore dall’inizio del congresso accetta di sedere in prima fila ratificando ancora una volta la solidità dell’alleanza, i paragoni con quel partito democristiano delle origini non sono pochi.

Intanto nei maestri che Berlusconi cita: appunto, Don Sturzo e De Gasperi. Poi nel riconoscimento delle radici cristiane, la citazione del Papa nel discorso di ieri, l’attenzione verso le gerarchie cattoliche, il no al collateralismo (di cui Berlusconi ha parlato giorni fa), ma anche i frequenti incontri con il cardinal Bertone che hanno portato all’approvazione di una legge sul testamento biologico che ha fatto brindare il giornale dei vescovi italiani, Avvenire. Ed ancora il battesimo del fuoco contro un cartello delle sinistre: la Dc nel ’48; il Pdl negli anni che vanno dal ’94 oggi. Ma il paragone più vicino è il rapporto stretto con il governo, con lo Stato. Berlusconi forgia il Pdl sulla sua esperienza di governo. Allora De Gasperi lo fece per far risalire l’Italia in ginocchio del dopoguerra. Berlusconi ci prova ora per superare la più grave crisi economica globale degli ultimi venti anni.

E in questo schema, oggi come allora, c’è un’identità totale tra partito e governo, tra partito e un nuovo Stato che nella testa del Cavaliere va costruito, se è necessario cambiando anche la Costituzione con il consenso del popolo (altro termine fondamentale nel vocabolario democristiano), «per renderlo più rapido nelle decisioni, più attrezzato per affrontare i problemi di oggi». Non per nulla nella testa di Berlusconi, sempre attento all’impatto mediatico, il congresso è stato anticipato da un lungo «prologo» congressuale di tre giorni che ha celebrato l’azione del governo: il viaggio sulla Freccia rossa per inaugurare l’altra velocità sulla rotta Milano-Roma; l’inaugurazione del termovalorizzatore di Acerra, al grido «lo Stato c’è, è tornato»; nei desideri del premier c’era anche il varo del piano casa (stretto parente per ammissione dello stesso Cavaliere del «piano» di Fanfani che fu uno dei grandi volani del boom italiano del dopoguerra), che non è andato in porto - sono sue parole - «perché la sinistra ha cambiato la Costituzione in peggio, attribuendo alle Regioni poteri vitali togliendoli allo Stato, che non può intervenire su questioni fondamentali». Una tre giorni che ha preceduto una relazione congressuale incentrata tutta sull’azione del governo e su quello che - secondo il Cavaliere - il governo avrebbe potuto fare se non ci fossero istituzioni arretrate e un’opposizione miope.

Appunto, popolo, governo, Stato. E su queste tre parole chiave che Berlusconi sta plasmando il Pdl. «Tutti gli italiani - ha rimarcato dalla tribuna il Premier - dovrebbero stringersi attorno al governo che è l’elemento chiave per superare la crisi». E il paragone non va confuso con la dc del drammatico epilogo finale, quella dilaniata dalle correnti, dalle clientele dalla questione morale. La dc delle origini era un partito innovativo, era il partito delle riforme, che disegnò l’Italia del dopoguerra. «Anche i dati elettorali sono simili - ricorda un deputato piemontese di Forza Italia Osvaldo Napoli - : tra gli anni 50-60, a parte il ’48, la dc viaggiava su percentuali che andavano tra il 43-45%». E in fondo anche il modo di atteggiarsi di Berlusconi ricorda, in parte, la dc di allora: De Gasperi mediò con gli alleati ma tentò anche la cosiddetta «legge truffa» per governare in maggiore libertà assicurandosi il 51%. Il Cavaliere in questi anni ha fatto lo stesso. «Sono stato sempre al centro - non si stanca di ripetere -, ho mediato tra gli alleati». Ma ha anche cercato una semplificazione. Oggi la fusione di Forza Italia e di An nel Pdl; poi l’obiettivo di ricoinvolgere, con le buone o calamitandone i voti, l’Udc, perseguendo il sogno ripetuto ieri di raggiungere il mitico 51%. Lo stesso di De Gasperi. E il paragone non dispiace neppure ai laici.

«E’ una suggestione - osserva Cicchitto, uno dei consiglieri del Premier - forse un po’ azzardata, ma vera». «Come la dc di allora - spiega addirittura l’ex-radicale, Benedetto Della Vedova - è un partito-Paese. Un partito plurale com’è plurale la società di oggi». E in fondo questo accostamento è dimostrato anche dalle piccole cose. In un partito del genere, a quanto pare, il repubblicano Nucara, erede del laicismo italiano, non entrerà (ieri ha dato forfait sul palco del Cavaliere). Mentre il ministro ex-dc Rotondi si trova a casa sua: «Togliamo - spiega - l’aggettivo origini. Questa è la dc del 2009. Pure nei colori. Mi ricordo di una circolare in cui Fanfani vietava di utilizzare sui manifesti il colore rosso e consigliava l’uso del colore della libertà, l’azzurro. Il colore del Pdl». Resta da vedere se un partito del genere, del 40%, non contrarrà il virus delle correnti e delle nomenklature. «Ma sono problemi - sospira uno dei consiglieri del Cavaliere - che si porranno nel dopo-Berlusconi. Semmai arriverà».

da lastampa.it

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