UMBERTO ECO.

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Umberto Eco

La bustina di minerva

Il diritto alla felicità

La Dichiarazione d’indipendenza americana lo riconosce a tutti gli uomini. Ma c’è un equivoco. Dovremmo abituarci a pensare una vita piena in termini collettivi e non come soddisfazione solo individuale
   
Talora mi viene il sospetto che molti dei problemi che ci affliggono – dico la crisi dei valori, la resa alle seduzioni pubblicitarie, il bisogno di farsi vedere in tv, la perdita della memoria storica e individuale, insomma tutte le cose di cui sovente ci si lamenta in rubriche come questa – siano dovuti alla infelice formulazione della Dichiarazione d’indipendenza americana del 4 luglio1776, in cui, con massonica fiducia nelle magnifiche sorti e progressive, i costituenti avevano stabilito che «a tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla vita, alla libertà, e al perseguimento della felicità».

Sovente si è detto che si trattava della prima affermazione, nella storia delle leggi fondatrici di uno Stato, del diritto alla felicità invece che del dovere dell’obbedienza o altre severe imposizioni del genere, e a prima vista si trattava effettivamente di una dichiarazione rivoluzionaria. Ma ha prodotto degli equivoci per ragioni, oserei dire, semiotiche.

La letteratura sulla felicità è immensa, a iniziare da Epicuro e forse prima, ma a lume di buon senso mi pare che nessuno di noi sappia dire che cos’è la felicità. Se si intende uno stato permanente, l’idea di una persona che è felice tutta la vita, senza dubbi, dolori, crisi, questa vita sembra corrispondere a quella di un idiota – o al massimo a quella di un personaggio che viva isolato dal mondo senza aspirazioni che vadano al di là di una esistenza senza scosse, e vengono in mente Filemone e Bauci. Ma anche loro, poesia a parte, qualche momento di turbamento dovrebbero averlo avuto, se non altro un’influenza o un mal di denti.

La questione è che la felicità, come pienezza assoluta, vorrei dire ebbrezza, il toccare il cielo con un dito, è situazione molto transitoria, episodica e di breve durata: è la gioia per la nascita di un figlio, per l’amato o l’amata che ci rivela di corrispondere al nostro sentimento, magari l’esaltazione per una vincita al lotto, il raggiungimento di un traguardo (l’Oscar, la coppa, il campionato), persino un momento nel corso di una gita in campagna, ma sono tutti istanti appunto transitori, dopo i quali sopravvengono i momenti di timore e tremore, dolore, angoscia o almeno preoccupazione.

Inoltre l’idea di felicità ci fa pensare sempre alla nostra felicità personale, raramente a quella del genere umano, e anzi siamo indotti sovente a preoccuparci pochissimo della felicità degli altri per perseguire la nostra. Persino la felicità amorosa spesso coincide con l’infelicità di un altro respinto, di cui ci preoccupiamo pochissimo, appagandoci della nostra conquista.

Questa idea di felicità pervade il mondo della pubblicità e dei consumi, dove ogni proposta appare come un appello a una vita felice, la crema per rassodare il viso, il detersivo che finalmente toglie tutte le macchie, il divano a metà prezzo, l’amaro da bere dopo la tempesta, la carne in scatola intorno a cui si riunisce la famigliola felice, l’auto bella ed economica e un assorbente che vi permetterà di entrare in ascensore senza preoccuparvi del naso degli altri.

Raramente pensiamo alla felicità quando votiamo o mandiamo un figlio a scuola, ma solo quando comperiamo cose inutili, e pensiamo in tal modo di aver soddisfatto il nostro diritto al perseguimento della felicità.

Quando è al contrario che, siccome non siamo delle bestie senza cuore, ci preoccupiamo della felicità degli altri? Quando i mezzi di massa ci presentano l’infelicità altrui, negretti che muoiono di fame divorati dalle mosche, ammalati di mali incurabili, popolazioni distrutte dagli tsunami. Allora siamo persino disposti a versare un obolo e, nei casi migliori, a impegnare il cinque per mille.

È che la dichiarazione d’indipendenza avrebbe dovuto dire che a tutti gli uomini è riconosciuto il diritto-dovere di ridurre la quota d’infelicità nel mondo, compresa naturalmente la nostra, e così tanti americani avrebbero capito che non devono opporsi alle cure mediche gratuite – e invece vi si oppongono perché questa idea bizzarra pare ledere il loro personale diritto alla loro personale felicità fiscale.

26 marzo 2014 © Riproduzione riservata
DA - http://espresso.repubblica.it/opinioni/la-bustina-di-minerva/2014/03/19/news/il-diritto-alla-felicita-1.157770

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Joyce e la Maserati di La Russa
Che senso ha svenarsi e comprare all’asta un’auto blu solo per posare il sedere sul posto già scaldato da un sottosegretario? E fare follie per le lettere erotiche di uno scrittore? Il collezionismo è sempre una forma di feticismo

Sfogliando i cataloghi di case d’asta come Christie o Sotheby si vede che, oltre a opere d’arte, libri antichi, autografi e cimeli vari, sono battuti quelli che si chiamano “memorabilia”, tipo, che so, le scarpette portate dalla diva tale nel tale film, una penna appartenuta a Reagan, e cose del genere. Ora occorre distinguere tra collezionismo bizzarro e caccia feticistica al cimelio. Il collezionista è sempre un poco folle, anche quando si svena a raccogliere incunaboli della Divina Commedia, ma la sua passione è concepibile. Andando a sfogliare bollettini di collezionismo si vede che c’è anche chi raccoglie bustine di zucchero, tappi di Coca Cola o schedine telefoniche. Ammetto che sia più nobile collezionare francobolli che tappi di birra, ma al cuore non si comanda.

Diverso è volere a tutti i costi le scarpette portate dalla diva in quel film. Se tu collezioni tutte le scarpette portate da dive, da Meliès in avanti, allora la tua follia ha un senso, ma che cosa te ne fai di un unico paio?
Su “Repubblica” del 28 marzo scorso ho trovato due notizie interessanti. La prima, che appare anche in altri quotidiani, riguarda l’offerta su Ebay delle auto blu messe all’asta da Renzi. Capirei ancora che qualcuno possa desiderare una Maserati e colga l’occasione di acquistarne una, sia pure onusta di chilometri, a prezzo stracciato, accettando poi di spendere un sacco di soldi per la sua manutenzione. Ma che senso gareggiare a suon di migliaia di euro per impadronirsi di quella comperata coi soldi nostri da La Russa, a un prezzo doppio o triplo di quello registrato nella lista dell’usato di “Quattroruote”? Qui il feticismo è evidente, anche se non si riesce a comprendere la soddisfazione di chi potrà posare il sedere sui sedili in pelle già riscaldati da un personaggio illustre. Per non dire di chi offre cifre esorbitanti per crogiolarsi là dove si è scaldato le natiche un semplice sottosegretario.

Ma passiamo ora a un argomento apparentemente diverso, che appare sullo stesso numero, e in doppia pagina. Sono state messe all’asta lettere d’amore scritte a 26 anni da Ian Fleming, con prezzi intorno ai 60 mila euro l’una, lettere in cui il giovane agente non ancora troppo segreto scriveva «Vorrei baciarti sulla bocca, sul seno, sulle regioni più basse». Ora esiste legittimamente un collezionismo di autografi e, autografo per autografo, può risultare più divertente uno alquanto pruriginoso. Anzi, persino un non collezionista sarebbe lieto di mettere le mani sulla lettera dove Joyce scriveva a Nora «sono il tuo bambino, vorrei che tu mi picchiassi, frustassi persino… non per gioco ma sul sedere e sulla carne nuda». O quella in cui Oscar Wilde scriveva all’amato lord Douglas «è un miracolo che quelle tue labbra rosse come petali di rosa siano fatte non meno per la musica del canto che per la follia dei baci». Sarebbero se non altro ottime “conversation pieces” da mostrare agli amici per passare una serata spettegolando sulle debolezze dei grandi.

Quello che invece non mi pare sensato è il valore che si suole dare a questi reperti per la storia della letteratura e per la critica letteraria. Il sapere che Fleming a ventisei anni scriveva lettere tipiche di un adolescente in calore, cambia forse il nostro diletto nel leggere le storie di James Bond o il giudizio critico che si può pronunciare sullo
 stile del suo autore? Per capire l’erotismo di Joyce, quale fatto letterario, basta leggere lo “Ulisse”, specie l’ultimo capitolo – anche se chi lo ha scritto avesse vissuto vita castissima. Visto che per molti grandi non solo è accaduto che la loro pagina fosse lasciva ma la vita proba, bensì che la loro pagina fosse proba ma la vita lasciva, cambierebbe il nostro giudizio su “I promessi sposi” se venisse alla luce che Manzoni a letto era un birichino e le sue due mogli sono morte sfiancate dalla sua satiriasi?
So che è diverso volere la Maserati di La Russa e avere documenti che provano come certi autori fossero fisicamente (o solo mentalmente!) erettili. Ma, tutto sommato, sono due forme di feticismo.
07 aprile 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/la-bustina-di-minerva/2014/04/02/news/joyce-e-la-maserati-di-la-russa-1.159417

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La bustina di minerva

Parlamento e governo sono legittimi. Lo dice la Costituzione, che nessuno legge

Il Parlamento sarebbe delegittimato perché è frutto del Porcellum. E Renzi sarebbe un capo del Governo 'abusivo' perché non eletto dal popolo. Ma questi discorsi, agitati non solo dalla destra populista, non reggono. Basterebbe conoscere la Carta Costituzionale e farsi guidare da quella
   
Parlamento e governo sono legittimi. Lo dice la Costituzione, che nessuno legge
Su questo argomento mi ero intrattenuto in una bustina di due anni fa, ma non sono io che mi ripeto. Infatti ritrovo sempre nel corso delle varie discussioni su Governo, Parlamento, legge elettorale, due affermazioni che sino a ieri sembravano patrimonio di gruppi della destra populista, ma talora vengono ripresi anche da persone di altra estrazione politica e altro spessore culturale.

La prima affermazione è che questo Parlamento è delegittimato perché è stato eletto con il Porcellum, legge dichiarata incostituzionale. Ma nel momento in cui questo Parlamento è stato eletto il Porcellum era legge dello Stato, non si sarebbe potuto votare secondo altra legge, e quindi il Parlamento è stato eletto secondo la legge allora vigente. Si dovrà certo procedere a nuove elezioni in base a una nuova legge, ma chi deve decidere quale sia questa nuova legge è pur sempre il Parlamento attuale, nel pieno dei suoi poteri in quanto eletto secondo le regole che vigevano al momento della sua elezione.

Capisco che la situazione possa suscitare perplessità, ma o si mangia questa minestra o si salta questa finestra, e ogni affermazione sulla illegittimità di questo Parlamento appare campata in aria.

L'altra idea che circola è che il capo del Governo attuale e i suoi ministri non sono stati eletti dal popolo. È vero che sarebbe stato meglio per Renzi affrontare nuove elezioni e presentarsi sulla scena politica come capo eletto del partito che avesse riscosso la maggioranza dei consensi, ma questo non avrebbe per nulla significato che Renzi, in quanto futuro capo del Governo, sarebbe stato eletto dal popolo. È stata astuzia berlusconiana, ponendo il suo nome e il suo volto come simbolo della sua lista, ad avere convinto chissà quanti elettori che votando la sua lista si eleggeva lui come capo del Governo. Niente di più falso, tanto è vero che Berlusconi avrebbe potuto vincere le elezioni e poi andare a proporre al capo dello Stato un premier di sua scelta, Santanché, Scilipoti o Razzi, tanto per dire, senza per questo violare il dettato costituzionale.
La Costituzione infatti stabilisce che il popolo elegge i parlamentari (con preferenze o liste bloccate, questo è un altro problema, ma la Costituzione non si pronuncia in merito), il Parlamento elegge il presidente della Repubblica il quale, dopo avere ascoltato i rappresentanti dei vari partiti, nomina lui, sponte propria, il capo del Governo e i suoi ministri, e in linea di principio potrebbe nominare anche sua nonna, o il capostazione di Roccacannuccia, se la maggioranza delle forze politiche gli avesse fatto il loro nome.

Spetterà poi al Parlamento dare fiducia al Governo nominato dal presidente della Repubblica (così istituendo un controllo da parte dei rappresentanti del popolo) e se questa fiducia viene negata tutto ricomincia da capo a quindici, sino a che il presidente della Repubblica non trova un Governo che piaccia al parlamento. Così è avvenuto che presidenti della Repubblica abbiano nominato come capi del Governo personaggi non parlamentari come Dini e Ciampi, e come ministri vari tecnici, e persino quando il presidente ha nominato Monti, facendolo senatore a vita un minuto prima, Monti non era stato affatto eletto dal popolo bensì appunto nominato dal presidente.

Il bello è che queste cose sono dette, sia pure in maniera un poco indiretta, dall’articolo 64 della Costituzione, dove a un certo punto si precisa: «I membri del governo, anche se non fanno parte delle camere, hanno diritto, e se richiesti obbligo, di assistere alle sedute. Devono essere sentiti ogni volta che lo richiedono». Capito? Per i costituenti era talmente ovvio che i membri del governo potessero benissimo essere estranei al Parlamento che si precisava in che modo però potessero o dovessero partecipare alle sue riunioni. A essere onesti, quando a Berlusconi si rimproverava di farsi vedere pochissimo in Parlamento, non si sarebbe dovuto censurarlo come presidente del Consiglio bensì come deputato o senatore neghittoso.
16 aprile 2014 © Riproduzione riservata

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'E quant’altro'

Per fortuna alcune parole di moda come “attimino” o “esatto” sono tramontate. Molto meglio certi neologismi giovanili. Alcuni ne ho adottati: mitico, lecchino, rinco, allupato, bollito, caramba, tamarro e fancazzista
   
È ovvio che le persone che hanno raggiunto un’età sinodale siano infastidite dallo sviluppo della lingua, non riuscendo ad accettare i nuovi usi degli adolescenti. E la loro unica speranza è che questi usi durino lo spazio di un mattino, così come è accaduto con espressioni come “matusa” (anni Cinquanta-Sessanta, e chi la impiega ancora si rivela appunto, lui o lei, come matusa) o “bestiale” (ho udito una signora di incerta età usarlo e ho capito che era ragazza nei lontani anni Cinquanta). Però sino a che i nuovi usi circolano tra i ragazzi, direi che sono affari loro, talora molto divertenti. Diventano urtanti quando ci coinvolgono.

Non ho mai potuto sopportare, diciamo dagli Ottanta in avanti, che mi si chiamasse “prof”. Forse che un ingegnere lo si chiama “ing” e un avvocato “avv”? Al massimo si chiamava “doc” un dottore, ma era nel West, e di solito il doc stava morendo alcolizzato.

Non è che abbia mai protestato esplicitamente, anche perché l’uso rivelava una certa affettuosa confidenza, ma la cosa mi dava noia e me la dà ancora. Meglio quando nel ’68 gli studenti e i bidelli mi chiamavano Umberto e mi davano del tu. Chissà perché quando uno dice “prof” mi viene in mente uno con la faccia di Ricky Memphis.

Un’altra cosa a cui ero abituato è che le donne si dividevano in bionde e brune. A un certo punto “bruna” è diventato forse fuori moda e certo a me evoca le canzoni degli anni Quaranta e le pettinature con la frangetta. Fatto sta che a un certo punto non solo i ragazzi ma anche gli adulti hanno iniziato a parlare di una “mora” (e l’altro giorno ho letto su un giornale che un ballerino classico è un bel moro).

Orribile espressione, perché ai tempi andati “mora” veniva riservato alle odalische musulmane che danzavano sui cadaveri degli ultimi difensori di Famagosta, e oggi mi evoca il richiamo scurrile di un maschiaccio in canottiera che grida a una ragazza che passa “ehi, bella mora!”, e fatalmente si pensa alle maggiorate fisiche di Boccasile, o a giovani italiane che vincevano il concorso Cinquemila Lire Per Un Sorriso, olezzanti di profumi nazional popolari e con una foresta sotto le ascelle. Ma è così, le bionde rimangono bionde (platinate o cenere o paglierino che siano) mentre chi ha capelli scuri diventa una mora, anche se ha il viso di Audrey Hepburn. Insomma, preferisco gli inglesi che dicono “dark-haired” o “brunette”.

Detto questo, non è che sia misoneista, e via via ho assorbito nel mio lessico, se non come parlante attivo almeno come ascoltatore passivo, gasato, rugare, tavanare, sgamare, assurdo, punkabbestia, mitico, pradaiola, pacco, una cifra, lecchino, rinco, fumato, gnocca, cannare, essere fuori come un citofono, caramba, tamarro, abelinato, fighissimo, allupato, bollito, paglia e canna, fancazzista, taroccato, fuso, tirarsela. Ancora giorni fa un quattordicenne mi ha informato che a Roma, anche se si capisce ancora “marinare”, in ogni caso non si usa più “bigiare” ma si dice “pisciare la scuola”.

Comunque, a essere sincero, preferisco i neologismi giovanili al vizio adulto di dire a ogni piè sospinto “e quant’altro”: Non potete dire “e così via” o “eccetera”? Per fortuna son tramontati “attimino” ed “esatto”, per cui l’Italia era diventato il bel paese dove l’esatto suona, ma “quant’altro” rimane anche nei discorsi di persone serie ed è pareggiato in Francia solo dall’uso incontenibile di “incontournable” che serve a dire (udite, udite) che qualcosa è importante (e al massimo è imprescindibile). “Incontournable” è qualcosa che quando lo incontri non puoi giragli intorno ma devi farci i conti, e può essere una persona, un problema, la scadenza del pagamento delle tasse, l’obbligo della museruola per i cani o l’esistenza di Dio.

Pazienza, meglio i vezzi linguistici che l’uso improprio della lingua e, visto che recentemente un nostro deputato, per dire che non l’avrebbe tirata per le lunghe, ha affermato in Parlamento che sarebbe stato “circonciso”, sarebbe stato preferibile che si fosse limitato a dire soltanto “sarò breve, e quant’altro”. Però, almeno, non era antisemita.
07 maggio 2014 © Riproduzione riservata

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Il caso
Umberto Eco, dialogo con Roberto Saviano sul nuovo romanzo 'Numero Zero'
Il nuovo romanzo del semiologo e scrittore racconta una redazione che sforna ricatti.
Un tema al centro di questo dialogo con l'autore di 'Gomorra'

Di Wlodek Goldkorn
12 gennaio 2015

Un semiologo e intellettuale, il più importante oggi in Italia, prestato, con successo e da decenni, all’arte del romanzo, e che ha 83 anni. E uno scrittore 35enne, autore di libri, saggi e articoli di denuncia dell’intreccio tra criminalità e politica, e per questo da anni sotto scorta e spesso diffamato e delegittimato. Umberto Eco e Roberto Saviano ragionano su “Numero zero”, il romanzo in cui Eco racconta una immaginaria redazione, messa in piedi nel 1992, l’anno di Tangentopoli e di Mani pulite, con un solo scopo: costruire dossier, ricattare, diffamare gli avversari. In questo dialogo, spiegano come la questione dei media sia cruciale non solo per la democrazia ma perfino per il progetto di costruzione di una nazione. E suggeriscono: forse quel progetto, in Italia, è fallito. Ma, dicono, rimane la questione delle responsabilità personali di ciascuno di noi. E forse da lì, dalla testimonianza, si può e si deve ricominciare.

SAVIANO - In “Numero zero” c’è uno sguardo sui meccanismi della comunicazione che in Italia non c’è ancora stato e che mi ricorda le analisi di Julian Assange. Tu, Eco, parli a modo di romanziere, non di saggista, quindi nel modo più godibile possibile, di un meccanismo di comunicazione il cui scopo non è informare. Immagino che volessi costruire un romanzo che riuscisse a dire una molteplicità di cose. Ma per me è quasi un manuale della comunicazione del nostro tempo. Vorrei allargare il discorso alla Rete, visto che i giornali sono letti ormai da una minoranza. Oggi la macchina del giornale spesso funziona solo da innesco di una catena interpretativa che dilaga nel Web e serve agli altri per commentare. È un paradosso: i blog, i social media nascono dal lavoro di una redazione. Ma quel lavoro non viene letto, viene solo interpretato.

Eco - Non ho voluto scrivere un trattato sul giornalismo; ho insistito su una particolare redazione, che fa parte della macchina del fango. Però da oltre quarant’anni continuo a riflettere e discutere sui limiti e sulle possibilità del giornalismo. In questo romanzo ho riusato una quantità di cose che ho già scritto, a partire dalla polemica, negli anni Settanta, con Piero Ottone, sulla possibilità di separare i fatti dalla riflessione. Quindi la mia è una storia sui limiti dell’informazione giornalistica. Ma non ho parlato dei giornalisti in genere. Ho disegnato il peggiore dei casi, per dare un’immagine grottesca di quel mondo. Aggiungo che il meccanismo della macchina del fango, dell’insinuazione era usato già ai tempi dell’Inquisizione.

Saviano - Parli dei giornali. Oggi, nell’era di Internet le nuove generazioni spesso si illudono che basta non avere un editore che cerca il profitto, basta fare le cose gratuitamente, per fare un’informazione onesta, giusta, pulita. Ma non è così. Pensa all’universo della dietrologia. È un mondo fiorente in Rete. Da quella gente, noi due siamo considerati massoni, appartenenti all’ordine degli illuminati e robe simili. Chi costruisce in Rete le teorie cospiratorie lo fa spesso senza compenso in denaro. E la gratuità è un aspetto interessante. È come si volesse sollecitare la parte più vendicativa dell’essere umano. Insinuare è un modo per ridistribuire i peccati: nessuno si salva, siamo tutti colpevoli. Ti chiedo: tu che hai conosciuto il mondo prima di Berlusconi (io sono troppo giovane per ricordarmelo), pensi che con Berlusconi sia cambiato tutto o che il nostro ex premier ha solo peggiorato lo stato delle cose esistente?

Eco - Rispondo così. Una volta esistevano le istituzioni della macchina del fango. Si trattava di giornali specializzati. Non era invece pensabile una macchina del fango messa in opera da un grande quotidiano. Ai tempi della “Tribuna politica” in tv, se tre personaggi si fossero parlati addosso e insultati in pubblico, tutti li avrebbero presi per pazzi, oggi invece viene accettata la tecnica dell’insulto e della sopraffazione. Non sto dicendo che è colpa di Berlusconi, ma prendendo il 1992 come la data di displuvio, un cambiamento c’è stato. Prendiamo il caso Montesi, e siamo nel 1953. È stato usato, in un modo canagliesco, un fatto di cronaca, un’orgia finita male, cui partecipò il figlio di un ministro democristiano, per distruggere questo ministro. L’operazione è stata fatta da avversari interni alla Dc. Ma tutto si è svolto dietro le quinte. Non si è travalicato il confine di una certa riservatezza. Oggi invece tutto è in pubblica piazza.

Il buon giornalista parte sempre da un punto di vista. Secondo voi, dove finisce il punto di vista e comincia invece la manipolazione?
Saviano - Io credo che la macchina del fango comincia là dove finisce l’inchiesta. L’inchiesta fornisce una serie di fatti che permettono al lettore di farsi un’idea generale, anche se sono elementi scelti dal giornalista. La macchina del fango invece ne prende uno solo di questi elementi e su questo, isolato dal contesto, costruisce una realtà. Nel suo libro Eco spiega cosa sia la macchina del fango. Ad esempio, il gossip. Il gossip è una parola che copre un meccanismo terrificante: il mondo del retroscena. La Rete ha generato da questo punto di vista dei veri mostri.

Eco - Tipico della macchina del fango è che raramente l’aggressione è diretta. Non si dice il signor Tal dei Tali è un noto pedofilo e ha strangolato la nonna. Si dà invece un elemento apparentemente innocuo, ma che genera sospetto. Un episodio che ho usato nel romanzo ma che è vero: per destare il sospetto nei confronti di un magistrato si disse che portava i calzini blu e fumava tanto. Ecco, non c’è niente di male nel portare calzini blu e fumare tanto, ma presentato come fatto isolato desta sospetti nel lettore e lo induce a porsi la domanda: ma che cosa vorrà dire questo? Vorrei citare un episodio della mia infanzia. Avevo dieci o undici anni. Una signora mi ferma e mi chiede: “scriveresti una lettera per me? Ti darò una lira”. Ho pensato che per qualche motivo non poteva scrivere lei e ho detto che l’avrei fatto gratis. Poi mi ha offerto un gelato. E la lettera era per un signore, un negoziante della città e diceva più o meno: “noi abbiamo saputo che lei vuole sposarsi con la signorina Tal dei Tali. Della signorina possiamo solo dire che è una persona perbene. Cordiali saluti”. Quando ho raccontato a casa l’episodio mi hanno detto: “Ti hanno usato per una lettera anonima!”. Cosa ha fatto questa signora? Non ha detto niente di sgradevole sulla futura sposa. Non ha scritto che era una puttana. Ma in chi ha ricevuto la lettera, per il fatto stesso che qualcuno se ne interessava, ingenerava un sospetto, “forse la signorina non è così perbene come credevo”. Ecco questo è il sospetto che infanga.

Saviano - Il punto centrale è che la delegittimazione non parla ai tuoi nemici ma ai tuoi amici, alla tua famiglia, a chi ti ama. E poi, insisto, fare un’inchiesta costa tanti soldi, mentre per far gossip basta poco. Nelle redazioni dei giornali, dove si parla troppo dell’ultima dichiarazione del politico di turno e poco delle vere questioni nazionali e internazionali, sono ossessionati dal gossip. E i politici fanno a gara per essere presenti sui giornali senza aver niente da dire. In Rete è anche un vantaggio economico. Basta vedere quanti contatti quindi quale giro di pubblicità genera un servizio su un presentatore tv o su un’attricetta e quanti gli articoli politici, per non parlare della cultura che dovrebbe essere la spina dorsale dell’informazione.

Eco - Pensa al recente episodio di una ministra raffigurata mentre mangia il gelato. Cosa c’è di male nel mangiare un gelato? Ma basta mettere un titolo leggermente allusivo e goliardico ed ecco che fai la delegittimazione del personaggio.

Torniamo al romanzo. L’impressione è che Eco voglia dire alla fine: in Italia il progetto di costruzione della nazione è fallito.
Eco - Questo Paese ha attraversato momenti in cui sono successe cose incredibili e di cui tuttavia non è fregato niente a nessuno. Sì, sotto sotto, c’è un’idea di una nazione e di uno Stato incapaci di funzionare.

La stessa idea, del fallimento di noi tutti, si trova in un recente articolo di Saviano su “la Repubblica” circa “Mafia Capitale”, quando dice: la terra di mezzo, il mondo di mezzo di cui parla Carminati, siamo tutti noi...
Saviano - La terra di mezzo non è la cerniera tra i colletti bianchi e la teppa. È invece un territorio, l’Italia, in cui se non forzi le regole, non puoi fare business, non puoi lavorare. Ed è anche un modo per dire: liberi tutti, tutti si comportano così. Quindi tutti colpevoli nessun colpevole.
ECO - L’Italia ha scelto dal 1861 di vivere nel mondo di mezzo. In questo senso è fallita l’idea di uno Stato unitario.

Avete detto peste e corna dei retroscena, del gossip. Però il genere retroscena, gossip politico, il ministro fotografato con l’aspirapolvere in mano, lo ha inventato in Italia “l’Espresso”, di cui voi siete rubrichisti illustri...
Eco - Ma non ha insinuato, ha denunciato. Il problema è lo stato della nostra informazione. Prendi la mattina il giornale, anche il più importante, e trovi quattro o più pagine di pettegolezzi su fatti politici nostrani. Se prendi “Le Monde”, trovi invece pagine su quanto avviene in Africa o in Asia, tanto che quasi mi chiedo, ma perché mi parlano di queste cose e non dell’amante di Hollande?

“Le Monde” ha parlato dell’amante del presidente.
Eco - Sì, ma perché la storia è stata fatta circolare da un altro giornale, specializzato negli scandali, e solo così è diventata notizia.

Nel libro Eco presenta una teoria cospiratoria, un personaggio suggerisce che lo stragismo in Italia è stato manipolato da Mussolini che non è stato fucilato il 28 aprile 1945 ma fatto fuggire all’estero. E arriva a essere convincente. Perché le teorie complottiste hanno tanto successo?
Eco - Faccio un esempio. Sabato pomeriggio mi trovo in un’autostrada intasata. Mi arrabbio e comincio a chiedermi di chi è la colpa. Cerco istintivamente il Grande Vecchio. Non mi viene in mente che la colpa è mia, che sono uscito di sabato in macchina, sapendo di contribuire all’intasamento. Ma se la stampa con un’inchiesta, mi desse una spiegazione sul perché l’autostrada si intasa, anziché raccontare la polemichetta tra un assessore e un deputato, forse non cercherei il Grande Vecchio. E invece, immagino che a far intasare l’autostrada siano stati Andreotti, la massoneria, la Trilaterale. Facciamo un esempio al contrario? La vicenda “Mafia Capitale”. Dal momento che i magistrati spiegano come stanno le cose e i giornali lo raccontano bene, nessuno cerca una teoria cospirativa. Chi c’è dietro Carminati? C’è Carminati. Non credo che a qualcuno verrà in mente di dire che dietro Carminati ci siano i Rosacroce.
Saviano - Io insisto sul ruolo della Rete. Basti pensare alla diffusione dei Protocolli degli anziani savi di Sion da quando esiste il Web. Aggiungo: per un dietrologo chiunque si oppone alla sua teoria, fa parte del complotto.

Avete descritto un mondo assai brutto, di diffamazione, fango, dossieraggio. Voi come fate a opporvi?
Eco - Ciascuno di noi cerca di fare bene il proprio mestiere. Per quanto mi riguarda: io ho dato la mia testimonianza. Io vi ho raccontato come stanno le cose.

Saviano - Io ho sentito che la mia testimonianza ha innescato molto. Dall’altro lato ho sempre sentito l’esigenza di rimarcare la mia diversità. Diversità, non superiorità morale. Mi hanno proposto incarichi politici, ma me ne sono sempre tenuto lontano, perché temevo che il sistema mi avrebbe stritolato. Confesso: mi sento isolato. Non ci sono più gruppi che condividono un percorso intellettuale, come accadeva quando Eco aveva la mia età.

Eco - Anche gli intellettuali sono vittime della liquidità della società. Oggi, non ti rimane altro che lasciare il tuo messaggio nella bottiglia. Saviano lo fa, dovrebbe mettere su una bottiglieria. Io ho scritto questo romanzo, di più in una società liquida non si può fare.

Testimoniare non è agire politico.
Eco - Se dico che la società è liquida dico anche che non c’è più la nozione dell’agire politico.

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12 gennaio 2015
Da - http://espresso.repubblica.it/attualita/2015/01/12/news/umberto-eco-parla-con-roberto-saviano-di-numero-zero-1.194654?ref=HRBZ-1

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