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Autore Discussione: ALDO GRASSO.  (Letto 77364 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Maggio 13, 2009, 10:56:29 am »

A FIL DI RETE

D'Eusanio, maschera del Carnevale tv

di ALDO GRASSO

 

Confesso che speravo di capire qualcosa di più sulla misteriosa morte della contessa Francesca Vacca Agusta rievocata a Ricominciare dall'ex compagno Maurizio Raggio (Raidue, lunedì, ore 21.05). Ma non sempre ricominciare significa cambiare vita, a volte significa semplicemente essere daccapo, l'eterno ritorno dell'uguale. A cominciare dalla conduttrice, Alda D'Eusanio, il volto tirato, quasi irriconoscibile, maschera perfetta, come direbbe il suo Omero Walter Siti, di quel continuo Carnevale che è ormai la tv. Raggio no, è incanutito, inquartato, intristito. Aveva 27 anni quando nel 1986 comincia a frequentare la ricca contessa Francesca Vacca Agusta (che di anni ne aveva 41); lui è figlio di un ristoratore del luogo, sono gli anni della Milano da bere e Portofino è il porticciolo della ricca borghesia milanese.

Poi nel 2001 il triste epilogo, con la misteriosa morte della contessa. Inizia così la più singolare soap opera che la cronaca abbia mia offerto alla consacrazione del piccolo schermo: nemmeno Balzac, nemmeno Maupassant, che di commedie umane e di spartizioni maledette se ne intendono, avrebbero potuto immaginare scene come quella dei finanzieri che fermano Raggio a Chiasso con due o tre testamenti in macchina. Per non parlare della scomparsa della contessa, del ritrovamento del cadavere a Marsiglia, dei patti segreti fra i pretendenti, dei molti misteri. È una storia popolare ma è anche una storia intricata e confusa che gira attorno a un patrimonio valutato intorno ai 35 miliardi e a un mare tempestoso di debiti. E a reclamarli, i primi e i secondi, sono in tanti, forse troppi, fra amanti, ex amanti, creditori, l'Ufficio tributi, avvocati, notai, fiorai, fornai, cognate, nipoti e dame di compagnia. E invece niente: nemmeno un accenno a Bettino Craxi, che pure con Raggio aveva avuto rapporti stretti. Un ricominciare che assomiglia molto a un modo di dire.


13 maggio 2009

da corriere.it
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« Risposta #16 inserito:: Maggio 17, 2009, 12:16:41 am »

A FIL DI RETE


Fiorello non riconosce il signor Berlinguer

Il rischio di un piccolo dramma umano


Durante il «Fiorello Show» (SkyUno, giovedì, ore 21.10) si è sfiorato un piccolo dramma umano. O forse no: inavvertitamente è andata in scena una storia edificante, un esercizio di ammirazione, pur all'interno di un'ominosa penombra televisiva. È successo questo. Fiorello scorge tra il pubblico l'attore Lorenzo Ciompi e comincia scambiare qualche battuta di prammatica. Con galanteria Ciompi segnala che accanto a sé siede Bianca Berlinguer.

E qui Fiorello si scatena: final­mente una comunista, una donna, una telegiornalista! Tra lei e Ciompi esiste qualcosa, c'è una storiaccia? A quel pun­to si manifesta il vero marito o compagno, seduto alla sinistra della Berlinguer: «Sono il fortu­nato ». Fiorello apprezza la ga­lanteria ma non riconosce il marito. Tragedia! Ora le ipote­si che si fanno sono due. La pri­ma: a Luigi Manconi, il marito, questa botta di anonimato ha creato un trauma da cui difficil­mente si riprenderà.

Il ragazzo è vanitoso anzichenò e poi ha un passato mica da ridere: sar­do anche lui, lottacontinuista, sociologo, già portavoce nazio­nale dei Verdi, esponente del Pd, sottosegretario nel gover­no Prodi. Mica cotiche. Ha scritto a lungo sui giornali, ha collaborato in tv con Andrea Barbato e Gad Lerner, grande amico di Sofri e Fabio Fazio, ha vergato articoli di musica sot­to lo pseudonimo di Simone Dessì. Una volta l'ho sentito con le mie orecchie rimprove­rare Oliviero Beha perché lo invitava poco in tv. La seconda ipotesi è ancora più interessante. Luigi Manconi è lo pseu­donimo di Simone Dessì, un ragazzo schivo, felice di vivere all'ombra di una moglie famosa, l'autore del profetico testo «Il dolore e la politica». Manconi è un idolo delle folle ma Dessì lo tempera, lo mitiga. Nei suoi accessi d'orgoglio vor­rebbe non sottrarsi ai sotterfugi dell'apparire, della fama, ma Dessì lo costringe a indietreggiare. Persino da Fiorello.

Aldo Grasso
16 maggio 2009

da corriere.it
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« Risposta #17 inserito:: Maggio 30, 2009, 12:01:36 pm »

Fiorello più libero senza pubblico


Senza pubblico.

È andato in scena senza pubblico, lui che viene scioccamente accusato di essere un animatore di pubblici. Recitare con la platea vuota è come camminare sull’orlo dell’abisso con gli oc­chi bendati, giocare una partita di calcio a porte chiuse, ma soprattutto fregarsene delle pie intenzioni di quelli che inneggiano al pubblico sovrano. Causa partita Champions fra Barcellona e Manchester, il teatro-tenda di Piazzale Clodio, dove ogni sera Fiorello si esibisce, è stato chiu­so al pubblico. Per una volta, provvidenzialmente. Perché Fiorello, dialogando solo con la sua coscienza (e con quella di Cremonesi), si è potuto libera­re di un fantasma triste. Una se­ra, agli esordi del Fiorello Show, lo spettacolo si è conclu­so con qualche minuto d’antici­po. Molti ci hanno ricamato so­pra (la più simpatica delle con­clusioni era del tipo «Fiorello è finito»); la verità è che Fiorello era infastidito dal pubblico del­le prime file, quello che a teatro continua a telefonare, che è lì per esserci e non per vedere.

 Così Fiorello ci ha regalato una specie di seduta d’analisi in cui ci ha presentato l’audien­ce ideale, il pubblico che non c’è, la mirabile figura dello spet­tatore assente (SkyUno, giove­dì, ore 21,15). Detesto gli artisti che ammiccano verso il pubbli­co (o il popolo) perché, da veri demagoghi, esaltano nel pubbli­co «l’informe umano», che è co­me concorrere a mantenere il povero nella sua povertà o l’ignorante nella sua ignoranza. Per questo Fiorello ha fatto riap­parire il pubblico solo per intonare con Amedeo Minghi l’in­ciso di «trottolino amoroso» (l’essenza stessa dell’informe umano, direbbe Pasquale Pannella). Ha scritto Alfred Polgar: «Il pubblico di teatro (o della tv): la massa disomogenea del­la gente di città che ogni sera viene spinta a teatro dalla noia, dalla curiosità o dal bisogno di sottrarsi all’insulsaggine del­la propria esistenza, non ha assolutamente gusto, nemmeno cattivo». Si può fare senza, per una sera.

Aldo Grasso

30 maggio 2009
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« Risposta #18 inserito:: Giugno 15, 2009, 11:42:06 am »

A fil di rete


Bignardi e Calabresi: intervista difficile

L' intervista più lunga realizzata da Daria Bignardi, 40 minuti. All'«Era glaciale» (Raidue, venerdì, ore 22.55) era ospite Mario Calabresi, da poco direttore de La Stampa, per presentare il suo ultimo libro La fortuna non esiste - Storie di uomini e di donne che hanno avuto il coraggio di rialzarsi (Mondadori). Hanno parlato di tutto: di Obama, di Noemi, di Papa Wojtyla, della visita romana di Gheddafi, del presunto tesoro nascosto di Gianni Agnelli, di Lapo, del caso Amanda, dell'incontro di Licia Pinelli con Gemma Capra, sua madre. Il tempo è volato. Hanno anche taciuto, e forse il non detto è stato più importante e decisivo delle molte parole spese. Calabresi ha una dote invidiabile: degli uomini sa cogliere il lato che unisce, la forza che serve loro per andare avanti, anche dopo tracolli stordenti, lo spirito che deve animarli nel sanare le ferite passate ma, nello stesso tempo, nel conservare la memoria di quelle ferite.

Il suo precedente libro, Spingendo la notte più in là, è stato qualcosa di più di un evento editoriale: una sorta di risarcimento pubblico soprattutto nei confronti delle vittime del terrorismo. La nostra società (politici, intellettuali, media, organizzazioni varie) si è molto occupata di chi ha ucciso, ma molto poco di chi è stato ucciso, delle loro famiglie, dei tanti drammi umani. Fra le vittime, non tutte hanno avuto il coraggio di rialzarsi ma tutte hanno riconosciuto in Calabresi la voce che ha ridato loro dignità e forza per continuare. Il non detto dell'intervista è che Daria Bignardi (mai così timorosa come l'altra sera) è la nuora di Adriano Sofri. Un atto di «pacificazione sottintesa». P.S. Calabresi si è dichiarato juventino. Nessuno è perfetto. P.P.S. La Bignardi ha detto che la sua famiglia vanta un santo in Paradiso. Lo sospettavamo.

Aldo Grasso
14 giugno 2009

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« Risposta #19 inserito:: Giugno 29, 2009, 06:20:02 pm »

Il commento

La passione dei politici per la tv, ultimo palcoscenico del non fare


Intervistato da Lucia Annun­ziata, nel corso della trasmis­sione In mezz’ora, il ministro Giulio Tremonti ha lanciato un monito: «Un po’ di calma, un po’ meno televisione, un po’ meno show sarebbero utili per tutti». Pronunciato dall’«editore» della Rai, l’invito vale il doppio e, sembra di capire, non riguarda solo il clima di esa­gerazione mediatica che rischia di ali­mentare la paura della crisi. È il classi­co invito rivolto a nuora perché suocera intenda. Sì, certo, con meno tv, meno show e con una maggiore attenzione alle cose reali, l’uscita dal tun­nel sembrerebbe più age­vole. Invece, l’impressione è che alcuni politici amino il palcoscenico più del do­vuto, si comportino spes­so come attori da soap opera, e che il «velinismo» sia il loro orizzonte esteti­co. In questo senso, la storia della rap­presentazione della politica sembra ar­rivata al suo compimento, con il disfaci­mento della politica medesima. Che ha trasformato se stessa in scontro virtua­le.

 Il passo ulteriore (camminiamo sul­l’orlo del burrone) è che la politica di­venti un sistema autoreferenziale, non più speculazione sulla realtà ma realtà essa stessa, dove i segni vivono di mobi­lità perpetua, disancorati da ogni refe­rente, prigionieri dei sondaggi. «Un po’ di calma, un po’ meno televi­sione, un po’ meno show» potrebbe es­sere lo slogan ideale per i giorni che ci attendono. Buona parte della politica è ormai ridotta a talk show (morta l’ideo­logia, la politica è sospesa tra la forma­zione del consenso e la modalità televi­siva del problem solving) e l’uomo di governo assomiglia sempre di più a un conduttore voglioso solo di amministrare il «suo» pubblico. Se al talk uniamo poi il Bagaglino, l’invito di Tre­monti assume un’urgenza inaspettata. Da tempo ab­biamo imparato che le im­magini televisive ci infor­mano non tanto sul loro oggetto quanto sulla socie­tà che le guarda; il loro significato è ben lungi dall’essere chiaro. Dobbiamo perciò temere sia un nuovo sistema me­diatico assolutistico in cui l’anchor­man- politico è sovrano irresponsabile, sia il nostro conformismo dell’abiezio­ne, l’accondiscendenza nei confronti di questo sistema.

Ogni demiurgia televisiva si sviluppa sempre a spese della lucidità. E della concretezza.

Aldo Grasso

29 giugno 2009
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« Risposta #20 inserito:: Luglio 11, 2009, 04:09:40 pm »

Risposta alla stroncatura di Marianna Riz­zini sul «Fo­glio»

Quelli che «Fiorello non è più Fiorello»

Il suo show è un fe­nomeno con pochi eguali nella storia della nostra tv. Eppure c’è chi non è conten­to
 

Quasi ogni sera, Skyuno (canale 109) ripropone un’antologia dello spettacolo «Fiorello Show». Dif­ficile staccarsene: Fiorello dimostra di aver or­mai raggiunto la piena maturità artistica, pro­prio in un esperimento dove aveva tutto da per­dere. Per la natura della pay tv (diversa, è utile ripeterlo, dal­la tv generalista), per la difficoltà di coniugare spettacolo tea­trale con le esigenze della tv, per la voglia di sperimentarsi in un universo sempre più tran­smediale. Basta fare un piccolo esperimento: confrontare il flo­rilegio di «Supervarietà» che Ra­iuno offre tutte le sere con quel­lo di Fiorello per capire che for­se ci troviamo di fonte a un fe­nomeno con pochi eguali nella storia della nostra tv. Eppure c’è chi non è conten­to. Ho tenuto (per leggerlo e ri­leggerlo: sbagliarsi nei giudizi è molto facile, mi ripeto sempre) un lungo pezzo di Marianna Riz­zini apparso tempo fa sul Fo­glio. Un duro attacco, una stron­catura, una demolizione del mi­to Fiorello. Con un accorato ap­pello finale: «Fiorello, per favo­re, torna a esser Fiorello».

Già, ma quale Fiorello? C’è un Fiorel­lo più Fiorello di quello attuale? A leggere e rileggere il pezzo della Rizzini la colpa principale di Fiorello sarebbe stata quella di aver concesso una intervista a Vanity Fair. Fossi stato Fiorel­lo, a Vanity Fair e a un funziona­rio Rai l’intervista non l’avrei mai concessa: giusto per non andarmi a infilare nella guerra tra Sky e Mediaset e raccontare ancora una volta il gran rifiuto al Cavaliere («non sapevo che avevo incrinato la sacralità del potere del Cavaliere»). Su questo ha ragione la Rizzini. Fossi Fiorello (magari!) non rilascerei interviste e men che meno mi farei catturare da questi giochini politici. Ma il Fiorello in onda è lì, basta vederlo. Se il suo spettacolo fosse stato recensito nelle crona­che teatrali, il paragone sarebbe stato con il Teatro Tenda di Vittorio Gassman o di Gigi Proietti. Quelli i punti di riferi­mento. Non certo l’universo della sinistra vanitosa.

Aldo Grasso
11 luglio 2009

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« Risposta #21 inserito:: Agosto 04, 2009, 03:54:17 pm »

A fil di rete

Se il conduttore è un narcisista

 

Philippe Daverio se ne va in Messico, con la scusa di studiare la Vergine di Guadalupe e l’ostentazione esa­sperata del sangue, che — lo ripete più volte — trova le fondamenta nel sacrificio rituale degli Aztechi, e ci regala invece un problema teorico di non facile solu­zione. Sotto le insegne di Passepartout , Daverio e due suoi ami­ci, il gallerista milanese Jean Blanchaert (la controfigura di Karl Marx) e l’antropologo Franco La Cecla, scorazzano felicemente per il Messico: i murales di Diego Rivera al Palacio Nacional, il grande sito archeologico preco­lombiano di Teotihuacán, l’acro­poli di Monte Alban, il Museo Na­zionale di Antropologia, una sor­ta di cattedrale della cultura do­ve la datazione è un optional.

Tuttavia, ci spiega Daverio, in questo strano luogo si genera una identità secondo parametri molto particolari, lontani dalla consueta museologia: la sensazio­ne diventa più importante del sa­pere. Qui non si deve capire o ap­prendere, ma si deve percepire la magia potente dell’antenato, con i reperti autentici posti in mezzo a un decoro teatrale che vuole so­prattutto evocare. Non è questo il problema teo­rico: i guardiani del museo lascia­no entrare la telecamera ma il conduttore resta fuori. O meglio: si possono riprendere le immagi­ni ma è vietato al conduttore so­vrapporre la propria immagine a quelle degli oggetti ripresi. Che è proprio la modalità tipica delle trasmissioni attuali, una scelta di scrittura ma anche una grande manifestazione di narcisismo.

È vero che un programma, una tra­smissione storica, un reportage sull’arte dove non appare il conduttore fanno molto anni Cin­quanta, ma forse è anche un segno di sobrietà, di distacco, di rispetto. Non è il caso di Daverio, ma ormai il conduttore si ritiene più importante delle cose che mostra; e dunque, mostra soprattutto se stesso. La lezione del Museo Nazionale di Antro­pologia di Città del Messico non va sottovalutata. Evocando un gusto rétro, mette in crisi la nostra «modernità» televisiva.

Aldo Grasso
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04 agosto 2009

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« Risposta #22 inserito:: Agosto 16, 2009, 04:23:32 pm »

A fil di rete

Il meglio e il peggio del paradosso Timperi

Sciatto e inconsistente in tv, alla radio cerca di dare il meglio di sè

 
Il paradosso Timperi. Mi è capitato più volte di ascoltare su Radiouno una trasmissione che si chiama Il grano e il loglio e che si occupa della lingua italiana, dei suoi inciampi e delle sue risorse. Potendo contare sull’aiuto prezioso del prof. Francesco Sabatini, ordinario di Linguistica e presidente onorario dell’Accademia della crusca, il programma evoca i fasti di una fortunata trasmissione tv, Parola mia, condotta da Luciano Rispoli e dal mitico professor Gian Luigi Beccaria. A saperla trattare, la lingua italiana è piena di curiosità, di complessità ma anche di sorprese. La sorpresa più grande, tuttavia, è la conduzione di Tiberio Timperi: si vede che si sta impegnando, si prepara, ha soggezione del suo interlocutore e, quindi, anche del pubblico.

Perché, invece, il Timperi tv, quello che conduce i programmi di Michele Guardì, sembra, e sottolineo sembra, così sciatto, futile e inconsistente?
Perché fa le smorfie, perché infila, una dietro l’altra, tutte quelle banalità? Se risolviamo il paradosso Timperi forse capiamo qualcosa di più della lingua televisiva. Da anni, Guardì continua a sfornare lo stesso, identico, mediocre programma, qualunque sia la maggioranza politica che governa la Rai. Non solo ha abbassato il livello della comunicazione tv ma dev’essere uno di quegli autori che chiedono ai conduttori il peggio di sé, nella convinzione che solo così si è popolari.

Al contrario, di fronte al prof. Sabatini, Timperi vuole fare bella figura e cerca di dare il meglio di sé. Senza saperlo, si adegua alla regola aurea del Servizio pubblico, quella formulata da John Reith: «Il broadcasting ha la responsabilità di portare nel numero più ampio possibile di case il meglio di ciò che è stato formulato in ogni area della conoscenza umana». Non deve adeguarsi ai gusti del pubblico, ma semmai guidarli. Come la grammatica della lingua italiana.

Buon Ferragosto e arrivederci al 1˚ settembre.

Aldo Grasso
15 agosto 2009
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« Risposta #23 inserito:: Settembre 12, 2009, 11:38:14 pm »

Bongiorno incarnava l’uomo qualunque, Fiorello l’eccezionalità dell’artista.

Insieme hanno regalato momenti unici

Fiorello e Mike Bongiorno, un’amicizia tra ragazzini


La loro breve storia è stata qualcosa di più di un legame professionale. Mike e Fiorello non erano un’improvvisata coppia di presentatori, un duo comico nato quasi per caso. Erano due persone che si volevano bene, si stimavano, «due pischelli» secondo Fiorello: un atteggiamento quasi naturale per lui, una vera sorpresa per Mike, che sullo schermo appariva sempre così contegnoso, pur essendo un prodigioso gaffeur, facile preda dell’ironia di molti suoi colleghi.

«Senza previsione — raccontava Mike — ho partecipato praticamente tutti i giorni al programma radiofonico di Fiorello intitolato Viva Radio 2 . Alle tre meno cinque mi chiamava sul telefonino, raggiungendomi nei posti più impensabili. Ogni volta inventavo qualche gag. La popolarità di questo collegamento divenne tale che nei giorni in cui Fiorello non riusciva a raggiungermi, arrivavano telefonate di protesta alla Rai tipo: 'Come mai non c’è Mike?'».

Mike stava attraversando un periodo poco felice: a Mediaset non lo facevano più lavorare (salvo che per le televendite), in Rai nemmeno lo ricevevano, nonostante avesse pronto un progetto sulla storia della tv italiana. Nessuno meglio di lui avrebbe potuto condurre un simile programma. Se nei primi anni Sessanta l’oggetto ideale cui dedicare attenzione critica poteva essere solo Mike, popolarissimo, prima icona televisiva italiana, con la sua immagine da everyman , da uomo comune in cui l’italiano medio non faticava a identificarsi, nella tv italiana di oggi bisogna ribaltare tutto: intanto perché l’ everyman , grazie ai talk o ai reality, è diventato protagonista assoluto della scena e poi perché, per contrappasso, l’eccezionalità è diventata merce rara, si fatica a riconoscerla, bisogna di nuovo fare lo sforzo di tratteggiarla.

E il personaggio che risponde in modo più compiuto alla definizione di «artista» e che esprime il modo più originale e maturo di fare spettacolo è sicuramente Fiorello. Così, i due estremi si sono toccati e hanno saputo regalarci momenti di grande divertimento: alla radio, negli spot pubblicitari, in tv. Grazie a Fiorello, Mike era come rinato: pieno di energie, di idee, dimentico degli anni che cominciavano a pesare. «Nella mia lunga carriera — diceva ancora Mike — ho incontrato tutti i tipi di artisti, ma vi posso garantire che uno come Fiorello non c’è mai stato. Mi menziona spessissimo e dice che mi vuole molto bene. Anch’io gliene voglio altrettanto».

Aldo Grasso
12 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #24 inserito:: Settembre 16, 2009, 03:37:24 pm »

IL PREMIER DA VESPA

La tv dell'obbligo

Così un evento diventa rituale a reti unificate

di ALDO GRASSO


La trasmissione che Bruno Vespa non avrebbe mai dovuto fare. Vespa ha sapientemente iniziato la puntata con la toccante storia di Giulia. Nel computer della studentessa, morta sotto le macerie del terremoto, è stato trovato il progetto per la costruzione di un asilo a forma di libro. Ieri, alla presenza dei genitori, è stata inaugurata la nuova scuola materna costruita con i soldi raccolti dalla trasmissione e firmata, appunto, da Giulia Carnevale. Nonostante la commozione, questa è la trasmissione che Vespa non avrebbe dovuto fare. Per evitare le violente polemiche suscitate. Ma anche per orgoglio professionale, per non rovinare quanto di buono aveva fatto a favore dei terremotati della sua città. Vada per «Porta a porta» spostata in prima serata per la consegna delle villette agli sfollati di Onna. Vada per Vespa cronista privilegiato al seguito del Presidente tornato gioiosamente impresario edile. Vada per il monologo del premier sulla ricostruzione, e il suo sciorinare cifre e sondaggi favorevoli.

Ma Vespa si sarebbe dovuto opporre allo slittamento di «Ballarò» e, visti i suoi buoni rapporti con Palazzo Grazioli, anche a quello di «Matrix». Perché, in questo modo, anche una cerimonia importante come l'inaugurazione delle casette antisismiche ha dato adito a ogni sospetto. E soprattutto è parso uno di quei rituali sovietici a reti unificate, in stile Putin, a metà strada tra populismo demagogico e culto della personalità. Ieri sera Vespa (con non poche resipiscenze) e il direttore generale della Rai Mauro Masi hanno fatto fare un passo indietro all'informazione tv, l'hanno riportata ai tempi del pensiero e del canale unico. La tv dell'obbligo. Dopo quello scolastico, è stato ripristinato l'obbligo televisivo. Non è tv di regime (c'era anche Piero Sansonetti), ma un brutto modo di fare tv. Il fatto è che i tempi mediatici sono cambiati e sull'episodio è sceso anche un velo comico. Specie quando a Berlusconi sono stati serviti su un piatto d'argento gli argomenti per la difesa scontata sul conflitto d'interesse.

Dicono che Berlusconi avesse paura che altre trasmissioni di approfondimento frazionassero l'ascolto e insinuassero dubbi, non veri secondo lui. Dicono che la concomitanza delle partite di Champions su Sky, che vedevano impegnate Juve e Milan, rappresentassero già un temibile diversivo. Dicono che... Qualunque cosa si sia detto o pensato la concorrenza, politica e televisiva, deve restare il sale della democrazia. Non si può accusare, in nome del libero mercato, il leader dell'opposizione Franceschini di voler abolire l'Auditel dai programmi informativi e poi accettare che vengano spostate due trasmissioni che avrebbero potuto sottrarre audience a «Porta a porta». Oggi l'Auditel ci dirà quanti spettatori hanno seguito la trasmissione, ci darà anche una radiografia della tipologia di questo pubblico. Ma l'unico dato certo è che ormai l'informazione tv è spinta a rafforzare il suo ruolo di «mediazione», di organizzazione dello sguardo sul mondo, di interpretazione e valutazione degli eventi, per quella parte della popolazione che, per diverse ragioni, non ha accesso alle nuove tecnologie. Per gli altri è tutta un'altra storia, informativa


16 settembre 2009
da corriere.it
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« Risposta #25 inserito:: Settembre 19, 2009, 06:36:52 pm »

A FIL DI RETE

Il talk show mostra i suoi anni

Lo schema della contrapposizione ha fatto il suo tempo: non c'è mai imprevedibilità, non ci sono sorprese


Grazie anche alle polemiche scatenate dallo spo­stamento, ho seguito con molta attenzione «Ballarò» (Raitre, giovedì, ore 21.10). Confes­so che mi sono un po’ annoiato. Mi pare che lo schema della contrapposizione (tre giocatori da una parte, tre dall'altra) abbia fatto il suo tempo: non c'è mai imprevedibilità, non ci sono sorprese e, di conseguen­za, non c'è racconto. Tutt'al più qualche battuta. Più spesso, un livello molto deprimente della discussione (così impone la politica italiana). Comincio anche a credere che il genere sia in crisi. I

Il talk show, se manca di brillantezza, se non sa incuriosire lo spetta­tore, mostra gli anni. Quando Giovanni Floris ha comunicato i nomi dei partecipanti si sareb­be già potuto scrivere una sca­letta della trasmissione, al mas­simo non calcolando i solerti assistenti del ministro Angioli­no Lodo Alfano o l'intemerata di Concita De Gregorio sul pote­re dei soldi («Hanno vinto i sol­di non i valori!»). Ma il terzo e decisivo fattore di noia è l'inevitabilità degli ar­gomenti. Si parli dei militari morti in Afghanistan o del ter­remoto, si parli di vita o di mor­te, si parli della ripresa econo­mica o di quelli che non arriva­no alla quarta settimana, alla fi­ne si parla sempre e solo di lui. Di Berlusconi. Che ormai non è più un imprenditore, un politi­co, un presidente del Consi­glio. È un'ossessione: magnifi­ca per alcuni, detestabile per al­tri. Ma sempre ossessione, la nostra balena bianca (quello che più mi spaventa è che non siamo mai noi a scegliere le ossessioni, ma sono sempre le ossessioni a scegliere noi). A inizio trasmissione lo studio ha reso omaggio alle vitti­me della carneficina di Kabul con un lungo applauso (cui non si è unito il ministro Giulio Tremonti). Ma perché si applaude? Non sarebbe più giusto un minuto di raccogli­mento? Non sarebbe più consona una partecipazione silen­ziosa al senso della tragedia?

Aldo Grasso
19 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #26 inserito:: Ottobre 03, 2009, 11:02:47 am »

CORTO CIRCUITO TRA POLITICA, INFORMAZIONE E SATIRA

Quella inutile poetica dello sciacquone


« Lunga vita alla Dandini e a San­toro che non fanno altro che portare voti al centrodestra». Temo che Silvio Berlusconi abbia ragio­ne: lui conta i voti della gente, gli altri si esercitano sull’audience. Anzi, sono pri­gionieri della logica perversa della tv più corriva. Di questi tempi, l’Italia avrebbe bisogno di tutto, fuorché di lottare per la poetica dello sciacquone.

Eppure, il dibattito politico è stretto dentro sgangherate sceneggiate che ben poco hanno a che fare con l’informazio­ne. È un corto circuito che non lascia in­travedere vie di scampo, un serpente che si morde la coda spargendo veleno su chi assiste alla scena. Da una parte c’è la cari­catura dell’informazione, per cui il gior­nalista Stefano Ziantoni, in compagnia di Susanna Petruni, si sente in dovere non solo di fare gli auguri al premier (cosa del tutto lecita) ma di esagerare nella piagge­ria: «Presidente, torni quando vuole, que­sta è casa sua». Dall’altra c’è la caricatura della caricatura, per cui Serena Dandini, fino a ieri allegra vestale del luogocomu­nismo, manda in onda una modesta e im­barazzante sitcom sulle avventure galanti del premier: «Lost in Wc». Berlusconi alli­scia il consenso, la Dandini s’illude di fa­re controinformazione.

L’altra sera, persino uno serioso come Gad Lerner si è occupato nel suo «Infede­le » di veline mignotte: ha migliorato l’ascolto ma peggiorato la sua immagine, visibilmente a disagio in un terreno tra il pruriginoso e il moralistico. Stasera Mi­chele Santoro rincara la dose e invita di nuovo in trasmissione Patrizia D’Adda­rio, l’escort pugliese al centro delle feste a Palazzo Grazioli. Farà di nuovo il pieno di audience e si sentirà ancora più marti­re.

Ma la logica perversa della tv non ri­sparmia nessuno. Il ministro dello Svilup­po economico Claudio Scajola ha convo­cato i vertici della Rai perché, a suo dire, il programma «Anno zero» avrebbe viola­to il contratto di servizio. L’intervento di Scajola ha scatenato una campagna stam­pa per lo sciopero del canone Rai, dimen­ticando che il Premier è anche proprieta­rio di Mediaset: nella canea, la D’Addario diventa più importante del conflitto d’in­teressi.

Non si risparmia nemmeno il vicemini­stro alle Comunicazioni, Paolo Romani (un passato da imprenditore tv con stori­che performance di Maurizia Paradiso): sostiene che «Parla con me» della Dandi­ni non rientra nei canoni del Servizio pub­blico. E su Michele Santoro: «Non è solo un problema di pluralismo, è giornali­smo militante che nulla ha che fare con il giornalismo obiettivo». Già, perché certi tg della Rai hanno a che fare con il giorna­lismo obiettivo? Tutte le forme di nego­ziazione che la tv ha inventato, le modali­tà di contatto, le strategie attraverso cui la tv dialoga con lo spettatore, lo chiama, lo coinvolge, servono — tutte quante — a sancire la verità della tv, non più la veri­tà del reale. E in questo momento, gran parte del dibattito politico italiano è pri­gioniero di questo stravolgimento catodi­co.

Chi comanda il gioco è Berlusconi: la sinistra si limita a viverlo come una osses­sione, ad attaccarlo, a suggellare in tv la propria subalternità.

Aldo Grasso

01 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #27 inserito:: Ottobre 10, 2009, 04:22:12 pm »

A Fil di rete

Peggio la stupidità o la faziosità?

Sentire discutere Monica Set­ta di economia mentre esprime giudizi di tale avventatezza da mettere i brividi


Fa più male la stupidità o la faziosità? Negli obbli­ghi del contratto di servizio è prevista la tutela dal­l’idiozia? Il ministro per lo Sviluppo economico Claudio Scajola vede mai la tv o fa come quegli studiosi che scrivono di tv senza mai aver visto un programma? Leggendo la cronaca dell’incontro fra Scajola, Paolo Roma­ni, Paolo Garimberti e Mauro Masi (quattro persone che, pur occupandosi di tv, credo ne ve­dano ben poca) mi sono chie­sto: ma Scajola, che ha chiesto «chiarimenti» sui programmi di approfondimento della Rai, avrà mai visto un po’ di Rai­due?

Mi riferisco a programmi come «I fatti vostri» di Michele Guardì, «Il fatto del giorno» con Monica Setta, «L’Italia sul due» con Lorena Bianchetti e Milo Infante, «Scalo 76 Talent» con Lucilla Agosti e Alessandro Rostagno e altri ancora. Imma­gino di no perché, ne sono sicu­ro, anche lui sarebbe tormenta­to dal dubbio: fa più male la stu­pidità o la faziosità? Sentire discutere Monica Set­ta di economia mentre esprime giudizi di tale avventatezza da mettere i brividi a qualunque persona sensata, o perdersi ne­gli arzigogoli mentali dell’ex chierichetta Bianchetti, o sop­portare la vista di un clone mal riuscito di Sgarbi sono cose che dovrebbero far riflettere sulla natura del Servizio pubblico. La faziosità è disdicevole ma la stu­pidità di certi programmi lascia il segno. Specie su un pubblico non particolarmente attrezzato come quello del pomeriggio. Se fossi l’imperiese Scajola convocherei il direttore di Rai­due Massimo Liofredi e gli direi: «Scusi, ma lei che ha quella faccia un po’ così, chi l’ha nominata direttore e perché? Qua­li programmi ha fatto prima di diventare direttore? Perché la sua rete è così brutta e va così male? Guardi che i soldi che lei spende per Monica Setta sono quelli del canone». Non sono Scajola, guardo la tv e non posso convocare nessuno.

Aldo Grasso

10 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #28 inserito:: Ottobre 17, 2009, 04:46:45 pm »

A fil di rete

Brachino e Capuozzo giornalismi diversi

Un toccante servizio sulla vi­ta dei nostri soldati in Afghanistan, e il pedinamento di Mesiano


Due modi diversi di fare informazione, su Canale 5. Mercoledì sera (ore 23.30) il settimanale del Tg5 «Terra!» a cura di Toni Capuozzo e Sandro Provvi­sionato ha proposto un toccante servizio sulla vi­ta di tutti i giorni dei nostri soldati che si trovano in missione in Afghanistan, a un mese dall’attentato avvenuto il 17 settembre e costato la vita a sei connazionali e a 24 civili.


CAPUOZZO - Da Kabul, Toni Capuozzo (il nostro giornalista preferito) e Anna Migotto hanno raccontato in maniera mirabile, senza retori­ca e sentimentalismi, la vita dei nostri soldati, sempre sospesa tra la tensione delle lunghe ore di missione, scandite dai turni di pattuglia diurni e notturni, e il ca­meratismo dei pochi momenti di tempo libero. Sono state propo­ste interviste ai militari, a gente del posto le cui famiglie sono sta­te straziate dalle bombe dei tale­bani; abbiamo visto le immagini del più scalcagnato golf del mon­do e di un altrettanto malandato zoo. Abbiamo provato soprattut­to commozione nel ripercorrere tante storie che testimoniano la drammaticità della guerra. Ca­puozzo ha così concluso il lungo reportage: «Ciò che conta è aver fatto il tuo dovere e il ricordo di chi non torna, piaccia o meno al Times di Londra».


BRACHINO - Mercoledì verso le 10, nel cor­so di «Mattino cinque», Claudio Brachino aveva lanciato un servi­zio sul giudice civile milanese, Raimondo Mesiano, quello della sentenza a sfavore della Finin­vest. Il filmato di Annalisa Spino­so voleva mostrare le stravagan­ze comportamentali del magistra­to (che poi si risolvono in un camminata davanti a un negozio di barbiere) e si è concluso con un’osservazione sul colore dei calzini. Grande giornalismo d’inchiesta! Intanto, in studio, Claudio Brachino commentava le immagini con alcune capriole dialettiche tra le presunte stra­vaganze del giudice e la sua promozione a opera del Csm.

Aldo Grasso

17 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #29 inserito:: Marzo 18, 2010, 08:41:24 am »

Rai, un po' di coraggio

Se solo la dirigenza Rai avesse un po’ di coraggio, stasera manderebbe in onda «Annozero», domani «Ballarò» e poi tutti i programmi che si occupano di politica. Per un sussulto di dignità, per orgoglio aziendale, per mettere la parola fine a una piccola tragedia che nasconde una grande farsa o viceversa. Da questa triste vicenda — dalla serrata dei talk alle intercettazioni—l’immagine della Rai esce ammaccata. Quella che fino a poco tempo fa veniva indicata come la prima industria culturale del Paese appare ora come una nave alla deriva.

Da qualunque punto la si osservi: da destra pensano che ci sia un serio problema di governance, che il direttore generale Mauro Masi sia incapace di farsi rispettare (per mettere la mordacchia a Michele Santoro, il dg si augura che il conduttore faccia la «pipì fuori dal vaso »); da sinistra chiedono le dimissioni di Masi per come ha gestito lo stop ai talk show e soprattutto per la rimozione del direttore di Raitre Paolo Ruffini. Ieri, i consiglieri di maggioranza del Cda della Rai hanno respinto la richiesta di dimissioni avanzata nei confronti del dg, ribadendo che «è immotivata e del tutto inaccettabile». Sarà, ma la figura di Masi ne esce fortemente indebolita. Nello stesso giorno in cui nega di aver ricevuto pressioni dal premier, appaiono intercettazioni (pubblicate anche dal «Giornale») che lo vedono a colloquio con Giancarlo Innocenzi (commissario dell’Agcom) per risolvere il «problema Santoro». Masi sostiene che la Rai resta leader negli ascolti ma basta controllare i dati Auditel nei giorni in cui non sono andati in onda «Annozero» e «Ballarò» e ci si accorge che, il giovedì, Raidue è passata da una media del 14% a una del 9,3% di share e che, il martedì, Raitre è passata da una media dell’ 11,5% al 6,22% di share. E poi il balletto di responsabilità tra la Vigilanza e il Cda della Rai sembra una sceneggiata al limite del ridicolo. Viene quasi da rimpiangere il lessico con cui la lottizzazione filtrava opinioni a servizio dei partiti cercando almeno di salvare le forme. Erano ipocriti, è vero, ma qui sono ipocriti e inetti. Il «si faccia subito chiarezza » lanciato ieri dal presidente Paolo Garimberti suona più come un grido di dolore che come un invito a lavare i panni sporchi. L’abuso metodico delle intercettazioni telefoniche e la loro sistematica diffusione a mezzo stampa sono insostenibili, ma ormai la frittata è fatta.

Se è vero, come dice qualcuno, che le conversazioni sono penalmente irrilevanti (anche se intervenire su un’Autorità di Garanzia è un atto di assoluta gravità), il ritratto che ne esce è sconfortante. Il premier è ossessionato da alcuni fantasmi e pur essendo un grande esperto di comunicazione dimentica che le trasmissioni di Santoro e Floris spostano pochissimi voti. Dimentica che, nell’epoca di Internet, l’informazione viaggia per mille altri canali. Dimentica che la separatezza fra controllori e controllati è l’abc della democrazia. L’unico che ne esce dignitosamente è il presidente dell’Agcom Corrado Calabrò: non si è lasciato mettere i piedi in testa. Il resto è un paesaggio di rovine padronali.

Aldo Grasso

18 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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