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Autore Discussione: MASSIMO FRANCO  (Letto 192929 volte)
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« Risposta #225 inserito:: Giugno 20, 2013, 04:35:07 pm »

La fine di un equivoco

La reazione di Silvio Berlusconi alla sentenza con la quale ieri la Corte costituzionale ha negato che la sua assenza da un'udienza del marzo 2010 fosse giustificata, è apprezzabile: se non altro perché, pur ripetendo le accuse alla magistratura di volerlo eliminare dalla vita politica, garantisce che non verrà meno il sostegno al governo di Enrico Letta. Si tratta di un gesto di responsabilità che risponde all'esigenza di tenere separati i due piani, come d'altronde fanno Palazzo Chigi e il Pd. E per ora disarma quanti nel centrodestra evocano dimissioni in massa se il Cavaliere in autunno fosse condannato e subisse l'interdizione dai pubblici uffici.

Ma, sebbene atteso e temuto, il «no» al legittimo impedimento nei processi che vedono Berlusconi imputato è un cuneo nel futuro della legislatura. Prolunga il conflitto tra i giudici e l'ex presidente del Consiglio. Dà fiato a quanti, nella maggioranza anomala che sostiene la coalizione, sono tentati di usare il verdetto come un'arma impropria. E rischia di perpetuare tesi come quella che vede nella decisione di ieri la conferma di una politica subordinata ai giudici; e nelle Procure il braccio provvidenziale dell'antiberlusconismo. Significherebbe una interpretazione grave delle decisioni della Corte, che però trova udienza in una parte dell'opinione pubblica.

Non solo. Il Pdl è sempre stato incline a vedere nel governo di unità nazionale, nato dopo le elezioni di febbraio e dopo la conferma di Giorgio Napolitano al Quirinale, il preludio di una pacificazione: una tregua nella quale si riconosce anche una parte della sinistra, oltre alla formazione dell'ex premier Mario Monti. Il problema è che, a torto o a ragione, il centrodestra ha sempre teso a dilatarne il significato, ricomprendendo nella sospensione delle ostilità i processi a Berlusconi. Sono visti infatti come un pezzo non trascurabile della «guerra dei vent'anni» che ha diviso i due schieramenti della Seconda Repubblica. Per questo il «no» della Corte viene vissuto come una smentita bruciante della tregua.

La distanza fra alleati di governo è racchiusa nel giudizio agli antipodi su una sentenza «politica e faziosa» per il Pdl; «tecnica» per il Pd. Il coro del centrodestra risulta compatto e in qualche caso esagerato. Compensa l'impossibilità di scaricare sul governo un provvedimento destinato a segnare il futuro di Berlusconi, in attesa anche della sentenza sul caso Ruby. E magari vela e cerca di far scivolare in secondo piano qualche errore nell'impostazione della difesa processuale del Cavaliere. Ma è altrettanto vistosa la cautela dei Democratici. Non si vogliono offrire pretesti polemici sia al fronte berlusconiano, sia alla sinistra che accusa il governo Letta di cedevolezza.
Probabilmente non ci sono rischi per la stabilità. Da ieri, tuttavia, è finito l'equivoco di una maggioranza fondata anche sulla pax giudiziaria.

Massimo Franco

20 giugno 2013 | 7:49© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_20/fine-equivoco-Franco_97672a42-d968-11e2-8116-cce4caac965d.shtml
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« Risposta #226 inserito:: Giugno 28, 2013, 06:23:24 pm »

DOPO LA NOMINA DELLA COMMISSIONE SULLO IOR

Banca vaticana, la strategia di Francesco nella palude finanziaria

L'organismo di controllo creato dal Papa è molto più di una commissione.

E non è escluso che il 4 luglio Bergoglio e Letta parlino anche di finanze vaticane

di  MASSIMO FRANCO


ROMA - Quella istituita mercoledì 27 giugno da papa Francesco è molto più di una semplice «commissione referente». Non significa ancora il commissariamento dello Ior, ma prepara una radiografia spietata della cosiddetta «banca del Vaticano». Il Pontefice vuole sapere: è deciso ad aprire la scatola dell'Istituto per le opere di religione, e vedere che cosa c'è dentro. Per lui la rivoluzione in Vaticano comincia risolvendo il problema più spinoso.

La «commissione referente» nominata mercoledì con una sua lettera autografa e presieduta dal cardinale Raffaele Farina, un salesiano rispettato e dotato di grande equilibrio, è l'ennesimo passo in questa direzione: ma non l'ultimo. Ormai sta diventando chiaro che papa Francesco ha deciso di cominciare la riforma del Vaticano partendo dalla questione più spinosa e più imbarazzante per la Chiesa: lo Ior, appunto. L'intenzione del Pontefice è quella di dare segnali netti alla Curia e alla comunità internazionale sulla sua volontà di illuminare i recessi più oscuri delle finanze della Santa Sede una volta per tutte.

«Questo non è ancora il commissariamento dello Ior. Ma è molto più di una commissione», si fa notare. «Il Santo Padre vuole sapere. Vuole aprire la scatola dello Ior, e vedere che cosa c'è dentro». Il modo in cui la lettera affianca una prima parte pastorale a una seconda più giuridica, lascia indovinare un pragmatismo angloamericano al quale il Pontefice ha scelto di ispirarsi. La lettera è datata 24 giugno.

E adesso l'assenza clamorosa di Francesco dal concerto in Vaticano di sabato scorso viene spiegata anche con l'esigenza di stringere i tempi e creare la commissione. Si tratta di un'operazione strategica. Fissa paletti così stringenti che d'ora in poi nessuno, tranne il Papa, potrà dire se lo Ior funziona o no; e se è coerente con il modo in cui deve operare la Chiesa cattolica.
In prospettiva, un effetto collaterale potrebbe essere di abbassare, se non di abbattere, quello che un banchiere definisce «il muro di Berlino» fra le attività finanziarie dello Ior e i controlli di Bankitalia e del ministero dell'Economia. La tendenza a considerare la collaborazione come un attentato alla sovranità e all'indipendenza vaticane continua a creare incomprensioni, oltre che inchieste della magistratura.

Ultimamente, invece, comincia a farsi strada la convinzione che un raccordo fra la Roma governativa e quella papalina sul piano finanziario possa essere utile a tutti. Non si esclude che nell'udienza con il premier Enrico Letta, in programma il 4 luglio, venga toccato anche questo aspetto, sebbene sia marginale rispetto all'obiettivo che il Pontefice si prefigge.

D'altronde, il modo in cui papa Bergoglio ha presentato la nuova commissione e le persone che ha designato a farne parte forniscono indicazioni chiare. Intanto, l'unico italiano è il cardinale Farina, ex capo della Biblioteca e dell'Archivio segreto vaticano. Ci sono due statunitensi: il numero tre della Segreteria di Stato, monsignor Peter Bryan Wells, e Mary Ann Glendon, giurista di Harvard, presidente della Pontificia Accademia per le scienze sociali ed ex ambasciatrice Usa presso la Santa Sede negli anni di George Bush; uno spagnolo, Juan Arrieta Ochoa de Chinchetru, grande esperto di testi legislativi; e il cardinale francese Jean-Louis Tauran, raffinato conoscitore sia della Curia, sia della geopolitica vaticana. Tauran è l'uomo di raccordo con l'islamismo, e fu lui a annunciare alla piazza l'elezione di Bergoglio.

Ma ad accomunarli sono il rigore e la condivisione di un progetto radicale di rinnovamento. È una squadra alla quale il Pontefice affida il compito di «conoscere meglio la posizione giuridica e le attività» dello Ior. Il «desiderio» di Francesco è di «armonizzare» l'Istituto «con la missione della Chiesa universale e della Sede apostolica»: evidentemente, ci sono dubbi corposi che finora sia stato così. Non è bastata la nomina di monsignor Battista Mario Salvatore Ricca, direttore fra l'altro della Residenza di Santa Marta dove vive Bergoglio, a dare il senso della rivoluzione in atto.

Occorreva un gesto più forte, che mettesse insieme competenze e autorevolezza percettibili in modo immediato. Il fatto che la commissione sia stata istituita con un «chirografo», come si dice in gergo, e cioè con un documento scritto da Francesco, ha colpito molto. Dà il senso di una decisione che nasce dalla sua volontà personale, alla quale ci si dovrà attenere senza eccezioni.

Il problema che si intravede sullo sfondo è come sarà possibile rivoluzionare tutto senza sostituire l'attuale presidente Ernst Von Freyberg, nominato pochi mesi fa, nell'interregno fra le dimissioni di Benedetto XVI e l'elezione di Bergoglio; e come si ridisegneranno i compiti dell'Aif, l'Autorità di informazione finanziaria presieduta dallo svizzero Renè Bruelhart, esperto di antiriciclaggio di denaro sporco, pure di nomina recente. Ma questi aspetti appaiono secondari, davanti a un'operazione così ambiziosa. I malumori sono palpabili. Per questo si stanno studiando accorgimenti come il congelamento delle cariche fino a quando si conoscerà il destino dello Ior.

Il Vaticano ha contattato tramite la Segreteria di Stato alcuni dei banchieri cattolici più influenti per avere suggerimenti in proposito; e c'è perfino chi ha consigliato la chiusura come unica soluzione. Molto, tuttavia, dipenderà dai tempi che Francesco si è dato mentalmente. E anche dalle nomine che ridistribuiranno il potere nella Curia. Fino a qualche giorno fa, la tesi prevalente era che Francesco avrebbe agito subito sullo Ior, rinviando invece altre decisioni post acquas , e cioè dopo l'estate. Il suo stile conferma una determinazione che intimorisce; e fa apparire come segni di impotenza e di allarme le minacce velate e gli avvertimenti che alcune filiere del potere curiale lasciano trapelare qui e là.

Sono le dimissioni di Benedetto XVI e l'esito del Conclave a dettare l'agenda papale. Cambiarla, o pensare che si possa tornare indietro, significa non avere capito o non voler capire quanto è successo negli ultimi tre mesi e mezzo.

da - http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/13_giugno_28/ior-strategia-francesco-mfranco-2221885031101.shtml
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« Risposta #227 inserito:: Luglio 01, 2013, 12:26:50 pm »

L'EDITORIALE

La gara al ribasso


Ha vinto l'astensionismo e ha perso Beppe Grillo. Forse come sintesi è un po' brutale, eppure coglie i due aspetti più vistosi di un voto amministrativo che probabilmente stabilizzerà il governo, rassicurando un po' il Pd sulla propria tenuta. Di certo, ripropone in termini seri il rapporto fra democrazia e voto, mostrando una massa di elettori in attesa di rappresentanza.

Dalle urne esce un'Italia dei campanili meno frantumata e insieme più delusa. Può darsi che sia il costo di una modernità associata a basse percentuali di partecipazione. Il sospetto di una regressione, però, non va sottovalutato.

Si può anche abbracciare la tesi della disaffezione dalla politica: certamente c'è anche quella. Ma si coglie, altrettanto vistosa, l'incapacità dei partiti di ritrovare il proprio ruolo. La spiegazione di quanto è successo fra ieri e domenica, con percentuali che a Roma hanno toccato appena il 53 per cento, e poco più del 60 sul piano nazionale, suona come un giudizio negativo per tutti. Incluso il Movimento 5 Stelle, che cerca di scaricare sui «partiti tradizionali» un tracollo che riguarda anche le sue falangi: a conferma che Beppe Grillo è il sintomo più vistoso ma non la risposta alla crisi del sistema.

Fa un po' sorridere il candidato grillino a sindaco di Roma che attribuisce la sconfitta all'«oscuramento» dei media. Vittimismo da partito come gli altri; e spiegazione che sa di autoinganno, perché Grillo è cresciuto grazie alla connotazione antisistema e all'assenza sui mezzi di comunicazione. Ma questo è solo uno degli aspetti di una transizione in pieno svolgimento. Ormai sta diventando evidente che si può anche vincere in una gara a chi cala di meno. Eppure, la vera svolta arriverà solo quando qualcuno riuscirà a riportare a votare una parte degli astenuti. Da questo punto di vista, l'esempio di Roma è eclatante.

Verrebbe da dire che la capitale d'Italia si è avvicinata pericolosamente alla «sindrome siciliana». Quel modesto 47,42 per cento di votanti che nell'ottobre scorso segnalò il malessere dell'Isola, allora fece parlare di «anomalia» della Sicilia, non esportabile nel Paese. Da ieri, però, l'astensione record di quelle elezioni diventa un'anticipazione di quanto è successo e potrebbe accadere. Il disorientamento dei sondaggisti è figlio di un fenomeno che fa saltare i parametri consolidati, fotografando solo un pezzo di elettorato. D'altronde, non ci sono posizioni di rendita in grado di garantire la vittoria.

Le difficoltà del Pdl un po' ovunque, e il tramonto del potere leghista in una città-roccaforte del Veneto come Treviso dicono che nessuno ha più a disposizione un blocco sociale acquisito per sempre. C'è un elettorato parcheggiato nel limbo, e pronto ad appoggiare ora l'uno, ora l'altro a seconda del momento. E si delineano fronti radicali e potenzialmente contrapposti, che il governo di Enrico Letta riconcilia in modo miracoloso e temporaneo. Il problema sarà, nel medio periodo, farli diventare interlocutori credibili di quell'Italia che non vota più, senza esserne travolti.

Massimo Franco

28 maggio 2013 | 7:41© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_28/la-gara-al-ribasso-franco_d450d070-c757-11e2-803a-93f4eea1f9ad.shtml
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« Risposta #228 inserito:: Luglio 02, 2013, 12:02:54 am »

L'analisi /

La coincidenza temporale tra l'iniziativa del Papa e la mossa della Procura

Ior, ecco perché papa Bergoglio ha deciso una riforma radicale

Nella banca vaticana sarebbe scattata un'inchiesta interna.

Nuovi provvedimenti nei confronti di parte dei vertici Ior. Il board di controllo potrebbe convocare Gotti Tedeschi

di MASSIMO FRANCO


ROMA - Con una punta di malizia si potrebbe perfino pensare che istituendo la commissione sullo Ior papa Francesco abbia dato una sorta di «via libera» in codice alla magistratura italiana. Naturalmente si tratta di un'esagerazione, ma la rivoluzione in Vaticano di Jorge Mario Bergoglio e le magagne che cercano di scoprire i giudici oltre le Sacre Mura legittimano lo scenario di un'alleanza di fatto. Nessuno pensa che l'arresto di monsignor Nunzio Scarano, di un dirigente del servizio segreto, Giovanni Maria Zito, espulso tre mesi fa dall'Aisi, e del finanziere Giovanni Carenzio siano destinati a restare isolati. Il caso è clamoroso perché è il primo dopo il Conclave, ma rappresenta solo una tappa di una serie di provvedimenti che potrebbero provocare molto più rumore: a cominciare da misure nei confronti di una parte dei vertici dell'Istituto per le opere di religione.

Ettore Gotti TedeschiEttore Gotti Tedeschi
«Sta succedendo qualcosa di straordinario», fa notare uno dei conoscitori più profondi dello Ior. «La strategia del Papa è ostacolata dalla vecchia Curia e sostenuta dai magistrati. Chi sta aiutando il rinnovamento della Chiesa cattolica oggi è la magistratura». Di certo, la coincidenza temporale fra l'iniziativa della «commissione referente» presa da Francesco e la mossa della Procura di Roma a quarantotto ore di distanza, lasciano pensare a indagini e conclusioni dagli esiti simili. E rafforzano la tesi di chi sottolinea l'urgenza di una riforma radicale e la volontà del Pontefice di promuoverla. Di più, certificano l'obbligo di accelerarla perché è questo il mandato conferito dal Conclave di marzo. Basta domandarsi quali sarebbero state le reazioni se gli arresti di ieri non fossero stati preceduti dallo «strappo» di Bergoglio. Come minimo, il Vaticano sarebbe apparso spiazzato. E invece, stavolta si è mosso prima, non dopo.

Le dichiarazioni del direttore della sala stampa della Santa Sede, il gesuita Federico Lombardi, riflettono la consapevolezza di avere agito per tempo. «Come è noto, monsignor Scarano era stato sospeso dall'Apsa da oltre un mese», ha detto padre Lombardi. E sebbene le autorità italiane non abbiano avanzato nessuna richiesta, il Vaticano «conferma la disponibilità a una piena collaborazione».

Le parole di un ufficioso «portavoce dello Ior» rivelano che è partita anche un'inchiesta interna: «In linea con la politica di tolleranza zero promossa dal presidente dello Ior, Ernest Von Freyberg», si aggiunge, a sottolineare l'estraneità del banchiere tedesco dalle inchieste che hanno portato agli arresti di ieri. Ma lo sfondo torbido che sta emergendo finisce per allargare le responsabilità di chi in Curia non si è accorto di nulla, permettendo passaggi di denaro illegali; e comunque non ha vigilato a sufficienza né segnalato le irregolarità.

Riaffiorano antiche perplessità e sospetti sul comportamento di personaggi vicini al segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone. Sia perché monsignor Scarano era un dirigente dell'Apsa (Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica) presieduta dal cardinale Domenico Calcagno, nominato da Bertone; sia perché il segretario di Stato presiede tuttora la Commissione cardinalizia di sorveglianza dello Ior: l'organismo che dovrebbe vigilare sulle attività della «banca vaticana». Se Scarano ha potuto muovere milioni di euro fra Italia e Svizzera per mesi, e se era soprannominato «monsignor 500 euro» perché aveva sempre nel portafoglio banconote di grosso taglio, significa che godeva di una fama controversa. Eppure ha agito senza che nessuno all'Apsa lo fermasse. E questo spiega come mai il Pontefice abbia deciso di esautorare gli organismi già esistenti, creandone uno di sua esclusiva fiducia.

Dei cinque membri della vecchia struttura di vigilanza dello Ior, solo il cardinale francese Jean-Louis Tauran è stato inserito da Francesco nella nuova «commissione referente». E l'unico italiano è il salesiano Raffaele Farina, che gode di stima unanime per rigore e indipendenza di giudizio. A sorpresa, non ha avuto incarichi neppure Attilio Nicora: forse perché è tuttora presidente dell'Aif, l'«Agenzia di informazione finanziaria» vaticana.

«Ora assisteremo a una gara dei curiali a sostenere di avere sempre chiesto trasparenza», prevede uno dei custodi dei segreti dello Ior. «E magari si tenterà di riorientare la commissione referente lungo l'asse Vaticano-Italia. Sono questi i veri giochi della Curia». Nel filtraggio dei veleni incrociati, gli avversari già malignano su Calcagno perché all'ora di pranzo si fa vedere sempre più spesso a Santa Marta, la residenza dove vive e mangia papa Francesco.

Si tratta di miserie, tuttavia, rispetto all'incertezza e al panico che gli sconvolgimenti in fieri stanno provocando. Il problema è capire che cosa contiene lo scrigno dello Ior; come rifondarlo, e quali referenti italiani avere in futuro. Le prime indiscrezioni parlano di una lunga lista di testimoni che la «commissione Bergoglio» si prepara a convocare nelle prossime settimane: a cominciare dai vecchi vertici della «banca vaticana». Incluso, sembra di capire, Ettore Gotti Tedeschi, presidente dello Ior dal 23 settembre del 2009 al 26 maggio del 2012.

Gotti Tedeschi fu sfiduciato all'unanimità da un vertice col quale i rapporti erano deteriorati, si disse, anche sul piano personale. Ma la spiegazione si sta rivelando insufficiente. Il suo brusco benservito arrivò dopo un lungo, sordo conflitto interno che aveva per oggetto anche la riforma dell'Istituto e le norme sul riciclaggio del denaro sporco.

Le mosse del Papa e, adesso, le prime misure prese dalla Procura di Roma riaprono in modo traumatico una storia che qualcuno si era illuso di chiudere frettolosamente, continuando a comportarsi come prima. Ma le dimissioni di Benedetto XVI e il successivo Conclave sono uno spartiacque impossibile da rimuovere.

Massimo Franco

29 giugno 2013 | 9:31© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/13_giugno_29/ior-perche-riforma-bergoglio-franco-2221909503027.shtml
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« Risposta #229 inserito:: Luglio 19, 2013, 11:45:51 am »

Il premier bersaglio del «fuoco amico»

Massimo Franco

La sorte di Angelino Alfano ormai è diventata il riflesso dei problemi del Pd. Dietro la sagoma del vicepremier e ministro dell'Interno spunta quella del capo del governo, Enrico Letta: il potenziale bersaglio grosso di un «fuoco amico» che si sta incattivendo anche per misere beghe congressuali. Il voto in Senato di domani non sarà un verdetto politico sul primo, ma sul presidente del Consiglio.

I parlamentari di Guglielmo Epifani dovranno dire in aula se il loro appoggio a Letta esiste ancora; oppure se i malumori di alcuni settori del Pd e le pressioni della corrente di Matteo Renzi, sempre più risucchiato dalle sue ambizioni personali, saranno scaricate su Palazzo Chigi. La decisione di dodici senatori «renziani» di votare per le dimissioni di Alfano sul caso kazako insieme a Sel e Movimento 5 Stelle significa questo: staccarsi dalla maggioranza anomala guidata da Letta, e metterla seriamente a rischio contando su quegli spezzoni del Pd che vivono con sofferenza l'alleanza col Pdl. Questo non toglie che l'espulsione illegale della moglie e della figlia di sei anni del controverso dissidente kazako abbiano lasciato una macchia non tanto per quanto Alfano sapeva, ma per quello che è successo a sua insaputa.

La richiesta al ministro di «rimettere le deleghe» a Letta, e dunque dimettersi, avanzata da un'esponente del Pd come Anna Finocchiaro, rivela un malumore diffuso. Chiamare in causa il premier che domani sarà in aula per difendere il suo vice, come fa Renzi, suona tuttavia come un'ulteriore provocazione. Il sindaco di Firenze si sta muovendo come una sorta di «premier ombra» o, meglio, in pectore . Mima una politica estera parallela a quella di Letta. Muove un gruppo di fedelissimi che si comportano da guastatori in Parlamento e nel dibattito congressuale. E sta tentando di piegare Epifani alla propria agenda congressuale, spinto da chi lo raffigura come il miglior candidato alla premiership. Renzi può scommettere sulle frustrazioni a sinistra per l'intesa con Silvio Berlusconi, e su alcuni dei parlamentari eletti con Mario Monti.

E siccome non riesce a ottenere un congresso che gli permetta una marcia trionfale verso la segreteria e poi,così ritiene, verso il governo, ha deciso di martellare su Palazzo Chigi. Il paradosso di un dirigente del Pd che bersaglia un presidente del Consiglio del suo stesso partito non sembra una remora né per lui, né per i suoi sostenitori. A scoraggiare la manovra non basta neppure che Epifani consideri inverosimile l'ipotesi di formare un altro governo insieme a Sel e Beppe Grillo, se l'attuale cade.

Passa in secondo piano perfino la controindicazione più rilevante, di tipo internazionale: il pericolo di contraccolpi dell'instabilità politica sulla ripresa economica e sui mercati finanziari. Eppure è una variabile messa in evidenza non solo da Letta ma dal governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, che teme la risalita dello spread sui titoli di Stato. È singolare che i protagonismi scomposti tendano a rimuovere questo sfondo. Forse Renzi conta di incrociare i mugugni del centrodestra contro il triplo incarico di Alfano: vicepremier, segretario del Pdl e ministro dell'Interno. Ma l'altolà che Berlusconi ha dato in sua difesa era indirizzato in primo luogo ai suoi; e ha scoraggiato voglie di agguati.

Per questo, il voto di domani in Senato può diventare il penultimo ostacolo estivo per il governo, prima della sentenza della Corte di Cassazione sul Cavaliere, prevista il 30 luglio: anche se le tensioni non possono essere attribuite solo alle manovre del sindaco di Firenze, che infatti protesta e respinge le accuse. In realtà, Renzi è lo specchio della crisi del Pd. E la sua candidatura virtuale fa paura non in sé ma perché il vertice dei Democratici non sembra in grado di opporgliene una convincente. I giochi sono agli inizi. Non è troppo presto, tuttavia, per segnalare nell'impazienza del «partito della crisi» un calcolo che sa di azzardo. Il Pd se ne sta rendendo conto. E ieri sera ha cercato di sventare qualunque tentazione, anticipando il no alla sfiducia. E' un gesto di responsabilità che aspetta una conferma in Parlamento.

18 luglio 2013 | 7:22
© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/13_luglio_18/il-premier-bersaglio-del-fuoco-amico-massimo-franco_65791796-ef63-11e2-9090-ec9d83679667.shtml

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« Risposta #230 inserito:: Luglio 22, 2013, 08:28:31 am »

 Le mosse di Bergoglio: gestione collegiale curia e ridotto ruolo del primo ministro

Vaticano, Bertone in uscita a settembre

Così cambia la mappa del potere

Con il viaggio a Rio si chiude l'era del segretario di Stato.

Una transizione «morbida». Le ipotesi sulla successione

Massimo Franco

Quella che molti aspettano come la nomina più importante del nuovo Pontificato sarà formalizzata probabilmente nei primi giorni di settembre. L'era del cardinale Tarcisio Bertone si chiuderà allora, come approdo di un transizione che papa Francesco ha voluto indolore. Fin troppo, secondo gli avversari del «primo ministro» vaticano. Una parte dell'episcopato ha cercato di spingere per l'allontanamento di Bertone prima. E sperava che nel prossimo viaggio in Brasile, per la Giornata mondiale della gioventù, Jorge Maria Bergoglio fosse affiancato da un nuovo segretario di Stato, perché si desse l'impressione di una svolta tangibile anche in una politica estera vaticana asfittica da anni. Ma Francesco ha consentito a Bertone quest'ultima apparizione al suo fianco. Non tanto perché considera la sua collaborazione insostituibile: l'esautoramento di quello che sotto Benedetto XVI era chiamato malignamente «il vice-Papa» per sottolineare il suo enorme potere, ormai è palpabile.

Francesco avrebbe ignorato anche di recente il suo suggerimento di rinviare l'istituzione della commissione di inchiesta sullo Ior. Una spiegazione della successione al rallentatore è che l'ex arcivescovo gesuita di Buenos Aires ha preferito aspettare per delicatezza nei confronti di Josef Ratzinger: mettere da parte subito il suo primo collaboratore sarebbe suonato come una critica implicita al precedente Pontificato. Ma forse la vera ragione è che in questi primi mesi il Papa ha voluto capire bene non tanto se la stagione di Bertone fosse chiusa, perché le critiche plateali al segretario di Stato durante le congregazioni prima del Conclave lo avevano già mostrato come bersaglio e capro espiatorio di un malumore montante. Il problema è che tipo di «primo ministro» Bergoglio ha in testa. E qui il quadro si fa più confuso. Che si vada verso un ridimensionamento della carica sembra probabile. La segreteria di Stato vaticana negli ultimi anni è stata lo specchio di un sistema di governo che non funziona più e provoca un accentramento tale da costringere il Papa a sovraesporsi per giustificare e proteggere il suo braccio destro. Almeno, questo è accaduto fra Benedetto XVI e Bertone.

L'istituzione di una sorta di «Consiglio della corona» formato da cardinali di tutto il mondo scelti dal Pontefice argentino, prefigura invece un metodo di lavoro collegiale e insieme una riduzione del profilo del segretario di Stato. Nell'incertezza sulle prossime decisioni di Francesco è filtrata perfino l'ipotesi che voglia fare a meno di un «primo ministro» vaticano; ma è improbabile. La «rosa» di nomi che circolano sul successore di Bertone lascia capire solo che pochi conoscono le vere intenzioni del Pontefice; e che si andrà verso una figura comunque meno ingombrante, con funzioni non tanto «politiche» ma più amministrative. Non è chiaro neppure se la quasi invisibilità del segretario di Stato nelle ultime settimane prefiguri il modello che ha in mente il Papa. Qualcuno dà per certo che sarà un diplomatico e un italiano. «Può darsi, ma con l'aria che tira contro il "partito italiano" non lo darei per scontato», ammette un cardinale, confermando che il dopo-Conclave segna non solo un indebolimento di Bertone ma una certa difficoltà di una parte della Cei a sintonizzarsi con il Papa argentino. D'altronde, i paradigmi e gli equilibri geopolitici del passato sono saltati.

Lo smantellamento progressivo ma inesorabile dei rituali della Curia e l'affiancamento di commissioni papali ad hoc alle attuali strutture finanziare vaticane dà corpo a una «strategia dell'accerchiamento» che prepara il terreno sul quale costruire il nuovo modello di governo; e sottolinea quanto non ha funzionato finora. È un'opera di demolizione simbolica di vecchie abitudini e strutture, che serve anche a misurare le resistenze delle lobby ecclesiastiche ed economiche più radicate: quelle che hanno contribuito a spingere Benedetto XVI alle dimissioni nel febbraio scorso; e che tuttora oscillano fra paura e voglia di resistere per sopravvivere. Si racconta che nelle anticamere dei palazzo vaticani, mentre il Papa riceve i suoi ospiti importanti, i monsignori della Curia scherzano davanti a tutti con toni agrodolci su dove verranno «esiliati» nei prossimi mesi. Prima, il 15 giugno, la nomina del «prelato» dello Ior, Battista Ricca. Poi la creazione della commissione di inchiesta sull'Istituto per le opere di religione; e tre giorni fa quella dell'organismo chiamato a controllare i costi di tutte le attività economiche della Santa Sede. L'escalation è vistosa, in appena un mese. Anche se lo scandalo sulle abitudini private di monsignor Ricca sta diventando il pretesto al quale la vecchia guardia cercherà di appigliarsi per contestare i metodi solitari con i quali Bergoglio sceglie i collaboratori.

Ma difficilmente l'incidente, per quanto fastidioso, bloccherà la rivoluzione in atto. Tutti i vertici dello Ior, del passato e del presente, sono chiamati a sfilare davanti alla commissione d'inchiesta presieduta dal cardinale Raffaele Farina per riferire sulle attività dell'Istituto: non solo dunque Ernst von Freyberg, l'attuale presidente, ma anche i predecessori Ettore Gotti Tedeschi e Angelo Caloja. E con loro gli ex direttori. Le accuse della magistratura italiana contro Paolo Cipriani e Massimo Tulli, il direttore dell'Istituto e il suo vice, costretti alle dimissioni il 1° luglio, evocano zone oscure da chiarire prima che arrivino altri scandali. Continua a aleggiare il sospetto che esistano «conti in affitto» offerti a persone o società con grandi disponibilità di denaro per svolgere operazioni finanziarie protette in cambio di corposi contributi. L'arresto, il 28 giugno scorso, di monsignor Nunzio Scarano promette altre rivelazioni imbarazzanti sulla spregiudicatezza almeno di alcuni fra quanti maneggiano soldi in Vaticano. Il prelato salernitano, coinvolto nel tentativo di far rientrare in Italia 20 milioni di euro dalla Svizzera, pochi giorni fa avrebbe fatto consegnare alla Procura di Roma dei documenti sulle attività dell'Apsa, l'Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica, dove ha lavorato per ventidue anni.

Gira voce che ancora poche settimane fa alcune persone definite «vicine allo Ior» avrebbero contattato i vertici italiani di una banca estera per valutare la possibilità di compiere alcune transazioni. Non se n'è fatto nulla perché gli interlocutori hanno chiesto garanzie e condizioni che gli emissari dell'Istituto non era in grado di offrire. Ma, se è vero, l'episodio conferma il motivo della determinazione del Papa a andare fino in fondo. Qualche spunto interessante sulla possibile riforma dello Ior è stato offerto qualche giorno fa da Pellegrino Capaldo, professore emerito di Economia aziendale alla Sapienza, tradizionalmente vicino alla Santa Sede; e rispettato e ascoltato per avere sempre offerto al Vaticano aiuto e consigli. Fra l'altro, nel 1982 fu uno dei tre membri di nomina vaticana (affiancati dai tre scelti da Palazzo Chigi) della commissione mista fra Italia e Santa Sede incaricata di ricostruire la verità nella vicenda oscura dei rapporti fra il banchiere Roberto Calvi e lo Ior. Partecipando recentemente a un dibattito, Capaldo ha sostenuto che lo Ior deve tornare alle origini, eliminando le anomalie e le deviazioni che si sono manifestate negli anni.

L'idea è di trasformarlo in modo da rendere chiaro che non è una banca. Per riuscirci andrebbero vietate esplicitamente le operazioni che la fanno apparire tale. L'alternativa, secondo Capaldo, è lo scioglimento dello Ior e la costituzione di un nuovo organismo al quale affidare compiti limitati alle «opere di religione». L'economista opta per la prima soluzione, però. Lo scioglimento, a suo avviso, è sconsigliabile perché marcherebbe in modo netto la discontinuità col passato ma avrebbe come controindicazione una valutazione tutt'altro che benevola del modo di operare della Chiesa nel passato. Non si tratta di un'analisi eterodossa. Sembra di ascoltare gli echi della discussione in atto nelle sacre stanze. Quando Capaldo esprime la convinzione che il Vaticano non ha bisogno di una banca, viene in mente papa Francesco che in un'omelia del 24 aprile avvertì: «Lo Ior è necessario ma fino a un certo punto». E le sue critiche alla gestione non suonano più dure di quelle fatte dal Pontefice ripetutamente. Adesso si aspetta che le istituzioni finanziarie internazionali certifichino la trasparenza nel modo di operare del Vaticano.

Fra cinque mesi arriverà il rapporto di Moneyval, l'organismo del Consiglio d'Europa chiamato a giudicare sulle virtù o i difetti degli Stati in materia di riciclaggio di denaro sporco e di finanziamento del terrorismo.
Ma secondo il professor Capaldo, più che discutere di white o black list forse sarebbe stato meglio vietare a tutte le amministrazioni della Santa Sede, e in particolare allo Ior, di compiere certi tipi di operazioni. Non è stato un bello spettacolo, ha detto Capaldo, vedere il Vaticano che negozia al ribasso gli standard di trasparenza. Il punto d'arrivo, tuttavia, rimane indefinito. Papa Francesco ha l'aria di un ingegnere al quale è stato affidato il compito di demolire gli abusi edilizi commessi per anni, impunemente, su uno splendido edificio. Finora ha picconato, e già si intravede qualche maceria fra le nuvole di polvere. Eppure, che cosa verrà fuori alla fine è indecifrabile. La planimetria della Chiesa di Bergoglio è nascosta dai rumori e dagli scricchiolii di un cantiere in attività febbrile. Ma probabilmente, nella testa del Pontefice e in quella almeno di alcuni dei suoi grandi elettori all'ultimo Conclave, è pronta da tempo. E subito dopo l'estate rivelerà contorni e strutture che, viste le premesse, saranno sorprendenti e, forse, perfino traumatiche.

21 luglio 2013 | 9:35
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da - http://www.corriere.it/cronache/13_luglio_21/vaticano-bertone-uscita-settembre-cambia-mappa-del-potere-franco_8210cbe6-f1d5-11e2-9522-c5658930a7bc.shtml
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« Risposta #231 inserito:: Agosto 02, 2013, 11:10:52 am »

LA NOTA

Il Movimento dice di difendere la Carta

In realtà il pericolo è lo sfascio

Massimo Franco

C’è una contraddizione vistosa fra l’allarme che il Movimento 5 Stelle lancia sullo «sfascio» dell’Italia, e i suoi comportamenti parlamentari.
L’ostruzionismo sul primo «decreto del fare» del governo, al quale non si esclude possa seguire quello sugli altri quattro, sta rallentando i lavori della Camera e provocando uno spreco di denaro pubblico. E acuisce il sospetto che le truppe di Beppe Grillo contribuiscano all’ingovernabilità invece di proporsi come alternativa e offrire soluzioni. La seconda seduta notturna di ieri, dopo quella di mercoledì, con una tensione all’apice e scambi di accuse e perfino di insulti, è stata accompagnata dagli anatemi grillini contro la classe politica e contro le istituzioni; e da un’offensiva della Rete giunta a legittimare l’uccisione dei dipendenti del Parlamento come contributo alla riduzione delle spese della politica. Deliri a parte, la cosa singolare è vedere il Movimento che teorizza il collasso del sistema, ergersi adesso a estremo baluardo della Costituzione.

Non è chiaro se questa strategia nasca dal tentativo di arginare l’erosione dei consensi segnalata dai sondaggi; oppure se il M5S scommetta su una crisi di governo in seguito alla sentenza della Corte di cassazione del 30 luglio su Silvio Berlusconi. Certamente confida in un aumento delle tensioni sociali di qui all’autunno; e in un aggravamento delle difficoltà per il governo di Enrico Letta, raffigurato come un premier incapace di prendere decisioni. Ma evidentemente a Grillo questo non basta. Per legittimare una linea di estremismo verbale e parlamentare, deve trovare un pretesto più forte e radicale. E dunque sostiene che «il vero obiettivo di questo governo è la distruzione dell’impianto costituzionale». Nel suo blog arriva a denunciare un «colpo di Stato d’agosto», del quale sarebbe responsabile la commissione per le Riforme costituzionali voluta dal Quirinale. «I colpi di Stato vanno combattuti in nome della democrazia», avverte. Anche se poi il gruppo parlamentare grillino chiede un incontro al presidente del Consiglio per discuterne. Il capogruppo del Pd a Montecitorio, Roberto Speranza, cerca di sottolineare «il lavoro straordinario» che viene fatto in queste ore nelle aule parlamentari proprio per il comportamento del M5S. Ma l’obiettivo legittimo delle opposizioni non è quello di accettare o favorire una stabilizzazione, quanto di impedire che la situazione si normalizzi; e di radicalizzare qualunque elemento di conflitto e di crisi.

E bisogna aggiungere che la maggioranza anomala di Letta offre ai grillini spunti polemici quotidiani. Il modo in cui i berlusconiani ostili a Palazzo Chigi drammatizzano la scadenza del 30 luglio contribuisce a trasmettere una sensazione di precarietà e quasi di pre-crisi. E pazienza se la decisione della Suprema Corte potrebbe avere effetti meno traumatici di quanto si pensi. E le opinioni sull’evasione fiscale «di sopravvivenza» espresse ieri dal viceministro dell’Economia, Stefano Fassina, del Pd, hanno creato come minimo tensione. Contraddicono e confondono il messaggio su chi evade le tasse, espresso nelle stesse ore dal premier Enrico Letta e dal titolare dell’Economia, Fabrizio Saccomanni. «La lotta all’evasione fiscale non potrà essere allentata», ha ribadito quest’ultimo. Ma senza riuscire a far recedere un Fassina convinto che esista una differenza fra «l’evasione egoista dei ricchi» e quella di milioni di persone che si difendono dalle tasse per non affondare. Si tratta di una tesi atipica e assai impopolare, nel Pd, e dunque accolta con grande freddezza: anche se all’esterno della sinistra ha cittadinanza da tempo. Il problema è il momento in cui il viceministro la tira fuori. Finisce per inserire un altro elemento di incertezza, e di fatto per indebolire la politica che Palazzo Chigi ha in mente per tentare di correggere il peso fiscale eccessivo.

26 luglio 2013 | 7:55
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da - http://www.corriere.it/politica/nota/13_luglio_26/nota_209c7d38-f5b3-11e2-8279-238a68ccdabf.shtml
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« Risposta #232 inserito:: Agosto 31, 2013, 08:40:53 am »

LA NOTA

Le mosse del Cavaliere su Palazzo Chigi agitano la sinistra

Berlusconi canta vittoria sull’Imu e la sinistra chiede l’aumento dell’Iva


Silvio Berlusconi sta facendo qualcosa di più che riconoscere la lealtà di Enrico Letta per la decisione di cancellare l’Imu. Gli intima come ulteriore passo quello di non aumentare l’Iva e di «dare una scossa» all’economia. E questo mentre il Pdl canta vittoria, provocando i mugugni e i distinguo di alcuni settori del Pd. La tentazione di mostrare il presidente del Consiglio come strumento nelle mani del centrodestra è così smaccata da far nascere il sospetto che Berlusconi scommetta sulla prospettiva di un’esplosione della sinistra; e che comunque voglia tenere sulla corda il Pd, con l’aria di dettare a Palazzo Chigi un’agenda inevitabilmente indigesta. Lo fa nello stesso giorno in cui viene depositata la sentenza di condanna della Corte di cassazione nei suoi confronti. Questo gli permette di sventolare l’Imu come trofeo elettorale; e in parallelo di sparare su una sentenza definita «allucinante e fondata sul nulla». È il segno che la crisi di governo si è allontanata, ma non le manovre intorno all’esecutivo e alla maggioranza anomala che lo sostiene. Le critiche del segretario della Cgil, Susanna Camusso, ai provvedimenti presi nel Consiglio dei ministri di mercoledì, hanno aperto la strada a una serie di distinguo della sinistra nei confronti di Letta. Ha cominciato il viceministro dell’Economia, Stefano Fassina, sminuendo l’abolizione dell’Imu. Il compromesso raggiunto contiene parti giuste «ma insieme parti sbagliate. Dobbiamo dire la verità. Altrimenti non siamo capiti e riconosciuti nella nostra identità alternativa alla destra». Per Fassina, ormai l’aumento dell’Iva dal 1° ottobre sarebbe «irrimediabile». Si tratta di uno smarcamento legittimato dalla vulgata secondo la quale i militanti del Pd sarebbero furiosi per il «cedimento » a Berlusconi. E che fa riemergere quasi di rimbalzo la filiera degli avversari del premier nel suo stesso partito. Rispunta Matteo Renzi. E nonostante assicuri di non voler far cadere Letta, il sindaco di Firenze lo attacca frontalmente. Sostiene infatti che il governo dovrebbe essere sempre più «del Pd» mentre invece finora sarebbe stato subalterno al Pdl; che durerà perché «a Berlusconi conviene»; e che comunque «le larghe intese non possono diventare un’ideologia». Probabilmente sono segni di una frustrazione diffusa e senza sbocchi. Ma non vanno sottovalutati. Si allineano sullo sfondo come una riserva di tensioni pronte a esplodere o a rimanere compresse a seconda della piega che prenderanno i rapporti politici. È come se i partiti alleati avessero fretta di incassare i risultati, magri o meno, raggiunti dal governo; ma poi cedessero all’istinto di prendere le distanze da una coalizione che alcuni settori appoggiano con convinzione, altri nella speranza di un epilogo rapido. Una tesi accredita le divisioni di Pdl e Pd come garanzia di sopravvivenza per Letta. La trama, tuttavia, continua a essere fragile e soggetta all’incrocio fra crisi economica e rapporti politica-magistratura. I berlusconiani continuano a trattare per rinviare il più possibile il voto della giunta per le elezioni e le immunità del Senato che dovrà decidere sulla decadenza del Cavaliere da parlamentare. E la possibilità che ci riescano cresce. La Commissione europea osserva, preoccupata dalla tenuta del governo. Anche per questo ha «accolto con favore » le assicurazioni di Letta in materia di bilancio, e registrato come «segnale positivo» l’accordo dell’altro ieri. L’atteggiamento rimane guardingo, però. Tra le righe si avverte la richiesta di garanzie per la copertura finanziaria dei soldi persi con l’abolizione dell’Imu. Si cammina su un crinale sottile, scommettendo su una fiducia e una credibilità che i conflitti continui minacciano di rimettere in discussione.

30 agosto 2013 | 8:13
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Massimo Franco

DA - http://www.corriere.it/politica/nota/13_agosto_30/la-nota-massimo-franco_7f5d7a5e-1131-11e3-b5a9-29d194fc9c7a.shtml
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« Risposta #233 inserito:: Settembre 03, 2013, 05:02:52 pm »

La Nota

Schermaglie e veti incrociati un compromesso lontano

Il congresso del Pd e la decadenza del Cavaliere

 
L'ipotesi di un qualche rinvio sta prendendo silenziosamente corpo: sebbene sia sovrastata da una polemica fra Pdl e Pd che rimane aspra e in apparenza senza sbocco. L'Italia politica sembra ingabbiata nello scontro sul destino di Silvio Berlusconi. E la riunione della Commissione elezioni e immunità del Senato, il 9 settembre prossimo, viene accreditata come uno spartiacque. Solo formalmente, però. Non sarà quello il giorno in cui si deciderà la decadenza da parlamentare dell'ex premier. E in fondo, si comincia a capire che il problema potrebbe presto diventare un altro. La sinistra tende a inquadrare la vicenda in termini soltanto giudiziari: cosa vera, ma fino a un certo punto. I berlusconiani ne sottolineano le implicazioni squisitamente politiche, e anche questa analisi riflette solo una parte di verità. L'incognita è come due tesi inconciliabili e contenenti entrambe elementi di strumentalità porteranno a un compromesso. La sensazione è che aumentino le pressioni delle persone a lui più vicine affinché Berlusconi prenda atto della sentenza di condanna della Corte di Cassazione ; e affronti i prossimi mesi partendo da questo dato di fatto. Non è detto che l'opera di persuasione riesca: il vertice di famiglia e d'azienda di ieri pomeriggio a Arcore non ha risolto l'incertezza.

Le schermaglie, i veti e gli ultimatum al governo, seppure smentiti, confermano un passaggio delicato. Eppure, affiora un'ombra di stanchezza per un tiro alla fune prolungato e senza esito. È sempre più chiaro che una soluzione può arrivare soltanto dalla disponibilità di alcuni settori del Pd a esaminare la posizione giudiziaria berlusconiana senza farsi condizionare da un'ostilità preconcetta e dall'illusione di liberarsi di lui in questo modo. Ma fino a che il vertice del Pdl rifiuta le decisioni della magistratura e punta a contestare la decadenza, il risultato più verosimile sarà un irrigidimento dei due fronti. Voci come quelle di Luciano Violante e dell'ex presidente del Senato, Franco Marini, si sono fatte sentire per ammettere la possibilità di approfondire le obiezioni di Berlusconi sulla legge che lo farà decadere; ma rimangono isolate all'interno del Pd. L'accoglienza ostile che l'apertura di Violante ha ricevuto nel partito conferma quanto il tema sia politicamente esplosivo: un tabù.

Il rischio, fra l'altro, è che la vicenda si intrecci con quelle del congresso; che la durezza nei confronti del leader del Pdl e il «no» a qualunque subordinata alla sua uscita dal Parlamento diventi una delle carte sulle quali puntano i candidati alla segreteria del Partito democratico per avere consensi. Accreditare l'idea che una qualunque concessione a Berlusconi si configuri come «baratto» per salvare il governo di Enrico Letta, significa impostare la questione in maniera improponibile; e consentire a chi a sinistra è contro le larghe intese, di spingere il Cavaliere alla rottura. Nel centrodestra, si replica polemicamente che comunque Letta resterebbe a Palazzo Chigi, perché è protetto dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano; e perché, se cadesse l'attuale maggioranza trasversale Pd-Pdl-Scelta civica, se ne troverebbe un'altra in Parlamento con la «stampella» del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo.

Ma sono scenari, oltre che semplicistici, molto teorici. La realtà è che una crisi della coalizione guidata da Letta creerebbe un vuoto pericoloso e molto difficile da riempire, col rischio serio di spingere l'Italia a elezioni anticipate. La disponibilità dell'M5S è tutta da vedere, e comunque presenta molte controindicazioni. E uno scontro incattivito sulla giustizia schiaccerebbe i partiti su un passato che non ha prodotto nulla di buono. Il problema è come arrivare al 9 settembre con un'ipotesi di compromesso e non con posizioni ancora più distanti. I margini sono stretti: l'ha detto Letta qualche giorno fa, e lo ha ripetuto ieri Anna Finocchiaro, che ritiene «inconsistenti» le ragioni della difesa. L'invito al Pdl è, di nuovo, a tenere distinte le vicende di Berlusconi e le proprie. Ma è una richiesta irricevibile; e comunque inconfessabile.

3 settembre 2013 | 8:45
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Massimo Franco

da - http://www.corriere.it/politica/nota/13_settembre_03/nota_14c92e44-1457-11e3-9c5e-91bdc7ac3639.shtml
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« Risposta #234 inserito:: Settembre 11, 2013, 05:28:14 pm »

Lo scontro sui tempi rimette di colpo il governo in bilico

Il centrodestra accusa Pd ed M5S di forzare per eliminare Berlusconi


Non è ancora chiaro quando scatterà la decadenza di Silvio Berlusconi da parlamentare. Ma ci si arriverà, e fra non molto. E la guerra sui tempi della decisione, apertasi ieri nella giunta delle Elezioni al Senato, sembra in grado di drammatizzare e rendere ancora più avvelenata la decisione; non, però, di deviare un percorso che avrà uno sbocco inevitabile. La durezza di Pd e Movimento 5 Stelle rende le divisioni più radicali. E nella mossa del leader del Pdl di riunire i suoi parlamentari domani si può anche intravedere l'oscura minaccia di scaricare sul governo di Enrico Letta un voto negativo, per quanto atteso. È difficile, tuttavia, non vedere una manovra al limite della disperazione in questi tentativi di rinviare quanto più possibile il verdetto parlamentare.

In apparenza, la prospettiva di una crisi non è scongiurata. E gli attestati di lealtà del centrodestra al Cavaliere restringono qualunque ipotesi di "tradimento". Eppure, fra l'ipotesi di far franare una maggioranza che Berlusconi è stato il primo a promuovere, e la decisione di affossarla per protesta contro la sua incandidabilità vidimata dal Parlamento potrebbe aprirsi un mare di distinguo. Per sapere se la Corte europea dei diritti dell'uomo accoglierà il ricorso berlusconiano contro la sentenza della Cassazione bisognerà aspettare almeno tre o quattro mesi: troppo, per una sinistra determinata a chiudere la questione in tempi relativamente brevi.

Quella del Cavaliere viene considerata un'agonia politica che sarebbe inutile prolungare, perché il risultato sarebbe l'immobilismo dell'esecutivo. Ma soprattutto, il calcolo del Pd, azzardato o meno, è che le probabilità di una crisi siano minori di quanto si pensi; che in realtà anche in Senato esistano i numeri per una maggioranza alternativa a quella trasversale di oggi; e che, se si dovesse veramente arrivare alla conta, nello stesso Pdl si aprirebbe qualche varco perché nessuno vuole andare alle urne il prossimo anno. Fra l'altro, la leggera risalita dello spread, la differenza fra gli interessi di titoli italiani e tedeschi, suona come un ammonimento a Berlusconi a non tirare troppo la corda.

Per questo, si tende a leggere lo scontro nella giunta di Palazzo Madama come un copione in qualche misura dovuto e inevitabile. Le eccezioni presentate dal Pdl a difesa dell'ex premier saranno votate probabilmente stanotte o domani: senza spostare di un millimetro le posizioni, però. Il centrodestra continua a spedire ultimatum, avvertendo che se ci fosse un sì alla decadenza senza ulteriore discussione, la maggioranza non esisterebbe più. Il risultato, però, finora è solo quello di sentirsi respingere gli altolà come inaccettabili. Non si scambia la stabilità del governo con l'impunità di Berlusconi, replica un Pd che non può permettersi di apparire cedevole agli occhi del movimento di Beppe Grillo e dei militanti.

È una sfida che non consente comunque di essere ottimisti: si arrivi a una crisi o meno, gli schieramenti si preparano a un muro contro muro destinato a rendere ancora più difficile la vita del governo. L'ipotesi alla quale il Quirinale lavora sono elezioni anticipate non prima del 2015: dopo il semestre di presidenza italiana dell'Ue all'inizio dell'estate del prossimo anno. Fra l'altro, sarebbe la sola maniera per evitare di bloccare di nuovo l'evoluzione di un sistema che in quasi vent'anni ha funzionato male. Ma l'irritazione, perfino lo stupore per una sfida della sinistra che agli occhi del Pdl suona come provocazione, può produrre scarti inaspettati. La domanda è verso quali sbocchi Berlusconi cercherà di portare il suo partito; e quanti, sia in caso di rottura che di compromesso in extremis, saranno disposti a seguirlo compatti come nel passato.

10 settembre 2013 | 8:00
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Massimo Franco

da - http://www.corriere.it/politica/nota/13_settembre_10/nota_215fd5ea-19de-11e3-bad9-e9f14375e84c.shtml
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« Risposta #235 inserito:: Settembre 26, 2013, 05:12:48 pm »

IL PDL E LE DIMISSIONI DI MASSA

Irresponsabilità


Ci vuole una smisurata dose di irresponsabilità e di provincialismo per minacciare dimissioni di massa dal Parlamento mentre a Wall Street il presidente del Consiglio rassicura gli investitori internazionali sulla stabilità dell'Italia. La mossa, perché bisogna sperare che non sia ancora una decisione definitiva, di deputati e senatori del Pdl esaspera la sensazione di un partito in balìa di chi vuole fomentare il «tanto peggio tanto meglio»; e che per risolvere il conflitto interno tra oltranzisti e ala ministeriale, non esita a scaricarne i costi sul Paese nel nome di una malintesa fedeltà a Silvio Berlusconi condannato.

Non si capisce come finirà. Formalmente, i ministri del Pdl restano in carica e le dimissioni degli eletti sono congelate fino al 4 ottobre, quando il Senato si pronuncerà sulla decadenza del Cavaliere da parlamentare. Ma la minaccia è evidente, benché suoni velleitaria e strumentale la pretesa di salire su un surreale «Aventino» fino a che Giorgio Napolitano non scioglierà le Camere. Siamo all'esito estremo di un cortocircuito nel quale si è smarrito il senso della realtà e della serietà. E qui, forse, il discorso va allargato anche ad altre forze governative che nelle ultime settimane hanno dato una prova scoraggiante di astrazione dai problemi dell'Italia: a destra e a sinistra.

I comportamenti ai quali si è assistito raccontano una totale mancanza di rispetto non solo per gli elettori ma anche per le istituzioni e per l'interesse pubblico. Da una classe politica, e soprattutto da partiti che hanno ricevuto grandi consensi, ci si sarebbe aspettati un atteggiamento di umiltà: quello imposto da elezioni senza vincitori, e dall'incapacità prima di formare un governo e poi di eleggere un nuovo presidente della Repubblica. Invece, subito dopo l'estate, il retroterra di riserve mentali e calcoli miopi, personali e un po' miserabili ha ripreso il sopravvento. Gli alleati di una maggioranza già anomala, difficile, irta di contraddizioni, si sono messi a scherzare col fuoco.

Le notizie arrivate ieri dai gruppi parlamentari berlusconiani riuniti nella residenza romana dell'ex premier, e poi alla Camera, sembrano dire che il «gioco del cerino» sta finendo. A bruciarsi si candida un Pdl morente, che vuole risorgere «tornando alle origini», a Forza Italia, nel segno di un Cavaliere incandidabile. Ma la nuova creatura sarebbe sfigurata da un estremismo e da una disperazione che appaiono l'opposto del tentativo di stabilizzazione moderata, premiato nel 2008 dall'elettorato; e fallito non tanto per colpa della magistratura o degli scandali del Cavaliere, ma delle liti nel centrodestra e di scelte economiche inadeguate. Berlusconi denuncia una manovra eversiva, senza accorgersi di tirarsi addosso la stessa accusa, anzi di favorirla.

Fa venire i brividi pensare che chi minaccia di affondare il governo non si accorga di preparare un cocktail pericoloso, che nutrirà spinte populiste e speculazione finanziaria.

26 settembre 2013 | 7:44
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Massimo Franco

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_26/irresponsabilita-franco_c029e224-266d-11e3-a1ee-487182bf93b6.shtml
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« Risposta #236 inserito:: Ottobre 06, 2013, 12:24:51 am »

Il coraggio dei moderati

L’era di Silvio Berlusconi si è chiusa con un ultimo, malinconico bluff . Il suo voto a favore di un governo che voleva abbattere è l’estrema finzione di vittoria di fronte a una disfatta politica e personale: col paradosso che viene certificata col suo consenso. Ma è anche il sigillo finale su una fase nella quale era cresciuto il distacco del fondatore del centrodestra dalla realtà, italiana e internazionale: al punto da non avere più antenne per captare l’emancipazione davvero moderata dei suoi ministri e di molti parlamentari.
Si può dire che solo col voto di ieri è nata una vera maggioranza politica delle larghe intese. Non a caso il presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha avvertito che sarà quella a governare, e non l’ammucchiata numerica che vorrebbe condizionarla. È una coalizione che si è forgiata passando attraverso una strettoia drammatica; e superando il trauma di una spaccatura del Pdl tutt’altro che prevedibile. Ne emerge un nucleo governativo, guidato dal vicepremier Angelino Alfano, che non può essere sminuito con la categoria dei transfughi o dei complici della sinistra. La sensazione è opposta.
Si tratta di una componente che oggi può rivendicare a ragione una forte identità; e proporla da posizioni di parità a una sinistra che ha avuto il merito di assecondare, senza forzarla, un’operazione politico-parlamentare evidentemente matura. Basti pensare alle implicazioni anche psicologiche che la sfida col Cavaliere ha avuto per un personaggio come Alfano, finora suo «delfino». Ma è chiaro che da oggi la maggioranza ha il compito di gestire con equilibrio e, viene da dire, generosità, i rapporti con il Berlusconi sconfitto.
Dopo il risultato di ieri alle Camere, anche il suo destino giudiziario non può non assumere contorni diversi. E non dovrebbe consentire a nessuno forzature per umiliarlo: tanto meno agli avversari. L’asse fra Quirinale, Palazzo Chigi, Pd, montiani e moderati del Pdl dovrebbe essere una garanzia. Protetta e consigliata da Giorgio Napolitano, la nuova maggioranza può puntellarsi su una omogeneità più marcata. E se agisce, è destinata a relegare in un angolo urlante non solo i «falchi» berlusconiani ma anche quelli annidati nelle pieghe della sinistra, oltre a Beppe Grillo e a una Lega svuotata.
Sono loro, esponenti del partito trasversale della crisi, gli sconfitti. E a vincere è chi vuole soddisfare la fame di stabilità dell’opinione pubblica, e la richiesta di certezze che Europa e mercati finanziari giustamente pretendono. Forse, l’errore più grossolano dei tifosi dello sfascio è stato di non avere capito che sono cambiate le regole del gioco. In un’Europa immersa nella crisi economica, il vincolo esterno dell’Italia non è più determinato dai patti militari: è dettato da codici di sicurezza finanziaria altrettanto stringenti.
Rischiare di stravolgerli per comprensibili, ma inaccettabili, ragioni personali è stata l’ultima illusione di onnipotenza di Berlusconi: una miopia che ha rivelato impietosamente la sua appartenenza al passato.
03 ottobre 2013
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Massimo Franco

Da corriere.it
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« Risposta #237 inserito:: Ottobre 28, 2013, 09:39:40 am »

Il paese delle ombre

Ammettere la testimonianza di Giorgio Napolitano nel processo sulla trattativa Stato-mafia da parte della Corte d’assise di Palermo sarà pure «pertinente», come ha affermato ieri uno dei sostituti procuratori. Ma non può non lasciare un sottofondo di stupore e di perplessità. Gli stessi magistrati si rendono conto dell’enormità della loro mossa. E infatti, per giustificarla riconoscono limiti rigidi e ampi che toccano le funzioni del presidente della Repubblica e le esigenze di riservatezza legate al suo ruolo. Il rischio, tuttavia, è che il capo dello Stato appaia oggetto di un ulteriore strattone da parte di alcuni settori del potere giudiziario immersi da tempo in conflitti interni; e decisi a riaffermare la propria identità a costo di scaricarne gli effetti su un Quirinale che sta tentando una stabilizzazione anche nella magistratura.

È sacrosanto chiedere a tutti informazioni che possano contribuire a trovare la verità. Ma in questo caso non si può non valutare anche una questione di opportunità; e chiedersi se non sia foriero di pericolosi equivoci gettare ombre sul presidente della Repubblica, citandolo come testimone delle preoccupazioni di un suo collaboratore scomparso. In una fase in cui a livello internazionale Napolitano viene considerato uno dei pochi ancoraggi di un’Italia condannata a galleggiare nell’incertezza, la vicenda assume contorni lievemente surreali. Dietro un aggettivo come «inusuale», utilizzato ieri dalla Guardasigilli, Annamaria Cancellieri, si indovina l’imbarazzo per una sentenza che accoglie e insieme schiva le decisioni della Corte costituzionale.

Si tratta del verdetto col quale a gennaio la Consulta stabilì la distruzione delle intercettazioni telefoniche tra il Quirinale e l’ex ministro Nicola Mancino, ritenendole inammissibili. Non solo. I commenti fatti a caldo da alcuni magistrati della Procura palermitana contengono giudizi negativi e liquidatori sull’ipotesi di amnistia e indulto avanzata nei giorni scorsi al Parlamento proprio da Napolitano: parole anche queste un po’ irrituali. Oggettivamente fanno sponda a quanti, nei partiti, hanno criticato la proposta del capo dello Stato, evocando un inconfessabile salvacondotto per Silvio Berlusconi: sebbene si abbia la sensazione che il vero motivo dell’attacco al Quirinale sia l’ennesimo tentativo di dare una spallata al governo delle larghe intese.

Dalla presidenza della Repubblica ieri è arrivato un comunicato nel quale si precisa di essere «in attesa di conoscere il testo integrale dell’ordinanza di ammissione della testimonianza... per valutarla nel massimo rispetto istituzionale»: risposta ineccepibile e insieme gelida, che lascia aperta la possibilità di rispondere alla Corte d’assise di Palermo in base alle tesi esposte dai giudici; e che lascia trasparire l’eventualità di un nuovo conflitto tra vertici dello Stato. Il fatto che perfino il presidente del Senato, Pietro Grasso, sia stato chiamato a deporre a Palermo, non rende l’iniziativa meno singolare, anzi. Grasso è stato a lungo ai vertici della Procura del capoluogo siciliano, e poi capo dell’Antimafia a livello nazionale. E si è attirato l’ostilità di alcuni settori della magistratura per non avere voluto avallare teoremi a suo avviso poco fondati sul piano delle prove.

C’è da sperare che quanto sta accadendo non abbia niente da spartire con una stagione apparentemente archiviata. La testimonianza richiesta alla prima carica dello Stato e al suo supplente, tuttavia, se anche non è una forzatura in punto di diritto, suona poco comprensibile dal punto di vista istituzionale. Rischia di gettare su un Napolitano rieletto per un settennato senza che l’abbia chiesto né cercato, il peso di vicende figlie di un conflitto trasversale fra spezzoni della magistratura e dei partiti: un residuo di veleni antichi e più recenti, versati su un equilibrio politico e su un sistema già fragili e tormentati.

23 ottobre 2013 (modifica il 23 ottobre 2013)
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Massimo Franco

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_ottobre_18/paese-ombre-3893172a-37b8-11e3-91d2-925f0f42e180.shtml
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« Risposta #238 inserito:: Novembre 21, 2013, 11:53:05 am »

GOVERNO E STRATEGIE

I confini del presidente del Consiglio


Matteo Renzi gli aveva consigliato di non metterci la faccia. Enrico Letta ha risposto imponendo tutto il peso del suo ruolo a difesa di Annamaria Cancellieri. E ha portato il Pd sulle sue posizioni. Il sindaco di Firenze può vincere il congresso, ma il presidente del Consiglio ha prevalso nella prima sfida diretta: a conferma che le incursioni del «rottamatore» dovranno fermarsi al confine delle «larghe intese».

Il «sistema palatino» sembra essersi chiuso di fronte al tentativo di destabilizzare la coalizione usando il pretesto del Guardasigilli. I vertici delle istituzioni hanno blindato la Cancellieri in bilico per le telefonate fatte alla famiglia del costruttore Salvatore Ligresti durante la detenzione di una figlia. E così, la prospettiva delle sue dimissioni, date per probabili fino a ieri mattina, forse si è allontanata: anche se non è chiaro se si tratti di un congelamento o di un capitolo chiuso. Il fatto che ieri sera, ai gruppi parlamentari del Pd, sia stato lo stesso premier Enrico Letta a parlare per difenderla, rivela la preoccupazione con la quale il governo segue la vicenda. L’appoggio offerto dal presidente del Consiglio e il sostegno del capo dello Stato nascono sia dall’inesistenza di un’inchiesta penale a carico della titolare della Giustizia, sia da ragioni politiche.

Il governo delle «larghe intese» è troppo debole per sopportare le dimissioni di un ministro- chiave proprio all’indomani della scissione del Pdl di Silvio Berlusconi e di Scelta civica di Mario Monti; e mentre i Democratici si avviano al congresso di dicembre con un Matteo Renzi deciso a incalzare la coalizione in ogni circostanza. Anche sul caso Cancellieri, il candidato favorito alla segreteria del Pd ha invocato le dimissioni. Ha sfidato per l’ennesima volta Enrico Letta, consigliandogli di «non mettere la faccia » nella difesa del Guardasigilli. Insomma, ha usato una vicenda imbarazzante come un altro frammento per costruirsi un’identità opposta a quella di chi sostiene le «larghe intese». Più che ottenere le dimissioni del ministro, Renzi voleva incassare il dividendo di una critica frontale a quello che definisce con una punta di sarcasmo «politicamente corretto»; e mettere il premier e il Quirinale di fronte all’ennesimo bivio.

Sa che Napolitano è il garante di un assetto politico che lui invece contesta e punta a scardinare e comunque a logorare. La difesa della Cancellieri ribadita anche dal centrodestra in nome del garantismo rafforza, di rimbalzo, il profilo di Renzi. E gli offre un potenziale vantaggio in un Pd che vuole la decadenza di Berlusconi da senatore; e al congresso misurerà i suoi istinti antigovernativi non tanto nei confronti di Lettamadella maggioranza che presiede. Dopo quanto è successo, il sindaco di Firenze ha gioco facile nel teorizzare che, qualunque riforma il ministro farà, «sconterà un giudizio diffidente» dell’opinione pubblica. Ma Renzi sa che le diffidenze e i malumori sulla Cancellieri sono destinati a ripercuotersi su palazzo Chigi e Quirinale, presentati come difensori di uno status quo contro il quale chiama a raccolta il «suo» Pd: non quello degli eletti ma degli elettori.

La richiesta di un voto del gruppo parlamentare alla fine della riunione di ieri sera risponde alla logica di una conta che mostri un partito spaccato fra «buoni» e «cattivi»; e dunque riveli le crepe che il caso Cancellieri ha allargato. «Faremo staccare dalle poltrone i loschi personaggi del Pd», promette il sindaco con l’occhio al «popolo delle primarie». C’è da chiedersi se questa strategia porti ad un ricompattamento su basi completamente nuove, o se possa diventare l’anticamera di una scissione. «Quando ho perso non sono scappato», ricorda correttamente Renzi, riferendosi alle primarie in cui vinse Pier Luigi Bersani. «E non credo che avverrà se vinco io». Il modo in cui sta plasmando la propria candidatura, d’altronde, rivela per intero la debolezza della nomenklatura precedente

Ma accentua anche l’idea di un potere verticale e personale. E soprattutto non nasconde una strategia tesa a delegittimare il presidente del Consiglio: in particolare ora che l’asse con il vicepremier Angelino Alfano è rafforzato dalla rottura con Silvio Berlusconi. Renzi teme il consolidamento della «nuova maggioranza» affiorata durante la fiducia del 2 ottobre, e ufficializzata dalla scissione del Pdl: ha paura che catalizzi tentazioni centriste e favorisca una riforma elettorale di tipo proporzionale. Ieri sera Letta ha chiesto ai deputati «una risposta politica» a quello che ritiene «un attacco politico» slegato dal merito. Insomma, un gesto di fiducia per arginare l’offensiva del sindaco, pronto ad attaccare «le larghe intese Cavaliere-Grillo» sul sistema di voto ma in piena sintonia col Movimento 5 Stelle sulle dimissioni della Cancellieri. Nonostante le sue rassicurazioni, cresce il dubbio che il «rottamatore» finisca per provocare una crisi. In quel caso, a dicembre non gli cadrebbe in mano solo un Pd frollato dalla sua terapia d’urto, ma anche un governo ammaccato da difficoltà oggettive e dalle sue continue spallate.

20 novembre 2013
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Massimo Franco

Da - http://www.corriere.it/opinioni/13_novembre_20/i-confini-presidente-consiglio-84c73e90-51c7-11e3-a289-85e6614cf366.shtml
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« Risposta #239 inserito:: Gennaio 19, 2014, 12:26:50 am »

Ma così non si va da nessuna parte

I toni usati ieri nella Direzione del Pd da Matteo Renzi sono perentori, quasi minacciosi: verso gli avversari interni e verso il governo. Non ci sono concessioni a chi ha criticato il dialogo sulla riforma elettorale con Silvio Berlusconi. Viene bocciato qualunque cambio nei ministeri. Il progetto rimane quello di archiviare «le intese larghe o striminzite»; e di avere un sistema che preveda il premio di maggioranza. E chi pensa di tramare contro di lui col voto segreto in Parlamento, deve sapere che la coalizione salterebbe. Il senso è chiaro: il dominus del partito e dunque anche del governo è il segretario votato alle primarie di dicembre.

Forse la nomenklatura del Pd non l’aveva previsto, ma l’effetto dell’investitura è quello di dettare una strategia senza condizionamenti. Enrico Letta, incontrato nella notte, «può andare avanti» se fa bene, non ci sono scadenze per il suo governo. Renzi assicura di criticarlo «non per fargli le scarpe, ma per aiutarlo». E infatti lo pungola ruvidamente, imputandogli errori e inadeguatezze; e chiedendogli «una visione, non un rimpastino»: frecciate indirizzate a Palazzo Chigi, ma destinate a colpire lo stesso Quirinale.

Eppure, dietro tanta perentorietà si percepisce un filo di preoccupazione. È come se Renzi si rendesse conto di guidare dirigenti e parlamentari perplessi dai suoi metodi: al punto da attaccarlo in modo strumentale quando conferma un incontro con Berlusconi «per provare a chiudere». La durezza con la quale risponde ai critici è giustificata: è difficile dargli torto quando ricorda che col Cavaliere è stato formato un governo. Il sospetto, tuttavia, è che il tabù berlusconiano veli resistenze e riserve più di fondo.

A spaventare è un decisionismo sbrigativo che non tiene conto di equilibri fragili e in bilico; e che può preludere non alla palingenesi del sistema additata da Renzi, ma ad un precipizio servito sul piatto di Beppe Grillo. Il timore è che il nuovo vertice dei Democratici regali all’Italia una scorciatoia insidiosa solo per uscire dalle proprie frustrazioni post elettorali; e per far dimenticare il rosario delle «figuracce», come le chiama Renzi, assillato soprattutto dall’esigenza di evitare il proprio logoramento. In realtà, il segretario del Pd ha fretta ma potrebbe essere costretto a prendere tempo.

Di fatto, Renzi ha rinviato a lunedì la decisione sulla riforma elettorale perché non ha ancora una soluzione: aspetta di capire le vere intenzioni di Berlusconi. In più, indovina il dubbio che il «suo» sistema di voto riceva un’accoglienza ostile in Parlamento: tanto più nel momento in cui propone lo svuotamento del Senato. Renzi avverte che se a scrutinio segreto dovessero venire bocciate le sue proposte, salterà la maggioranza. Dunque, ci sarebbe la crisi e probabilmente si andrebbe alle urne.

Ma se l’accordo sulla legge elettorale si fa a prescindere dagli alleati e contro uno di loro, il Nuovo centrodestra, maltrattato anche ieri, c’è da chiedersi come Renzi possa pretendere ubbidienza e lealtà ad una coalizione governativa che lui per primo non riconosce come perno della sua strategia. Se poi il calcolo o anche solo la conseguenza di questa polemica fosse di spingere Angelino Alfano e il suo partito di nuovo nelle braccia di Berlusconi, per la sinistra sarebbe un capolavoro alla rovescia: l’ultima «figuraccia».

17 gennaio 2014
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Massimo Franco

Da - http://www.corriere.it/cultura/14_gennaio_17/ma-cosi-non-si-va-nessuna-parte-15ac94d4-7f43-11e3-aa77-33cce3d824e3.shtml
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