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Autore Discussione: MASSIMO FRANCO  (Letto 193109 volte)
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« Risposta #165 inserito:: Ottobre 26, 2011, 04:40:33 pm »

Comanda la paura

Iniziare il Consiglio dei ministri straordinario con oltre un'ora di ritardo vuole dire ufficializzare lo scontro tra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi sulla riforma delle pensioni, chiesta dagli alleati europei. Ma significa anche mediare tra posizioni agli antipodi. In apparenza, l'esito di questo contrasto è inevitabile. Logica vorrebbe che si aprisse una crisi di governo: sarebbe la «discontinuità» che le opposizioni chiedono come condizione per appoggiare i provvedimenti invocati da Bruxelles; e che il caos nel centrodestra giustificherebbe da tempo.

Il corollario sarebbe un voto anticipato affrontato dalla Lega come se fosse una variante della secessione. Ma per quanto tentato da una rottura che potrebbe sfruttare in campagna elettorale, il Carroccio sembra diviso fra voglia di voltare pagina e paura dello strappo: due pulsioni parallele che sta vivendo da mesi. Per questo si tratta e si rinvia a oggi, affidando a Berlusconi il compito di parlare all'Europa. D'altronde, la polemica con gli alleati dell'Unione è un elemento che accomuna Bossi e Palazzo Chigi, seppure con toni diversi. Il comunicato col quale ieri il premier rifiuta «lezioni» e polemizza con le nazioni che «si autonominano commissari», è tardivo ma chiaro.

Si tratta di una risposta allo sgarbo plateale di Nicolas Sarkozy e di Angela Merkel domenica a Bruxelles. Tende a sottolineare soprattutto l'arroganza del capo di Stato francese, perché la Germania ha corretto la brutta impressione data in conferenza stampa con i sorrisi complici e irridenti per Berlusconi. L'Italia rifiuta, giustamente, di essere il capro espiatorio delle magagne europee. Ma non può neppure usare quanto è successo come alibi per nascondere le sue mancanze. Il catastrofismo che il centrodestra condanna è il sottoprodotto naturale delle pecche del governo.

Senza l'improvvisazione e le esitazioni di cui Berlusconi ha dato prova, l'Italia non si ritroverebbe in questa posizione sacrificale; e Sarkozy avrebbe qualche problema a fare la voce grossa. Quanto è avvenuto replica su un altro piano il « lapsus » col quale alcune settimane fa il presidente Usa, Barack Obama, non citò il governo di Roma fra i Paesi in prima linea per sconfiggere Gheddafi. Gaffe anche quella, ma soprattutto il segno di un isolamento e di un'irrilevanza crescenti dell'Italia: a dispetto delle lodi convinte che Berlusconi fa a se stesso.

È il costo di una strategia della sopravvivenza che il premier sta perseguendo con disperata ostinazione. Il prezzo è alto per l'Italia, ma anche per lui. La scommessa di riuscire a resistere il più a lungo possibile confida in una forza parlamentare numerica, ormai in bilico. E sottovaluta l'ostilità dei mercati finanziari. In una situazione del genere, durare diventa il contrario di governare. E crea le premesse non per un normale cambio di schieramento e di premier ma per una cacciata senza appello: una débâcle per Berlusconi e un'ipoteca sul futuro del centrodestra.

Massimo Franco

25 ottobre 2011 09:17© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_25/franco-consiglio-ministri_adc634e4-fec8-11e0-b55a-a662e85c9dff.shtml
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« Risposta #166 inserito:: Novembre 03, 2011, 05:44:30 pm »

Ultimo tentativo

Difficile sottrarsi all’impressione che il governo abbia, se non i giorni, le settimane contate; e che la stessa legislatura finirà all’inizio del 2012. Il ridimensionamento degli orizzonti temporali del centrodestra ne è la prova. Ormai nessuno, nel Pdl, si azzarda più a sostenere che Silvio Berlusconi durerà molto. Realisticamente, ci si accontenta di arrivare a Natale per gestire le elezioni anticipate da Palazzo Chigi. Il problema è che ormai perfino la trincea natalizia appare troppo esposta: rischia di essere travolta dalla speculazione finanziaria.

La risposta continua ad essere una disperata difesa dello status quo. Ma sono soltanto il G20 di oggi a Cannes e la paura dei mercati a tenere in piedi la maggioranza. La sfilata di delegazioni di partito al Quirinale trasmette l’immagine di una situazione di pre crisi; e il rinvio ad oggi dell’incontro, chiesto da un Pdl impantanato sulle misure anti crisi, mostra un premier sospettoso per lo smarcamento scientifico del suo ministro dell’Economia, Giulio Tremonti; e ossessionato dal ruolo del Quirinale, di cui teme l’ostilità. Il risultato è che ieri sera il Consiglio dei ministri ha tardato a lungo prima di esaminare e approvare i provvedimenti pretesi dall’Europa e presentati al vertice di oggi.

I sondaggi informali che sta facendo il capo dello Stato cercano di diradare l’incertezza. E capire cosa succederebbe se cadesse Berlusconi. Il rifiuto del Cavaliere a farsi da parte risponde al calcolo di usare le misure anti crisi come grimaldello per ottenere l’ennesimo «sì». Il nomadismo parlamentare di alcune schegge berlusconiane, però, fa capire che il suo blocco di voti comincia ad erodersi. Angelino Alfano, segretario del Pdl, teme di perdere deputati. Sa che, se l’operazione riesce, toglierebbe a Berlusconi l’ultimo alibi: quello di numeri parlamentari blindati.

L’incubo del Cavaliere è la nascita di un altro governo. Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc, ieri ha spiegato di non avere fatto a Napolitano nomi di candidati a Palazzo Chigi, perché «non erano consultazioni formali». Ma la precisazione fa pensare che il momento della crisi si sta avvicinando. Gli avversari si rifiutano di aiutare il centrodestra, a meno che Berlusconi non si dimetta. Riproporre la strategia della sopravvivenza finisce così per evidenziare la pericolosità dello stallo, su uno sfondo che i mercati hanno cambiato drammaticamente.

Di questo immobilismo Umberto Bossi, con le sue pernacchie e il dito medio alzato, è una metafora perfetta. Al di là della volgarità crescente delle sue reazioni, è l’emblema di un centrodestra consapevole che la parabola berlusconiana si sta concludendo; ma, nonostante questo, incline alla stizza quando è chiamato a guardare in faccia il vuoto di governo che da tempo Pdl e Lega riflettono. Eppure, prima lo affrontano e ne traggono le conseguenze, prima metteranno la loro alleanza al riparo da un giudizio negativo inevitabile.

Massimo Franco

03 novembre 2011 07:31© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_03/franco-ultimo-tentativo-editoriale_3d9cc004-05e2-11e1-a74a-dac8530a33df.shtml
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« Risposta #167 inserito:: Novembre 07, 2011, 05:47:07 pm »

La Nota

Le barricate del premier rischiano l'urto dei mercati finanziari

Berlusconi: la maggioranza c'è E Alfano nega la possibilità di dimissioni

Non sembra che la manifestazione del Pd in piazza San Giovanni, a Roma, abbia inciso molto sui programmi di Silvio Berlusconi. Nelle file del centrosinistra ieri si avvertiva un filo di euforia, legato alla sensazione che il governo sia vicino alla caduta. Ma il presidente del Consiglio e la sua cerchia hanno l'aria di chi non si considera a fine corsa; e sfidano il Parlamento a sfiduciarli sul Rendiconto dello Stato e poi sulle misure anticrisi chieste dall'Ue. «Mi dispiace deludere i nostalgici della Prima Repubblica», fa sapere Berlusconi. «La maggioranza c'è».

Massimo D'Alema continua a dire che la maggioranza del Parlamento ormai è contro il premier. Ma senza una certificazione affidata al voto, è una verità virtuale; e Berlusconi sta facendo di tutto perché rimanga tale. Si conferma quanto è chiaro da tempo: il capo del governo andrà via solo se sarà battuto. Non ci sarà passo indietro spontaneo ma solo una resistenza ostinata. Il solo obiettivo è dimostrare che o resta lui o si va alle elezioni anticipate. Il riferimento alla Prima Repubblica dove i governi «duravano 11 mesi» è già da campagna elettorale.

Lo è altrettanto l'evocazione di un'alleanza con l'Udc in nome degli impegni europei. Il Pdl sa che Pier Ferdinando Casini non vuole né può accettare un'intesa con Berlusconi: tanto più ora che ne segue da vicino il tramonto. È consapevole anche dell'impossibilità di convincerlo proponendogli una riforma del sistema elettorale in senso proporzionale, caro all'Udc. Ma palazzo Chigi vuole dare l'impressione di avere le carte; e di essere pronto a combattere fino all'ultimo prima di gettare la spugna: ritengono di avere tutto da perdere.
E poi, se anche Casini accettasse, c'è la Lega pronta a dichiarare che qualunque governo diverso dall'attuale e dall'asse fra il Pdl e il Carroccio sarebbe «un colpo di Stato»: urne a parte. «Non si pone alcun problema di dimissioni», conferma il segretario del Pdl, Angelino Alfano. Il segretario pdl annuncia che è stata esaminata «la situazione politica e parlamentare, con particolare riferimento al voto di martedì sul Rendiconto». La parola d'ordine è di ignorare quelle che il premier chiama «chiacchiere e pettegolezzi»; e tentare il recupero di almeno una parte dei parlamentari transfughi, per uscire dall'incertezza.

Ma Roberto Formigoni sostiene che con 316 voti non si può governare. E suggerisce a Berlusconi di lasciare, per non mettere in pericolo i decreti economici. Per il governatore della Lombardia, devono prevalere gli impegni presi con l'Europa e con il Fmi. Formigoni afferma una verità ovvia ma dirompente, in una fase così tesa: il Pdl può sopravvivere a Berlusconi. Per ora, però, le sue tesi appaiono a dir poco eterodosse. Eppure, se domani alla riapertura dei mercati non si fermerà l'offensiva della speculazione finanziaria, tutte le barriere preparate dal centrodestra rischiano di essere travolte.

Massimo Franco

06 novembre 2011
da - http://www.corriere.it/politica/nota/11_novembre_06/nota_04202cc2-0852-11e1-8af3-7422a022c6dd.shtml
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« Risposta #168 inserito:: Novembre 07, 2011, 11:07:51 pm »

LA NOTA

Il premier resiste ma si avverte un clima da ultima spiaggia

Fra assedio internazionale e incertezza sul voto a Montecitorio


Non si capisce se sia più pericoloso l’assedio interno o quello internazionale. Il «monitoraggio » del Fmi ufficializza il commissariamento di fatto del governo di Silvio Berlusconi: anche se il premier smentisce questa lettura. E la «mancanza di credibilità» indicata dal presidente, Christine Lagarde, come il problema che Roma deve risolvere, non lascia margini di ambiguità. Lo stesso capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ammette «pregiudizi e calcoli insidiosi » dell’Europa nei nostri confronti; ma riconoscendo che vanno attribuiti anche a una «scarsa affidabilità e determinazione » quando si tratta di mettere in pratica le misure anticrisi. E «guai», ammonisce Napolitano, «rispondere con ritorsioni polemiche e animosità». Mai come in questa fase l’Italia non se lo può permettere.

Ma per il presidente del Consiglio il vero fronte da presidiare è quello della propria maggioranza. Il suo assillo sono i numeri parlamentari. Il resto, a cominciare dall’accerchiamento europeo, nella sua ottica sembra passare in secondo piano. Se Berlusconi ha i voti per andare avanti, farà di tutto per non gettare la spugna almeno fino a dicembre; e poi punterà sulle elezioni anticipate. Quando ieri a Cannes, nella conferenza finale del G20, è stato chiesto al ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, se ritenesse necessario un passo indietro del premier, si è assistito a un episodio rivelatore: la finzione obbligata di un’intesa. Il capo del governo, che gli sedeva accanto, è intervenuto quasi per impedire a Tremonti una replica imbarazzante.

«Sono domande con risposta certa. Sentiamola», ha detto Berlusconi. E il ministro: «Dopo quello che ha detto il presidente non credo ci sia altro da aggiungere». Ma la tensione era vistosa. E a Roma si capta un clima da ultima spiaggia, peggiorato da alcune frasi in libertà di Berlusconi, tese a minimizzare la crisi economica. I voti in Parlamento ballano pericolosamente. Nella residenza privata di palazzo Grazioli, ieri sera il Cavaliere si è immerso in una lunga riunione col segretario del Pdl, Angelino Alfano, il coordinatore Verdini e il sottosegretario Gianni Letta. E insieme hanno cercato di capire se sia davvero finita, oppure se martedì, alla Camera, il centrodestra si salverà.

Non è da escludersi. Ma se l’eventuale promozione del Parlamento fosse preceduta lunedì da un’altra, drammatica bocciatura dei mercati finanziari, tutto sarebbe più complicato: l’accerchiamento internazionale diventerebbe insostenibile. D’altronde, le voci che rimbalzano da Cannes parlano di una Germania e di una Casa Bianca convinte di avere individuato in Berlusconi uno dei bersagli principali dell’offensiva speculativa contro la moneta unica europea. Non è detto che le cose stiano davvero così. Il presidente del Consiglio italiano potrebbe essere il capro espiatorio di una situazione fuori controllo. La sfiducia degli alleati, però, tanto più se alimentata dalle perdite della Borsa e da uno spread di 463 punti fra titoli di Stato italiani e tedeschi, può rivelarsi schiacciante.

Anche perché si inserisce in un clima di sospetti che avvelena la maggioranza berlusconiana. Non si tratta soltanto della defezione di alcuni deputati e degli avvertimenti e i dubbi di altri. Ormai tutti sospettano di tutti. E anche chi appare deciso a sostenere il premier fino all’ultimo è guardato con diffidenza. In un governo alla deriva cresce la tentazione di trovare dei colpevoli per spiegare una situazione dominata da un incombente presagio di sconfitta. «C’è qualcuno che lavora sotto, che lavora contro, all’interno del governo. Qualcuno che fa il guastatore », avverte con fare misterioso e minaccioso il ministro leghista Roberto Calderoli. È la sindrome del cannibalismo tipica delle fasi finali di un governo e di una stagione politica. Ma quelli che affiorano sono solo i primi sintomi: il peggio, probabilmente, deve ancora venire.

Massimo Franco

05 novembre 2011
da - http://www.corriere.it/politica/nota/11_novembre_05/nota_f0391d12-0771-11e1-8b90-2b9023f4624f.shtml
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« Risposta #169 inserito:: Novembre 11, 2011, 04:45:44 pm »

LA NOTA

La caduta del premier accelera la diaspora del centrodestra

La scomposizione del centrodestra rischia di cominciare prima ancora che Silvio Berlusconi formalizzi le proprie dimissioni da presidente del Consiglio: a conferma che è stato il perno della maggioranza che ha guidato l’Italia in questi anni, ma non sembra più percepito come tale. La Lega sta viaggiando verso l’opposizione, seppure con qualche dubbio dovuto ad una compattezza più di facciata che reale. E il Pdl si mostra più diviso di quanto si pensasse nei confronti dell’ipotesi del governo di Mario Monti. La scelta di rinviare a domani la decisione finale dimostra quanto gli equilibri interni siano in bilico, senza che il premier uscente riesca a controllarli. Dopo le prime defezioni dal partito, il rosario di minacce di che investono Berlusconi dimostra che le spinte centrifughe si stanno moltiplicando. Sia nel caso in cui, come sembra, decida di appoggiare una coalizione d’emergenza economica, sia qualora optasse per l’appoggio esterno o addirittura per un candidato del Pdl, il presidente del Consiglio uscente rischia di ritrovarsi con un partito lacerato. Il segretario, Angelino Alfano, fa capire che nulla è scontato. Eppure, la sensazione è che il progetto di un governo anticrisi economica alla fine si realizzerà. L’esitazione fotografa piuttosto la difficoltà sia di Berlusconi, sia del suo plenipotenziario a convincere i parlamentari a rimettersi alle decisioni di Giorgio Napolitano. L’operazione, per ora, rimane come in sospeso.

D’altronde, non è facile chiedere alle proprie truppe di cambiare di colpo direzione dopo avere dichiarato fino a tre giorni fa che una volta perfezionate le dimissioni la strada maestra erano le elezioni. Meglio: forse avrebbe potuto imporlo il presidente del Consiglio del 2008 o del 2009; ma il Berlusconi di adesso è l’ombra del leader di allora. La polemica contro il «governo dei tecnocrati» è comunque insidiosa: tocca nervi sensibili nel centrodestra. Evoca la fine del bipolarismo, i mitici «poteri forti» e il commissariamento finanziario dell’Italia. In breve, solletica tutti gli umori antieuropei e contro la moneta unica che in questi anni hanno continuato a sonnecchiare in una parte della maggioranza, Lega in testa; e che la crisi economica e il profilo del professor Monti possono trasformare in elemento di propaganda elettorale. L’invito di Berlusconi ad anteporre «gli interessi dell’Italia» fatica a fare breccia in tutto il centrodestra. I sostenitori più convinti di Monti, come Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc, avvertono che l’ex commissario europeo rappresenta l’unica àncora di salvezza. «Non rappresenta l'abdicazione della politica, ma l'ultima occasione di salvare se stessa e di non essere marcata di infamia ». Il baratro finanziario viene additato come una prospettiva tuttora concreta e vicina, da scongiurare ad ogni costo. Il punto interrogativo è se esista la consapevolezza del pericolo; e se Berlusconi, che adesso sembra averlo capito, sia in grado di trasmettere l’ allarme ad un Pdl in allontanamento progressivo dalla sua orbita.

Massimo Franco

11 novembre 2011
da - http://www.corriere.it/politica/nota/11_novembre_11/nota_6bae34d8-0c2b-11e1-bdbd-5a54de000101.shtml
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« Risposta #170 inserito:: Novembre 12, 2011, 12:16:42 pm »

Scherzare col fuoco

Le convulsioni del centrodestra di fronte all'ipotesi del governo di Mario Monti segnalano un pericolo: che una maggioranza divisa sia tentata di scaricare sul Paese i propri contrasti interni. Gli incontri senza soluzione di continuità a Palazzo Grazioli e la spola di Umberto Bossi fra il proprio partito e la residenza di Silvio Berlusconi sottolineano la vera questione: i rapporti fra Pdl e Lega. La resistenza del Carroccio ad accettare la candidatura che il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha in animo di proporre, sembra dettata da ragioni tutte «lumbard».


Per una forza disorientata, il passaggio all'opposizione può apparire la scorciatoia più comoda per ricompattarsi. L'irrigidimento notato ieri nel premier nasce probabilmente dalla preoccupazione che si spezzi un'alleanza ferrea; e che una rottura a livello nazionale provochi un «effetto domino» nelle giunte del Nord dove Pdl e Carroccio governano insieme. La fioritura di possibili alternative a quella dell'ex commissario europeo nasce dalla difficoltà di convincere i vertici leghisti a entrare nella «maggioranza di emergenza economica» progettata dal Quirinale: una soluzione obbligata ma finora incapace di ottenere il «sì» preventivo di tutti.


È vero che lo stesso Antonio Di Pietro, inizialmente a favore del voto anticipato, sta assumendo un atteggiamento più responsabile: forse anche perché i militanti dell'Idv lo hanno costretto a ripensarci; e questo toglie un argomento al «no» della Lega. Ma certamente si capta un filo di incertezza in più sull'epilogo della crisi. D'altronde, lo scenario ha subito un'accelerazione così traumatica, dopo le ripetute bocciature di Berlusconi da parte dei mercati, da resuscitare antiche ostilità contro un «governo di tecnocrati»; e resistenze aperte o larvate, a destra come a sinistra, verso una soluzione data per scontata ma vissuta come una costrizione difficile da accettare a scatola chiusa.


Per paradosso, la pressione degli altri governi continentali, attestata dai contatti avuti ieri da Napolitano e dalla visita a Roma del presidente del Consiglio dell'Ue, Herman Van Rompuy, suscita reazioni contraddittorie. Conferma la spinta internazionale a decidere in fretta; e sottolinea l'urgenza di offrire lunedì, all'apertura delle Borse, l'immagine di un Monti già designato premier: il garante della credibilità degli impegni presi e di quelli che dovranno seguire. Ma il protagonismo europeo rischia di essere percepito come una forzatura che umilia il sistema politico. E l'uscita fuori luogo fatta ieri da Sarkozy può alimentare questi dubbi.


In realtà, non esiste alternativa a un'assunzione collettiva di responsabilità. Pensare che dopo le dimissioni di Berlusconi, previste per oggi, l'Italia possa permettersi di sprecare altro tempo significherebbe immolarsi sull'altare della speculazione finanziaria; e in modo irreversibile. Anche l'appello delle parti sociali va in questa direzione. Ma occorrerà un supplemento di persuasione e di chiarezza per convincere un Paese e un Parlamento lacerati troppo a lungo, alla conclusione che non esistono margini per rinviare. Illudersi del contrario significa fare il gioco di chi scommette sul crollo dell'Italia e della moneta unica.

Massimo Franco

12 novembre 2011 08:02© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_12/franco-scherzare-col-fuoco_64bef280-0cf7-11e1-a42a-1562b6741916.shtml
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« Risposta #171 inserito:: Novembre 13, 2011, 10:55:56 am »

Berlusconi annuncia le dimissioni

I perché di una svolta

Silvio Berlusconi si dimette, seppure al rallentatore. La promessa fatta ieri pomeriggio al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è la presa d'atto della sconfitta parlamentare subita dal centrodestra. Rinvia il momento in cui lascerà Palazzo Chigi solo perché vuole farsi da parte dopo l'approvazione della legge di stabilità con le misure chieste dall'Europa. È un gesto di responsabilità apprezzabile: anche se potrebbe inserire un margine di ambiguità temporale, dirimente per un Paese esposto da mesi alla speculazione finanziaria. La lettera arrivata ieri dall'Ue, con la richiesta di un'ulteriore manovra di qui a pochi mesi, è tutt'altro che rassicurante.

Si profilano un paio di settimane che minacciano di trasformarsi in una via crucis : soprattutto se il governo desse l'impressione non di accelerare, ma di ritardare le sue decisioni finali. Ritenere che il risultato di ieri alla Camera sul Rendiconto dello Stato non cambi il ruolino di marcia della coalizione rivelerebbe, come minimo, scarso senso della realtà; come massimo, una spiccata indifferenza per le sorti del nostro Paese, con lo spread fra titoli italiani e tedeschi sulla soglia proibitiva dei 500 punti. Non vedere che questo esecutivo è ben oltre il capolinea, significherebbe galleggiare su macerie e detriti destinati presto a inghiottire tutto.

Meglio concordare rapidamente una serie di provvedimenti da sottoporre anche all'opposizione; e dare un segnale di condivisione che plachi almeno per un po' gli speculatori. È l'unico tentativo serio per recuperare credibilità agli occhi di quel «partito internazionale» che, piaccia o no, «vota»; e detta non solo i tempi ma pure i costi crescenti di una crisi nutrita dal vuoto e dall'immobilismo del potere politico. Fra l'altro, servirebbe anche a zittire i portavoce della Commissione europea che si permettono giudizi liquidatori sulle prospettive dell'Italia, come quelli espressi ieri da Olli Rehn a Bruxelles: a conferma che Berlusconi ormai è trattato come un comodo capro espiatorio.

D'altronde, sebbene sul piano formale il premier non sia tenuto alle dimissioni, le spinte a darle si sono moltiplicate. Gliene è arrivata una perfino dal super alleato Umberto Bossi, specchio di una Lega logorata, che gli ha suggerito «un passo di lato». La tentazione di tirarla per le lunghe e rendere inevitabile lo scioglimento delle Camere è, teoricamente, possibile. Ma sarebbe un gioco a dir poco discutibile, che incrinerebbe il rapporto istituzionalmente corretto con il Quirinale. La volontà dichiarata di Napolitano di procedere a consultazioni dopo l'apertura della crisi di governo indica l'intenzione di non rinunciare a salvare la legislatura: sebbene sia forte l'impressione che i margini si stiano restringendo, corrosi dalle rughe del berlusconismo al tramonto ma anche dall'impotenza dei suoi avversari.

Massimo Franco

09 novembre 2011 07:57© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_09/i-perche-di-una-svolta-massimo-franco_1484374e-0a9f-11e1-8371-eb51678ca784.shtml
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« Risposta #172 inserito:: Novembre 13, 2011, 05:28:19 pm »

La Nota

I paletti del Pdl dilatano la sensazione di un sì obbligato

L'inutile pressione dell'ex premier per far entrare la Lega

La pioggia di condizioni che Silvio Berlusconi e il suo Pdl stanno ponendo al governo di Mario Monti sottolinea le dimensioni della sconfitta che il centrodestra sta subendo; e il tentativo di renderla meno amara. Ma fanno capire in parallelo quanto sarà impervio il percorso che da questa sera, quando Giorgio Napolitano gli conferirà l'incarico, l'ex commissario europeo dovrà affrontare.

Come era prevedibile, il «sì» ad un esecutivo «tecnico», imposto dai mercati finanziari e dalla Bce, avviene fra mille riserve. E il fatto che Berlusconi rassicuri i suoi di poterlo mandare in crisi «quando vogliamo», proietta sul tentativo l'ombra delle elezioni anticipate.

È possibile che l'accenno al voto sia stato fatto per ottenere più facilmente il placet sofferto e obbligato del suo partito; e per potersi presentare a Giorgio Napolitano, al quale ieri sera ha rassegnato le dimissioni, con il supporto unanime di un Pdl che negli ultimi giorni è apparso invece diviso e nervoso. L'ipotesi di uno scioglimento delle Camere nel 2012 rimane anche l'unico canale di collegamento con una Lega sulla quale Berlusconi ha tentato un'inutile pressione. Sperava infatti che Umberto Bossi accettasse di sostenere il governo Monti insieme con lui. Il passaggio quasi certo del Carroccio all'opposizione spezza invece un sodalizio che durava dal 2001. E complica il futuro del centrodestra.

Si attribuiscono a Bossi parole deluse nei confronti del Cavaliere, accusato di avere «tradito» l'alleato e di avere «le mani legate» dal Quirinale e dall'Europa. E l'insistenza sulla necessità di andare alle urne quanto prima si unisce ad una polemica sempre meno strisciante contro l'«Europa dei banchieri», «l'inganno della moneta unica» e l'esigenza di ridare la parola al popolo. Si tratta di una scelta che, nelle intenzioni di Bossi, è destinata a riportare concordia in una Lega lacerata e scottata dalla sconfitta delle amministrative di maggio. Ma anche a trincerarla, solitaria, nei confini e nell'ideologia della «Padania».

Non è facile dire adesso se questo significherà che alle prossime politiche il partito di Bossi e quello di Berlusconi andranno di nuovo insieme. L'impressione è che la fine dell'esperienza governativa dell'ex premier sia destinata ad aprire un periodo di grandi rimescolamenti: nei partiti, negli schieramenti e al loro interno. Se è vero che il berlusconismo ha plasmato maggioranza e opposizioni, e che ieri è finito non un governo ma un sistema, gli equilibri ne risulteranno terremotati. L'idea di non escludere elezioni anticipate nella prossima primavera sembra un modo per aggrapparsi alla speranza che ci sia stata solo una battuta d'arresto, dalla quale riprendersi presto. Ma il futuro appare incerto. Sembra che fra le garanzie che il Pdl chiede a Monti ci sia quella di impedire la candidatura sua e dei suoi ministri in caso di voto.

Ma un simile impegno è complicato da garantire. E tradisce il timore che nei prossimi mesi la compagine dei «tecnici» si rafforzi: magari tranquillizzando, come si spera, i mercati finanziari e portando l'Italia fuori dalla zona rischiosa nella quale si trova oggi. Non sono bastate le due ore di colazione fra Monti, Berlusconi, Gianni Letta e Angelino Alfano a cancellare le diffidenze del Pdl verso un'operazione ritenuta anomala; e, in prospettiva, potenzialmente ostile. Il trionfalismo del centrosinistra e le contestazioni nelle strade di Roma e nella piazza del Quirinale (Berlusconi l'ha dovuto lasciare da un'uscita secondaria) alimentano questi timori. Eppure, accettando il passo indietro e portando tutto il partito sulle sue posizioni, l'ormai ex premier ha mostrato di saper fare i conti con la nuova realtà; o almeno con i rapporti di forza internazionali.

Massimo Franco

13 novembre 2011

da - http://www.corriere.it/politica/nota/11_novembre_13/la-nota-massimo-franco_de817f26-0dd7-11e1-a3df-26025bf830b6.shtml
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« Risposta #173 inserito:: Dicembre 10, 2011, 10:33:29 am »

LA NOTA

Un gesto che svelenisce i rapporti con il governo e con la Commissione Ue

La disponibilità della Cei arriva dopo un’offensiva contro le esenzioni

Il primo indizio è stato offerto dal ministro per la Cooperazione e l’integrazione, Andrea Riccardi. Ieri mattina, il fondatore della comunità cattolica di Sant’Egidio ha suggerito alla chiesa italiana di pagare l’Imu, la nuova Ici, per alcune attività commerciali oggi esentate da questa imposta. Qualche ora dopo, a Bruxelles, dove si trovava per il vertice europeo, il presidente del Consiglio Mario Monti ha risposto a chi chiedeva chiarimenti: «Sull’Ici per gli immobili della Chiesa non abbiamo ancora deciso niente. E mi fermo qui». Ma poi ha aggiunto. «Sono anche a conoscenza di una procedura Ue sugli aiuti di Stato». Il fatto che quasi in tempo reale il cardinale Angelo Bagnasco abbia annunciato la disponibilità della Cei a discutere di Ici, non può essere casuale: anche perché è arrivata dopo giorni di rocciosa difesa delle ragioni ecclesiastiche.

La sensazione è che la radice di questo cambio di linea da parte dei vescovi vada cercata fuori dai confini italiani: probabilmente in quell’inciso del premier sulla «procedura » europea in atto. E forse anche in una triangolazione con la Segreteria di Stato vaticana, attenta fin dall’inizio alle implicazioni che la questione poteva avere in un momento di crisi economica e di manovra finanziaria durissima per tutti. Non è difficile immaginare che ai piani alti di Palazzo Chigi, della Santa Sede e della Cei se ne discutesse da giorni. C’è da scommettere che Monti non avrebbe mai assunto un’iniziativa contro la Chiesa. Ma probabilmente ci si attendeva e ci si augurava un gesto di disponibilità delle gerarchie cattoliche: gesto che alla fine è arrivato, ridimensionando il problema e depurandolo degli aspetti più strumentali.

Anche perché, e qui la questione rimbalza in Europa, la Commissione Ue è stata chiamata dai Radicali, avversari giurati del Vaticano, a decidere sulla legittimità degli aiuti dello Stato italiano alla chiesa cattolica e alle altre che operano nel nostro Paese. E, se non deciderà entro la prima metà del 2012, la prospettiva concreta è che la questione approdi alla Corte europea di giustizia. Con un rischio: che in caso di condanna l’Italia sia obbligata a dare all’Europa l’importo delle esenzioni dall’Ici; e non solo per il presente ma anche per il passato. Come conseguenza, si aprirebbe un contenzioso costoso e imbarazzante, perché lo Stato italiano probabilmente sarebbe obbligato a chiedere il risarcimento alle gerarchie ecclesiastiche.

Certamente, quando Bagnasco dichiara che «non ci sono pregiudiziali da parte nostra per poter fare qualche precisazione nelle sedi opportune», non scongiura del tutto il pericolo; ma apre uno spiraglio concreto. Allenta la pressione della stampa anche straniera e degli avversari contro i privilegi, veri e presunti, della chiesa italiana. E consente al governo Monti di affrontare il problema con maggiore calma, evitando inutili tensioni fra Stato e Chiesa. Bagnasco ha anticipato che «laddove si verificasse qualche inadempienza, si auspica che ci sia l’accertamento e la conseguente sanzione, come è giusto per tutti ». Il ministro Riccardi aveva in qualche misura anticipato questa impostazione. «Sulle attività commerciali gestite da chiesa, religiosi, associazioni cattoliche», aveva detto, «si vigili per vedere se l’imposta è stata pagata. E se c’è stata malafede si prendano le misure necessarie».

Naturalmente, l’esenzione rimarrebbe per tutte le iniziative benefiche che rappresentano il grosso delle attività del mondo cattolico. Rimane una domanda, alla quale per ora è difficile rispondere. E cioè come mai la disponibilità della Cei non sia arrivata prima: magari una settimana fa, quando la manovra finanziaria non era stata approvata. Sarebbe stato un gesto ancora più forte, apprezzabile e apprezzato dall’opinione pubblica. Ieri il Sir, il Servizio di informazione religiosa, vicino alla Cei, difendeva la tesi secondo la quale la Chiesa «non gode di nessun privilegio»; e invitava a «non buttarla in politica e a non sollevare polveroni». Adesso, il rischio è che la mossa coraggiosa del cardinale Bagnasco appaia obbligata da un’offensiva esterna sempre più rumorosa e ostile; e che non chiuda del tutto una campagna della quale, certamente, sono vistosi gli intenti politici: ma forse non solo quelli.

Massimo Franco

10 dicembre 2011 | 8:29© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota.shtml
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« Risposta #174 inserito:: Gennaio 21, 2012, 12:14:27 pm »

LA NOTA

Si conferma l’asse con Napolitano, ma anche i dubbi dei partiti

Il capo del governo rivendica le «tasse occulte» e spera nella Ue

Mario Monti teorizza sul settimanale inglese Economist che gli italiani avevano «un bisogno nascosto di un governo noioso che provasse a dire loro la verità non in politichese ». La conferenza stampa organizzata ieri pomeriggio, dopo otto ore di Consiglio dei ministri, ha provato a mettere in pratica il principio: sia in fatto di noia che di verità. Il risultato è un progetto di liberalizzazioni definito dal premier «una grande azione sociale»: soprattutto perché cancellerebbe «le tasse occulte» che dipendono da «prezzi e tariffe imposti da chi ha posizioni di privilegio ». Monti lo presenta come «un pacchetto corposo e incisivo », facendo propri gli aggettivi usati ieri pomeriggio da Giorgio Napolitano.

Il suo omaggio al presidente della Repubblica conferma una volta di più che la regia politica del governo sta al Quirinale. Il presidente del Consiglio vuole disarmare quanti accusano Palazzo Chigi di colpire «i poteri deboli»; e rivendica orgogliosamente di avere intaccato le rendite dei «poteri forti». Ma sulle farmacie i progetti iniziali di liberalizzazione sono stati ridimensionati. Sui taxi è stata mantenuta invece l’impostazione annunciata, come sui benzinai, gli avvocati e i notai; e l’annuncio di scioperi è stato immediato. Si tratta di misure «strutturali », insiste Monti con un’attenzione evidente alle possibili reazioni dei mercati e dell’Europa: vuole far capire che incideranno in profondità.

Cauto, perfino guardingo commenta il «piacevole declino dello spread», la differenza fra titoli di Stato italiani e tedeschi, con l’aria di chi non vuole però farsi eccessive illusioni: la lezione del recente passato gli ha insegnato quanto siano volatili gli umori finanziari. Ma comincia a convincersi che i provvedimenti del suo governo possano essere apprezzati dalle cancellerie occidentali; e comunque siano destinati a dare prospettive alle nuove generazioni. Non che si aspetti applausi generalizzati, anzi: mette nel conto «tensioni e incomprensioni» che infatti già emergono. Ma non crede nemmeno che la sua popolarità sia destinata a crollare.

E comunque, meglio essere impopolari prendendo decisioni «utili», afferma. I partiti accolgono l’esito del Cdm con applausi tiepidi. L’Udc difende Monti, il Pd di Pier Luigi Bersani sostiene che si poteva fare «meglio e di più». E l’ex premier Silvio Berlusconi, scettico, consegna il suo giudizio in mattinata. La cura Monti «non ha dato alcun frutto». E ora «aspettiamo di essere richiamati» al governo. Berlusconi aggiunge di non volere una crisi «se non c’è un’alternativa». Ma le sue parole non rafforzano il presidente del Consiglio agli occhi di chi sospetta che i partiti possano riprendersi Palazzo Chigi in ogni momento. Non bastasse, Mediaset attacca la decisione di sospendere per 90 giorni l’assegnazione delle frequenze tv. Monti assicura a Otto e mezzo che nei suoi incontri con l’ex premier non registra questo pessimismo. Per chi ha come traguardo il 2013, però, il viatico è gonfio di riserve.

Massimo Franco

21 gennaio 2012 | 9:10© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/12_gennaio_21/la-nota-massimo-franco_e477955a-43f6-11e1-8141-fee37ca7fb8c.shtml
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« Risposta #175 inserito:: Febbraio 08, 2012, 12:00:19 pm »

L’ipoteca degli elettori

Probabilmente è un passo avanti dettato dall’istinto di sopravvivenza. Cambiare legge elettorale, o almeno tentare di farlo, sembra l’atto d’omaggio obbligato che i partiti offrono ai nuovi tempi: quelli dell’indignazione o, peggio, della stanchezza dell’opinione pubblica. Si tratta di un gesto di realismo per evitare il tracollo di un sistema che sfiora pericolosamente il capolinea. Il problema è capire se le forze politiche ritengano di salvarsi lasciando le cose come stanno, dopo aver finto una riforma; oppure se davvero stiano prendendo coscienza dell’esigenza di un cambiamento netto.

In sé, il fatto che dopo anni di rissa Pdl e Pd accettino di discuterne insieme è un progresso: se non altro sul piano del metodo. E per paradosso, l’ostilità della Lega e la diffidenza dell’Idv sugli «incontri da sottoscala » finiscono per dare più credibilità all’operazione. Non solo. Il pungolo del Quirinale offre a chi la vuole vedere l’opportunità di cambiare registro; di prendere atto che una fase si è conclusa e che è consigliabile presentarsi con categorie mentali meno datate, dopo il finale inglorioso della Seconda Repubblica. È difficile non scorgere una somiglianza tra anni Novanta e 2012, anche in termini di sistema elettorale.

Allora, i referendum provocarono e insieme rivelarono lo smottamento della geografia politica italiana. Adesso, il governo dei tecnici presieduto da Mario Monti riflette un’altra crisi di legittimità, stavolta dettata dall’emergenza finanziaria. E nei sedici mesi che ci separano dalla fine della legislatura si annida l’esigenza di restituire uno straccio di credibilità alla nomenklatura politica: anche permettendo agli elettori di scegliere i propri candidati senza vederseli imposti dall’alto. Ma non ci sono referendum, bocciati dalla Corte costituzionale. E nessuno è in grado di prevedere la fisionomia del futuro sistema elettorale.

È difficile pensare che il Pdl possa abbozzare un’intesa col Pd, e il partito di Pier Luigi Bersani con quello berlusconiano, a pochi mesi da un turno di elezioni amministrative. La Lega che ironizza sulle «chiacchiere in libertà» e chiede prima una riduzione del numero dei parlamentari è l’avanguardia di chi non vuole la riforma elettorale, e avverte Silvio Berlusconi. E le parole d’ordine del centrosinistra, che invita a «non escludere nessuno» e a «mantenere il bipolarismo », potrebbero rivelarsi cortine fumogene che nascondono interessi divergenti.

L’impressione è che solo a primavera, a urne chiuse, si comincerà a capire quale direzione prenderà la discussione appena cominciata; e quali alleanze i partiti immaginano alla fine della parentesi del governo Monti: parentesi più dinamica e traumatica di quanto alcuni pensino. Il ritorno agli schieramenti del 2008 appare inverosimile. Altrettanto improbabile è una riedizione del bipolarismo con le storture che lo hanno reso impopolare. Decisivo sarà l’orientamento dell’elettorato. È l’unica incognita che spaventa i partiti; e che forse li indurrà a cambiare più di quanto vorrebbero.

Massimo Franco

8 febbraio 2012 | 7:36© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_08/franco-ipoteca-degli-elettori_9b29a88c-521c-11e1-9430-803241dfdaad.shtml
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« Risposta #176 inserito:: Febbraio 20, 2012, 10:58:49 am »

LA LOTTA DI POTERE INTERNA

I sotterranei del Vaticano

Nei giorni che dovrebbero dimostrare il primato degli italiani fra i cardinali, è difficile sfuggire alla sensazione che la loro consistenza numerica ne esalti, per paradosso, la debolezza. Lo sforzo di mostrare una Chiesa cattolica unita e di esorcizzare i conflitti e i veleni degli ultimi mesi è meritorio. E il tentativo di archiviare lo scontro sordo fra Segreteria di Stato e Cei è stato esplicito, nelle parole con le quali il cardinale Tarcisio Bertone ha esaltato la «sinergia» con i vescovi: la sua è una disdetta delle ambizioni di guida espresse nel 2007, e motivo di tanti malintesi.

Eppure perfino quel gesto è parso tardivo, arrivando nel bel mezzo di una guerra dei dossier combattuta nei recessi più opachi del Vaticano. Insomma, se c'è una tregua in incubazione, più che l'inizio di una nuova fase sembra la coda di una faida interna sfibrante e senza vincitori. Dalle parole anche drammatiche pronunciate ieri al Concistoro nel quale ha nominato ventidue nuovi cardinali, si intuisce che Benedetto XVI ha una lucida consapevolezza di quanto si agita nelle viscere della sua Chiesa. E si intravede la volontà di correggere una deriva sfuggita al controllo di tutti. Ma il tormentato limbo degli ultimi anni ha lasciato un segno profondo.
È vero, il Vaticano ha i suoi tempi.

Una saggezza ultramillenaria lo ha abituato ad agire quando i clamori si sono attenuati, i riflettori spostati, gli animi placati. Ma la domanda è se oggi quel metodo non rischi di diventare l'alibi per velare un difetto di governo. Anche perché nessuno è in grado di scommettere su una fine ravvicinata delle manovre di discredito in atto. In qualche caso il clamore che provocano sarà anche frutto di un'ostilità preconcetta contro la Chiesa; ma è figlio soprattutto di un pregiudizio positivo.

L'eco viene amplificata dall'incredulità di un'Italia che chiede punti di riferimento e si sorprende perché le gerarchie cattoliche si mostrano divise e in lotta fra loro; e quasi imitano alcune tendenze della nomenclatura politica, che gli italiani hanno messo in mora. I cardinali venuti da tutto il mondo chiedono conto delle logiche di Curia, mentre non si fermano le voci sul futuro di Bertone: a conferma che il segretario di Stato è diventato il simbolo e il parafulmine di quanto non funziona nei sacri palazzi. È anche possibile, come insistono a dire i suoi avversari, che sia indotto a fare un passo indietro prima della fine del 2012.

Rimane da capire se le sue eventuali dimissioni basterebbero a fermare la macchina del fango in azione dentro il Vaticano. All'ombra degli intrighi curiali, c'è chi lavora per il prossimo Conclave anche in questi giorni di Concistoro. E forse ha già raggiunto lo scopo di far ritenere che difficilmente uno dei cardinali italiani potrà unificare la Chiesa. Il comportamento di alcuni di loro allunga ingiustamente un'ombra su tutti. La conseguenza potrebbe essere quella di alimentare negli altri episcopati un sentimento «anti italiano», riflesso di quello «antiromano», tanto comprensibile quanto gravido di incognite.

Massimo Franco

19 febbraio 2012 | 8:35© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_19/sotterranei-vaticano-franco_1875b8d0-5ac9-11e1-af48-fbc2e490f6c3.shtml
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« Risposta #177 inserito:: Febbraio 29, 2012, 04:37:01 pm »

Le fughe di notizie

I corvi in Vaticano e i malumori su Bertone

Continua il tam tam sul segretario di Stato: per qualcuno il Papa avrebbe già deciso di sostituirlo, ma non ancora «quando»


Nelle ultime due settimane l'arma estrema di difesa è stata evocata e abbandonata più volte. Di fronte ai documenti riservati filtrati dal Vaticano alla stampa e alle tv «laiche», si è affacciata la tentazione di rispondere con un atto clamoroso, almeno a livello diplomatico: una protesta ufficiale nei confronti dello Stato italiano, per l'uscita di documenti interni considerati una sorta di attentato alla sicurezza della Santa Sede.

Presto, però, le persone che avevano accarezzato una simile via d'uscita sono state invitate a un'analisi più fredda della situazione. Ci si è resi conto che un'iniziativa del genere era strampalata. Avrebbe incrinato i rapporti ottimi con il governo di Mario Monti, senza peraltro portare a nulla. Non solo: il governo italiano avrebbe avuto gioco facile nell'obiettare al Vaticano che andava difesa la libertà di stampa; rimandando il problema all'interno di quelli che sono tuttora chiamati i sacri palazzi.

L'indiscrezione, però, è significativa perché permette di capire quanta confusione e agitazione regni in questi giorni OltreTevere; e come le gerarchie vaticane vivano quanto sta succedendo come un'aggressione alla quale è difficilissimo rispondere: anche perché proviene dalle sue stesse file. Il tam-tam contro il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, continua; e si configura come una vera offensiva. E illustri monsignori, decrittando quanto avviene, sentenziano: «Non è finita. Usciranno altre cose». Per paradosso, è vero che gli attacchi ripetuti potrebbero rafforzare Bertone: in casi del genere la Chiesa si chiude a riccio e aspetta che la bufera passi. Ma si tratta di una chiusura sempre più affannosa e sfidata dalla sensazione che sia in atto una vera e propria resa dei conti.
Per un po' si è coltivata l'illusione che potesse funzionare la strategia almeno del «sopire», visto che «troncare» è una pia illusione: lasciare che le acque si calmassero, dando nel frattempo qualche segnale interno, e andare avanti come se nulla fosse. D'altronde, gli uomini più vicini al segretario di Stato ribadiscono che Benedetto XVI continua a nutrire fiducia nel suo primo collaboratore e non lo vuole sostituire. Ma altri affermano invece che la decisione di scegliere il successore sarebbe già stata presa: il problema non è il «se» ma il «quando». Ma proprio il «quando» è sostanza. A spingere perché Bertone sia costretto a farsi da parte entro l'estate sono quelli del «partito dei 78 anni», che il cardinale compirà in autunno: l'età alla quale lasciò il predecessore, Angelo Sodano.

I suoi difensori, invece, confidano che il rapporto stretto con Benedetto XVI lascerà scivolare le cose fino al compimento dell'ottantesimo anno, soglia canonica per tutti i cardinali. Ma più che scivolare, la situazione sta rischiando di precipitare. Quanto accade mostra una sfasatura fra la filosofia prevalente in Vaticano e chi in quelle stanze e fuori prevede un'accelerazione. Le lettere pubblicate ieri dal Fatto sullo scontro fra Bertone e l'ex arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, per il controllo dell'Istituto Giuseppe Toniolo di Milano, «cassaforte» della Curia lombarda, uno dei crocevia delle strategie dell'episcopato, sono lette come un indizio vistoso. E non aiutano le voci velenose su dissensi crescenti fra il numero uno dello Ior, la «banca vaticana», Ettore Gotti Tedeschi, e uomini di Bertone come Giuseppe Profiti, oggi al vertice del San Raffaele.

I monsignori che hanno dimestichezza con le questioni della Curia e dello Ior riferiscono di un contrasto lievitato proprio durante il salvataggio dell'ospedale. La determinazione con la quale Gotti Tedeschi, scelto dal papa e da Bertone, ha fatto presenti i rischi finanziari dell'operazione, non è piaciuta a tutti nella Segreteria di Stato. E in alcuni conciliaboli a margine dell'ultimo Concistoro sono state fatte girare voci inverosimili secondo le quali alcuni documenti dello Ior erano stati passati ai giornali da Gotti Tedeschi: un'operazione mirata a danneggiarlo. D'altronde, la nuova arma di lotta interna sembra questa. A mettere in fermento i piani alti della Santa Sede non è solo il contenuto di quanto esce, ma il fatto che si tratti di fogli autentici, forniti da chi in Vaticano lavora nei gangli più strategici.

È come se qualcuno avesse accumulato negli anni un piccolo tesoretto di fotocopie imbarazzanti, e magari sconvolgenti; e le stesse centellinando, facendo emergere lo spaccato buio che affiora all'ombra di Benedetto XVI, «papa gentile» e intellettuale. Qualcuno sottolinea che appunti e dossier escono per lo più dalla Segreteria di Stato, e non dagli altri dicasteri vaticani. E questo alimenta la tesi di una diplomazia della Santa Sede che si starebbe vendicando per il modo in cui è stata trattata da Bertone: il caso della rimozione-promozione dell'ex segretario del Governatorato, Carlo Maria Viganò, trasferito come nunzio a Washington dopo avere denunciato episodi di corruzione e malaffare, ne sarebbe l'ultimo capitolo. Ma l'analisi, certo suggestiva, non riesce a spiegare tutto.

L'ossessione di trovare il o i colpevoli di tanto trambusto porta qualcuno a ipotizzare provvedimenti radicali come una rimozione di quanti in Segreteria di Stato si occupano dell'ufficio del personale e dunque in teoria possono avere accesso alle schede più riservate. Ma le cose, in quei palazzi, risultano sempre meno scontate di quanto appaiono. Lo dimostra la genesi della lettera con la quale circa una settimana dopo le rivelazioni su Viganò e le sue accuse, i responsabili del Governatorato hanno difeso il proprio operato. Si è trattato di una reazione tardiva, collettiva, e per questo accompagnata da molte perplessità. Si è accreditata la tesi che qualcuno dei firmatari in realtà non avesse neanche letto la nota; e che nella Segreteria di Stato qualcuno si fosse opposto fino all'ultimo. Pare che i contrasti ci siano stati davvero.

Eppure, ad approvarla sarebbe stato il Papa in persona.

Massimo Franco

29 febbraio 2012 | 9:12© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/12_febbraio_29/vaticano-corvi-massimo-franco_c3bed818-62ab-11e1-8fe6-00ac974a54fa.shtml
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« Risposta #178 inserito:: Marzo 08, 2012, 04:50:54 pm »

IL DISAGIO DELLA MAGGIORANZA

Due lezioni in un giorno

Le lezioni offerte dal cortocircuito di ieri fra il governo e i partiti che lo sostengono sono di due tipi. La prima tende a definire, anche troppo, i contorni dell'Esecutivo di Mario Monti. E conferma che quando l'agenda del presidente del Consiglio spazia sui temi economici e sulla politica estera è non solo appoggiata ma esaltata. Quando invece tocca argomenti che lambiscono il cuore dei rapporti fra partiti, rischia di essere percepita come un'intrusione e dà la stura a ogni diffidenza: tanto più se uno degli alleati subodora, a torto o a ragione, accordi dai quali è escluso. La seconda lezione è che Palazzo Chigi sarà sempre più costretto a fare i conti con forze politiche in ebollizione.

Si tratta di partiti che non promuovono ma subiscono la metamorfosi provocata dalla fine della stagione berlusconiana; e soffrono l'estromissione da un potere governativo monopolizzato dai «tecnici». Più ci si inoltra verso la fine della legislatura, maggiore è la sensazione di uno sgretolamento degli equilibri ereditati dal voto del 2008; e destinati a ricevere un altro colpo alle Amministrative del 6 maggio. Per questo, la tendenza di alcuni esponenti del governo a rimarcare i difetti della classe politica è potenzialmente esplosiva. E rivela una miscela di ingenuità e di ingenerosità perché sottovaluta il sostegno parlamentare che permette loro di fare i ministri.

Il risultato è che Monti rischia, come è accaduto ieri, di vedersi scaricare addosso le tensioni e le frustrazioni dei partiti. D'altronde, il modo in cui Pdl, Pd e Udc misurano quotidianamente le affinità con il premier è indicativo. Evoca lo sforzo di delineare un'identità che non significhi né appiattimento né smarcamento. La disdetta del vertice con Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini, decisa da Monti dopo l'irrigidimento del segretario del Pdl, riflette queste contraddizioni. E drammatizza la difficoltà di accompagnare un governo incline a seguire regole prima sconosciute.

È probabile che Alfano abbia usato un colloquio fra Casini, Bersani e il ministro della Giustizia, Paola Severino, come pretesto per dare una prova di forza: tanto più con un Silvio Berlusconi non rassegnato al notabilato. E la diserzione forzata dell'ex premier dalla trasmissione «Porta a Porta» è scaturita dall'esigenza di non contraddirlo: il Cavaliere non poteva parlare bene del governo in tv nel giorno in cui spuntava la prima crepa tra Monti e un Pdl agitato. Sono tutti episodi rivelatori di un'insofferenza che lievitava da settimane; e che ha incrociato le preoccupazioni per la riforma della giustizia e per il futuro della Rai; e i timori di Alfano per l'isolamento del suo partito.

Per questo le parole sullo «schifo della politica» del ministro della Cooperazione, Andrea Riccardi, sono apparse intollerabili al centrodestra; e imbarazzanti per un premier che si sforza di riconoscere il ruolo del Parlamento. Monti ha rischiato di diventare non lo spettatore delle liti altrui, ma il parafulmine della polemica innescata da un suo ministro. Le scuse di Riccardi ridimensionano l'incidente. Rimane il punto interrogativo dei confini che i partiti cercano di imporre al governo; e che Monti difficilmente potrà, e anzi non dovrà a nostro giudizio, accettare. Peccato che in questo rigurgito di Seconda Repubblica, l'intesa fra Italia e Germania, rilanciata dalla visita di ieri a Roma del ministro delle Finanze, Wolfgang Schauble, forse non abbia avuto il rilievo che invece meritava.

Massimo Franco

8 marzo 2012 | 8:53© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_08/due-lezioni-in-un-giorno-massimo-franco_35881756-68e8-11e1-96a4-8c08adc6b256.shtml
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« Risposta #179 inserito:: Maggio 08, 2012, 09:30:31 am »

L'ANALISI DEL VOTO

Partiti e sistema elettorale vanno riplasmati

Mentre il centrodestra implode manca l'alternativa moderata

L'immobilismo farà crescere febbre sociale e Cinque stelle

di  MASSIMO FRANCO


MILANO - Il dilemma è se la geografia politica emersa dal voto amministrativo del 6 e 7 maggio sia l'anticipo di quanto accadrà fra un anno alle elezioni politiche, o la coda finale e convulsa della crisi della Seconda Repubblica. Nel primo caso, il 2013 prepara uno scenario «greco» di frammentazione e ingovernabilità. Nel secondo, in teoria ci sono spazio e tempo per riplasmare i partiti e il sistema elettorale; e consegnare non solo all'Europa e ai mercati finanziari ma all'opinione pubblica italiana maggioranze degne di questo nome. L'insuccesso parallelo di Pdl e Lega aumenta la percezione di un centrodestra che non ritrova più il baricentro dopo il tramonto della leadership berlusconiana. Ma il mancato sfondamento da parte del Terzo polo di Pier Ferdinando Casini dice pure che non esiste ancora un'alternativa moderata in grado di prosciugare quel serbatoio elettorale. Né basta, come ha ripetuto ieri l'ex premier, evocare un fronte unito di tutti i moderati. Quel fronte è impossibile perché per Casini la presenza di Berlusconi è un ostacolo insormontabile.

Rimane la crisi di un Carroccio sfigurato dagli scandali e costretto a esaltare il sindaco di Verona, Flavio Tosi, la cui vittoria in realtà è in controtendenza rispetto ai risultati della Lega. E emerge come nuovo, sorprendentemente grande contenitore della protesta il movimento Cinque stelle del comico-predicatore Beppe Grillo: una miscela trasversale di mobilitazione dei blog, estremismo e voglia di spazzare via tutto: dall'euro, a Monti, ai partiti che lo sostengono. Che cosa rimarrà di tutto questo fra otto mesi, quando verosimilmente si andrà alle urne per rinnovare il Parlamento, non è chiaro.

Ma è prevedibile che l'immobilismo della politica e la sua incapacità di riformarsi radicalmente farebbero crescere la febbre sociale e il peso di formazioni come Cinque stelle. La stessa vittoria di Leoluca Orlando, portavoce dell'Idv, a Palermo, nasce, oltre che dalla sua abilità personale, dagli errori madornali del centrodestra e dalla faida sulle primarie nel Pd. Per questo, in teoria i risultati di oggi, se confermati alla fine dello spoglio, dovrebbero accelerare la transizione; far capire ai partiti che non possono tergiversare; e spingerli a riscrivere i rapporti di forza negli schieramenti. Per il governo dei tecnici di Monti si apre una fase gonfia di nuove incognite. La tentazione di scaricare su palazzo Chigi la «colpa» della sconfitta del Pdl fa già capolino. Ma si tratta di una tentazione pericolosa, che il segretario Angelino Alfano e lo stesso Berlusconi si sono già affrettati a smentire. Sanno che finirebbe per accentuare lo sgretolamento di quello che appena un anno fa era ancora il poderoso «asse del Nord». Soprattutto, al di là delle parole ufficiali sono consapevoli che il governo Monti è la conseguenza, non la causa della fine della Seconda Repubblica.

Massimo Franco

7 maggio 2012 (modifica il 8 maggio 2012)© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2012/elezioni-amministrative/notizie/07-05-analisi-franco_0a18b350-9886-11e1-b99c-a30fdbaea52f.shtml
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