MONICELLI, la freschezza a 93 anni "Ma l'Italia ora è alla deriva"
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Monti ricorda sor Mario, morto come ha vissuto
30 novembre, 20:35
di Emanuela De Crescenzo
ROMA - "E' morto laicamente come è vissuto".
Non hanno dubbi sul suicidio di Mario Monicelli gli abitanti del rione Monti, un angolo di paese nel cuore di Roma, a due passi dal Colosseo, dove tutti si conoscono, in tanti si frequentano e molti ancora bevono un bicchiere di vino insieme e seduti ad un tavolo commentano le notizie della giornata. Saranno loro a dare l'addio laico al regista domani alla 10 in piazza Maria dei Monti, proprio dove ad agosto furono proiettati i suoi film più vecchi. L'angolo di Suburra a cui il regista aveva dedicato un documentario e quei negozianti avevano ricambiato proiettandolo nei locali. L'ultimo saluto sarà diviso fra i due amori della sua una vita: Monti, la gente normale, e il cinema. E proprio nella Casa del Cinema il mondo dei "famosi" lo saluterà. "Vivere a Monti un tempo era una filosofia di vita, voleva dire essere di sinistra - dice il titolare di un bar - credere in certi valori e per questo Mario Monicelli aveva scelto di vivere qui, amava questo rione perché era uno di noi". Era il "Maestro" per quanti lo conoscevano superficialmente e lo vedevano andare a fare la spesa, lo incontravano per strada, anche se il regista detestava quest'appellativo che provoca le sue proverbiali smorfie. Ma per chi lo frequentavano abitualmente era "er sor Monicelli o sor Mario" come amava farsi chiamare "perché maestro - diceva sarcasticamente - mi ricorda la scuola".
E a Monti chi trascorreva del tempo con lui non era gente famosa, ma i negozianti di via dei Serpenti, dove abitava. Soprattutto i proprietari di 'Al vino, al Vino', dove tutte le mattine - quando il regista ancora stava bene - ricevevano la visita de "Er sor Monicelli". "Tutte le mattine si commentavano le notizie lette sul giornale - ricorda Alessandro - e poi la sera si beveva un bicchiere di vino. Veniva sempre da solo. Era curiosissimo, voleva sempre sapere quali nuovi negozi o locali avevano aperto e soprattutto desiderava informarsi sui residenti, i nuovi arrivati, chi erano, che facevano, come vivevano. Insomma una persona tranquilla, simpatica, sarcastica, burbero solo per chi non lo conosceva. Qualche volta si parlava di politica, lo dipingevano come uno di sinistra ma lui era proprio oltre...era anarchico".Uno dei registi più anziani d'Europa, osannato con premi e fama mondiale, odiava i favoritismi e si arrabbiava anche quando riguardavano la sua persona. "Non capì - ricorda sempre Alessandro - quando a 92 anni gli ridiedero la patente 'honoris causa' disse: 'Che me ne faccio?''. Da due anni a questa parte la vecchiaia lo aveva costretto a rinunciare al bicchiere di vino rosso, e lo aveva sostituito con il chinotto dicendo che "almeno nel colore si assomigliavano". Niente caffé ma solo gianduiotti e tavolette di cioccolata al latte comprate nella torrefazione sotto casa, qualche zucchina e carota acquistate dalla frutteria di fronte, dove amava conversare con la proprietaria, ma anche a questo aveva dovuto rinunciare: al suo posto andava la badante dell'est alla cui presenza in casa si era dovuto arrendere.
Tante lenti di ingrandimento comprate per continuare a leggere poiché la vista diventava sempre più flebile. Tante rinunce e poi il tumore, la paura di "rimanere allettato" come dice il presidente dell' Associazione culturale e ricreativa del Rione Monti Sergio Perotti che, insieme all'architetto Cesare Esposito, per domani sera organizzeranno una fiaccolata. Per i monticiani il suicidio non è una sorpresa. Perché Er sor Monicelli, spiegano "é morto come ha vissuto, libero fino alla fine".
http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/spettacolo/2010/11/30/visualizza_new.html_1675301299.html
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L’ultima guerra di Mario Monicelli
di Andrea Scanzi, da lastampa.it, 30 novembre 2010
E' appena finito un giorno terribile. Una delle ultime coscienze critiche di questo paese se n'è andata. Per sua stessa mano.
Mario Monicelli si è ucciso. Diranno che non doveva. Si chiederanno come possa uccidersi un uomo di 95 anni. Scriveranno che il suicidio è peccato. Come se uno, anche da morto, debba beccarsi gli strali del bigottismo più palloso. Quello che ha sbertucciato per una vita intera. Diranno anche che un uomo di 95 anni non si piange. Che la morte fa parte della vita (sempre originali, i coccodrilli). E invece no. Questa è una morte che fa più male di quella di un bambino. Perché Monicelli era un bambino. E non era un bambino come gli altri.
E' vero, non faceva più grandi film. Poteva permetterselo: uno che gira La grande guerra, da sola, può anche smettere di pensare. E lui non aveva mai smesso. Non solo nei Soliti Ignoti.
Non so se l'avrebbe preso come complimento - non credo -, ma le sue cose migliori ultimamente erano le interviste. Neanche sei mesi fa, aveva raccontato in due minuti lo schifo dell'Italia contemporanea. Uno dei momenti più alti mai visti nel piccolo schermo. A Raiperunanotte, mentre in studio c'era un quasi cantante che si metteva i baffi finti e col suo inutile narcisismo faceva capire - per contrasto - quanta differenza passi tra gli Artisti di ieri e i Furbastri di oggi (sì, parlo di Morgan).
Riguardatevi quei due, tre minuti. Quelli in cui Monicelli parla di noi, degli italiani: è il nostro autoritratto. Quello che non ci piace guardare, perché siamo brutti e stupidi. Ignoranti e pavidi. E lui ce lo ricordava. Nei film, nelle interviste. In ogni cosa che diceva e pensava.
Era vivo, Monicelli. Anche troppo. Andava in tivù e amava dire che faceva ancora sesso. Che la morte non gli aveva mai fatto paura. Che Dio non l'aveva mai visto, quindi non c'era motivo di temerlo.
Era così vivo che ha deciso di scegliersela, la morte. Non meno di suo padre. Dall'alto, come Primo Levi. In controtempo, come Cesare Pavese. Uno schiaffo alla stasi italica, come Luigi Tenco.
Un'ultima inquadratura geniale, irriverente. Quasi come una commedia. Un lancio nel vuoto ad anticipare una trama scontata. A sporcare la retorica che non avrebbe sopportato. A dare inchiostro ai soliti bacchettoni. A riderne, chissà dove. Se esiste un Dove.
E' un anno implodente. Se ne vanno tutti. Quasi che il pensiero fosse da noi un bagaglio fuori luogo. Quasi che l'Italia non se li meritasse.
Mario Monicelli ha vissuto come ha voluto e così è morto. Senza rimpianti. Con la certezza che non c'era più niente da perdersi.
Senza lui farà ancora più freddo. Freddo dentro. Circondati da politicanti schifosi, italiani medi ampiamente al di sotto della deficienza. Tutti amici miei senza supercazzola. Tutte comparse immeritevoli di un Regista troppo arguto per scendere a patti con la banalità di un pensiero scomparso.
Ciao, Maestro. E grazie.
http://temi.repubblica.it/micromega-online/lultima-guerra-di-mario-monicelli/
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Monicelli racconta Monicelli, il centenario del grande Maestro
A cura di Paolo Mereghetti, ricerca fotografica Leda Balzarotti e Barbara Miccolupi
Gli inizi
Io nasco al cinema facendo l’assistente. Proprio il più miserabile degli assistenti, quello che comincia ad accendere la sigaretta al regista, che lo aiuta a mettersi il paltò. Ho cominciato così, avevo circa diciott’anni, erano gli anni tra il ’32 e il ’34.
Il lavoro di sceneggiatore
Ho cominciato a scrivere tardi poco prima della guerra, tra il ’38 e il ’39, dopo aver fatto l’assistente. La prima esperienza di scrittura fu proprio per il regista per il quale lavoravo, che era Camerini. Dopo essere stato a lungo suo assistente ho scritto la sceneggiatura per un suo film. E poi per Gentilomo, che era molto bravo. Da lui ho imparato moltissimo, perché era un regista che aveva fatto il montatore. E senza dubbio è quello da cui ho capito di più come si costruisce un film mentre si gira. Perché Gentilomo venendo dal montaggio, girava pensando a come avrebbe messo insieme il film, come l’avrebbe montato, esattamente, un’inquadratura dietro l’altra.
Steno
L’incontro con Steno avvenne grazie a Freda che chiese ad entrambi di lavorare alla sceneggiatura di Aquila nera. Fu un colpo di fulmine. Ci trovammo subito simpatici e nel lavoro si creò una simbiosi immediata. Sia nella suddivisione dei compiti, sia nello spirito di fondo. Steno era un attore straordinario ma non gliene importava niente. Aveva esordito facendo a dodici o tredici anni Pinocchio! Purtroppo non gliene importava niente e più tardi non gliene importò niente neanche del mestiere. Avrebbe potuto essere un grande regista, era certamente più dotato di me, e se non avvenne fu per colpa delle persone che aveva intorno. Era bravissimo anche come sceneggiatore, intelligente, pieno di idee. Era un uomo molto preciso, molto pragmatico, molto spiritoso. Andava in giro, guardava cose e persone, raccontava, era sempre a contatto con la realtà e sapeva tradurla in divertimento, in ironia. Ed era anche un uomo molto acculturato, un intellettuale, leggeva moltissimo, gli piaceva scrivere, stare al tavolino, prendere appunti o fare dei ritrattini. Insieme abbiamo scritto oltre venti sceneggiature, tra cui spiccano i tre film di Borghezio con Macario, Come persi la guerra, L’eroe della strada e Come scopersi l’America. La nostra era una comicità surreale sulla quale innestammo elementi neorealistici. Scrivendo quei film, Steno e io trovammo la nostra vera cifra stilistica. Rappresentavamo un disagio reale, quello dell’uomo comune dopo la guerra, che ebbe molta presa sul pubblico. Era la direzione che avremmo preso con più decisione con Totò.
Totò
Il primo film che ho scritto per Totò era Fifa e arena di Mattoli, nel 1949. Poi, l’anno dopo, l’ho diretto in Totò cerca casa. Sceneggiare Totò era un gran divertimento. All’epoca tutti parlavamo come lui. Le battute erano quasi sempre opera degli sceneggiatori, ma una volta pronunciate da Totò diventavano sue, anche perché lui aveva un modo di recitarle unico, sempre un po’ spiazzante. Erano copioni bislacchi dove inserivamo pezzi di repertorio dell’avanspettacolo e sketch di commedie teatrali. In Totò cerca casa partimmo dalla “Famiglia Sfollantini” delle celebri vignette di Attalo, inserimmo il numero di avanspettacolo della stanza affittata a tre persone e rielaborammo una scena della commedia napoletana Il custode di Moscariello, che chiede e giustamente ottenne i diritti. In Un turco napoletano attingemmo alla farsa di Scarpetta. Totò a colori era letteralmente una collezione dei suoi migliori pezzi teatrali. Totò ha sempre detto che la comicità ha un fondo macabro, tragico, e che la sua era una comicità di questo tipo. Su questo io non potevo che trovarmi d’accordo, credo che la nostra sintonia sia nata da questa convinzione comune. Aggiungo che la comicità di Totò a me ha rivelato una profondità su cui ho cercato di ragionare: come se venisse da un mondo lontanissimo, primitivo, arcaico. La sua voce, per esempio, a me a volte dava i brividi, come se esprimesse qualcosa di demoniaco, di preumano…
Misurarsi con i generi
È stata una fortuna potermi misurare con generi molto diversi, dal melodramma al film d’avventure a quello storico, dal comico alla commedia musicale all’adattamento dei grandi romanzi di Stendhal, Puskin, Sue, Verga e Hugo. Mi ha permesso di padroneggiare i meccanismi di un racconto, imparare a catturare l’attenzione dello spettatore, sperimentare vari tipi di linguaggio.
Sceneggiatore e registi
Nel cinema è sempre molto difficile individuare l’autore del film, anche perché quasi sempre è più d’uno. Ognuno ha il suo apporto. Dagli attori ai musicisti agli scenografi, che nel mio caso sono stati più di una volta fondamentali. È chiaro che gli sceneggiatori danno il primo impulso creativo al film, inventano la storia. Se nella sceneggiatura sono guidati dal regista, il risultato diventa già un compromesso tra due punti di vista diversi. In genere il merito attribuito al regista oscura il lavoro degli sceneggiatori. È sempre stato così, ma allora non ci si faceva caso. I lavori di Age e Scarpelli con me hanno una connotazione precisa. A partire da I soliti ignoti abbiamo condiviso un modo di guardare la realtà sempre più attento al contesto sociale. Con Scola hanno fatto grandi affreschi epocali, con me hanno seguito la strada di una storia minore.
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Il set del film “I Compagni” nel reportage realizzato da Evaristo Fusar, inviato del settimanale L’Europeo, nel 1963. Nella fotografia il regista Mario Monicelli discute una scena con i due protagonisti: Renato Salvatori e Marcello Mastroianni (Archivio RCS/Evaristo Fusar)
Scene madri e scene figlie
La regola che ricordo sempre ai miei sceneggiatori è quella di scrivere solo «scene figlie». Non mi trovo a mio agio con gli eccessi delle scene madri. Il dolore come l’amore mostrati nelle loro manifestazioni violente diventano ricattatori. Preferisco svelarli attraverso un piccolo gesto o una reazione secondaria, che non sminuisce il dramma ma ne fornisce un’altra prospettiva.
Guardie e ladri
I soliti ignoti è il punto d’arrivo di un percorso intrapreso con Totò cerca casa e già definito in Guardie e ladri, che può essere considerato un film di confine. A volte viene indicato come capostipite, altre come precursore della commedia all’italiana. Un fatto però è certo: l’evoluzione dalla farsa alla commedia di costume ormai è compiuta. La storia si regge ancora sulle figure di Totò e Fabrizi, inserite però in un contesto sempre più realistico. La meccanicità della farsa lascia il posto alla dimensione umana. E tra le pieghe della vicenda emerge una rappresentazione «democratica» dei personaggi: le disgrazie, la vita grama e i battibecchi familiari che accomunano la guardia e il ladro.
I soliti ignoti
Con I soliti ignoti viene abbozzata un’analisi sociale. Nel senso di un’attenzione sempre più minuziosa per i risvolti ambientali, psicologici e materiali della realtà. Passavamo al setaccio il costume, la cronaca, l’attualità per smascherare debolezze e sotterfugi, piccolezze e difetti della gente di strada. Rovesciando luoghi comuni e abbattendo miti, senza pietà e con cattiveria. Perché la commedia è cattiva, anzi spietata. In questa ottica la verosimiglianza assume un ruolo decisivo. È un’esigenza ma anche un’arma nel nostro gioco al massacro.
Attori
Io guardo la commedia all’italiana dal punto di vista degli autori, senza i quali non sarebbe mai esistita. Ma aggiungo subito che le nostre storie non avrebbero visto la luce senza gli attori straordinari di cui disponevamo. Erano tutti di bravura eccezionale, dal caratterista a Sordi. E noi fummo bravi a servirci di loro. Il tratto innovativo nel comportamento di Gassman ne I soliti ignoti è la prevaricazione. Il suo raggiro nei confronti di Carotenuto contiene una dose di spietatezza contraria alla natura di Totò, Fabrizi, Macario, Scotti. Loro appartenevano a un mondo in cui il comico era una vittima. La risata scattava ogni volta che gli toccava subire angherie, botte, insulti. La commedia all’italiana invece è crudele. I nuovi comici ribaltano la loro condizione che spesso diventa aggressiva. Adesso è la sopraffazione a suscitare la risata. L’inettitudine non è più accompagnata alla sfortuna, ma si abbina alla viltà, alla turpitudine talvolta, o soltanto alla stupidità. Arrogante con i deboli e deferente con i potenti, la nuova figura del comico spiazza lo spettatore e non gli permette più di essere ingenuo. Noi ci muovevamo proprio in questa direzione. Puntando lo sguardo sulla gente che incontravamo per strada, al ristorante, in tram. In questo senso Sordi fu grandissimo nel cogliere l’anima dell’italiano. La furbizia, per esempio, non coincideva più con la secolare arte di arrangiarsi. Sordi svelò il suo retroscena di grettezza, ipocrisia, egoismo, fino a mettere in scena personaggi antipatici se non proprio odiosi. E infatti fu durissima farsi accettare dal pubblico. Totò invece non poteva essere antipatico. Lui era una maschera.
La commedia all’italiana
La commedia all’italiana è la forma espressiva che più ha contribuito a cambiare l’antropologia dell’italiano nel dopoguerra. La commedia trasformò il dialetto in un elemento narrativo. Noi lavorammo su una commistione di dialetti che riproducevano la mescolanza linguistica della società di allora. Age e Scarpelli avevano in questo un orecchio straordinario, ma tutti ci divertivamo a recitare le battute mentre le rileggevamo. Il dialetto in sé imprime una nota comica alle battute. L’abbassamento del linguaggio al livello della gente comune fu uno dei punti trainanti della commedia all’italiana in contrasto con tutto un cinema borghese in cui si parlava l’italiano dei libri. Poi la commedia all’italiana è animata da uno spirito laico. Per me i due unici grandi libri educativi scritti in Italia sono “Cuore” di De Amicis e “Pinocchio” di Collodi, dove i preti non compaiono. È un peccato, e anche un segnale, che oggi siano spariti dalla circolazione. I preti li abbiamo sempre usati come macchiette. Per anni sono stati i custodi della mentalità degli italiani, un popolo di parrocchiani: contadini, bottegai e piccolo-borghesi devoti. Attraverso il cinema abbiamo fotografato questa realtà e seguito la sua evoluzione. La scuola, il benessere, la televisione hanno contribuito a modificare la maniera di comportarsi. Il cinema, soprattutto grazie alla commedia, ha svolto una funzione emancipatrice.
La morte
La morte è fonte sublime di comicità. Innesca dinamiche familiari e personali che possono prendere qualsiasi direzione. Sfuggendo alle logiche della normalità. Rovesciando rapporti ed equilibri. Suscitando clamorose rivelazioni. Aprendo il capo a soluzioni di umor nero dalle sfumature grottesche o persino blasfeme. La presenza stessa della morte, con l’obbligo sociale del cordoglio, genera le soluzioni più impensate. E il riso assume talvolta forme isteriche, liberatorie, difensive. Accompagnato a rivalse, improvvise confessioni, liti furibonde. La morte è comica. Non ha quasi nulla di eroico. E quando lo sembra, spesso rivela un equivoco come in fondo era la fucilazione di Sordi e Gassman nella Grande guerra. Anzi, il più delle volte la morte ti coglie sempre nel momento meno opportuno. Dalla veglia funebre al funerale, con tutto quello che può accadere durante l’interramento, la morte fornisce materia comica straordinaria.
La comicità
Il mio modo di fare cinema non ha mai tradito la comicità, anche se i toni si sono fatti inevitabilmente più cupi. La comicità è la misura giusta con cui raccontare il mondo. Senza eccessi sentimentalistici, fa luce sul senso dell’umanità filtrandola con un occhio disincantato. Ingrandendo magari un particolare, spostando l’attenzione su un dettaglio secondario che portato in primo piano cambia il senso della scena.
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Mario Monicelli nel 1949 dirige con il collega Steno (Stefano Vanzina) per la prima volta Totò nel film “Totò cerca casa”. Il film sarà un grande successo della coppia di sceneggiatori passati per un caso fortuito alla regia: il produttore Carlo Ponti aveva sotto contratto il comico napoletano e decise di affidare a Monicelli e Steno sceneggiatura e regia della commedia
Il finale
A me piacciono i finali netti, il più possibile rapidi e privi di equivoci. Possono essere drammatici come nella Grande guerra, mesti come nei Soliti ignoti, speranzosi come nei Compagni, beffardi come in Renzo e Luciana, aperti come in Brancaleone: l’importante è che abbiano una compiutezza che si rifletta a posteriori su tutto il tono del film. Il finale soprattutto deve essere uno, non come capita in molti film in cui per far quadrare i troppi fili scoperti l’ultimo quarto d’ora è una successione di spiegazioni. La sua riuscita sta nell’immagine che rimane negli occhi dello spettatore fuori dal cinema: senza dubbi.
Nazional-popolare
Il mio cinema è nazional-popolare nel senso più stretto del termine. Si rivolge alle masse. Ma non c’è alcun intento educativo esplicito. Diciamo piuttosto una necessità di raccontare il più semplicemente possibile, in una chiave veristica ma allo stesso tempo irridente, un fatto che può essere accaduto o meno, ma che risulti come fosse accaduto davvero. I personaggi si muovono nella stessa dimensione realistica, colta però in un’ottica divertente. Divertente e drammatica. Questa visione nazional-popolare è rinforzata dalla sua natura provinciale, che non aspira a verità massime né a piacere a tutti. Il punto di vista del mio cinema è di sinistra ma si potrebbe anche definire democratico per il suo stare dalla parte dei deboli e mettere in luce le ingiustizie. Fino all’avvento di Craxi, io sono sempre stato socialista. Ma nel mio cinema non c’è alcuna rivendicazione ideologica. Prevale sempre lo spirito anticonformista.
Oggi
Oggi mi sembra che manchi la responsabilità critica. Il buonismo e il politically correct strozzano all’origine ogni intento dissacratorio. La satira invece si regge sul suo contrario: il principio è abbattere le ipocrisie del senso comune.
Leopardi
C’è una frase che ho trovato e copiato dai Pensieri di Leopardi, per l’esattezza è il numero 78, una frase che condivido e che ho cercato, qualche volta forse riuscendovi, di mettere in pratica nei miei film che considero riusciti: «Grande tra gli uomini e di grande terrore è la potenza del riso: contro il quale nessuno nella sua coscienza trova sé munito da ogni parte. Chi ha coraggio di ridere, è padrone del mondo, poco altrimenti di chi è preparato a morire».
Riferimenti bibliografici
Sebastiano Mondadori, La commedia umana, Conversazioni con Mario Monicelli, il Saggiatore 2005
Mario Monicelli, Il mestiere del cinema (a cura di Steve Della Casa e Francesco Ranisero Martinotti), Donzelli 2009
Mario Monicelli. Con il cinema non si scherza. Conversazione con Goffredo Fofi, Edizioni Cineteca di Bologna 2011
Da - http://reportage.corriere.it/cultura/2015/monicelli-racconta-monicelli-il-centenario-del-grande-maestro/
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