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Autore Discussione: Nelson Mandela, 90 anni spesi per i neri e la pace  (Letto 2501 volte)
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« inserito:: Luglio 18, 2008, 05:36:46 pm »

Nelson Mandela, 90 anni spesi per i neri e la pace

Gabriel Bertinetto


Festeggerà il novantesimo compleanno in famiglia, Nelson Mandela, l’uomo che passerà alla storia per avere guidato il Sudafrica fuori dall’ignominia dell’apartheid. Autorità e giornalisti non avranno accesso oggi alla casa in cui, dopo il ritiro dalla vita politica, «Tata» (papà, il soprannome affettuosamente affibbiatogli dai connazionali) trascorre gran parte del tempo. Nel villaggio natale di Qunu ci saranno solo gli intimi, a cominciare dalla consorte Graca Machel, vedova dell’ex-presidente mozambicano Samora. Nelson l’ha sposata il 18 luglio 1998, e i novant’anni di vita coincidono dunque con il primo decennale delle nozze. L’arcivescovo Desmond Tutu, che è grande amico di entrambi e fa parte della ristretta cerchia degli invitati, li descrive come «una coppia profondamente innamorata, reduci da una perenne luna di miele».

Per Mandela, Graca è la terza moglie. Dopo Evelyn Ntoko Mase che fu al suo fianco fra il 1944 ed il 1955. E dopo Winnie Madikizela, che fu compagna di lotta e di ideali, prima che le loro strade si dividessero anche politicamente, fino alla separazione nel 1992 ed al divorzio nel 1996, dopo ben trentasei anni di matrimonio. Che Nelson aveva peraltro trascorso per buona parte lontano da lei, nel carcere sull’isola di Robben Island, dove era registrato con il numero di matricola «46664». I compagni di prigionia raccontano che bastava guardarlo camminare in cortile durante l’ora d’aria, dritto e pieno di dignità, per sentirsi rincuorati e guardare con fiducia al futuro.

Un leader carismatico, allora come oggi. In lui i concittadini vedono incarnato il Sudafrica che avevano sognato quando finì il regime della discriminazione etnica. Lo amano e rispettano, tanto quanto li deprime il distacco fra le speranze di allora e la realtà di quest’oggi. Un Paese devastato dalla criminalità in aumento, dall’Aids dilagante, da conflitti sociali in cui riaffiora la piaga del razzismo, questa volta non più legato al colore della pelle: neri contro neri, gente del posto contro immigrati in fuga dalla violenza e dalla miseria dello Zimbabwe e di altri Paesi vicini.

«C’è ancora troppa discordia, odio, divisione, conflitto e violenza nel nostro mondo all’inizio del ventunesimo secolo», ha detto Mandela, intervenendo sabato scorso ad un convegno a Johannesburg. Probabilmente aveva in mente anche la situazione in cui versa oggi la sua patria. Quel giorno fu avvicinato dagli abitanti di una baraccopoli, Kliptown, che sorge a due passi dal lussuoso hotel Soweto. A lui consegnarono una lettera piena di riflessioni amare su quelle promesse di un avvenire più roseo per tutti, che un giorno avevano ascoltato dalle sue labbra e che ancora attendono tradursi nei fatti.

Atto d’accusa rivolto non a Mandela, ma a chi, venuto dopo di lui, non si è dimostrato all’altezza del compito. In particolare il bersaglio delle critiche è l’attuale capo di Stato, Thabo Mbeki, che era braccio destro di Mandela nel quinquennio della sua presidenza, dal 1994 al 1999. «Mandela unì la nazione -afferma Barney Mthombothi, direttore del Financial Mail-. Mbeki l’ha divisa. Subentrò a Mandela e pareva un principe, ma s’è tramutato in ranocchio».

L’African National Congress (Anc), la creatura politica di Mandela, il movimento che s’oppose in una prima fase anche con le armi al potere bianco, oggi è spaccato. L’ala guidata da Zuma accusa Mbeki di perseguire una politica economica troppo sbilanciata a favore della borghesia imprenditoriale e di fare poco per alleviare le sofferenze dei lavoratori, mentre l’inflazione galoppa e la disoccupazione registrata dalle statistiche arriva al 23%, ma secondo alcune stime è assai più alta. Purtroppo nemmeno l’immagine di Zuma rifulge di immacolato splendore, viste le pressioni che i suoi fidi stanno esercitando per frenare la magistratura che lo ha incriminato per episodi di corruzione. Entrambi, Zuma e Mbeki, saranno comunque ospiti di Mandela domani nella seconda giornata di festeggiamenti, quando la residenza di Qunu si aprirà alla visita delle autorità e degli antichi compagni di battaglia.

«Un leader che ha l’umiltà e la grazia di un vero aristocratico», definisce Mandela negli auguri di compleanno il suo ex-rivale Frederik de Klerk, ultimo presidente bianco del Sudafrica. Assieme negoziarono la fine dell’apartheid e il passaggio alla democrazia. Assieme furono premiati con il Nobel per la pace nel 1993. Fu proprio con l’abbandono delle armi e la decisione di puntare tutto sul dialogo, che Mandela divenne famoso e conquistò consensi e ammirazione nel mondo intero. Una decisione assolutamente non facile, che riuscì ad imporre a compagni di lotta recalcitranti. Cyril Ramiphosa, che nel 1985, anno della svolta, dirigeva il sindacato dei minatori, racconta che «eravamo in molti nell’Anc a pensare che ci stesse svendendo. Andai a trovarlo e gli chiesi cosa mai stesse combinando. Era davvero un’iniziativa incredibile. Un azzardo». Ma secondo Richard Stengel, che aiutò Mandela a scrivere la sua autobiografia, «negoziare oppure no, per lui era solo una questione di scelta tattica, non di principi. Quello che non mutò mai fu l’obiettivo di rovesciare l’apartheid e instaurare il sistema democratico: un uomo, un voto». In questo senso, aggiunge Stengel, si può definirlo «il più pragmatico degli idealisti».

Quelle coraggiose trattative ebbero un passaggio chiave nella sua scarcerazione, l’11 febbraio del 1990. Quattro anni dopo Nelson stravinse le prime elezioni presidenziali in cui i neri ebbero diritto di voto e annunciò la volontà «di costruire una nazione arcobaleno in pace con se stessa e con il mondo». E fu davvero il presidente di tutti i sudafricani quello che il 1995 comparve in pubblico indossando la divisa verde-oro della squadra nazionale di rugby, che era composta quasi esclusivamente di bianchi, per celebrare la vittoria in Coppa del mondo.


Pubblicato il: 18.07.08
Modificato il: 18.07.08 alle ore 12.56   
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