BRUTTE e tristi STORIE...
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L’operazione aveva provocato danni su tutto il corpo
Stacca la spina alla moglie dopo la liposuzione
L’ex capitano della Scozia decide di far morire la donna al termine di un calvario durato 7 anni
MILANO — Il capitano Hendry ancora una volta si è comportato da capitano. Si è assunto la responsabilità di far spegnere la macchina che teneva in vita sua moglie Denise.
È la storia che commuove tutta la Gran Bretagna quella di Colin e Denise Hendry, sposati da oltre vent’anni. Lui, 43 anni, leggenda del calcio scozzese, ex capitano della nazionale ai mondiali di Francia ’98, una lunga carriera da ruvido difensore nella Premier League inglese con le maglie del Blackburn Rovers e del Manchester City. Lei, 42 anni, madre di quattro figli, l’esatto contrario dello stereotipo della compagna di una star del football.
Denise Hendry con i 4 figli (Daily Mail e Paul Lewis)
Denise Hendry ha iniziato a morire sette anni fa quando decise di sottoporsi, dopo la quarta gravidanza, ad un intervento di liposuzione per ridurre l’addome e riconquistare la silhouette perduta. «Voleva tornare ad indossare i suoi bikini preferiti», ricordava nei giorni scorsi il marito. Doveva essere un’operazione di routine, oltretutto eseguita da un mago della chirurgia estetica, lo svedese Gustav Aniansson, in seguito espulso dall’ordine dei medici britannico dopo aver pagato 300 mila sterline (350 mila euro) alla famiglia Hendry a titolo di risarcimento. Invece, quella liposuzione si è trasformata in un incubo: danni irreversibili all’intestino e al colon, setticemia e il cuore che, dopo l’intervento, per quattro minuti aveva smesso di battere.
Da allora, Mrs. Hendry si è sottoposta a una ventina di operazioni per riparare i danni causati da quella maledetta liposuzione del 2002. L’ultimo intervento per ricostruire l’addome, durato ben 16 ore, in maggio presso il Salford Royal Hospital di Manchester. L’ennesimo errore dei medici, o forse solo sfortuna: sotto i ferri la donna ha contratto la meningite cadendo nuovamente in coma (il legale degli Hendry sta valutando l’opportunità di far causa all’ospedale).
Fino a settimana scorsa, sia il marito Colin che i figli (Rheagan di 19 anni, Kyle di 18, Calum di 10 e Niamh di 9), avevano rifiutato l’ipotesi di staccare la spina alla macchina che teneva in vita, da sei settimane, Denise. «Ha mostrato qualche segno di miglioramento, è una grande combattente. Io e i miei figli non ci arrendiamo, la speranza è che riprenda conoscenza », diceva ai giornali inglesi l’ex capitano della nazionale scozzese.
La coppia Colin e Denise Hendry. (Daily Mail e Paul Lewis)
Poi, le speranze si sono affievolite fino ad azzerarsi del tutto. E quando i medici del Salford Royal Hospital hanno rinnovato a Colin Hendry la possibilità di mettere fine ai tormenti della sua amata Denise, il capitano ha detto di sì. «Non ci sono parole per descrivere il nostro dolore», sono state le uniche parole dell’ex calciatore. Durante le ultime sei settimane lui e i suoi figli maggiori passavano tutto il tempo al capezzale di Denise: «Il mio più grande rimpianto è che i miei fratelli minori non hanno alcun ricordo della mamma prima della malattia—ha detto in lacrime Rheagan, il più grande dei quattro —. Lei non era la tipica moglie del calciatore, viveva solo per la nostra famiglia».
La storia di Colin e Denise ha fatto scalpore anche per l’atteggiamento della coppia verso la vita e nei confronti di chi gliel’ha rovinata, come il chirurgo estetico Aniansson. «Sarebbe facile guardare indietro e dire che vorremmo che Denise non si fosse mai affidata a quel dottore—spiegava qualche giorno fa l’ex calciatore al quotidiano Daily Telegraph —, ma è successo e dobbiamo vivere facendo i conti con la negligenza del medico ».
Roberto Rizzo
12 luglio 2009
da corriere.it
Admin:
L'Aquila, al via lo smantellamento del campo di piazza d'Armi
"Vi sembra giusto dopo 5 mesi di tenda finire in una camerata?"
La tendopoli chiude l'ira degli sfollati
L'AQUILA - La notizia rimbalza di tenda in tenda. "Ci mandano via, ci deportano come gli ebrei". C'è paura, nella tendopoli di piazza d'Armi. "Per ora - raccontano alcuni sfollati in attesa del pranzo in mensa - non ci sono conferme ufficiali, solo annunci di prossime riunioni. Ma noi sfollati abbiamo già capito che qui stanno smobilitando tutto. Ci sono già i primi segnali: hanno smontato alcuni bagni e lavandini e altri servizi. E poi - ecco un altro segnale - sono arrivate le televisioni, come se sapessero che sta per succedere qualcosa. In tenda si sta male ma fuori si può stare peggio. C'è già chi minaccia di incatenarsi da qualche parte per non farsi deportare. Le voci sono tante. "Ci portano nella caserma della Guardia di Finanza, quella del G8". "Ci faranno entrare a forza nelle nostre case anche se ancora le scosse non si sono fermate".
Dopo cinque mesi di tenda dovremo finire nelle camerate di una caserma?".
La conferma arriva dopo pochi minuti. "Parte oggi pomeriggio - annuncia Guido Bertolaso, il capo della Protezione civile - lo smantellamento delle tendopoli dell'Aquila.
Si comincia con piazza d'Armi. Non sarà un intervento drastico ma un alleggerimento progressivo fino allo smontaggio definitivo".
E dove andranno gli ex ospiti? Bertolaso si mostra sicuro. "Ci hanno chiesto di dare un tetto agli aquilani e così stiamo facendo. I 18.000 aquilani che hanno avuto la casa inagibile saranno sistemati nelle nuove case antisismiche mentre il resto degli sfollati - le cui abitazioni richiedono interventi minori - sarà ospitato nei residence, negli alberghi e anche negli alloggi della Guardia di Finanza".
Per quanto riguarda i tempi dei lavori per la costruzione delle abitazioni antisismiche, il sottosegretario ribadisce che "a dispetto delle critiche siamo nel rispetto dei programmi". E aggiunge: "A L'Aquila ci sono ottomila operai che lavorano, giorno e notte, per cinquanta imprese in 45 cantieri dove si stanno costruendo case, moduli abitativi e scuole, che inizieranno regolarmente il 21 settembre. Dunque - conclude - a quelli che dicono che l'Aquila è ferma rispondo che oggi L'Aquila è il più grande cantiere d'Italia, dove si rispettano tutte le norme di sicurezza sul lavoro".
Solo Bertolaso comunque si mostra sicuro. Il sindaco Massimo Cialente e la presidente della Provincia Stefania Pezzopane denunciano che le case non basteranno per tutti e le famiglie che non avranno un tetto non potranno nemmeno mandare a scuola i loro figli. Fra coloro che hanno la casa agibile molti non sono rientrati perché le scosse continuano a fare paura.
Chi ha l'abitazione B o C, che necessita di "piccoli interventi", ha scoperto che per i lavori servono ancora molti mesi. Per tanti l'unica prospettiva è un hotel sulla costa fino alla prossima primavera.
(3 settembre 2009)
da repubblica.it
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La strategia
Ghedini: il Cavaliere spiegherà che non è impotente
Il legale di Berlusconi: la controparte dimostri il contrario. Frasi che offendono, per questo vogliamo andare in Tribunale
ROMA — «Senta, scusi: ma se io ora dicessi che lei è un gran porco? Eh? Un gran porco e, per giunta, impotente? E lo dicessi a tutti gli italiani? Mi risponda sinceramente: si arrabbierebbe o no?».
Avvocato Ghedini, è libero di dire ciò che vuole. Per altro, io sono un cronista del Corriere, non sono il premier di questo Paese.
«Guardi, mi creda: stavolta ci siamo mossi per una pura questione di principio. Un giornale, vale a dire l'Unità, non può scrivere che una persona è impotente, è un maiale, senza aspettarsi che poi la persona accusata si dispiaccia, e reagisca».
(Niccolò Ghedini, deputato della Repubblica per il Pdl e avvocato personale di Silvio Berlusconi è, come sempre, rapido, con soprassalti di insospettabile ironia).
Va bene, lei dice che chiedete due milioni di risarcimento danni all'Unità per una questione di principio: solo che ora tutti, e non solo noi, ma anche Libero e il Giornale, siamo qui, ancora costretti a parlare di certi presunti problemi sessuali del Cavaliere. «È stata l'Unità a tirar fuori i problemi di erezione di Berlusconi».
Ma perché, ce li ha? «Cosaaa? Scherza?».
Comunque, l'opinione pubblica, tornata dalle vacanze, quasi se ne era dimenticata. Ora invece con la vostra azione legale... «L'Unità ha passato il limite. L'avvocato Fabio Lepri, citando gli articoli, è piuttosto preciso...».
Molto. Riportando il contenuto di alcuni articoli scrive che «si spazia da "rapporti anali non graditi", a "ore e ore di tormenti in attesa di una erezione che non fa capolino"». «Sì, sono queste alcune delle frasi che offendono il premier».
Avvocato, scusi la brutalità: ma in aula il punto sarà fisico, e non politico. «Può essere più chiaro?».
Bisognerà accertare se Berlusconi è potente, come lui lascia intendere quasi ad ogni comizio, o impotente. «Ho capito. Vuol sapere se noi dovremo fornire prove? No, noi assolutamente no. La controparte, semmai, se crede...».
Ci sono così tante ragazze che dicono di aver frequentato Villa Certosa e Palazzo Grazioli... «Vedremo. Vedremo in aula cosa riusciranno a dimostrare».
In aula ci sarà Berlusconi? «Se il giudice lo riterrà opportuno, sì. Il rito civile, di fatto, non impone la sua presenza».
Ma poniamo che il giudice voglia ascoltarlo: Berlusconi dovrà spiegare se, davvero, come scritto dal direttore dell'Unità, Concita De Gregorio, che riporta una frase della comica Luciana Littizzetto, «egli pratichi iniezioni nel corpo cavernoso che trasformano in una stecca da biliardo...». «Vedo che anche lei è piuttosto affascinato da queste immaginarie iniezioni sul... eh?».
Su questo argomento avete chiesto due milioni di euro di danni a un giornale. Un po' di curiosità, ammetterà, è legittima. «Mah... comunque, se è questo che vuol sapere, Berlusconi è pronto ad andare in aula a spiegare che non solo non è un gran porco, ma nemmeno impotente».
Va bene, ha risposto a tutte le domande. Ma io, se permette, insisto: davvero è convinto che questa citazione per danni sia stata una buona mossa? «Vede, non tutto è frutto di astuzia politica. Ci sono anche mosse dettate dal puntiglio, dall'orgoglio. E perché mai, mi risponda lei, allora, perché mai Berlusconi non dovrebbe poter spiegare a venti milioni di italiani, suoi affezionati elettori, che è perfettamente funzionante?».
Fabrizio Roncone
04 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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Nazisti per sempre
di Paolo Tessadri
Grazie alle indagini di un pm si apre a Verona il processo contro 14 responsabili di efferati crimini nel 1944.
Sono tedeschi che non si sono mai pentiti
Allora erano ventenni, con l'uniforme del Terzo Reich e l'ordine di fare terra bruciata. Ora sono diventati vecchi, ma non si pentono di avere massacrato la popolazione di interi paesi sui monti tra Toscana ed Emilia. Ne parlano al telefono, senza rimorsi. "Anche le donne? Anche i bambini?". "Sì". "Non avete quindi fatto alcuna differenza: avete falciato tutto?". "Sì". L'importante è che questa storia resti sepolta, che i magistrati tedeschi e italiani finiscano di dargli la caccia: "Io ho sempre negato: ho fatto lo gnorri e non mi veniva nemmeno difficile. Anche se avessi riconosciuto qualcuno... Lo sai com'era da noi: non avevamo sempre le mani pulite e non posso certo tradire i camerati". E l'altro veterano delle stragi ride: "Certo che no. Però noi due sappiamo quello che succedeva...". "Sì. Dopo la guerra non volevo ricordare niente: l'ho rimosso fino a ora e continuerò a rimuoverlo. Sono passati tanti anni e mi sono rotto le scatole".
Queste conversazioni sono un documento unico. A parlare sono 14 dei militari che nella primavera del 1944 massacrarono la popolazione dei borghi di Monchio, Cervarolo e Vallucciole sull'Appennino tosco-emiliano uccidendo 360 persone, incluse - come ricordano serenamente - donne e bambini. Non fu una rappresaglia, non fu una vendetta per gli attacchi dei partigiani, ma un'operazione preventiva per rendere sicure le retrovie della linea gotica. I fucilatori appartenevano a un'unità molto speciale, la divisione Hermann Göring, che già prima dell'armistizio si era distinta per i crimini contro la popolazione. Ora i superstiti di quella macchina di morte finiranno sotto processo il 5 ottobre a Verona, rintracciati grazie alle indagini del pm Marco De Paolis che ha condotto le più importanti istruttorie sugli eccidi nazisti in Italia. In questo caso determinante è stata la collaborazione con gli investigatori tedeschi, che con perquisizioni e intercettazioni hanno smantellato la rete difensiva degli imputati.
A tradirli è stato proprio il loro attaccamento alla memoria dei giorni di battaglia. In casa di Alfred Lühmann, all'epoca giovane caporale, è stato trovato il diario di guerra, con l'attività di ogni singola compagnia coinvolta negli eccidi. Herbeck Döneke al telefono gli aveva raccomandato invano: "Per carità, nascondilo". E Horst Gabriel, un altro dei vecchietti impenitenti, si infuria: "Ma sei matto? Glieli hai fatti vedere! Io ho sempre detto "non lo conosco, mai visto" anche se c'erano alcuni volti conosciuti. Ma io ho sempre negato...".
C'è chi. come Lühmann, racconta ai camerati di essere tornato in vacanza proprio sui luoghi dello sterminio. E poche ore dopo mente anche ai propri famigliari. Al figlio che gli domanda: "C'è differenza tra sparare a partigiani o a civili", lui risponde che era solo un soldato e ha sparato "solo a partigiani che erano fuggiti nella valli laterali". Invece ricorda bene, sa "che si sono verificate altre atrocità". E Schulze-Rohnoff gli consiglia: "Eviterei quindi del tutto di parlarne". Mentre a un altro camerata Lühmann riferisce che al procuratore non ha detto nulla, nemmeno di quel sottufficiale che ha sparato in testa a una o più donne. "Lo sai quello... Quello, lo conosci no, quello che ha sparato in testa alle donne. Io ricordo ancora, come si chiamava?", gli chiede Horst Gabriel. E Lühmann: "Sì, sottufficiale Hausmann, mi pare". Poi racconta un massacro "in cui alcuni bambini sono sopravvissuti". Si lasciano andare alle confidenze sui giorni di guerra. "Sì, sì, non ci siamo tenuti per niente indietro", ricorda Gabriel a Lühmann. Che risponde: "Certo, lì ci abbiamo dato dentro... Ma se vengo interrogato dirò che non ricordo nulla".
"Neppure oggi c'è un pur pavido rimorso", spiega l'avvocato di parte civile Ernesto D'Andrea. È un orrore senza limiti, che ogni tanto viene squarciato proprio dall'eccesso di nostalgia. Come Wolfgang Bach, ex ufficiale che ha scritto un memoriale sulla divisione Göring, finito sui giornali e usato per identificare i responsabili dei massacri. I suoi camerati lo insultano: "Quelli da dove l'hanno saputo? Eh certo, dal comportamento da minchione di Bach!", si sfoga Lotz: "Sono talmente arrabbiato: ci hai messo nella merda, accidenti! A questo punto, Wolfgang, devo dire: stai attento! Nell'azione verso monte Falterona sono stati uccisi anche bambini, anche un neonato di tre mesi. L'omicidio non è caduto in prescrizione". E invita Bach a tacere: "Lì sono capitate quelle cose con il neonato di tre mesi, eccetera e Wolfgang... Tu lì non ci sei stato, non ci sei stato per niente". Lotz cerca di convincere Bach a negare qualsiasi partecipazione, scrive la polizia tedesca, e a dire che in quelle azioni non erano presenti bambini. I depistaggi sono stati sistematici. "Devono aver ripulito ben bene. Non riesco nemmeno a immaginare...", commenta Bach. E Lotz conferma: "È andata davvero così, ma di questo ne parliamo più tardi".
L'episodio si riferisce con molta probabilità alla strage di Vallucciole dove un anziano ha raccontato che "i tedeschi non risparmiarono neppure una donna con il suo bambino appena nato che stava allattando. Erano spietati, delle belve assetate di sangue". Wolfgang Bach non sarà in tribunale: è morto da poco. A impartire la consegna del silenzio è stato soprattutto Lotz, ex ufficiale del comando e presidente dell'Associazione del corpo dei paracadutisti. Al telefono ammette che la morte del neonato "è stata veramente un porcheria. Lì di reazioni esagerate ce ne sono state e alcuni camerati mi hanno detto apertamente come hanno operato: ahiahiahiahi!". La polizia tedesca sintetizza i suoi discorsi: "Lotz conferma che per un comandante di compagnia non vi sarebbe stata nessun'altra possibilità che "distruggere alla radice" un simile covo. Non sarebbe stato possibile dividere prima le donne e i bambini dagli uomini". Anzi, i bambini erano un bersaglio: "All'epoca egli avrebbe avvertito di continuo di "stare attenti ai bambini. Sono i più pericolosi poiché non sembravano strumenti dei partigiani, maledetti italiani!".
Lotz invita gli altri reduci a tacere o mentire. E se necessario può aiutarli finanziariamente nella scelta di un avvocato: "Ma per l'amor di Dio chiudete la bocca così che né io né i camerati andiamo a finire nel fango", ripete a tutti. Il vecchio combattente nazista ha però paura dei magistrati e si fa fare un certificato medico per sfuggire all'interrogatorio. Telefona a un medico compiacente "che da buon camerata ancora una volta sarebbe stato al suo fianco", scrive la polizia federale. Poi parla con la figlia a cui legge il certificato e alla fine "entrambi ridono": "Tanto il procuratore è uno stupido". Ma la rete di connivenze di Lotz è estesa. Arriva anche in alto: "Ho appena parlato con quel procuratore generale importante di qui, che dice naturalmente: "Come si può fare una cosa del genere a un ottantottenne! Deve presentare un certificato medico, dire che non è in grado di subire interrogatori". Anche se le sue stragi se le ricorda ancora molto bene.
(08 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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19/9/2009 (7:26) - LA TESTIMONIANZA
"Gli stavo parlando, poi solo sangue"
Il racconto choc del caporale ferito: «Ho visto l’inferno con i miei occhi»
FULVIO MILONE
ROMA
«Mi sono ritrovato fra le braccia il corpo di un compagno con cui avevo parlato fino a qualche istante prima. Non aveva più la testa. “Adesso muoio anch’io”, ho pensato quando ho visto tutto il sangue che mi scorreva addosso: c’è voluto un po’ perché capissi che non era mio, ma di quel poveraccio. E mi sono detto: “Ecco l’inferno”».
Ecco Kabul, alle 12,10 di giovedì, sulla Airport road che porta al centro della città. In uno dei due «Lince» italiani saltati in aria c’era anche Ferdinando Buono, 30 anni, primo caporalmaggiore della «Folgore». Gli è andata bene, l’onda d’urto provocata da 150 chili di tritolo fatti esplodere dai talebani ha ucciso sei suoi commilitoni, ma ha solo lambito lui e altri tre soldati. Se l’è cavata con una brutta ferita a una mano e un trauma al timpano sinistro. L’hanno portato con gli altri all’ospedale militare francese, e da lì ha telefonato a casa, a Napoli, al fratello Vincenzo, per dirgli del fumo nero e dell’odore insopportabile che stagnavano sulla strada, dei corpi riversi sul selciato in pose innaturali e di un blindato, quello che precedeva il suo, «squagliato dal calore». In fondo non ha fatto altro che raccontare l’orrore della guerra che infiamma l’Afghanistan: un conflitto che nel linguaggio freddo degli esperti è definito «a bassa intensità» per il numero esiguo di vittime contate fra i militari, ma che nulla toglie al dolore di chi, di quelle vittime, era amico o parente.
Ferdinando conosceva bene Roberto Valente, uno dei sei militari uccisi: anche lui un parà, anche lui napoletano. Il suo racconto comincia proprio dal ricordo di quella amicizia. Erano tornati insieme a casa per una licenza di 15 giorni, e insieme sono andati all’aeroporto di Fiumicino, mercoledì mattina, per rientrare a Kabul. Giovedì, il giorno della strage, si trovavano entrambi nei “Lince” che avevano appena superato la rotonda Massud ed erano diretti al comando della missione Nato. «Roberto si trovava nel primo blindato, io nel secondo - ha raccontato Ferdinando -. La tensione era alle stelle, l’allarme massimo. Come sempre, da settimane, questi viaggi sono diventati delle lotterie: se vinci sopravvivi, se perdi muori. Insomma, ogni volta stai lì a chiederti se tornerai o no alla base».
E la morte, questa volta, Ferdinando l’ha davvero sfiorata: ne ha sentito l’odore, l’ha vista portarsi via i suoi amici. «Ricordo che l’autobomba era ferma sul ciglio della strada ed è esplosa al passaggio del primo “Lince”, quello su cui viaggiava Roberto. Il botto è stato spaventoso. Era come se una mano gigantesca avesse sollevato il blindato per poi lasciarlo ricadere pesantemente al suolo. Per qualche attimo è calato il silenzio. Non capivo più nulla, mi sono ripreso solo quando qualcosa mi è caduta addosso. Era il corpo del mitragliere che si trovava allo scoperto in ralla (torretta, ndr). L’esplosione l’aveva decapitato». Ferdinando Buono non ne fa il nome, ma probabilmente si tratta di Giandomenico Pistonami, 28 anni, un parà che appena un mese fa, a un giornalista di un settimanale, aveva rilasciato un’intervista che a leggerla oggi dà i brividi: «Il mio, qui a Kabul, è il ruolo più importante della pattuglia, ho più campo visivo e uditivo, con un gesto posso fermare le auto che passano...».
Ferdinando prosegue nel suo racconto: «Sentivo i lamenti dei compagni feriti. Dovevamo uscire al più presto da quella trappola d’acciaio che minacciava di andare a fuoco. Ho trovato a tentoni la botola sul pianale del blindato e sono sgattaiolato all’esterno. Quando mi sono alzato ho visto che la strada era completamente devastata, poi ho visto il “Lince” che mi precedeva: era quasi disintegrato, quel po’ di lamiere che si potevano ancora distinguere erano accartocciate, come liquefatte dal calore».
E’ stato allora che Ferdinando ha visto il suo amico Roberto: «L’esplosione l’aveva catapultato fuori dal mezzo. A guardarlo sembrava ancora vivo: sul corpo non c’erano ferite evidenti, solo un braccio aveva una posizione strana, come fosse fratturato. Allora l’ho chiamato: “Roberto, Roberto”, ma lui non rispondeva. Gli sono andato vicino, ho tentato di sollevarlo, ma il corpo era come afflosciato. Allora ho capito che il mio amico non c’era più».
Del resto della storia fanno parte i ricordi di una bella amicizia. Sia Ferdinando che Roberto avrebbero concluso il loro lavoro a fine ottobre. Roberto aveva deciso di farla finita con le missioni all’estero, voleva vivere accanto alla moglie e al figlio; Ferdinando avrebbe atteso una nuova partenza perché, come dice il fratello Vincenzo, «per lui la Folgore è tutto».
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