MARIO TOZZI.
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3/1/2010
La ribellione delle acque
MARIO TOZZI
Una impetuosa ribellione dei fiumi è chiaramente in atto da qualche giorno nel nostro Paese.
Sarebbe un ulteriore atto di insensata trascuratezza fare finta di niente di fronte ai segnali che l’ambiente naturale ci invia. Alluvioni e inondazioni sono il naturale decorso delle giornate di pioggia intensa, e da sempre le civiltà fluviali - come quelle padane o tiberine - convivono con l’andamento del fiume e le sue piene. Ma qualcosa è drammaticamente cambiato negli ultimi anni: intanto la pioggia, che oggi cade a cascata innescando le cosiddette «bombe d’acqua», quei flash flood difficili da prevedere che rovesciano in poche ore l'acqua che un tempo cadeva in settimane. Così la pioggia non si infiltra più nel sottosuolo, ma ruscella tutta in superficie e si precipita nei letti fluviali che però non sono commisurati a contenerla.
Dunque le alluvioni sono aumentate di frequenza e di intensità, non solo in Italia, ma anche nel resto del mondo, dal Brasile alla Cina. Questa però è solo una parte del problema, il resto lo fanno gli uomini che vivono nelle regioni fluviali e non si decidono a lasciare libere le aree che invece dovrebbero essere lasciate al dominio del fiume. Non è un caso che esista un letto di magra e uno di piena e non è un caso che nessun insediamento stabile veniva posto nel letto di piena dagli antichi, che conoscevano i ritmi del fiume e vi si adattavano, senza pretendere di irregimentarlo. Anche perché i vantaggi in passato erano importanti, soprattutto per l'agricoltura, che vedeva fertilizzati naturalmente i terreni dal limo, ma anche per le civiltà, che potevano permettersi di erigere la grande piramide solo grazie alle piene del Nilo che portavano le barche con i blocchi di marmo fino a Giza.
Oggi i fiumi - padri delle nostre civitates (e non solo delle urbes) - sono stati precipitati in fondo ai loro argini di pietra e senza più memoria del rapporto con la città che è nata grazie a essi. A Napoli il Sebeto è diventato un rigagnolo melmoso, mentre un tempo, quando si impaludava, permetteva a Ponticelli di rifornire di ortaggi tutta la città. A Palermo Papireto e Kemonia sono stati intombati sotto le strade, così come l’Aposa a Bologna o i Navigli a Milano. Ma non va meglio a Roma, dove quasi nessuno si accorge più del Tevere, se non quando si rischia l’alluvione a Ponte Milvio; ed è bene ricordare che in sole dodici ore le acque raggiungerebbero il Vaticano da una parte e Piazza di Spagna dall'altro.
Perduto il rapporto culturale con il fiume la speculazione ha fatto il resto, anche in un paese in cui quasi il 50% del territorio è a rischio idrogeologico, per cui si invocano le Autorità di Bacino salvo poi disconoscerle quando nelle loro prescrizioni invocano la liberazione delle aree golenali e la libertà dei fiumi. Eh sì, perché di libertà si tratta, nel senso che i fiumi si scelgono da sempre dove sfociare, e quanto più sono lasciati liberi tanto meno danni fanno e più vantaggi portano. Delta e paludi sono il sistema di sicurezza che la Terra ha escogitato per proteggere la vita lungo le linee di costa fin da quando gli uomini nemmeno esistevano.
E il Fiume Giallo in Cina sceglie da centinaia di migliaia di anni dove sfociare, cambiando estuario per un raggio di oltre 1000 km. E noi uomini invece lì, a cercare di irregimentarli, a costruire dighe sempre più grandi e argini sempre più alti, coltivando l'illusione di controllare le piene e eliminare le alluvioni, come se non si dovesse invece cercare di conviverci. Nel 1944 Francis Crove, a proposito di una grande diga sul Sacramento, scriveva: «Abbiamo messo il fiume al tappeto, lo abbiamo inchiodato alla carta geografica».
E' passato più di mezzo secolo ma gli uomini non sembrano aver imparato che il fiume fa semplicemente il suo mestiere, e più sclerotizzano il suo corso peggio sarà: così, se oggi piovesse come quel novembre del 1966, l'Arno esonderebbe provocando molti più danni di allora. E che tutti i corsi d'acqua d'Italia sono a rischio esondazione nel prossimo futuro.
Dal grande padre Po al Tevere, dall'Adige all'Arno, ma anche dall'Ofanto al Reno, alle più piccole fiumare di Calabria e Lucania o ai torrenti di montagna, l'Italia dei mille fiumi è stata talmente maltrattata che non ci si dovrà stupire quando sembrerà che un cinico disegno della natura (per carità, sempre selvaggia e cattiva) ci voglia mettere in difficoltà: in realtà è solo e sempre colpa nostra, quella di avere quasi distrutto una ricchezza che andava meglio conosciuta e valorizzata.
da lastampa.it
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15/1/2010
Catastrofe innaturale
MARIO TOZZI
È stato il terremoto più violento degli ultimi due secoli nell'isola, ma come ne avvengono almeno una ventina, ogni anno, al mondo. E quasi mai provocano centinaia di migliaia di morti. Per riscontrare numeri così elevati bisogna spingersi indietro nel tempo e in altri luoghi: nella Cina del XVI secolo, dove morirono 830.000 persone nello Shansi, oppure nella pianura di Kanto, in Giappone, dove, nel 1923, le vittime furono oltre 200.000. In tempi più vicini, le città cinesi di Tientsin e Tangshan furono rase al suolo, con 200.000 vittime, nel 1976 e non si può dimenticare il terremoto di Sumatra di soli cinque anni fa, quando morirono 250.000 persone anche a causa del maremoto. Ogni anno la Terra è attraversata da centinaia di migliaia di sismi di magnitudo superiore a 3, ma solo in alcune regioni, e in particolari condizioni, le vittime sono così tante. Perché?
Qualcosa la si deve al tipo e alle caratteristiche intrinseche del terremoto: magnitudo 7 Richter non è così elevata rispetto ai terremoti giapponesi e cinesi che arrivano anche a oltre 8, però l'ipocentro è stato superficiale (13 km) e perciò gli effetti peggiori. Ma i principali responsabili del gran numero di vittime sono sempre gli stessi: sovraffollamento e cattiva costruzione. Nonostante il rischio sismico fosse elevatissimo e ben noto, l'estrema povertà di Haiti, la corruzione e l'inesistente amministrazione hanno consentito di costruire senza alcun criterio antisismico anche laddove si fosse utilizzato cemento armato (come per il palazzo presidenziale). «Effetto pancake» lo chiamano, quello per cui palazzi alti decine di metri rimangono schiacciati come frittelle senza che le strutture abbiano offerto alcuna resistenza. Ma la maggior parte della popolazione ha costruito in legno o muratura povera, senza alcuna regola e, soprattutto, in modo troppo affastellato, lasciando strade così strette da restare completamente bloccate intralciando i soccorsi.
Ma come si è operato a Port-au-Prince è la regola delle aree metropolitane del Sud del mondo (dove si concentra ormai la maggior parte della popolazione), come Mexico City o Calcutta: quelle ubicazioni furono scelte in tempi remoti scartando le zone ritenute pericolose sulla base di antiche sapienze, per esempio evitando i terreni paludosi, dove gli effetti del terremoto si amplificano. Oggi decine di milioni di persone vivono attorno agli antichi nuclei colonizzando con costruzioni fatiscenti i terreni una volta scartati. Così può accadere che rimangano in piedi vecchie case accanto a palazzi moderni distrutti, o che alcuni edifici vengano rivoltati sul posto senza però fracassarsi, come scatole di cemento armato basculate sul posto. Ma le megalopoli continuano ad attrarre senza sosta milioni di disperati nullatenenti dalle campagne di tutto il mondo, gente che non ha posto migliore per insediarsi che non i terreni meno idonei. Dove sorgono capanne, favelas e bidonville lì si concentreranno i danni e i morti dei terremoti del futuro, che diventeranno inevitabilmente i terremoti dei poveri.
Non è cosa nuova: negli ultimi mille anni i terremoti hanno ucciso otto milioni di persone e tutto lascia intendere che le cose potrebbero andare peggio nel prossimo futuro. Lo stesso sisma provocherà una strage epocale nel mondo povero, centinaia di morti dalle nostre parti (come dimostra quello aquilano, pur trentacinque volte meno distruttivo di quello haitiano) e solo qualche cornicione abbattuto in California. La storia è sempre quella: le catastrofi naturali non esistono, esiste solo la nostra nota incapacità di tenere conto del rischio naturale ovvero la possibilità di conoscerlo molto bene e fare comunque finta di nulla per avidità o per incapacità. O per l'assoluta mancanza di risorse e di memoria.
da lastampa.it
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16/2/2010 - CLIMA. ONU SOTTO ACCUSA
Polemiche sterili stiamo soffocando il nostro pianeta
MARIO TOZZI
Essendo questione largamente svincolata dalla fede religiosa, non ci dovrebbero essere problemi a ricondurre la polemica sulla presunta alterazione dei dati climatici internazionali nell’alveo della questione scientifica, dunque laica per definizione.
Non è tanto ai rapporti dell'Ipcc che ci si deve attenere per comprendere gli scenari futuri, che sono sempre ipotetici, ma ai dati già raccolti. Questi ci dicono che - finora - il clima diventa sempre più caldo e che gli ultimi anni sono stati più torridi di tutti i precedenti. Ci informano che negli ultimi 20 milioni di anni mai si erano superate concentrazioni di anidride carbonica di 300 ppm (oggi siamo a 385) e che questo gas è in grado di riscaldare l'atmosfera. Ci ribadiscono che non si deve confondere il tempo con il clima, e quello che succede in Italia con quanto accade nel resto del mondo. Infine ci dicono che la copertura glaciale, per esempio, delle Alpi si è quasi dimezzata. Le riviste scientifiche, che non rispondono alle logiche politiche di istituti come l'Ipcc (logiche che tendono, semmai, a mitigare le preoccupazioni), confermano i dati.
Restano pertanto i motivi di preoccupazione, fermo restando che ci sarebbe un'esplosione di felicità da parte dei climatologi se le cose andassero diversamente. Ma qui si corre un rischio più grave: anche i dubbi non fondati inducono l'opinione pubblica a non farsi più carico dei propri comportamenti o delle decisioni di chi li governa, anche quando sono insostenibili da un punto di vista ambientale. Se riducessimo le emissioni di CO2, ridurremmo anche quelle di ossidi di azoto, benzene, polveri sottili e monossido di carbonio, sostanze la cui miscela provoca 100 mila morti all'anno in Europa. Le megalopoli sono camere a gas annegate nei rifiuti e provate dalla mancanza di acqua o funestate da catastrofi naturali. La biodiversità, intanto, è pesantemente attaccata. E’ l'«ecological crunch», una tenaglia che non distrugge il pianeta in sé, ma impoverisce o affligge gli uomini. Le polemiche infondate spostano l'attenzione e ci fanno rituffare nell'indifferenza. Fino alla prossima crisi.
da lastampa.it
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28/2/2010
La voce del pianeta
MARIO TOZZI
Le civiltà esistono solo grazie a un temporaneo consenso geologico, suscettibile di essere ritirato senza preavviso. Sarebbe bene non dimenticare mai questa massima, che deriva dall’esperienza millenaria degli uomini che popolano le regioni sismiche del pianeta Terra, almeno se si vuole continuare a vivere lì. Un terremoto di magnitudo 8,8 Richter è già un evento di rara potenza, ma per dare un’idea di cosa significhi una sequenza sismica come quella sopportata dai cileni la notte scorsa, basterà dire che la scossa di replica principale è stata più potente della scossa principale dell’Aquila, e la seconda forte come il terremoto dell’Umbria-Marche del 1997. Repliche che dureranno settimane.
Mentre ancora non sappiamo quante saranno, e quanto alte, le onde del maremoto per cui tutto il Pacifico è in allarme e per sfuggire a cui le popolazioni di Hawaii e dell’Isola di Pasqua si ritirano in collina.
Nel Cile si vive pericolosamente da secoli, Concepcion fu già distrutta nel XVIII secolo e nel suo viaggio attorno al mondo con il Beagle, Charles Darwin annotava di terremoti a Valparaiso e si domandava se quel paesaggio non recasse per caso traccia di antiche scosse. Aveva ragione: la catena delle Ande, le pianure costiere, i bacini lacustri e i grandi salares appena dietro le montagne sono tutti eredi degli antichi sismi che hanno disegnato quelle terre da prima della comparsa degli uomini.
Ma questo terremoto non è una sorpresa, perché il margine andino centrale è la regione dove avvengono i più violenti terremoti del mondo: nel 1960 il più forte sisma che gli strumenti dell’uomo abbiano mai registrato colpì il Cile centrale con magnitudo 9,5 Richter, qualcosa che nemmeno lo scoppio contemporaneo di tutto l’arsenale nucleare del pianeta potrebbe simulare con una qualche approssimazione. La placca geologica che contiene l’America latina si scontra con quella dell’Oceano Pacifico, e mentre quest’ultima si infila sotto la prima, la Terra si comprime fino a rompersi e a generare terremoti, oltre che a scatenare eruzioni vulcaniche esplosive. Questa è peraltro la situazione generale di tutto il Pacifico, dal Giappone alle Tonga, dal Perù all’Alaska: la cosiddetta cintura di fuoco, dove comunque gli uomini si ostinano a vivere da generazioni e dove si scatena la gran parte dei sismi della Terra. Non c’è nessuna relazione fra questo terremoto e quello di Haiti e l’unica considerazione da fare è che, se gli haitiani avessero costruito bene come i cileni, non avremmo contato centinaia di migliaia di morti. E non c’è nessuna recrudescenza del fenomeno sismico in questo periodo di tempo: i terremoti avvengono indifferentemente di notte come di giorno, d’estate come d’inverno e senza alcuna relazione con fenomeni meteorologici o anticipo di fine del mondo. È solo la normale attività di un pianeta dinamico, che per questo si distingue da tutti gli altri del sistema solare, tanto da far credere che, se non ci fosse stata attività sismica e vulcanica, non ci sarebbe stata nemmeno la vita: siamo tutti figli di una Terra inquieta. Quando si ha a che fare con i terremoti si può solo vivere pericolosamente, basta non avere la memoria corta e portare grande rispetto alla madre Terra.
da lastampa.it
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6/4/2010
L'Aquila, il sisma delle parole
MARIO TOZZI
Dal punto di vista sismico - mutatis mutandis - l'Aquila è stata la nostra Haiti: un terremoto nemmeno tanto potente che uccide più di 300 persone e fa danni ancora incalcolabili perché qui sono state sistematicamente ignorate le leggi antisismiche ben note. Qualche paese vicino ha peraltro egregiamente resistito pur essendo costruito in muratura, segno che già nel medio evo si costruiva tenendo conto della qualità e dei terremoti e non solo del profitto. Ma per ricostruire l'intero patrimonio abitativo della città, compreso quello storico monumentale, ci vogliono 15-20 anni, come dimostra quanto avvenuto per il sisma dell'Umbria-Marche del 1997. I tempi tecnici per ricostruire un palazzo sono questi: 5-10 anni quando va bene, e se si vogliono rispettare le leggi e i metodi antisismici. Certo, con limitati investimenti, si sarebbero potute ristrutturare le case meno lesionate e riportare una parte delle 7000 persone alloggiate negli alberghi sulla costa adriatica nelle loro abitazioni.
Ma a L’Aquila si è scelta la via dimostrativa, quella dell'Italia del fare. E si è usata proprio la parola ricostruzione quando di ricostruito non c'era un bel niente e non ci sarà un bel niente per molto tempo ancora (basti pensare che ci vorranno forse altri 12 mesi solo per mettere in sicurezza la città, ossia per renderla agibile).
Si è preferito spendere fino a 2700 euro al mq per costruire migliaia di nuovissimi appartamenti - perfettamente antisismici, ultramoderni e dotati di ogni comfort -, che però non possono rappresentare che la «fase del container», quella che si mette inevitabilmente in opera dopo le tende e prima di tornare nelle proprie abitazioni. Perché è ormai chiaro a tutti che non c'è un sola famiglia di L'Aquila che consideri quelle come case definitive, visto che non lo erano nemmeno nei decreti della Protezione Civile, in cui si parla chiaramente di «moduli abitativi provvisori», bellissimi, ma inesorabilmente provvisori. Ci saranno ora i denari per ricostruire il tessuto urbanistico storico e monumentale insieme alle case (come si fece ad Assisi, dove le chiese si tiravano su insieme alle case perché motore della ripresa)? E che ne sarà di quelle migliaia di appartamenti quando gli abitanti torneranno nei propri? Quante potranno essere destinate a servizi e alloggi o foresterie quando la crescita demografica è appena sopra lo zero e i quartieri-satellite sono sorti in luoghi che più brutti non si può?
Intanto il popolo delle carriole si mobilita per sgomberare le macerie dal centro storico: giusta esigenza, ma difficile da eseguire tecnicamente, perché lo smaltimento deve essere controllato. Ma possibile che nessuno abbia pensato di riciclare quel materiale, una volta conservato quello che serve a ricostruire i palazzi storici e i monumenti? Possibile che debba essere solo «buttato»?
Nessun miracolo è avvenuto a L'Aquila, solo la normale amministrazione dopo un evento naturale a carattere catastrofico in cui la Protezione Civile ha funzionato bene, ma meno bene si sono mossi quei politici che hanno promesso ciò che non solo non si poteva, ma che neppure doveva essere promesso: il miracolo di una ricostruzione immediata che è stata contrabbandata come tale dalla gran parte dei media nazionali. Il terremoto non poteva essere previsto, come qualche ignaro funzionario continua a denunciare, ma i tempi e le fasi della ricostruzione sì: lenti e accurati. Questo avrebbero meritato i cittadini invece di facili illusioni.
da lastampa.it
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