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Autore Discussione: Marco DAMILANO -  (Letto 65444 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Agosto 30, 2010, 04:44:56 pm »

Arriva la Lega sud

di Marco Damilano

Bossi spinge Berlusconi verso le elezioni. Per diventare il padrone assoluto del Nord e sbarcare nel meridione.

Con una carta a sorpresa: il ministro Roberto Maroni

(30 agosto 2010)

Uno sbarco dei Mille al contrario, un 1860 alla rovescia, organizzato con perfetto senso della storia un secolo e mezzo dopo. Con le camicie verdi al posto di quelle rosse, Roberto Maroni al posto di Nino Bixio, il Senatur invece del Generale.

Giuseppe Garibaldi ha unito l'Italia, Umberto Bossi la disferà con una seconda spedizione dal Nord al Sud, questa volta elettorale: candidare la Lega su tutto il territorio nazionale con il verbo del federalismo, ognun per sè. In Calabria sono già pronti: ad aprile il senatore leghista Enrico Montani, piemontese di Verbania, è stato inviato tra la gente in Aspromonte, novello cacciatore delle Alpi, per aprire ufficialmente il tesseramento della Lega Calabria Federalista, avamposto del Carroccio in terra jonica. Forte degli 8500 voti, l'uno per cento, raccolto alle elezioni europee del 2009. Una miseria, per ora, rispetto ai granai di consensi delle regioni native, il Lombardo- Veneto: ma l'ascesa del partito dalla Val Brembana ai palazzi romani insegna che se si semina bene il tempo della mietitura verrà. E per Bossi i prossimi mesi sono quelli della raccolta decisiva. Lega Pigliatutto.

E Umberto di nuovo guerriero. «Il Capo è tornato a ruggire», esulta un deputato che lo ha seguito tra le feste di partito, le serate di miss Padania e le esternazioni fino alle ore piccole dove il fondatore del Carroccio si è rimesso a dettare l'agenda della politica nazionale, con il consueto aplomb padano.

Gianfranco Fini? «Vuole i matrimoni tra omosessuali, dà di matto». Denis Verdini? «Un democristiano di merda». Con Pier Ferdinando Casini, potenziale alleato di ritorno del Cavaliere, Bossi è stato più sintetico: «Uno stronzo ». Meno male, la forma non è andata perduta. In vista di elezioni da fare il prima possibile, al massimo all'inizio del 2011, anche a costo di scompaginare i piani di Silvio Berlusconi, che il voto anticipato per castigare i ribelli finiani lo minaccia ma con qualche preoccupazione, visti i sondaggi per il Senato. Numeri che danno a rischio la maggioranza del Cavaliere a palazzo Madama se dovesse correre un Terzo polo. E che, al contrario, fanno ingolosire la Lega, data intorno al 13 per cento nazionale, con punte del 15 in Emilia Romagna e per la prima volta rilevata nel centrosud, in Calabria, in Abruzzo, in Sardegna. Percentuali che in caso di flop berlusconiano nella tombola dei premi regionali per il Senato consegnerebbero al Carroccio la golden share per fare qualsiasi maggioranza. Oltre a un possibile sorpasso sul Pdl nelle regioni del Nord.

Ad Alzano Lombardo, minuscolo centro bergamasco, è già successo: alle regionali lombarde di primavera la Lega ha toccato il 35 per cento, il Pdl si è bloccato al 23. Qui, alla Berghem Fest, nell'ultima settimana sono sfilati ben quattro ministri: oltre a Bossi, Calderoli e Maroni. Più Giulio Tremonti, festeggiato in Cadore dallo stato maggiore leghista per il suo compleanno. La foto di gruppo del governo ideale da fare dopo le elezioni: un monocolore padano con il Gran Valtellinese al centro. Un incubo per Berlusconi che non dimentica l'avvertimento di un amico democristiano: «Attento, Silvio, i leghisti ti sono vicini, certo. Ma a distanza di pugnale». Oggi Alzano, domani l'intero Nord, l'Italia, i leghisti ci credono. Al punto di mettere da parte, rapidamente, i dissensi e le rivalità personali emersi all'inizio dell'estate, nei giorni del caso Brancher (l'ambasciatore di Berlusconi presso la Lega nominato ministro, costretto a dimettersi e poi condannato a due anni per ricettazione e appropriazione indebita). La tensione tra le due anime del movimento era salita al livello di guardia. Da un lato, il grosso degli amministratori locali e dei gruppi parlamentari, l'apparato riunito attorno a Calderoli e a Giancarlo Giorgetti, il silenzioso e potente presidente della commissione Bilancio della Camera, uno dei pochi ammessi a contraddire Bossi. Dall'altro, la Sacra Famiglia che fa da cordone sanitario al Senatur, composta dalla vice-presidente del Senato Rosy Mauro, dai capogruppo Federico Bricolo (fedelissimo del governatore veneto Luca Zaia) e Marco Reguzzoni e da Manuela Marrone, tra i cinque fondatori della Lega con il primo statuto del 1986 e soprattutto moglie del ministro: la custode della purezza padana.

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/arriva-la-lega-sud/2133154/24
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« Risposta #46 inserito:: Settembre 21, 2010, 05:18:35 pm »

E ora B. sembra Andreotti

di Marco Damilano

Per la prima volta il Cavaliere ha ammesso che nell'elettorato italiano si è aperto un buco nero, in cui neppure lui ci si raccapezza più. Così, nell'incertezza dei sondaggi, tira a campare inseguendo qualche straccio di deputato centrista

(13 settembre 2010)

Il titolo del "Giornale" di oggi è degno delle surreali vignette di Giovannino Guareschi sui comunisti nel '48 («Obbedienza cieca pronta assoluta. – Contrordine compagni! La frase pubblicata sull'Unità: "In ogni paese bisogna organizzare una grande fetta dell'Unità", contiene un errore e pertanto va letta: "In ogni paese bisogna organizzare una grande festa dell'Unità"»). «Caro Silvio, ora ci dica cosa succede», reclama Vittorio Feltri. Laddove la presa di distanza del Direttore dal Cavaliere è tutto in quel "lei" dato a Berlusconi, così diverso dall'affettuoso e confidenziale "tu" che in genere circonda il Capo («Silvio, mandali tutti a casa»).

E già, caro Silvio, che succede?

Silvio ha risposto ieri, dal palco della festa dei giovani del Pdl. Non sarà vero, come ha detto Fini a Mirabello, che il Pdl non c'è più. Però, ha spiegato Berlusconi, se si andasse a votare ora «ci sarebbe un aumento dell'astensione terrificante». Per la prima volta il Cavaliere ammette che nell'elettorato italiano si è aperto un buco nero, in cui neppure lui ci si raccappezza più. Neanche i suoi sondaggi riescono a decifrare cosa si stia muovendo nella pancia del Paese. E allora è meglio restare fermi e al diavolo Feltri e la sua voglia di resa dei conti. Contrordine forzisti, non si vota più.

Così finisce qualcosa di più profondo del Pdl. Arriva al capolinea l'idea del Berlusconi invincibile. E il sogno del nuovo miracolo italiano. D'accordo, già si era capito da tempo che sarebbe finita così. Però fa comunque impressione questo Berlusconi normalizzato, il Berlusconi andreottiano che tira a campare, il Cavaliere tornato con i piedi per terra che si acconcia al pallottoliere di Palazzo e insegue qualche straccio di deputato centrista per fare maggioranza, il caro Silvio che assume il linguaggio e gli esasperanti tatticismi dei professionisti della politica.

Il sondaggio curato da Demos e commentato da Ilvo Diamanti su "Repubblica" di oggi fotografa il cambio di stagione. Il Pdl per la prima volta è sotto il 30 per cento, il partito di Fini che neppure è nato supera già il 6 per cento. Peggio ancora per il Cavaliere l'indice di gradimento dei politici più popolari. Al primo posto l'odiato Tremonti, seguono Vendola e Chiamparino, quindi Fini. Berlusconi è in fondo, dopo Bersani e prima di Veltroni. Una geografia politica terremotata, in cui saltano schemi e gerarchie consolidate.

Sarà per questo che ieri mattina, dopo aver raccontato barzellette su Hitler e dopo aver consigliato ai giovani di emigrare all'estero («datevi una caratura internazionale»: chissà se lo avrà consigliato anche all'ex valletta di Telecafone Francesca Pascale, estasiata in prima fila), Berlusconi si è rifugiato nel solito, vecchio, rassicurante anti-comunismo e passa la paura. «Organizzeremo il Pdl con un team che girerà le case degli italiani e distribuirà il Libro nero del comunismo o anche una sola dispensa, oppure il cd Urla dal silenzio sulla Cambogia e Ho Chi Min...».

Se ci fosse stato ancora bisogno di un motivo per cui Fini non vuole più mettere piede a palazzo Grazioli, eccolo qui. In attesa che perfino Feltri, deluso, si metta a gridare: il Pdl non esiste più.

 
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« Risposta #47 inserito:: Ottobre 08, 2010, 12:55:42 pm »

Veltroni: via B. e poi primarie

di Marco Damilano

Una nuova maggioranza per fare la riforma elettorale. Quindi gli elettori del centrosinistra scelgano il candidato premier. E chi vince, vince. Parla l'ex segretario del Pd

(07 ottobre 2010)

Siamo alla fine dell'era berlusconiana? Finisce un governo o qualcosa di più? Walter Veltroni ragiona sui giorni più confusi della politica italiana. "Berlusconi non è un semplice governo, è una stagione della politica italiana", scandisce l'ex segretario del Pd. "L'Italia ha conosciuto diversi ventenni: il fascismo, il terrorismo, il pentapartito del Caf, ora il berlusconismo che ha riscritto un sistema di valori. Berlusconi è un teorico della falsificazione, in modo infantile scarica le colpe del suo fallimento sugli altri, sui complotti dei magistrati. Una parte del Paese ha creduto che Berlusconi avrebbe modernizzato l'Italia. Ma ora che il "sogno" berlusconiano non c'è più, si apre una fase molto pericolosa. L'Italia è un paese a rischio". La soluzione è "un governo di emergenza che cambi la legge elettorale. Fatto cadere Berlusconi, dovremo costruire una coalizione. E solo allora sceglieremo il candidato premier, con le primarie". Bersani? "Chiunque possa vincere".

Lei parla di Italia a rischio. Qual è il pericolo?
"Mettiamo insieme i fatti. Debito pubblico record, crescente distanza tra Nord e Sud, criminalità sempre più arrogante, altro che "il governo che ha sconfitto la mafia". La ripresa della violenza, della questione morale, un disagio sociale diffuso. Si sta sfarinando l'idea della comunità, al suo posto c'è una difesa dell'identità dominata dalla paura, introdotta da Berlusconi e Lega. Come buttare una bomba atomica nel tessuto della società civile. L'Italia è a rischio perché siamo in una fase di transizione, come la fine degli anni Sessanta con piazza Fontana o negli anni Settanta con il rapimento Moro o il '92-'93 delle stragi, pagina su cui non mi rassegno a verità di comodo. Con l'aggravante della potenza informativa berlusconiana. E il rischio che prevalga la rabbia sulla ragione, le urla disperate di Grillo e della Lega che non sono la soluzione. Sono tra i primi ad aver scoperto le potenzialità della Rete. Ma è una politica fragile quella che si affida unicamente ai sondaggi e ai blog per capire cosa si muove nella società".

E dire che Berlusconi alla Camera l'ha citata come un avversario ideale, quando nel 2008 Pd e Pdl si confrontarono alle elezioni...
"Chi gli ha scritto quel discorso voleva fargli citare Calamandrei... Con il Pd volevamo introdurre una novità rivoluzionaria: basta con le coalizioni "contro" qualcuno, facciamo un'alleanza "per", riformista. In risposta, Berlusconi fece il predellino e il Pdl. Ora il Pdl è in crisi perché era un'alleanza contro".

Oggi, però, Pd e Pdl sono morti, o non stanno molto bene. A destra lo dice Fini, a sinistra lei.
"Io e Fini diciamo cose molto diverse. In lui c'è una rottura profonda con Berlusconi, crea un partito nuovo. Io, al contrario, non ho ragioni di conflitto con il segretario del mio partito. Parlo per rafforzare il Pd".

Sarà, ma nel Pd l'hanno accusata di fare il gioco di Berlusconi.
"Mi ha molto sorpreso questa reazione, che ha un brutto sapore di tempi andati. Il documento dei 75 non conteneva critiche né richieste di congressi o cambio di leadership. È un documento unitario, se si concepisce l'unità non come unanimismo, ma come rispetto e valorizzazione delle differenze. Quello che non è stato unitario sono state le reazioni. Quando ero segretario nacque l'associazione Red, con tanto di tesseramento e di tv, e a pochi giorni dal voto in Sardegna Bersani rilasciò un'intervista titolata: "Con Walter ci sono solo i suoi supporter". Io però non ho mai detto che così si faceva il gioco dell'avversario. Avrei forse dovuto aspettare la prossima sconfitta per poi sparare alle spalle del segretario? No, il momento di discutere è adesso".

Si discute di un governo per fare una nuova legge elettorale, con Pd, Fini e Casini: è realistico?
"Noi dobbiamo batterci per due obiettivi. Primo: far cadere Berlusconi, con uno spostamento di forze nella società e non solo con alleanze di Palazzo. Qualcuno tra noi ha pensato (e ha detto) con troppa facilità che questo stava per accadere. Secondo: si può andare a votare con questa legge elettorale? No, sarebbe una follia, fa schifo anche a Casini e Fini che l'hanno approvata. Serve un governo di emergenza di pochi mesi per rifare la legge elettorale". Siamo alla fine dell'era berlusconiana? Finisce un governo o qualcosa di più? Walter Veltroni ragiona sui giorni più confusi della politica italiana. "Berlusconi non è un semplice governo, è una stagione della politica italiana", scandisce l'ex segretario del Pd. "L'Italia ha conosciuto diversi ventenni: il fascismo, il terrorismo, il pentapartito del Caf, ora il berlusconismo che ha riscritto un sistema di valori. Berlusconi è un teorico della falsificazione, in modo infantile scarica le colpe del suo fallimento sugli altri, sui complotti dei magistrati. Una parte del Paese ha creduto che Berlusconi avrebbe modernizzato l'Italia. Ma ora che il "sogno" berlusconiano non c'è più, si apre una fase molto pericolosa. L'Italia è un paese a rischio". La soluzione è "un governo di emergenza che cambi la legge elettorale. Fatto cadere Berlusconi, dovremo costruire una coalizione. E solo allora sceglieremo il candidato premier, con le primarie". Bersani? "Chiunque possa vincere".

Il problema è "quale" legge elettorale.
"Serve il rispetto di due principi essenziali: il governo deve essere scelto dai cittadini. E i parlamentari devono essere votati e non più nominati. Con collegi uninominali e con primarie fissate per legge".

Si può fare un governo così senza Berlusconi, o addirittura contro?
"Berlusconi non può gridare al tradimento. Gli italiani li ha traditi lui: due anni fa lo hanno votato per governare, non per fare altre elezioni".

Sui principi che lei indica il Pd è diviso. C'è chi vuole l'opposto: un governo eletto non dai cittadini, ma dal Parlamento, cioè dai partiti.
"In questa idea c'è l'illusione di ritrovare un mondo scomparso da tempo. Si vuole tornare in un luogo che non esiste più, quello dei partiti pesanti che facevano e disfacevano i governi e occupando impropriamente, come denunciò Berlinguer, spazi della società civile. E invece serve una democrazia più forte perché più lieve. E il bipolarismo è il bambino da salvare. Berlusconi ha impedito il bipolarismo civile. Ma dopo di lui si tornerà a votare, con una nuova legge. E finalmente si confronteranno una destra europea e un centrosinistra riformista".

Guidato da chi? Bersani è il suo segretario, ma è anche il suo candidato premier?
"Il centrosinistra è da anni una formazione calcistica, parliamo solo di nomi...".

Ma è stato lei a invocare il "papa straniero". In contrasto con lo statuto in cui c'è scritto che il candidato premier è il segretario...
"Ho parlato di papa straniero per stabilire, una volta per tutte, che io non sono in corsa. Per il futuro dico che, fatto cadere Berlusconi, dovremo costruire una coalizione. E solo allora sceglieremo il nome del candidato premier, con le primarie".

Insisto: Bersani? Casini? Vendola?
"Per me, chiunque possa vincere. Dividersi ora su un nome sarebbe pazzesco".

E con quale programma? Per esempio: il Pd darà sempre ragione alla Cgil? O è disposto a riconoscere le ragioni di Sergio Marchionne?
"All'Italia a rischio serve un Pd che faccia una rivoluzione democratica. Con due punti cardine: lotta alla precarietà e legalità. Il punto non è dare ragione a Marchionne, ma costruire un nuovo patto sociale e fiscale. E ripensare il ruolo dei sindacati, che non possono limitarsi a organizzare i pensionati, devono riprendere la rappresentanza dell'interesse generale del Paese, in particolare dei meno tutelati e garantiti, a cominciare dall'esercito di milioni di precari".

Con Berlusconi deve andare in pensione la generazione che a sinistra ha provato a combatterlo? Nel '94 lei aveva 39 anni, Massimo D'Alema 45. Più o meno l'età dei Miliband, oggi.
"Nel centrosinistra abbiamo cambiato sei o sette leader, nel centrodestra sono rimasti sempre gli stessi. Abbiamo rottamato fin troppo. E far terminare la nostra generazione con Berlusconi sarebbe la certificazione finale della subalternità al berlusconismo. La mia generazione politica è nata in un passaggio storico, la trasformazione del Pci in Pds. Non abbiamo mai detto di voler cambiare i dirigenti, volevamo cambiare la storia. Invito i giovani a fare lo stesso: sono le idee che fanno la leadership, non il contrario. E poi vedo in giro tanti giovani vecchi, nuovi solo all'anagrafe".

   
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« Risposta #48 inserito:: Ottobre 15, 2010, 10:55:29 pm »

Chiesa, vade retro Berlusconi

di Marco Damilano

Il Vaticano si interroga sul dopo Silvio. E cerca nuovi referenti. Con un occhio alla possibile intesa Pd-Udc-Rutelli

(13 ottobre 2010)


Per mesi si sono frequentati tra i corridoi di marmo dell'universtà Gregoriana, nell'auditorium della Cei in via Aurelia e nella sede dell'Abi, l'Associazione bancaria italiana, Palazzo Altieri in piazza del Gesù, indirizzo altamente evocativo dato che da lì la Dc per mezzo secolo ha fatto il bello e il cattivo tempo. Vescovi, esponenti dell'associazionismo bianco e politici di tutti gli schieramenti. Incontri preparatori, li definiscono in gergo curiale, in vista della Settimana sociale della Chiesa italiana, gli stati generali del mondo cattolico inaugurati giovedì 14 ottobre a Reggio Calabria dal discorso del presidente della Cei cardinale Angelo Bagnasco. Ma l'ambizione è molto più vasta: voltare pagina. Chiudere una lunga stagione e iniziarne una nuova.

"Un'agenda di speranza per il Paese", si intitola il documento di 30 pagine distribuito a oltre mille delegati di tutte le diocesi. La speranza dei cattolici di tornare a calcare da protagonisti, e non più solo da comprimari, la scena politica. Il sogno di aprire una fase nuova, simile a quella post-fascista, quando dopo lunga attesa i cattolici approdarono alla guida del Paese. L'agenda di un'Italia senza il Cavaliere. Oltre Berlusconi, dopo Berlusconi. Un'agenda in cinque punti: intraprendere, educare, includere le nuove presenze, slegare la mobilità sociale, completare la transizione istituzionale. Il manifesto della Chiesa italiana per il post-berlusconismo, alternativo ai cinque punti su cui il premier ha chiesto la fiducia alle Camere. Con qualche sorpresa. I "principi non negoziabili", per esempio, sbandierati per anni dalla gerarchia ecclesiastica come unico criterio di giudizio elettorale per i politici, la difesa della vita, la difesa della famiglia, la scuola cattolica, arrivano in fondo al documento, nella penultima pagina. Le priorità sono altre: lavoro e fisco, educazione, immigrazione.

La novità più grande è nell'ultimo punto, il più politico, le riforme. "Serve qualcosa di più di una buona manutenzione istituzionale. Va completata la transizione istituzionale", si legge nel testo. E la soluzione indicata, una volta tanto, non lascia dubbi: "L'incertezza scaturisce dal mancato completamento del modello competitivo che rafforza i ruoli del governo, dell'opposizione e dell'elettore. Bisogna consentire in modo pieno e trasparente agli elettori di scegliere leader e partito (o coalizione) di governo prima del voto, per permettere un chiaro giudizio dei governati sui governanti".

Un bel cambio di rotta. Il bipolarismo all'italiana agonizza, il Pdl non c'è più, dopo Fini lo ammette anche Berlusconi, il Pd vagheggia alleanze da Casini e Vendola, nelle aule parlamentari proliferano le compagnie di ventura, spesso formate da un singolo condottiero. Ma dalla Cei invece, e proprio in questo momento, giunge una benedizione piena per la competizione a due tra gli schieramenti, uno vince l'altro perde. Grande centro addio? E stop al modello tedesco, ai terzi poli, al sogno di Casini di fare da ago della bilancia tra Pdl e Pd? "La democrazia competitiva è come la Champions League: la finale si gioca in due, al torneo ci si può iscrivere in quindici o in cinquanta. L'importante è che alla fine si sappia chi ha deciso cosa, come avviene a livello amministrativo con i sindaci", risponde il sociologo Luca Diotallevi, vice-presidente del comitato organizzatore della Settimana sociale.

Cinquantenne, umbro di Foligno, cresciuto nella Fuci, è l'ideologo del nuovo corso della Cei modello Bagnasco: riaprire le porte alla politica. Oddio, fa notare Diotallevi, non che i cattolici abbiano mai smesso di contare: "Da quando c'è il bipolarismo alle elezioni due volte ha vinto il centrodestra, due volte il centrosinistra, in tutti i casi, lo dimostrano le ricerche di D'Alimonte e Mannheimer, i cattolici praticanti sono stati decisivi. Ma ora, dicono il papa e il cardinal Bagnasco, di fronte a problemi nuovi serve una generazione politica nuova. Una generazione, attenzione: non solo né innanzitutto schieramenti o partiti nuovi".


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« Risposta #49 inserito:: Ottobre 30, 2010, 12:33:04 am »

Bersani tenta il miracolo

di Marco Damilano (26 ottobre 2010)


Il rischio c'è. A Milano, ad esempio, in vista delle primarie del 14 novembre per il candidato da contrapporre a Letizia Moratti, i sondaggi danno quasi alla pari il nome ufficiale del Pd, l'architetto Stefano Boeri, e l'avvocato Giuliano Pisapia, candidato della sinistra vendoliana. "E se dopo la Puglia dovessimo perdere le primarie anche a Milano verrebbe giù tutto", ammettono in largo del Nazareno. Per questo i circoli del Pd sono impegnati come mai negli ultimi anni a sostegno dell'esterno Boeri. A Torino, dove si vota in primavera per il Comune, i notabili del Pd sono divisi tra chi vorrebbe candidare il rettore del Politecnico Francesco Profumo, chi spinge per primarie a tre con Roberto Placido, Davide Gariglio e Roberto Tricarico, e chi vorrebbe mettere in campo il pezzo da novanta Piero Fassino, con l'appoggio dell'uscente Sergio Chiamparino. A Bologna c'era la candidatura del super-popolare Maurizio Cevenini, ma un improvviso malore l'ha rimessa in discussione. E a Napoli si faranno le primarie, tra l'ex ds Umberto Ranieri, legato a Giorgio Napolitano, e i due ex bassoliniani Nicola Oddati e Andrea Cozzolino. Ma con quale schema di gioco non si sa.

Rese dei conti locali che la segreteria del Pd fatica a controllare. Troppo impegnata a spegnere le tensioni tra i big del partito. L'operazione "Nuovo Ulivo" dispiace a molti. A Veltroni, che non smette di invocare il papa straniero, il candidato extra-politico per la guida del centrosinistra alle elezioni che ha le sembianze di Luca di Montezemolo. Ma il Nuovo Ulivo non entusiasma neppure il principale azionista del Pd, Massimo D'Alema. Convitato di pietra al pranzo Bersani-Vendola. "Nichi, guarda che Massimo non ti vuole bene", ha spiegato il segretario. Bella notizia, si dirà: ma forse Bersani intendeva dire che anche con lui i rapporti non sono più idilliaci. Nel Pd aumenta l'insofferenza verso le manovre dell'ex premier, la triangolazione di D'Alema con Casini e soprattutto con Gianfranco Fini (i due si vedono nel fine settimana ad Asolo per il convegno delle fondazioni Italianieuropei e Farefuturo). Relazioni che anche Bersani ha preso a coltivare in prima persona. E un Bersani che dà prova di volersi emancipare dalle tutele e giocare la sua partita da leader non riscalda troppo D'Alema. Al punto che l'hanno sentito lamentarsi: "Che torno a fare in Parlamento? Sono sempre all'estero, ormai ho una dimensione internazionale...".

Per ora è appena una tentazione, clamorosa: l'ex premier potrebbe decidere di passare la mano, di non candidarsi alle prossime elezioni. Per dare una lezione ai rottamatori alla Matteo Renzi che lo vorrebbero spedire in pensione. E mettersi alla finestra, come riserva della Repubblica, in attesa di qualche alto incarico istituzionale. Chissà se per Bersani è una buona o una cattiva notizia.

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« Risposta #50 inserito:: Dicembre 16, 2010, 10:00:42 pm »

Casini in vista

di Marco Damilano

Le lusinghe di Berlusconi azzoppato alla Camera. Le aperture della Lega.

Così il capo dell'Udc conquista la leadership del centro e diventa il perno dei giochi politici.

Intanto con Fini e Rutelli dà vita al Polo della Nazione

(16 dicembre 2010)

L'aveva annunciato agli amici la notte prima della battaglia: "Domani, comunque vada, sarà un successo". Convinto che, in ogni caso, il 14 dicembre avrebbe rappresentato il capolinea per Silvio Berlusconi, costretto a inseguire il voto dell'ultimo degli Scilipoti per sopravvivere. E quando nell'aula l'ha visto soffrire appeso alle bizze dei peones, ha capito che la fase del berlusconismo onnipotente e trionfante è finita. E che se il Cavaliere vuole un finale di partita sereno, una dignitosa pensione, da lui dovrà passare. Mentre nell'aula di Montecitorio volavano ceffoni e pallottolieri, un solo uomo poteva passeggiare tra le macerie del centrodestra vistosamente soddisfatto. Un teorico del lento strangolamento dell'avversario, scuola democristiana, molto più efficace del beau geste generoso ma inutile di moda a destra, tra i finiani. No, a cercare la bella morte Pier Ferdinando Casini non ci ha mai tenuto. E ha considerato un piccolo trionfo personale il pellegrinaggio di Berlusconi tra i banchi dell'Udc. Il Cavaliere sale da Casini a votazione non ancora conclusa, sotto gli occhi dello sconfitto Gianfranco Fini. Pacche, buffetti, battute ("Pier, ma perché non ti tingi i capelli? Sembri più catacombale di me..."), tutti i deputati centristi abbracciati intorno al loro leader e al premier come giocatori di rugby in pacchetto di mischia, Ferdinando Adornato che si affanna a saltellare come su di una scaletta invisibile per farsi notare da quel Berlusconi che aveva mollato tre anni fa e che forse, chissà, tornerà alleato.

Fosse stato per il Cavaliere quei 35 deputati non sarebbero mai dovuti esistere: assorbiti nel 2008 nel Pdl, come An, e destinati a essere triturati e digeriti. O lasciati fuori dal Parlamento, per mancato raggiungimento del quorum. Invece Pier è lì, e il voto della Camera del 14 dicembre gli spalanca magnifiche sorti. La maggioranza berlusconiana si è dissolta, impossibile governare. Fini, l'altro aspirante leader del terzo polo, ha messo in gioco nella sfida mortale con il Cavaliere gran parte della sua credibilità politica. Mentre Casini non aveva nulla da perdere, lui la sfiducia l'ha già votata quasi 40 volte dall'inizio della legislatura, e molto da guadagnare. La ripresa di un corteggiamento serrato da parte del Pdl. La caduta del veto della Lega nei suoi confronti, pochi istanti dopo il voto, con Umberto Bossi che prova a ritagliarsi il ruolo di gran mediatore in una nuova maggioranza Pdl-Lega-Udc. La riconquista della centralità politica, insomma, da cui si gestiscono tutte le manovre.

Un anno fa, giusto di questi tempi, Pier aveva lanciato l'idea di un nuovo Cln anti-berlusconiano, candidandosi a guidarlo. Il ruolo gli è stato poi soffiato da Fini e a lungo Casini ha accettato di fare da comprimario. Ora le parti si invertono: "Dal 14 dicembre", ha spiegato il leader ai suoi, "io non parlo più a nome solo dell'Udc, ma di tutta l'area centrale, da Fini a Rutelli. Berlusconi ci offrirà l'impossibile, ma noi dobbiamo resistere sulla nostra linea di sempre: non entriamo in questo governo a fare da stampelle, magari in vista di scelte dolorose imposte dalla crisi economica. Vorrebbero condividere con noi il prezzo elettorale di una patrimoniale che colpirà imprese e famiglie al Nord, ma il giochino non riuscirà. Se Berlusconi vuole davvero aprire una pagina nuova la strada è sempre la stessa: deve dimettersi e lanciare un governo di unità nazionale con dentro le forze responsabili, compreso il Pd. Se non lo farà ci saranno le elezioni: ma sarà chiaro che se si va al voto è tutta colpa sua".

Eppure Berlusconi ha già squadernato il suo bouquet: unione dei moderati, nuovo programma di governo con aperture sulla legge elettorale, e nuova compagine ministeriale, ovvero più poltrone per tutti, nel governo e non solo. Virtualmente in palio è la presidenza della Camera, in caso di dimissioni di Fini, che potrebbe andare a Rocco Buttiglione. Nel governo traballa il ministro dello Sviluppo, l'inesistente Paolo Romani: il suo incarico è stato già offerto al transfuga del centrosinistra Massimo Calearo, decisivo per salvare il governo, ma potrebbe tornare utile per accontentare i centristi in crisi di astinenza da potere.

   
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« Risposta #51 inserito:: Febbraio 27, 2011, 05:49:39 pm »

Fini rilancia: 'Fli non muore'

di Marco Damilano

I ritorni nel Pdl? «Un delirio, frutto di allucinazioni o malafede»

Berlusconi? «Vuole uno stato di conflitto perenne, un'ordalia infinita».

Futuro e Libertà? « Andiamo avanti verso una destra liberale: sarà una traversata nel deserto ma c'è in gioco un grande progetto politico».
Parla il presidente della Camera

(24 febbraio 2011)

No, non mi sento uno sconfitto. Mi sento in battaglia, fermamente intenzionato a combattere per un'altra idea di centrodestra. Saranno gli elettori a dire alla fine se questa idea ha cittadinanza. O se l'unico centrodestra possibile in Italia è quello di Berlusconi e di Bossi". Si scioglie il gruppo di Futuro e Libertà al Senato, continua il transito di ex fedelissimi verso Palazzo Grazioli, ma visto da vicino il presidente della Camera non sembra affatto il politico finito di cui sghignazzano i peones del Pdl alla buvette di Montecitorio. Calma zen, determinato, in un lungo colloquio Gianfranco Fini ripercorre il suo anno più burrascoso, dalla nascita di Fli fino al travaglio di questi giorni. Gelide considerazioni su chi se ne va: "Un delirio: frutto di allucinazione collettiva, o di malafede". E la consapevolezza che la strada è ancora molto lunga: "Una traversata nel deserto a piedi, l'esito è tutt'altro che scontato. In gioco c'è molto di più di un gruppo parlamentare: c'è un progetto politico ambizioso e, banalità, il futuro della persona che anima il progetto. Comunque Fli non vuole partecipare allo scontro quotidiano tra berlusconiani e anti-berlusconiani: sono due facce della stessa medaglia".

Un progetto che per Fini viene da lontano: "Non c'è nessuna improvvisazione, come qualcuno pensa: prima di essere brutalmente estromesso dal Pdl, con la fondazione Farefuturo avevo cercato di proporre un centrodestra sensibile ai diritti civili, rispettoso delle istituzioni, innovativo sull'integrazione degli stranieri". Nessuna volontà di rottura, all'inizio. Neppure nella direzione Pdl dello scontro pubblico con Berlusconi, quello del "che fai mi cacci?", finito sulle magliette dei giovani finiani: "Non sapevo cosa avrebbe detto Berlusconi quella mattina, quel che è successo è stata una sorpresa anche per me. La verità è che sono stato messo alla porta: Berlusconi è talmente l'opposto dei valori liberali che sbandiera da non poter tollerare alcun tipo di dissenso".

La traversata nel deserto parte da lì. Insieme al mix di attacchi contro chi non si piega e di lusinghe verso chi torna indietro che fanno parlare al fondatore di Fli di "armi seduttive del potere finanziario e mediatico". Mai si è visto un presidente della Camera denunciare l'esistenza di deputati disposti alla campagna acquisti, ma Fini puntualizza: "Mi sono meravigliato a vedere le mie frasi così tradotte: deputati comprati. Il mio ragionamento è più ampio: il conflitto di interessi esiste, lo sa bene anche la sinistra che quando ha governato ha ignorato la questione, in una fase in cui la messa all'indice di chi si oppone diventa il tratto distintivo, contrastare il gigante comporta gravi rischi. Ma la nuova anima del berlusconismo non è il conflitto di interessi, è l'oggettivo interesse al conflitto. C'è un interesse al conflitto permanente per creare uno stato di tensione, una perenne ordalia in cui si fa vivere agli italiani sempre l'ultima ora della campagna elettorale decisiva. Berlusconi alza muri per far dimenticare i suoi fallimenti, scava fossati contro i nemici: i comunisti, i giornalisti, i magistrati, gli alleati infedeli, Santoro, Fini... Va ben oltre il conflitto politico: come ha sottolineato il capo dello Stato, il pericolo è scatenare un conflitto istituzionale. Berlusconi ha delle istituzioni la stessa idea che ha del Pdl: una concezione proprietaria che lo porta ad attaccare i giudici, la Consulta, la Camera, fino a lambire il Quirinale".

Oggi, però, imprevedibilmente il principale nemico dell'uomo di Arcore è diventato il leader della destra italiana, ieri delfino in pectore, ora accusato di ogni nefandezza, compresa quella di aver stretto un patto occulto con le toghe per bloccare ogni riforma sulla giustizia. "Risibile", reagisce Fini: "Io vado fiero di aver esercitato, nella fase in cui ero determinante nel Pdl, un notevole potere di interdizione per bloccare presunte riforme che non avevano nulla a che fare con l'interesse generale". Sul caso Ruby il presidente della Camera sgombra il campo dai sospetti: "Non è né saggio né giusto auspicare che Berlusconi possa essere costretto a rassegnare le dimissioni per via giudiziaria. Berlusconi va sconfitto politicamente, con le elezioni". E ripete quello che dichiarò a vicenda appena scoppiata, quattro mesi fa: "Se quella telefonata c'è stata, ci sarebbe un uso privato di incarico pubblico". "Nulla da aggiungere oggi, se non che sottoscrivo in pieno quanto ha detto il capo dello Stato: l'imputato ha diritto di difendersi nel processo, non dal processo. Ed è un'ipocrisia dire: il giudice naturale è il Tribunale dei ministri. Se fosse davvero così basterebbe che il Pdl chiedesse alla Camera l'autorizzazione a procedere in tal senso. Altrimenti è tutto un infingimento. Un gioco degli specchi".

 
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« Risposta #52 inserito:: Aprile 25, 2011, 12:24:37 pm »

Opposizione

Allora, lo trovate un leader?

di Marco Damilano

Berlusconi crolla in tutti i sondaggi. Il Pdl è diviso. La maggior parte degli italiani vorrebbe voltare pagina.

Ma né il Pd né gli altri partiti riescono ancora a coagulare questo potenziale di consenso verso un'alternativa

(22 aprile 2011)

Ostruzionismo parlamentare, manifestazioni di piazza, campagne di affissione, tentativi di spallata, maratone televisive.
Perfino una seduta collettiva di psicanalisi, e per una volta non è un modo di dire: nella sala del Mappamondo al piano nobile di Montecitorio la settimana scorsa c'erano un centinaio di persone ad ascoltare lo psicanalista lacaniano Massimo Recalcati, invitato a parlare dell'odio in un seminario organizzato dal Pd sulle passioni degli italiani. Le provano tutte per mandare a casa Silvio Berlusconi, non c'è che dire, fedeli al mandato del segretario Pier Luigi Bersani: "Quello non molla, noi dobbiamo durare un minuto più di lui".
Le altre opposizioni non sono da meno.

C'è Antonio di Pietro con i referendum su acqua e legittimo impedimento (quello sul nucleare che avrebbe consentito di raggiungere il quorum previsto per la validità è stato furbescamente disinnescato dal governo), ci sono Pier Ferdinando Casini e Francesco Rutelli in campagna elettorale per il Terzo Polo, c'è Gianfranco Fini che riceve l'Associazione nazionale magistrati nel giorno di massimo scontro tra Berlusconi e le toghe, Nichi Vendola gira l'Italia come un predicatore, Luca Cordero di Montezemolo attacca la politica economica del governo e incombe... Anche se poi, alla prova dei fatti, l'affondo più doloroso per il Cavaliere arriva da una figura che a rigore non appartiene alla minoranza, anzi, non rappresenta una parte: il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, tocca a lui ripulire la lista di Milano del Pdl dal kamikaze anti-pm e avvertire il premier che sulla giustizia il Quirinale non potrà tacere.

L'Opposizione c'è, l'Alternativa ancora tarda ad arrivare. Perché, a differenza di quanto avveniva fino a pochi mesi fa, sarebbe a dir poco ingeneroso sostenere che in Parlamento l'opposizione, anzi, le opposizioni, siano assenti o poco combattive. Nel corso della legislatura alla Camera sono riuscite a mandare il governo sotto per ben 72 volte. E durante le votazioni sulla prescrizione breve, per esempio, hanno dato battaglia sulle procedure, emedamento per emendamento, guidati da un professionista del cavillo regolamentare come il deputato Roberto Giachetti, vecchia scuola radicale. Ma quando si è votato a scrutinio segreto è arrivata la sorpresa più amara: invece di perdere consensi la maggioranza ne ha guadagnati, almeno sei deputati dell'opposizione nell'anonimato si sono aggiunti a Pdl e Lega, forse di più. E il catenaccio berlusconiano non sarà un bello spettacolo a vedersi, 314 deputati tenuti insieme dai Responsabili, ma può bastare per provare ad aprire nuovi fronti. "Dopo la giustizia Berlusconi tenterà di eliminare la legge sulla par condicio. E poi passerà a modificare la legge elettorale, per tagliare le gambe al nascente Terzo Polo", prevede il giovane stratega dell'Udc Roberto Rao.

Basta opporsi nelle aule parlamentari, meglio uscire e andare in piazza. Nel Pd si sono scontrati sull'alternativa due big come Massimo D'Alema e Rosy Bindi, per arrivare alla saggia conclusione che si possono fare entrambe le cose. E infatti, dal 13 febbraio, il giorno della manifestazione delle donne, la più affollata e coinvolgente, al Palasharp convocato da Libertà e Giustizia (5 febbraio), ai cortei per la Costituzione (12 marzo), alla Notte bianca per la democrazia (5 aprile), che hanno visto sfilare insieme esponenti della sinistra radicale e deputati di Futuro e libertà, per non parlare delle manifestazioni convocate da Pd, Idv, Emergency, Popolo Viola, giovani precari, non c'è stato fine settimana che sia trascorso senza le piazze piene di manifestanti contro il governo. E la stanchezza si avverte anche tra i più entusiasti.

Una mobilitazione che ricorda un'altra stagione, il biennio 2001-2003. Anche in quella stagione c'era Berlusconi al governo, alle prese con le leggi ad personam, e l'opposizione in piazza nelle sue varie sfaccettature: i girotondi di Nanni Moretti, la Cgil di Sergio Cofferati, i no global, i pacifisti. Ma in quel caso le piazze raggiunsero l'obiettivo di risvegliare i partiti. E il centrosinistra vinse tutte le elezioni intermedie, le amministrative, le europee, le regionali, era in attesa del suo candidato premier, Romano Prodi, e coltivava un progetto, l'alleanza tra l'Ulivo e Rifondazione. Mentre oggi, nonostante gli ultimi sondaggi che danno in testa sia pure di poco la coalizione di centrosinistra (il 43,3 contro il 41,3 del Pdl-Lega) e largamente in testa con una grande alleanza allargata al Terzo Polo, il 54,5, non si vede all'orizzonte un leader, un progetto, e neppure un'alleanza.

Alle amministrative del 15 maggio, nelle grandi città dove il voto è politicizzato, Torino, Napoli, Bologna, Milano dove la partita è decisiva per il governo nazionale, il centrosinistra e il Terzo polo Udc-Fli-rutelliani corrono divisi, in attesa dei ballottaggi. Nessun laboratorio di nuove alleanze, almeno nei comuni che contano. Niente di paragonabile alle elezioni di Brescia nel 1994 dove l'allora Pds e il Ppi candidarono sindaco Mino Martinazzoli, anticipando di qualche mese l'alleanza dell'Ulivo. Tra Bersani e Casini, per ora, la frequentazione è assidua soprattutto nei convegni e nelle presentazioni dei libri dove fanno coppia fissa. Uno snervante corteggiamento, per il matrimonio non è ancora tempo. Eppure, come ha detto Massimo D'Alema in un dibattito con Paolo Flores D'Arcais, "c'è un arco di forze che va dalla destra democratica di Fini alla sinistra radicale che vale il 60 per cento del Paese". Certo: il problema è come metterlo insieme. Perché, per ora, è uno schieramento "contro". E D'Alema, da sempre considerato il più inciucista dei leader della sinistra, è oggi l'esponente più anti-berlusconiano del Pd.

Se sul fronte alleanze siamo ancora alle buone intenzioni, sul programma l'opposizione è al libro dei sogni. Quello del Pd si chiama Pnr, Programma nazionale di Riforma per l'Italia, in risposta al Pnr presentato da Giulio Tremonti. Quando il responsabile economico del partito Stefano Fassina ha protestato con il "Corriere" per lo scarso spazio dedicato dal quotidiano all'evento di una conferenza stampa del Pd, si è beccato una gelida replica di Ferruccio De Bortoli: "Le vostre proposte sono così innovative che passano inosservate. E lei sa che il "Corriere" è aperto a ogni vostro contributo. Anche il più inutile". In linea con una perfida battuta riservata ai Bersani boys in tv da Francesco Storace: "So' ragazzi che studiano". Bravi, preparati, assenti dal dibattito politico, senti dire di loro.

Il Pnr ombra del Pd contiene, ad avere la pazienza di leggerlo, alcune buone idee (per esempio, l'introduzione del salario minimo per i lavoratori esclusi dal contratto nazionale), accanto a impegni a dir poco generici e per di più espressi con un linguaggio di non facile presa ("Va abbandonata la strada iniqua ed inefficiente dei tagli ciechi e riavviata e potenziata un'analisi approfondita di tutte le poste del bilancio pubblico attraverso processi di spending review...").

Problema di comunicazione? Sì, certo. Non bastava la massiccia campagna di affissione del segretario Bersani, quella con il leader un po' dimesso in maniche di camicia e la scritta "Oltre", ora ci si mettono anche i candidati sindaco del centrosinistra a fare la felicità dei blogger con i loro slogan strampalati. Medaglia d'argento, il prefetto Mario Morcone, in corsa a Napoli con questo biglietto da visita: "Genio e regolatezza". Geniale, in effetti. Medaglia d'oro, il manifesto di Virginio Merola, candidato sindaco a Bologna: "Se vi va tutto bene, io non vado bene", con sottolineatura del "non". Un capolavoro di messaggio negativo, quello che resta di una macchina propagandistica leggendaria che ha fatto la storia della comunicazione politica in Italia fino all'avvento di Berlusconi. E meno male che negli ultimi mesi il Pd si è dotato di un'apposita struttura (ribattezzata Gamma, per contrapporla alla Delta di palazzo Grazioli) che ha la missione di curare la guerriglia comunicativa dei democratici su Internet. La tv del Pd YouDem riflette la sensazione di un partito ripiegato su se stesso, con i dirigenti della segreteria impegnati in una continua opera di promozione di se stessi e delle loro iniziative. Cosa arrivi di tutto questo attivismo agli elettori e ai settori della società interessati è un mistero. Alla regola dell'autoreferenzialità non sfugge neppure un personaggio schivo come Bersani, onnipresente su Youdem, sui manifesti, a dire la sua sullo scibile umano. E mentre il segretario chiede a gran voce le elezioni anticipate l'ex segretario Walter Veltroni si fa vivo firmando un appello con Giuseppe Pisanu per un "governo di decantazione".

Una Babele che non riguarda solo il Pd. In Futuro e libertà gli scontri tra l'anima movimentista di Fabio Granata e di Flavia Perina e quella filo-berlusconiana di Adolfo Urso e Andrea Ronchi sono pane quotidiano. A Milano il Terzo Polo si è diviso sul candidato sindaco, in testa c'era il popolarissimo Bruno Tabacci, che però aveva il difetto di essere un fuoriuscito dell'Udc. E la scelta è caduta sull'ex Pdl Manfredi Palmeri, di sicuro non un peso massimo.

Perfino la stella di Vendola sembra appannata. Mentre i sondaggi segnalano un possibile exploit delle liste a cinque stelle, il movimento di Beppe Grillo, dopo il risultato a sorpresa di un anno fa alle elezioni regionali. Se i grillini toccheranno percentuali significative nelle grandi città, a Milano, Torino, Bologna, al vasto schieramento di opposizione che insegue D'Alema si aggiungerà un nuovo soggetto che non può essere incasellato nei vecchi schieramenti. Un problema in più. In attesa che si affronti, finalmente, la madre di tutte le questioni: la leadership. Dopo le amministrative diventerà una necessità. Non si può combattere Berlusconi senza un leader, un progetto, un'alleanza. Nel '95, all'epoca del patto vincente tra D'Alema e i cattolici democratici del Ppi, la scelta di candidare Prodi fu determinante per l'invenzione dell'Ulivo e per il progetto di portare l'Italia nell'euro. Oggi il paradosso è che un'opposizione così ridotta è comunque in testa ai sondaggi e potrebbe espugnare tra tre settimane qualche città importante. Ma l'alternativa al berlusconismo ancora non c'è.

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« Risposta #53 inserito:: Giugno 01, 2011, 06:09:50 pm »

Esclusivo
(25 maggio 2011)

'B. muore e il veleno è Santanchè'

di Marco Damilano

«Non ha mai capito niente di politica. E' ambiziosa, ma è pura plastica senza contenuto. Ha plagiato il Cavaliere, stanco e invecchiato: quasi una circonvenzione di incapace. E presto lo tradirà», Parla  Paolo Cirino Pomicino: uno che la conosce molto bene


Onorevole Paolo Cirino Pomicino, lo ammetta: tutta colpa sua? «Sì, lo confesso. Sono io il colpevole dell'ascesa di Daniela Garnero Santanchè. Fui io a presentarla a Silvio Berlusconi nel Duemila. Attraccammo alla Certosa, Silvio indossava un kaftano bianco, Daniela era emozionata». Attraverso la carriera della Crudelia del Pdl, l'ex ministro, uno dei potenti della Prima Repubblica, ripercorre vent'anni di berlusconismo. Miseria senza nobiltà.

Quando conobbe la Santanchè?
«Nel 1988, ero ministro della Funzione pubblica. Lei era fascista fino all'inverosimile, non lo nascondeva».

E lei invece aveva fama di tombeur de femmes...
«Una fama usurpata, ma quella volta respinsi ogni provocazione. Anche perché non era rivolta a me, ma a un ministro».

D'accordo: ma allora perché era così amico della Santanchè?
«Ho sempre avuto attenzione per le pecorelle smarrite...».

A quale ovile voleva portarla?
«La mia megalomania mi spingeva a pensare che le avrei insegnato cos'è la politica vera. E invece scoprii quasi subito che Daniela era puro marketing, il prodotto non c'era. Una volta la chiamai ladra di cognomi perché usava quello dell'ex marito. Mi rispose: "Santanchè non è un cognome, è un brand"».

Aveva già le idee chiare. Altri segnali di ambizione?
«Nel '95 mi assillò perché partecipassi alla giuria di una gara culinaria da lei presieduta. Mi fecero assaggiare pietanze immangiabili, finché me ne portarono una disgustosa ed esclamai: "Fa schifo!". Mi arrivò un pugno, era lei: "Zitto, è il mio piatto, devi farmi vincere". Vinse, infatti. E poiché presiedeva la giuria fece consegnare il premio al compagno Canio Mazzaro. Lui, il mio più caro amico, commentò: "La tua amica non conosce vergogna..."».

Girare con Pomicino in quegli anni, però, era un atto di coraggio...
«Daniela diceva che i suoi referenti politici erano Andreotti e Cirino Pomicino, uno sotto processo per mafia, l'altro per corruzione.
Ma lo faceva per acquistare credito. Stare con me le consentiva di entrare in politica. Nel '99 fu eletta consigliera provinciale a Milano. E poi la presentai a Berlusconi. Con Silvio magnificai le sue qualità: la tenacia, l'ambizione che in quel momento non era ancora sfrenata, la rapidità di intelligenza che può diventare una circostanza aggravante...».

Un anno dopo, infatti, diventò deputato, in quota An.
«E lì cominciarono scene indimenticabili. Un giorno mi si presentò la seguente visione: Daniela scosciata intenta a farsi fare una pedicure, dietro di lei un professore di storia con un libro in mano che le raccontava le guerre di indipendenza. Il poveretto era stato assunto per farle ripetizioni di storia, nonostante la Santanchè vantasse una laurea in scienze politiche».

E lei, invece, su quale materie doveva esibirsi?
«Ero il ghost writer, scrivevo i discorsi. Una fatica allucinante! Le avevo suggerito di entrare in commissione Bilancio».

Voleva continuare a dettare legge tramite la sua amica?
«Io dettavo una sola cosa, i suoi discorsi. Lei li scriveva e poi li rileggeva ad alta voce in casa, costringendo la mia compagna a cronometrarla per restare nei tempi della Camera. Una volta Publio Fiori in aula la elogiò sarcasticamente: "Ottimo intervento, onorevole Pomicino"».

Lei invece era fuori dal Parlamento. Chissà la frustrazione!
«Assolutamente no perché intanto ero diventato Geronimo. I rapporti si guastarono quando tornai in Parlamento. Frequentando uomini di potere si era convinta di essere una delle donne più influenti d'Italia. Mi disse che avrebbe potuto scatenarmi contro i poteri dello Stato.
Il 9 aprile 2007, mentre entravo in sala operatoria per il trapianto di cuore, rivelò a una persona vicina di sperare che io non mi risvegliassi più. Mai sentito un politico augurare la morte a un collega».

Come si spiegò questo odio?
«Nascondeva una preoccupazione: morto io non avrei più potuto rivelare le cose che sapevo della sua vita privata».

A cosa si riferisce?
«Non dico nulla. Sono un gentiluomo napoletano: della sua vita privata non parlerei e non parlerò».

   
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« Risposta #54 inserito:: Giugno 04, 2011, 07:30:06 pm »

Se B. finisce col 'botto'

di Marco Damilano

Non bisogna illudersi che la nomina di Alfano esaurisca le strategie del premier.

Nelle istituzioni si parla chiaramente di un uomo ormai capace di tutto: «Non stupitevi se tra un mese succederà qualcosa di serio...»

(03 giugno 2011)

Il Grande Sconfitto è lì, a un passo, circondato da babbione e prefetti in pensione che Gianni Letta gli presenta indefessamente per evitare che si senta solo. Nei giardini del Quirinale, festa della Repubblica, Giorgio Napolitano, Re Giorgio, riceve seduto l'omaggio di alte cariche e vip, una fila interminabile di ambasciatori, giornalisti, attori, accanto a lui Silvio Berlusconi appare isolato e irrequieto. Un uomo delle istituzioni, una vita al servizio dello Stato e un'onorata carriera politica alle spalle, osserva la scena. Conosce bene Berlusconi e non trattiene l'inquietudine: «Quell'uomo non mollerà ed è capace di tutto. Temo che nelle prossime settimane possa perfino succedere qualcosa di brutto».

Cos'è ancora in grado di fare un premier che ha perso le elezioni amministrative in casa, a Milano e ad Arcore, a Napoli e in Sardegna, e che nell'ultimo vertice internazionale, al G8 di Deauville, si è coperto di ridicolo informando Barack Obama dell'esistenza in Italia di una dittatura dei giudici di sinistra? «Non sia superficiale: quell'orrenda figuraccia in favore di telecamera non si spiega, in effetti. A meno che...».

A meno che? Il servitore dello Stato esita un istante. E' abituato a pesare bene le parole. Passano Matteo Renzi con la moglie, il ministro Raffaele Fitto e Mariastella Gelmini con le ballerine ai piedi, Cesare Geronzi e Umberto Vattani. Il tono si abbassa ancora di più: «A meno che quella scena non serva a dire al presidente degli Stati Uniti e al mondo intero: guardate, in Italia siamo in una condizione di anomalia democratica, non vi stupite se tra un mese succederà qualcosa di serio. Uno scossone, un botto». Sì, c'è anche questo da registrare nel crepuscolo del berlusconismo. Presagi. Pensieri oscuri. Scenari drammatici che si accavallano sui prati del Quirinale in una festa della Repubblica con pochi precedenti.

Se chiedi cosa succederà ora ai massimi esponenti di maggioranza e opposizione la risposta è la stessa: chissà. E' l'incertezza che avvolge tutti gli interpreti di questo psicodramma, paragonabile solo alla stagione '92-'93, la fine traumatica della Prima Repubblica. Il protagonista numero uno, Berlusconi. E gli antagonisti, il campo dell'opposizione che appare sorpreso più che preparato, diviso tra chi si aggrappa ai vecchi schemi tattici e chi vorrebbe cavalcare l'onda. Per evitare che la personale e politica via Crucis di Silvio Berlusconi si trasformi in un Calvario per il Paese. Che ancora una volta la questione privata del Cavaliere finisca per coinvolgere tutti.

La prima stazione che Silvio deve affrontare è il Pdl in implosione. Il primo partito italiano è balcanizzato. L'Imperatore vacilla, valvassori e valvassini ricontrattano le loro rendite. Gianni Alemanno vorrebbe un cambio del nome; Ignazio La Russa un congresso; Franco Frattini un direttorio; Roberto Formigoni evoca le primarie: e Giuliano Ferrara ha già pubblicato sul "Foglio" il regolamento della corsa, da tenersi il 2 ottobre, con tanto di versamento di 5 euro. Macché, si infuria il direttore del "Giornale" Alessandro Sallusti, «il berlusconismo non si può ridurre a norme rigide e statutarie, primarie, riti pazzeschi, assemblee interminabili». «La verità è che Berlusconi non può fare nulla, è bloccato dagli ex fascisti alla La Russa: da quando ce li siamo messi in casa abbiamo perso», riassume il capo dei peones Mario Pepe. «Ognuno difende se stesso, cambiare significa rinunciare ai privilegi», scuote la testa il sottosegretario Guido Crosetto.

Il berlusconismo non più vincente si impantana negli organigrammi: Angelino Alfano al partito, Lupi o Cicchitto al governo, Claudio Scajola da recuperare, perché altrimenti l'incidente diventa inevitabile. Perfino le deputate Papi Girls, vista la mala parata, cercano nuovi protettori per tornare in Parlamento. Berlusconi, da solo, non garantisce più. La seconda stazione della via Crucis è il rapporto tra Silvio e la Lega. Pesa il passato: il ricordo del 1994, rottura e ribaltone, ha condizionato le mosse di Berlusconi e di Bossi in tutti questi anni. E pesa anche il futuro: se si apre il dopo- Berlusconi comincia anche il dopo-Bossi e nessuno meglio del Senatur lo sa. Ma non si può più fermare il distacco tra l'uomo di Arcore e la Lega, ferita dalle amministrative. Il 19 giugno il Carroccio si riunirà sul pratone di Pontida, alla vigilia del voto parlamentare sulla verifica di governo. In assenza di fatti nuovi il Senatur potrebbe decidersi a staccare la spina, sulla spinta della base.

I colonnelli sono divisi: tra chi spinge a proseguire e chi vorrebbe ripartire dall'incontro tra Bossi e Gianfranco Fini del novembre scorso, quando si ragionò di altri, possibili inquilini di Palazzo Chigi. Giulio Tremonti. E Roberto Maroni. Ed è questa la terza tappa del Calvario berlusconiano. Una maggioranza che non c'è più nel Paese, come ha fatto tempestivamente notare Giuseppe Pisanu, senatore del Pdl. E che rischia di non esserci più neppure in Parlamento. L'ennesima verifica parlamentare prevista per fine giugno, innescata dalla richiesta del Quirinale di un passaggio alle Camere dopo l'ingresso dei Responsabili in maggioranza, potrebbe trasformarsi nell'occasione per la resa dei conti.

Ma anche la legge sulla prescrizione breve, in arrivo al Senato, potrebbe funzionare da detonatore. Per Berlusconi è la quarta stazione. La Lega è decisa a sbarrare la strada a nuove leggi ad personam: «Basta con il Parlamento bloccato sui problemi personali del premier». No alla prescrizione breve, percorso rallentato sulla riforma della giustizia. Il ministro Alfano ha già avvertito il presidente dell'Assocazione magistrati Luca Palamara: «Tieniti in forma, saranno due anni di combattimento».

Il ring per Silvio sarà il Tribunale di Milano, dove è ripreso il processo Ruby, quinta fermata nella via Crucis berlusconiana. Prevedibile che si diradino le apparizioni del Cavaliere in aula di giustizia. La claque di Daniela Santanchè, visto il risultato, è già tornata a casa. Tutta l'attenzione di Berlusconi è spostata altrove: al 16 giugno, giorno previsto per il verdetto d'appello sul lodo Mondadori. Non meno di 500 milioni, si prevede, da versare alla Cir di Carlo De Benedetti (in primo grado furono stabiliti 750 milioni di euro) come risarcimento per la sentenza comprata che consegnò la Mondadori a Berlusconi. In vista della batosta il premier ha convocato un consiglio di famiglia, con i figli di primo e di secondo letto. Per discutere su quali pezzi cedere e su come ripartire la restante quota del patrimonio.

E' la stazione più dolorosa, la sesta. Sono in gioco gli affetti più cari, altro che il sindaco di Milano o di Napoli. Il core business per cui Silvio Berlusconi è entrato in politica diciassette anni fa. E dire che da ben altre operazioni economiche sarebbe atteso Berlusconi. Una manovra da 40 miliardi di euro, «tempestiva, strutturale, credibile», senza tagli lineari, come quella richiesta dal governatore Mario Draghi nelle ultime considerazioni finali del suo mandato in Banca d'Italia prima di assumere la guida della Bce. Una doppia croce, per Berlusconi. Una nuova stangata, per di più firmata dall'odiato Tremonti, ormai in testa alla black list di Palazzo Grazioli, accusato di essere tra le cause della sconfitta.

Troppo sordo alle richieste di un'immediata riforma fiscale, troppo deciso a blindare il suo operato in difesa dei conti pubblici, troppo evidente l'ambizione di guidare un governo di unità nazionale: senza Berlusconi e con l'astensione del Pd, sempre che il Pd riesca ancora a orientarsi nella Babele postelettorale. Nell'attesa, Giulio Tremonti ignora Berlusconi e coltiva le relazioni con antichi avversari: lungo colloquio con Romano Prodi nei Giardini del Quirinale. Con una signora che alle loro spalle invano provava a farsi notare: la presidente della Confindustria Emma Marcegaglia. Finito? No, il peggio per il premier deve ancora arrivare: ci sono i referendum del 12 giugno sull'acqua pubblica e sul legittimo impedimento cui si è aggiunto, a sorpresa, il sì della Cassazione che ha dato il via libera al quesito sul nucleare,nonostante il tentativo del governo di evitarlo con un decreto ad hoc. Un altro brutto ceffone per Berlusconi. E ora il quorum che sembrava un miraggio diventa a portata di mano e potrebbe essere il rovescio fatale per il premier. Con la credibilità internazionale crollata al livello più basso, perfino oltre il discredito registrato due anni fa dai dispacci americani pubblicati da Wikileaks («Berlusconi è un clown che ha creato un tono disgraziatamente comico alla reputazione italiana»).

Doveva esserci il Quirinale, al termine del percorso del Berlusconi trionfante. Arrivato alla stazione finale della via Crucis, invece, per Berlusconi c'è l'amara scoperta di un Paese che non ride più alle sue barzellette, non crede più alle sue promesse, gli volta le spalle nella capitale del Nord da cui tutto era partito nel 1994. Il carisma del vincitore è svanito, il terremoto di maggio maturato nella società italiana dopo mesi di manifestazioni e di indignazione ha appena cominciato a provocare i suoi effetti. Dove porterà, e in che modo, però, è ancora tutto da vedere. Le scosse sono appena cominciate. Botti a parte.

 
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« Risposta #55 inserito:: Giugno 10, 2011, 06:31:08 pm »

Tabacci: 'Tremonti, vieni fuori'

di Marco Damilano

Il declino del berlusconismo ormai è sotto gli occhi di tutti. E la crisi economica rischia di strozzare il Paese. Quindi il ministro dell'economia deve avere il coraggio di fare un passo avanti. Parla la mente più acuta del Terzo Polo

(09 giugno 2011)

Nello studio Pisapia, a parlare con Giuliano non ancora proclamato sindaco, si è emozionato quando ha rivisto la stanza dov'era entrato da imputato, ad inizio anni Novanta. Pisapia era il suo avvocato nei processi Mani pulite. E oggi Bruno Tabacci si commuove, assapora aria di rivincita. Per lui è pronto l'incarico di super-assessore al Bilancio nella nuova giunta, un'operazione che potrebbe fare da laboratorio a scelte nazionali, con cui il sindaco arancione dimostra di voler sparigliare. "Il Tremonti di Pisapia", l'hanno già ribattezzato. Nell'attesa, Tabacci si appella al Tremonti reale: "Venga in Parlamento ad aprire una nuova fase politica".

Perché al Nord, non solo a Milano, l'asse Berlusconi-Lega perde consensi?
"Perché è vero quello che ha detto il governatore Mario Draghi: il Paese non cresce. E al Nord avvertono più di altri quanto sia lontana dalla realtà la macchina propagandistica di questi anni: siamo i migliori, siamo i primi d'Europa. Al Nord fanno i conti con le favole, dall'ampolla del dio Po agli atei devoti di rito celtico. Negli ultimi quattro lustri la Germania ha riunificato il Paese, Berlino è passata dai Vopos e dal filo spinato a essere la capitale d'Europa, l'economia sociale di mercato tedesca è la locomotiva del continente. Noi, negli stessi lustri, abbiamo realizzato il paradosso di un capo del governo che si paragonava a De Gasperi e che si è comportato da venditore di almanacchi. Di favola in favola nei bar della Padania hanno appreso che il Parlamento aveva creduto alla versione che Ruby fosse la nipote di Mubarak. Ora c'è la disillusione".

Un mito, però, resta in piedi: la riforma fiscale. Il governo riuscirà a presentarla?
"Sono il primo a sostenere una riforma fiscale su modello di quella americana: esaltare detrazioni e deduzioni per accertare la posizione reale del contribuente e non quella virtuale. Ma noi viviamo in un paese in cui il sommerso sfiora il 30 per cento del Pil: c'è una sensazione di disuguaglianza che può sfociare nell'odio sociale. Annunciare la riforma fiscale crea lo stesso effetto dello spostamento dei ministeri al Nord sventolato dalla Lega. Milano e la Brianza ne fanno volentieri a meno: per questa bella idea i leghisti dovrebbero inseguire Bossi e Calderoli sul prato di Pontida. Maroni no, è diverso: sbaglia quando cade nella retorica dei respingimenti, ma è un ministro egregio".

L'uomo chiave è Tremonti. Che voto gli dà?
"Non ho risparmiato critiche a Tremonti in questi anni. E lui è permaloso: una volta che parlavo alla Camera fece finta di stare al telefono per non sentirmi. Ma gli riconosco la gestione oculata della spesa. I tagli lineari sono il suo punto debole, chi guida la politica economica ha il dovere di scegliere: definire i capitoli di bilancio, quelli che vanno sostenuti e quelli che vanno tagliati. Il suo punto di forza? Il prestigio internazionale. Se in seguito a un'incertezza la speculazione o le agenzie di rating ci mettessero sotto tiro avremmo un rialzo del costo del debito rilevante".

Rino Formica ha scritto che Tremonti nel governo è "superiore al suo capoufficio" e si chiede se ha la voglia e la forza per mettere le carte in tavola: lo farà?
"Ho conosciuto Tremonti all'inizio degli anni Ottanta. Io ero a fianco del ministro Giovanni Marcora, lui lavorava con Formica ministro delle Finanze. Sei mesi fa sono andato da lui per dirgli: è il tuo momento. Questo Paese ha bisogno di respirare, di uscire dalla logica delle opposte tifoserie. Tremonti, insieme al professor Mario Monti, ha una grande credibilità internazionale. Ora deve scommettere sul terreno della politica. Non solo deve evitare di assecondare le scorribande di Berlusconi che ancora una volta tenta il triplo salto mortale. Questa volta deve venire in Parlamento, metterci la faccia. E compiere un'operazione di verità".

Può un governo traballante scrivere una manovra di 40 miliardi?
"No, con questa compagnia non si fa nessuna manovra, sia pure spalmata in tre anni. Il voto parlamentare del 14 dicembre era drogato, la fiducia presa per tre voti con l'innesto dei Responsabili ha dato a Berlusconi la sensazione di essere ancora in sintonia con gli italiani. E' il contrario: lo dimostra il fatto che ha perso perfino ad Arcore e a Olbia, il pianerottolo di casa...".

     
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« Risposta #56 inserito:: Giugno 25, 2011, 06:42:51 pm »

L'uomo che sussurrava ai potenti

di Marco Damilano

Alter ego di Letta. Regista di mezzo governo. Ispiratore dei manager pubblici.

Bisignani è l'uomo ombra della seconda Repubblica.

E ora fa tremare il sistema Berlusconi

(23 giugno 2011)

Al suo successo avevano contribuito una congerie di potentati difficilmente collegabili tra loro, ma che lui era sempre riuscito a usare, manovrandoli come pedine su un'immaginaria scacchiera del potere...". Martedì 21 giugno, solstizio d'estate, il calendario segna san Luigi Gonzaga, ma il san Luigi di piazza di Spagna, confessore di ministre e di boiardi di Stato, non può più rispondere: è agli arresti domiciliari. E qualcuno nei palazzi romani rilegge l'incipit di un romanzo anni Ottanta denso di spioni, cardinali, belle donne, in cui l'autore sembrava volersi descrivere, consegnare la verità più profonda su di sé.

"Il sigillo della porpora", si intitolava quella spy-story all'italiana che fu presentata al teatro Eliseo, e peccato che non ci fosse ancora "Cafonal" a immortalare la scena: il ministro degli Esteri Giulio Andreotti recensore entusiasta ("Il gelido protagonista si commuove solo quando gli uccidono la figlia: una pagina di toccante ed eloquente umanità"), il giovane e rampante Giuliano Ferrara, il re dei critici Enzo Siciliano, e in mezzo a loro lo scrittore, il 35enne Luigi Bisignani. Di quella serata indimenticabile resta qualche scatto, null'altro.

Dalla condanna per la tangente Enimont a due anni e sei mesi (1994) Bisignani è scomparso dalle cronache: un'ombra che ha attraversato l'intera Seconda Repubblica. E ora l'Ombra torna alla luce, con l'inchiesta di Napoli dei pm Curcio e Woodcock, nel pieno di una nuova traumatica transizione politica. Spiega un notabile a Montecitorio: "Siamo come all'8 settembre: una corte in fuga, un governo che si dissolve, eserciti in rotta. Pezzi di Stato contro pezzi di Stato, apparati contro apparati. Una guerra di tutti contro tutti, che si può concludere solo con un ricambio di classe dirigente. O che soffocherà tutti nei suoi miasmi".

Nei palazzi rileggono i verbali dell'inchiesta e riconoscono in controluce nella storia di Bisignani la parabola della politica di questi vent'anni. "Ai tempi di Andreotti, Bisignani era un piglia e porta. Stava in anticamera ed eseguiva. Su uno come Geronzi, Giulio ironizzava: "E' come un taxi, anche se conserva la ricevuta"", spiega un ex democristiano di rango. "Dirigenti pubblici, banchieri, consiglieri di Stato, i De Lise, i Calabrò, i Catricalà, erano guidati dai politici. Svaniti i partiti con la bufera Tangentopoli hanno dovuto trovarsi altri referenti".

Interessi senza volto. Comunanze e affinità che sostituiscono le sedi visibili. Filiere trasversali. Come quella, ad esempio, personificata da Cesare Previti: in apparenza dormiente e condannato, ma ancora abbastanza influente da far inserire nelle liste per la Camera del Pdl Alfonso Papa, il magistrato distaccato nel ministero di via Arenula e oggi deputato Pdl amante di Rolex e di Jaguar di cui i pm napoletani hanno richiesto l'arresto.

La filiera che più si sente minacciata e desiderosa di protezione, però, è un'altra: bastava vedere il balletto improvvisato da Berlusconi nell'aula del Senato, un inconsueto giro di strette di mano tra i banchi del governo per arrivare a stringere davanti a tutti quella del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il dottor Gianni Letta. A legare il sodalizio tra i due, un quarto di secolo fa, fu Bisignani. All'imprenditore di Arcore serviva un presidio a Roma. E Bisignani non ebbe esitazioni, indicò a Silvio l'uomo giusto: il dottor Letta, appunto.

Letta da direttore del "Tempo" diventa il decoder di Berlusconi nella capitale, e poi il gran ciambellano di Palazzo Chigi, il governante che nessuno ha votato e di cui nessuno conosce le idee politiche e che pure viene candidato alle più alte cariche. L'inchiesta Bisignani lo fulmina alla vigilia della possibile consacrazione istituzionale, la nomina a senatore a vita e perfino il Quirinale. E se Letta risolve i problemi di Berlusconi, l'Ombra Bisignani è il personaggio che spiccia le faccende di mezzo governo, dei vertici degli enti pubblici, del Gotha dell'impresa privata e dei servizi segreti, da Cesare Geronzi a Fabrizio Palenzona.

A lui si affidano i ministri e le ministre di Berlusconi: a Gigi si rivolge con familiarità il titolare della Farnesina Franco Frattini, a lui ricorre il trio rosa Stefania Prestigiacomo, Mara Carfagna, Mariastella Gelmini. Più confidenziale Stefania ("Se escono le intercettazioni sono rovinata"), più prudente Mara, più ambiziosa Mariastella. Ruota attorno all'ufficio di piazza Mignanelli lo stato maggiore della corrente del Pdl Liberamente ("Forse avrebbero dovuto chiamarsi Bisignanamente", maligna un deputato).

Vicino a Bisignani è il titolare delle Infrastrutture Altero Matteoli, tramite il braccio destro Erasmo Cinque. Mentre tra i finiani di Futuro e libertà, capolavoro, si abbeverano ai consigli di Gigi entrambe le anime: il falco Italo Bocchino e la colomba Andrea Ronchi, ministro nel 2008 per grazia ricevuta, forse non solo di Gianfranco Fini.

A Palazzo Grazioli l'Ombra può contare sulla vecchia conoscenza Daniela Santanchè: fu lui il regista dell'operazione Destra, quando la Sarah Palin di Cuneo si candidò premier con il partito di Francesco Storace, fu ancora lui a spingerla a fondare l'agenzia Visibilia, per raccogliere pubblicità per "Libero" degli Angelucci. E c'è il sindaco di Roma Gianni Alemanno, che a leggere la testimonianza del suo ex capo di gabinetto Maurizio Basile, usava cenare a casa della mamma di Bisignani, la signora Vincenzina, per discutere del Gran premio a Roma e chiedere a san Luigi di intercedere presso Flavio Briatore.

L'aggancio giusto per la F1, manco a dirlo: il figlio di Bisignani lavora in Ferrari e con il presidente del Cavallino Rampante c'è una vecchia simpatia. "Di casa a New York come a Parigi, amante delle lunghe gita in bicicletta e della scultura moderna, Luca Cordero di Montezemolo è diventato un manager tenace con un notevole carisma che, a sentire i sondaggi, l'ha imposto come uno degli italiani più conosciuti", magnificava l'allora redattore ordinario dell'Ansa Bisignani in un sobrio lancio del 15 novembre 1991.

Ma c'era da capirlo: emarginato nell'agenzia dopo lo scandalo P2, costretto a occuparsi di camionisti o di poco eccitanti convegni come quello su "Etica e professione" ("Il giornalista deve liberarsi dai cordoni ombelicali del potere economico e politico", tuonava), era stato salvato da Montezemolo: "Nell'89, in occasione dei Mondiali di calcio, noi dell'organizzazione ottenemmo il suo distacco dall'Ansa", ha dichiarato l'ex presidente di Confindustria interrogato dai pm sulle richieste di raccomandazione per l'amico Gianni Punzo e per l'ex compagna Edwige Fenech.

Naturale un po' di gratitudine, anche se sono trascorsi vent'anni. Come appare del tutto normale, nel Bisi-mondo, la rete ai vertici di Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, Ferrovie. E la pubblicità di 100 mila euro arrivata dall'Eni a Dagospia per interessamento di san Luigi. Più complicato da spiegare, perfino per un professionista del potere come Bisignani, perché il direttore generale della Rai Mauro Masi si rivolgesse a lui per farsi scrivere la lettera con cui puntava a licenziare Michele Santoro, lo chiamasse con l'assiduità del molestatore e con toni non certo da grand commis: "Je stamo a spaccà er culo". "Mi occupavo di Rai perché ero convinto che Masi non fosse all'altezza", ha provato a giustificarsi il povero Bisignani. E sì che Gigi ha fatto con Mauro coppia fissa: entrambi legati a Lamberto Dini e a Letta, senza trascurare la rive gauche. Tra il 2006 e il 2008 Masi è stato capo di gabinetto di Massimo D'Alema vice-premier del governo Prodi.

E anche Bisignani poteva vantare ottima accoglienza dalle parti dell'ex leader Ds: fu lui a portare il direttore dell'Aise, il generale Adriano Santini, dal presidente del Copasir. "Il generale mi chiese una mano per la sua carriera e mi chiese di parlare bene di lui con Letta. Chiesi a D'Alema se potevo portargli Santini, lui mi disse di sì", ha raccontato a Curcio e Woodcock. Anche in questo caso, giurano i protagonisti, nulla di strano: "Conosco Bisignani da 35 anni", ha testimoniato D'Alema. "Lui conosceva mio padre, era presidente della commissione Finanze della Camera, Bisignani era il portavoce del ministro". Nel '77 D'Alema aveva 28 anni ed era il capo dei giovani comunisti, Bisignani ne aveva appena 23 ed era il più giovane piduista. Vite parallele, in un'Italia in cui tutti si conoscono. E in cui, nonostante l'alternanza dei diversi schieramenti al governo, certi nomi non tramontano mai.

Ora siamo alla vigilia di un nuovo cambio. Se n'è discusso tre mesi fa, sussurra chi sa, in un incontro a porte chiuse all'Aspen sul tema della riforma dei servizi segreti. Pochi gli invitati, c'erano D'Alema e Giuliano Amato, c'era il prefetto Gianni De Gennaro, incrollabile punto di riferimento di questi anni travagliati anche oltre Atlantico, c'era il presidente dell'Istituto Giulio Tremonti, da molti indicato come il vero beneficiario di un terremoto che fa vacillare i suoi avversari nel governo. Assente il procuratore aggiunto di Milano Francesco Greco, che indagò su Bisignani ai tempi Enimont e alle cui analisi il ministro dell'Economia è molto attento. In questi ambienti c'è preoccupazione per le conseguenze dell'inchiesta e si discute già della fase successiva: un governo del Presidente.

"Berlusconi doveva avere il coraggio di voltare pagina. All'Italia serve un governo forte e credibile e il Cavaliere non ha più carte da giocare", ripetono. Il premier non ci sente, prova a blindarsi nel bunker di Palazzo Chigi tra un voto di fiducia e l'altro, aggrappato a una maggioranza nel caos e a un Letta vistosamente indebolito. Tremonti al Senato per il dibattito sulla verifica non si è fatto neppure vedere. E l'Ombra, intanto, continuerà a far tremare con le sue rivelazioni. Il più consapevole che il game is over, la storia è finita, è proprio lui, Bisignani. "Ora che dalla cima si poteva guardare indietro, gli capitava spesso di chiedersi, rabbrividendo, se avrebbe sfidato ancora l'azzardo come gli era capitato tante volte durante l'ascesa", aveva scritto Bisignani nel suo primo romanzo. Ma adesso il suo azzardo coinvolge un intero Sistema.

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« Risposta #57 inserito:: Settembre 02, 2011, 06:10:29 pm »

Ora Bersani chiuda la ditta

di Marco Damilano

"Il caso Penati non è isolato. Nel Pd sono rimaste le dorsali organizzative del Pci. Anche per fare affari. E se non ce ne liberiamo, ci schiacceranno". Parla Arturo Parisi, che per primo pose la questione morale nel centrosinistra

(01 settembre 2011)

Aziende che si fanno partiti. E partiti che si fanno azienda, per "fare gli affari propri e dettare le regole di tutti". "Conta poco che siano Compagnia delle Opere-Pdl, Fininvest-Forza Italia o Coop-Ds", il caso Penati non è isolato, avverte Arturo Parisi, il padre dell'Ulivo. "E' la confusione tra gli interessi economici privati e l'esercizio dei poteri pubblici che va combattuta, a destra e a sinistra", dice il professore, impegnato a raccogliere le firme per il referendum che cancella il Porcellum e restituisce ai cittadini la scelta dei parlamentari.

Lei per primo parlò di questione morale a sinistra quando Unipol provò a scalare la Bnl. Il caso Penati le dà ragione?
"Le ragioni di allora sono destinate ad apparire sempre più evidenti, messe di nuovo alla prova di fatti non del tutto chiariti, meno che mai compresi. Gli stessi nomi: Coop, Unipol, Bnl. Gli stessi tipi di connessioni e triangolazioni tra dirigenti e organizzazioni, politiche, economiche. E la stessa confusione tra morale e politica, come se il problema fosse di comportamenti individuali, l'eterna lotta tra il bene e il male, l'illusione di distinguere i buoni dai cattivi".

E invece, qual è il problema?
"Che Penati sia colpevole o innocente dal punto giudiziario lo può decidere solo la magistratura. Il problema sul quale dobbiamo interrogarci è però nitidamente politico, riguarda la confusione, il conflitto e la distinzione tra interesse generale e interesse individuale e di parte. La confusione tra gli interessi economici privati e l'esercizio dei poteri pubblici. E' questa confusione che ha raggiunto con Berlusconi il suo massimo. E' questo conflitto che ho denunciato e denuncio ovunque si manifesti. Nella sinistra come nella destra. In Berlusconi, ma non meno in chi denuncia Berlusconi".

Per Enrico Berlinguer, lo disse trent'anni fa a Eugenio Scalfari, la questione morale era l'occupazione dello Stato da parte dei partiti. Parole attuali?
"Più attuali che mai. Ma alla occupazione e usurpazione delle funzioni pubbliche si aggiunge ora un nuovo rischio. Ancor più pericoloso. Mentre la presenza della mano pubblica si riduce in Occidente e in Italia, si apre, magari in nome del principio di sussidiarietà verticale, uno spazio che in troppi si propongono di conquistare. Esattamente come nella Russia post-sovietica, nuovi soggetti e nuovi poteri si fanno avanti per conquistare gli spazi abbandonati. Guai se questi soggetti fossero aggregati bifronti politico-economici, che pretendono contemporaneamente di fare gli affari propri e dettare le regole di tutti. Sarebbe il ritorno al feudalesimo".

Chi sono gli "aggregati bifronti"?
"Che siano aziende che si fanno partiti, o partiti che si fanno aziende fa poca differenza. Così come poco conta che siano la Compagnia delle Opere- Pdl, Fininvest-Forza Italia o Coop-Ds".

Quali sarebbero le conseguenze?
"In Italia, come in Russia, la Repubblica che doveva essere dei cittadini, da oligarchia dei partiti diventerebbe confederazione di oligarchi. Capi fazione e insieme riferimento di organizzazione economiche. Regolati da se stessi si spartirebbero lo spazio pubblico abbandonato dallo Stato: previdenza, sanità, istruzione, fino alla Difesa, senza un potere superiore capace di regolarli. A dispetto dei socialisti difensori dello Stato e dei liberali guardiani del mercato".

Torniamo a Penati: è un caso isolato?
"Fino a quando non ho conosciuto Filippo Penati, per i miei ricordi di liceale i Penati erano gli spiriti protettori della famiglia e dello Stato, degli altari e dei focolari. Anche i partiti, soprattutto quelli antichi, hanno i loro Penati, ai quali i funzionari prestano giuramento, esattamente come facevano un tempo i magistrati. Il problema non è perciò capire quanti siano i Filippo Penati nel Pd, ma quali siano i Penati del Pd...".

E quali sono i numi tutelari del Pd?
"E' appunto questo il problema. Capire se e in che misura il Pd abbia ereditato il modello di partito-subcultura, nato per difendere e organizzare la condizione operaia, in una prospettiva rivoluzionaria, e ora diventato una sovrastruttura autonoma"

Quella che Bersani chiama la Ditta: gli ex Pci-Pds-Ds-Pd?
"Sì, la dorsale organizzativa, e l'habitat di chi viene da quella storia, il quadro dirigente, le sedi, i simboli, le parole, le abitudini".

Cosa dovrebbe fare Bersani?
"Chiedere a Penati un impegno ancora più preciso sulla rinuncia alla prescrizione. Solo l'indagine giudiziaria può metterci nelle condizioni di capire se siamo di fronte ad una deviazione individuale rilevante sul piano penale, o di fronte alla irrisolta questione del rapporto tra partito ed organizzazione economica".

Cosa rischia il Pd in questa vicenda?
"Il rischio maggiore è finire schiacciato sul proprio passato, che agli occhi dei più resta il passato della catena di comando che governa il partito, più o meno rinnovato grazie a nuovi matrimoni".

Lei raccoglie le firme per abrogare il Porcellum: c'è un nesso con la questione morale?
"L'indignazione, lo scandalo dei cittadini crescono ogni giorno di più, alimentati dalla crisi economica. E' urgente che la piazza che si sta mettendo in moto ritrovi nel Parlamento un interlocutore in cui possa riconoscersi. Oggi questo interlocutore si è logorato oltre misura: i parlamentari sono considerati una casta separata di privilegiati, dileggiati ogni giorno dalle stesse forze che li hanno ridotti così. Se questo è accaduto è a causa di quella vergogna che Calderoli ha definito una porcata. Abbiamo il dovere di consentire ai cittadini di dire basta. O quella legge la abrogate voi, o lo facciamo noi con l'arma che la Costituzione mette nelle nostre mani: il referendum".

Su questa battaglia nel Pd lei è partito isolato, ora c'è la corsa a firmare. Cosa si aspetta dai vertici del suo partito?
"Che seguano i dirigenti che li hanno preceduti e soprattutto gli elettori. Visto che non sono riusciti a precederli".

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« Risposta #58 inserito:: Novembre 03, 2011, 11:36:55 pm »

Tutto crolla: ora Monti, Letta o elezioni

di Marco Damilano

Berlusconi sotto processo a Cannes, mentre a Roma la maggioranza si sta squagliando: perfino Stracquadanio e Paniz l'hanno mollato. Oltre ai sei i transfughi sicuri, ce ne sono altri in odore di fuga. In campo tre ipotesi: l'ex commissario Ue (lo vorrebbe Napolitano), il sottosegretario Gianni (lo sognano i pidiellini impauriti) e il voto in primavera (sempre più probabile)

(03 novembre 2011)

La prima pagina del 'Foglio' di oggi è da incorniciare, per gli amanti del genere. «Vi spiego la Rivoluzione», titola il quotidiano di Giuliano Ferrara. Sottotitolo: «Frattini racconta il decretone».

Povero Frattini, innocuo, inutile, inconsapevole, non sapeva chi fosse Lavitola quando incontrava insieme a lui ministri degli Esteri e capo dello Stato, oggi lo mandano allo sbaraglio a magnificare tutto compunto una rivoluzione che non c'è. «Per un magico incastro siamo nelle condizioni di fare le riforme liberali che non siamo riusciti a fare per diciassette anni. Quasi non ci credo».

Ecco, continui a non crederci, ministro: infatti il decreto non c'è, le riforme neppure, la rivoluzione figuriamoci. E l'unico incastro, tragico, è quello che avviluppa il destino personale di Silvio Berlusconi al Titanic Italia a rischio affondamento.

Nell'ora della verità di una classe dirigente ecco cosa succede. Lite ferina tra premier e ministro Tremonti. Ministri che quasi vengono alle mani. Peones della maggioranza fuori controllo, chi si appella, chi minaccia, chi abbandona la nave.

Giorgio Stracquadanio scende giù dal predellino e sale sulla tolda degli ammutinati del Pdl: Dio ce le conservi a lungo. Maurizio Paniz, tra tutti gli argomenti buoni per prendere le distanze dal Cavaliere, sceglie il più sorprendente (per lui): eccessiva confusione tra pubblico e privato. Forse gli hanno detto che Ruby non era la nipotina di Mubarak?

Tutti traditori, li scomunica il "Giornale", povero Silvio circondato dalle vipere, e avrebbe anche le sue buone ragioni: ma solo in una situazione libica i pasdaran di Gheddafi si trasformano nei capi della rivolta, solo in una corte ci si fa largo a colpi di complotti, pugnali e veleni.

E' l'inamovibilità, l'insostituibilità del Capo, teorizzata dai suoi cortigiani, che produce la congiura come unica strada al cambiamento. E il segretario del Pdl Alfano, chiamato a rappresentare il nuovo, esprime così il futuro progetto del Pdl: «Dobbiamo arrivare fino a Natale». In confronto il tirare a campare di Andreotti era un modello di lungimiranza, di follia visionaria.

Ma Alfano è fin troppo ambizioso, a questo punto. Il governo non arriva a Natale, non c'è più: la sua incapacità di venire a capo di uno straccio di misura che non siano le solite annunciate liberalizzazioni-dismissioni, più il Piano del Sud (ancora? Eh no, basta!) è certificata anche da Ferrara. «Il berlusconismo è in minacciosa agonia negoziale», barrisce l'Elefantino. Il Pdl ha fatto un milione di tessere ed è un formicaio impazzito e friabile, una terra di conquista facile da espugnare. Occhio alla gran sapienza dei democristiani antichi, tipo Paolo Cirino Pomicino, attivissimo nell'allargare lo smottamento dei frondisti. L'agonia, come la chiama Ferrara, prosegue con il vertice di Cannes in cui Berlusconi e Tremonti, come una coppia di sposi reduce dai piatti che volano, sono costretti a presentarsi cordiali e sorridenti.

E poi ci sarà un passaggio parlamentare ad alto rischio, visto che il numero dei peones disposti a votare un nuovo governo cresce di ora in ora. Sì, ma quale? C'è un'ipotesi "alta", un governo presieduto da Mario Monti e appoggiato da tutti i partiti: una tregua con un personaggio di indiscusso prestigio internazionale che consentirebbe alle forze politiche di delegare a una figura extraistituzionale il compito di mettere la faccia sulle misure lacrime e sangue e nel frattempo di riorganizzare le truppe in vista del 2013.

Sarebbe il Governo del Presidente, perché in questo caso il garante politico di Monti sarebbe, più che mai, Giorgio Napolitano.

E c'è un'ipotesi "bassa", un governo presieduto da Gianni Letta, chiamato ad allargare l'attuale maggioranza: recuperare Fini, tornare a parlare con Casini, ottenere un atteggiamento meno ostile dal Pd. Un berlusconismo dolce, felpato, moderato, rassicurante, per tornare a votare in tempi rapidi, nel 2012.

I due scenari, al momento, presentano pari difficoltà e pari possibilità di riuscita, perché troppe sono le incognite: fino a che punto arriverà lo smottamento del Pdl? Cosa farà la Lega (la seconda anima del Carroccio, quella rappresentata da Bobo Maroni, tace da giorni)?

E così è ancora probabile che alla fine la via d'uscita sia un'altra: scioglimento delle Camere e elezioni subito, anche a gennaio sotto la neve, con il governo Berlusconi in carica.

Sarebbe la più naturale, in un altro paese, in un'altra fase storica, in un'altra vita. Ma questa ci è data da vivere. E, come osserva questa mattina un pidiellino lucido e onesto come Giuliano Cazzola, «è inutile cercare la bella morte e insistere finché non siamo schiattati».

Ma questa di Berlusconi non è una bella morte, è una brutta, bruttissima fine.

(Ps: E le opposizioni? E il Pd? E' vicino il momento della verità anche per loro)

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« Risposta #59 inserito:: Novembre 04, 2011, 02:47:44 pm »

Regime

Il governo dei morti viventi

di Marco Damilano

Dopo le ultime defezioni «il tema non è più se cadiamo, ma solo come». A dirlo, di nascosto, è un ministro.

Che aggiunge: «Nell'ultimo consiglio notturno a Palazzo Chigi, si è parlato pochissimo del dramma economico e moltissimo di Antonione».
Cioè uno dei deputati in fuga

(04 novembre 2011)

Sarà il governo di Ognissanti. Nel senso che, se vedrà la luce, sarà stato concepito nella festa di Halloween, la celebrazione di tutti i santi del calendario nella liturgia cattolica: l'ora delle streghe per Silvio Berlusconi, un giorno da incubo, incollato al computer come un passeggero al finestrino di un aereo che precipita, con il listino di Borsa che va giù senza fine, lo spread che divora manovre economiche una dopo l'altra e i rendimenti vicini al punto di non ritorno del 7 per cento. Ma il governo di Ognissanti anche nel senso che, a vario titolo, da ministri o da sostenitori, nelle intenzioni dovrebbe coinvolgere tutti i mammasantissima di maggioranza e di opposizione. Con la benedizione dall'Alto, del Quirinale.

Il governo attuale, quello di Berlusconi, è da notte dei morti viventi. Sforna misure epocali, ma chi le approverà? "Alla Camera, virtualmente, non abbiamo più la maggioranza. Il tema non è se cadiamo, ma come", ammette perfino un ministro. "Nel vertice notturno che ha preceduto il Consiglio dei ministri non si parlava di spread. Si parlava di Antonione". Antonione chi? Il deputato triestino Roberto Antonione, già coordinatore di Forza Italia, che nel bel mezzo del caos ha mollato il Pdl e Berlusconi. Il primo di una lunga serie: "E' Pier Ferdinando Casini in persona che sta facendo le trattative. Ce li sta sfilando uno a uno", impreca un notabile azzurro. "Pier è l'anti-Verdini". In nome della sopravvivenza della legislatura, con un governo da mettere su in pochi giorni per arrivare al 2013.

Un governo del Presidente? Quello, si direbbe, è già attivo. Perché, alla vigilia del vertice del G20 di Cannes, Giorgio Napolitano è stato costretto a entrare in campo ben al di là degli stretti confini della moral suasion. Telefonate, consultazioni, indicazioni minuziose sulle tecnicalità per il pacchetto delle misure da prendere con gli uomini del governo e un sondaggio sulle parole d'ordine della manifestazione del Pd di sabato 5 novembre in piazza San Giovanni, con il consiglio di tenere la massima prudenza. Un filo diplomatico per mettere su "una nuova prospettiva di larga condivisione delle scelte", come recita la nota del Quirinale del primo novembre, senza escludere nessuno, neppure i più ostili alle larghe intese come il leader di Idv Antonio Di Pietro. La certificazione ufficiale che nei colloqui tra il presidente della Repubblica e i capipartito la possibilità di un governo di salvezza nazionale è ben più che un'ipotesi di scuola.

"Si va finalmente verso quel governo al quale abbiamo lavorato in queste ultime settimane. E speriamo che non sia troppo tardi", spiega Enrico Letta, il numero due del Pd ma soprattutto l'interlocutore più ascoltato di Napolitano nel partito guida dell'opposizione in questa fase. Anche a costo di dover scontare qualche nota stonata con il numero uno del partito, il segretario Pier Luigi Bersani. Una settimana fa, di fronte al primo show down delle Borse e all'ultimatum della coppia Merkel-Sarkozy che avevano spinto il governo Berlusconi a scrivere la famosa lettera d'intenti all'Unione europea, i vertici del Pd avevano parlato due lingue diverse sulla linea da tenere in caso di crisi. "Elezioni subito", aveva tuonato Bersani precipitandosi in sala stampa nonostante l'influenza.

"Un governo di unità nazionale", aveva immaginato Letta nelle stesse ore, dopo essere stato convocato dal Quirinale. Con i sondaggi che danno il centrosinistra in vantaggio di dieci punti sulla coalizione Pdl-Lega e il Pd sopra il partito berlusconiano, l'interesse immediato di Bersani resta quello di andare a votare subito. E anche nel Pd c'è chi considera i diktat della Banca centrale europea e della Germania un prezzo troppo salato da pagare. "C'è la catastrofe Berlusconi, ma c'è anche la catastrofe Europa", dice per esempio il dalemiano Nicola Latorre, "Berlusconi si è piegato acriticamente a decisioni inaccettabili, se fossimo noi al governo dovremmo provare a contrastare la Merkel". Ma ora il Pd si è ricompattato e Bersani ha assicurato al Quirinale: in caso di governissimo il partito non si tirerà fuori. Sull'impresa più importante, quella che vale una generazione politica, portare al sicuro l'Italia dall'attacco della speculazione e aprire finalmente la stagione del dopo-Berlusconi, il Pd non può permettersi di sbagliare.

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