EMANUELE MACALUSO -

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22/4/2008
 
Macché Nord il nodo è il Pd
 

EMANUELE MACALUSO
 
Palmiro Togliatti, nella campagna elettorale del 1948, parlando a Torino di fronte a 130.000 persone, pronunciò queste parole: «De Gasperi ha capito che questa volta il verdetto di condanna delle masse popolari (della Dc, n.d.r.) non verrà dall’Italia del Nord. Ma verrà prima di tutto dal Mezzogiorno lavoratore, contadino e piccolo borghese….».

Traggo questa citazione dal libro di Edoardo Novelli (Le elezioni del Quarantotto, Donzelli editore) per dire che in quelle elezioni il leader del Pci dava per scontato che il Nord avrebbe votato per il «Fronte popolare» e annunciava la vittoria nel Sud. Ma perse al Nord e al Sud. E così è stato sempre: quando la sinistra ha vinto e quando ha perso. Tuttavia le aspettative di Togliatti sul voto del Sud non erano campate in aria se si tengono presenti i dati delle elezioni siciliane, svoltesi il 20 Aprile del 1947: il «Blocco del popolo» (Pci-Psi-Partito d’azione) con il simbolo di Garibaldi (come nel 1948) aveva ottenuto il 30 per cento dei suffragi e la Dc solo il 20 per cento. Nel 1948 l’assetto economico-sociale non era certo cambiato, ma la Dc ottenne nell'isola la maggioranza assoluta. Il Fronte popolare perse 10 punti, calò al 20 per cento dei voti.

Come è noto quel che era cambiato era invece il quadro politico internazionale (la guerra fredda) e anche quello nazionale dato che la Dc e i partiti di centro puntarono con determinazione sulla riorganizzazione e lo sviluppo del capitalismo. Le scelte furono nette e lo scontro sociale e politico negli anni Cinquanta fu durissimo. Ma complessivamente l’Italia progredì: da Paese agricolo-industriale si affermò come potenza industriale e si realizzarono anche significativi progressi sociali. E in quegli anni i rapporti di forza elettorali cambiarono: già nel 1951 nelle elezioni siciliane la sinistra segnò una significativa avanzata, lo stesso avvenne nelle elezioni politiche del 1953 quando la Dc e i partiti centristi non superarono il 50 per cento dei suffragi necessari per fare scattare il premio di maggioranza prevista dalla «legge truffa». Penso che quei progressi elettorali della sinistra furono frutto di una politica che, anche all’opposizione, indicava un certo rapporto tra Nord e Sud e di una presenza attiva e organizzata, in tutti i gangli della società.

Ho fatto questa lunga premessa anche per dire che in anni in cui effettivamente si verificarono processi politico-sociali «epocali», nessuno usò questo termine enfatico di cui oggi si abusa per giustificare il fatto che nel Nord il Pd non decolla, si verifica uno sradicamento della sinistra radicale e un successo elettorale della Lega. E nessuno invece parlò di svolta epocale nel momento in cui per la prima volta nella storia di questo Paese le regioni del Mezzogiorno continentale e della Sardegna sono state governate dal centrosinistra. Eppure il fatto è stato politicamente rilevante. Ed è rilevante il fatto che è riemersa una «questione meridionale» più acuta di quella del passato perché è determinata anche dal fallimento dei governi del centrosinistra nel Sud. E come nel Nord sono andati avanti processi che di fatto hanno sempre più separato le due parti del Paese. La Lega esprime questa «separatezza» che ora si manifesta anche al Sud con il movimento di Lombardo.

Cosa fare? Dopo il risultato elettorale nel centrosinistra, l’unica risposta che si è sentita è quella che chiede il «Pd del Nord». Ci sarà anche il Pd del Sud? Il problema, a mio avviso, non è il Pd del Nord, ma il Pd. Ogni giorno si legge che questo partito deve «ricominciare dal territorio». Vero. Ma con quale politica, con quali forze, con quale struttura organizzativa? Si è scritto sino alla noia che la nascita del Pd è stata una grande operazione politico-culturale «epocale», che ha fuso le anime politiche di Moro e Berlinguer (sciocchezze!) che superava le esperienze dei partiti socialisti europei ecc. E ora?

Intanto non ci sono nel Pd organi in cui si discute seriamente e pubblicamente sulle cause della sconfitta e sulle prospettive dell’opposizione. Il Pci, partito la cui democrazia interna era monca, lo faceva nei Comitati Centrali con resoconti sull’Unità. Il partito democratico non fa nemmeno questo. Eppure ne avrebbe bisogno.
 
da lastampa.it

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30/4/2008
 
Un patto costituzionale tra destra e sinistra
 
EMANUELE MACALUSO
 

In due occasioni che segnano la storia della Repubblica italiana - il sessantesimo anniversario della Costituzione e la ricorrenza del 25 Aprile - il Capo dello Stato ha pronunciato due discorsi su cui riflettere per l’incidenza che hanno sui processi politici che attengono alla ricostruzione di un sistema politico condiviso. Giorgio Napolitano, il 23 gennaio scorso, parlando davanti alle Camere riunite, ha messo in forte evidenza la validità della Costituzione come riferimento essenziale delle istituzioni e dei cittadini e il 25 Aprile a Genova ha detto che quella data «deve porsi al centro di uno sforzo volto a ricomporre con spirito di verità la storia della nostra Repubblica». In entrambi i discorsi ha sollecitato una «condivisione» nel dare un senso a quelle date attraverso uno sforzo volto a raggiungere «un comune sentire storico». Nel primo e nel secondo intervento Napolitano non ha fatto ricorso alla retorica ma al ragionamento critico, alle argomentazioni volte a valutare serenamente e consapevolmente le revisioni necessarie e i punti fermi «invalicabili».

Le reazioni politiche espresse dai due schieramenti ai due discorsi sono state interessanti e in parte convergenti, anche se Berlusconi sul tema continua ad avere un comportamento «equivoco», nel dire e non dire, nell’affermare e nello smentire. L’«equivoco», però, non è solo nella persona che l’esprime, ma nell’attuale sistema politico. Ed è su questo punto che vorrei soffermarmi. Le forze politiche che insieme furono protagoniste della Resistenza e scrissero la Carta Costituzionale, dal 1994, sono scomparse dalla scena politica. I loro eredi, in parte radunati nel centrosinistra, hanno formalmente assunto i valori della Resistenza e della Costituzione, ma non hanno avuto la capacità e la forza politica di reinterpretarli e di esprimerli nel quadro politico nuovo. Un quadro politico di cui è stato fattore determinante la «discesa in campo» di Berlusconi che col suo partito-azienda ha egemonizzato il sistema, sdoganando il Msi di Fini, assorbendo buona parte degli elettori moderati del vecchio pentapartito (Dc, Psi, Pr-Psdi, Pli) e avallando come forza di governo la Lega di Bossi.

In tutti questi anni - sui temi cui ho accennato - per usare un termine calcistico, il centrosinistra ha fatto catenaccio e ha giocato di rimessa: ha difeso stancamente i valori della Costituzione e della Resistenza senza un progetto innovativo. Il centrodestra invece non ha avuto come riferimento la Resistenza e ha teso a introdurre modifiche strumentali alla Costituzione senza un progetto politico-costituzionale.

Insomma, tra le forze che si sono alternate al governo e all’opposizione, non c’è un «patto costituzionale» e una condivisione sui valori che dovrebbero essere fondanti per la nazione. Eppure - ecco un fatto su cui riflettere - dal 1992, anno in cui si apre una crisi di sistema, i Presidenti della Repubblica, Scalfaro, Ciampi e Napolitano, con accenti diversi, sono stati non solo custodi della Costituzione, ma espressione delle forze che animarono la Resistenza. I tentativi fatti, soprattutto da Ciampi e Napolitano, volti a «normalizzare» i rapporti tra maggioranza e opposizione non sono stati vani e hanno ottenuto risultati nello svolgimento del conflitto politico, anche nei momenti in cui è stato aspro. Non è un caso che i due presidenti hanno avuto e hanno un alto gradimento tra i cittadini.

Tuttavia, il problema a cui abbiamo accennato, il reciproco riconoscimento fondato su un patto costituzionale, è aperto. E non si risolve, come pensavano Veltroni e Berlusconi, con le «buone maniere» e con il comune interesse a usare la legge elettorale per eliminare dalla scena politica i piccoli partiti che hanno reso difficile la governabilità. Il presidente Napolitano nel suo discorso ha posto le basi politico-culturali per un confronto reale su temi cruciali come la Resistenza e la Costituzione. Sul primo a me pare che sia stata offerta una sintesi alta su cui tanti storici e personalità della politica di diverse parti hanno discusso. E anche sulla Costituzione questo Presidente ha detto cose innovative. Del resto chi ha seguito l’itinerario politico-culturale di Napolitano e i suoi scritti (anche quando non era al Quirinale) sa che non è mai stato un paladino dell’intoccabilità della Carta e delle istituzioni, ma un fautore di riforme rigorose e condivise.

Attenzione, lo dico dopo l’aspro scontro per il ballottaggio a Roma, non ci sono scorciatoie, se maggioranza e opposizione non si confrontano e non si incontrano sul terreno costituzionale e su valori della Resistenza così come sono stati reinterpretati dal Presidente, i tentativi di accordi su «leggi e regolamenti» falliranno. Occorre cominciare dalla testa e non dai piedi del sistema.
 
da lastampa.it

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6/5/2008
 
Sinistra, un po' di realismo
 
EMANUELE MACALUSO
 

Sono trascorsi tre anni da quando in Italia si svolsero le elezioni che segnarono un grande successo del centrosinistra in quasi tutte le regioni e particolarmente nel Sud continentale. Sono trascorsi due anni dalle elezioni politiche che diedero la vittoria di misura all’Unione prodiana. E solo due anni addietro, nelle elezioni comunali di Roma, Veltroni ottenne il 67 per cento dei voti, mentre Alemanno si fermò al 33 per cento. Eppure, a leggere alcune analisi dei risultati elettorali del mese scorso, sembra che la destra abbia vinto non tanto per gli errori politici e di comportamento dei partiti del centrosinistra e del governo che esprimevano, ma perché il mondo che li circonda e condiziona è radicalmente cambiato.

Eugenio Scalfari nel suo editoriale domenicale ha scritto: «Io credo che l’emergere elettorale del centrodestra e la rivoluzione parlamentare che ne è seguita siano state largamente determinate dal nuovo atteggiarsi delle forze produttive, lo sgretolarsi dei tradizionali blocchi sociali, la scomparsa delle classi, il frazionarsi degli interessi fino alla loro completa polverizzazione». Dubito che le classi siano scomparse, e mi chiedo se i processi a cui accenna Scalfari siano emersi in questi ultimi due-tre anni.

Nei giorni scorsi nella trasmissione «Otto e mezzo» ho ascoltato Nichi Vendola che analizzando le ragioni della sconfitta ha parlato di sconvolgimenti economici, sociali e civili «epocali» tali da mettere in discussione tutto l’assetto politico-culturale della sinistra. Eppure tre anni addietro Vendola, dirigente di Rifondazione comunista, vinse le primarie nel confronto con un esponente dell’Ulivo e vinse il ballottaggio con l’ex presidente della Regione, Fitto, leader di Fi. In quell’occasione si disse che Vendola aveva interpretato bene i mutamenti profondi che si erano verificati nella società. Oggi lo stesso Vendola ci dice che la sinistra non è stata in grado di capire quei mutamenti.

La verità è che in questi due-tre anni si sono verificati alcuni fatti politici di cui non si parla con sufficiente realismo e spirito critico. Anzitutto il governo Prodi di cui nella campagna elettorale si esaltavano i risultati sul terreno del risanamento dei conti pubblici (i risanatori però - Prodi, Padoa-Schioppa, Visco - non erano candidati), si denunciavano i limiti sociali della sua opera ma non si capiva qual era il giudizio complessivo che ne dava il Pd. L’Arcobaleno vantava la fedeltà a Prodi ma denunciava con violenza il «massacro sociale» consumato in questi anni. Non si può fare una campagna elettorale senza un giudizio chiaro, netto, comprensibile sul governo di cui si fa parte.

L’altro fatto politico verificatosi alla vigilia delle elezioni è stato la nascita del Pd, del Pdl e dell’Arcobaleno: una «rivoluzione» nelle forze politiche senza un processo politico-culturale e una partecipazione reale che l’accompagnasse. La destra, con Berlusconi, non ha questi problemi. La sinistra sì, e si è visto. Queste osservazioni servono per dire che le questioni che debbono affrontare le forze politiche del centrosinistra sono squisitamente politiche e sono due: ridefinirsi come partiti e attrezzarsi per fare un’opposizione «normale» rispetto a un governo che, come dice Marcello Sorgi, dovrebbe essere anch’esso «normale». Il malessere che serpeggia nel Pd non è dovuto solo a un risultato deludente, ma al fatto che quel risultato è ascritto all’incerta identità di un partito che oggi non è in grado di definire le sue alleanze, necessarie, come dice D’Alema, per condurre un’opposizione più incisiva. Un partito che, a un anno dalle elezioni, non sa ancora dove collocarsi nel Parlamento europeo.

Ma un dibattito politico su questi temi non si è ancora aperto. Nella sinistra Arcobaleno e nei socialisti la confusione è grande e non si vede una via d’uscita. Quel che ormai dovrebbe essere chiaro a tutti è una cosa: non è pensabile e non è serio che forze politiche con l’uno, due, tre per cento o poco più si definiscano socialiste o comuniste. Un partito socialista in tutto il mondo è tale se ha un consenso largo di popolo. E in Italia anche il partito comunista ebbe carattere di massa. La Costituente socialista doveva partire da questo punto per essere credibile. Nei giorni scorsi Pannella ha promosso un dibattito con pezzi dell’Arcobaleno sul futuro della sinistra. Tuttavia non mi pare che si esca da una logica e una visione minoritarie: comprensibile per un partito radicale, ma non per una forza socialista. Insomma, una forza di sinistra in competizione virtuosa col Pd è utile solo se ha consistenza e si colloca nell’ambito del socialismo europeo. Oggi, invece, tutto è confuso e incerto. Sono queste le ragioni per cui penso che le analisi «epocali» possono essere fuorvianti se non si affrontano i veri nodi politici messi in forte evidenza dal risultato elettorale.

 
DA lastampa.it

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13/5/2008
 
L'eterna baruffa D'Alema-Veltroni
 
EMANUELE MACALUSO

 
Sono molti i giornali che hanno commentato negativamente, a volte con espressioni sprezzanti, la riproposizione del vecchio film in cui si svolge il duello, senza morti e feriti, tra Veltroni e D’Alema.

Michele Serra domenica scorsa su Repubblica, nella sua rubrica, scriveva: «L’idea che l’opposizione possa ripartire da un remake della vecchia baruffa D’Alema-Veltroni non è neanche triste. È pazzesca nel senso letterale della parola». È vero, quel film è inguardabile. Ma siccome, checché ne pensi Serra, la baruffa non si svolge in un manicomio e i protagonisti non sono pazzi ma dovrebbero guidare l’opposizione al governo Berlusconi, bisogna chiedersi come mai e perché si ripropongono quei vecchi scenari. E a chiederselo dovrebbero essere soprattutto coloro che hanno auspicato e salutato la nascita del Pd come evento «epocale» che seppelliva il passato dei partiti che vi confluivano e apriva l’era nuova della politica.

A riflettere sul «caso» dovrebbero essere i tanti che osannarono l’elezione di Veltroni a segretario del Pd attraverso le «primarie» come moderna investitura che finalmente cancellava gli antichi e superati riti congressuali celebrati negli antichi e superati partiti politici. Una novità quella delle «primarie» all’italiana, voluta non solo da Veltroni ma anche da D’Alema, Marini, Fassino, Rutelli e altri. Ora, invece, si dice che siamo punto e daccapo. D’Alema al giornalista del Tg3 che gli chiedeva se stava costituendo una corrente, replicava, con ragione, che le correnti nel Pd c’erano già e bastava guardare come si davano gli incarichi. La stessa osservazione, successivamente, l’hanno fatta l’on. Parisi e gli «ulivisti».

A mio avviso il problema non sta nel sapere se ci sono o no le correnti nel Pd, ma se hanno o no una base politica. Quesito essenziale per capire se siamo di fronte a una «baruffa» tra due oligarchi che da tempo si contendono il controllo nei partiti in cui hanno avuto un ruolo. A chi segue la vicenda politica italiana e particolarmente quella della sinistra, è più agevole capire quale fu il contrasto politico tra Pietro Ingrao e Giorgio Amendola negli Anni Sessanta nel Pci (un partito in cui vigeva il centralismo democratico), che quello che ha contrapposto negli Anni Novanta e nel 2000 Veltroni e D’Alema che agivano in partiti (Pds-Ds-Pd) che avrebbero dovuto praticare una dialettica politica aperta, pubblica, leggibile a tutti.

In verità Amendola e Ingrao fecero battaglie politiche, anche aspre ma politiche, e si capiva che il primo guardava con interesse l’avvento del centrosinistra con i socialisti al governo e il secondo lo considerava un fatto negativo, frutto di un neocapitalismo che tendeva a inglobare la classe operaia nel sistema. Quindi, schematicamente, il primo era considerato di «destra» e l’altro di «sinistra». Negli ultimi quindici anni D’Alema e Veltroni sono stati a «destra», a «sinistra» e al «centro» in rapporto a vicende interne al loro partito e non agli sviluppi della situazione politica e sociale. L’investitura di Veltroni con le «primarie» senza competitori, senza mozioni diverse, non è stato un momento di chiarezza per la discussione nel Pd e fuori di esso. Basti pensare a come è stato affrontato nella campagna elettorale l’operato del governo e dello stesso Prodi. Il quale è stato «l’inventore» del Pd e il suo primo presidente, mentre oggi senza un dibattito politico è solo un pensionato. Luca Ricolfi nel suo editoriale sulla Stampa di domenica ha scritto che «il Pd è alla ricerca di una identità» e dice che non l’ha trovata perché non ha una politica rispetto ai temi che travagliano i blocchi sociali nelle fasi in cui si scompongono e ricompongono. Vero.

Ma questa incapacità a scegliere si ripropone sul terreno più squisitamente politico: nel corso della campagna elettorale Veltroni esaltava la vittoria di Zapatero mentre nel Pd si denunciava il «pericolo di una deriva zapaterista». Insomma, le correnti senza una base politica sono solo giochi di potere, ma il falso unanimismo nasconde sempre giochi di potere. Oggi nel Pd sarebbe necessario un dibattito politico aperto con documenti politici chiari su cui votare per costruire maggioranze e minoranze non in guerra, ma dialetticamente in competizione. Altrimenti ha ragione Michele Serra: le contrapposizioni tra D’Alema e Veltroni sono solo baruffe per gestire poi insieme il partito. Anche questa scelta connota l’identità del Pd.
 
da lastampa.it

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20/5/2008
 
La Niscemi dei braccianti e quella di Lorena
 
 
 
 
 
EMANUELA MACALUSO
 
Sabato i telegiornali hanno trasmesso i funerali di Lorena, la ragazzina massacrata e gettata in un pozzo da tre ragazzi che come lei frequentavano le scuole del loro paese, Niscemi. Le immagini che ci facevano vedere la piazza con la chiesa e tanta gente hanno richiamato altre immagini immagazzinate nella mia memoria sessant’anni addietro. In quella piazza infatti negli Anni 40-50, e anche dopo, ho parlato a migliaia di uomini e donne che in quegli anni e da sempre vivevano in condizioni terribili. Niscemi era un grande centro agricolo popolato di braccianti poverissimi che lavoravano una terra fertilissima con mezzi primitivi e salari miserabili. Erano tanti e il lavoro non c’era per tutti.

Niscemi era un paese flagellato dal tracoma e dalla tubercolosi e la bassa statura dei suoi cittadini era segnalata nelle statistiche come segno di fame antica. Ma quei lavoratori erano anche orgogliosi e combattivi e dopo la Liberazione (luglio 1943) ripresero a battersi con i sindacati e i partiti della sinistra per migliorare le loro condizioni di vita, per cambiare il loro paese, la Sicilia feudale e baronale. Lottavano per il lavoro e il salario ma anche per avere l’acqua, le scuole, centri di aggregazione sociale per cambiare la loro collocazione nella società, in una parola per essere cittadini titolari di diritti e non solo di doveri.

Oggi, con disinvoltura culturale disarmante, si descrivono gli Anni 50 come quelli in cui la sinistra proponeva la rivoluzione mancata e aspettava Stalin. In verità in quegli anni lo scontro sociale fu durissimo e con tanti morti (la mafia uccise in Sicilia 40 dirigenti sindacali) e in gioco c’era la modernizzazione del Paese. Senza le lotte per la riforma agraria nel Meridione non sarebbe stato possibile lo sviluppo capitalistico al Nord che si avvalse anche dell’emigrazione dalle cento Niscemi del Sud. Il bracciante politicamente colto, socialmente emancipato fu una grande risorsa non solo per la sinistra ma anche per la società nel suo complesso al Nord e al Sud. Un mutamento che investiva anche il costume.

E negli Anni 70 il Sud del «delitto d’onore» votò a grande maggioranza il referendum per conservare le leggi sul divorzio e l’aborto. Ho fatto questa premessa per dire che i partiti in quegli anni ebbero anche un ruolo nell’emancipazione civile e nel grande processo di civilizzazione, un ruolo anche «pedagogico» che oggi viene contestato e disprezzato. Filippo Penati, che è stato comunista a Sesto San Giovanni, oggi presidente della Provincia di Milano, ha detto che «il Pd, diversamente dai partiti che lo hanno preceduto, deve rappresentare più che educare». Preoccupazione superflua dato che da anni la sinistra non «educa» e oggi al Sud forse «diseduca». Eppure, il fatto che tra i nipoti dei braccianti che io frequentavo ci siano la ragazzina assassinata e tre ragazzi assassini, in quel contesto che ci hanno raccontato mi ha colpito, mi ha ferito, mi ha fatto riflettere.

Cos’è oggi per questi vecchi centri bracciantili del Sud la «modernizzazione»? I partiti, la Chiesa non hanno più un ruolo «educativo» e non lo ha nemmeno la scuola. L’unico mezzo che in questi paesi trasmette cultura è la tv e oggi Internet anche con YouTube. I quotidiani in Sicilia non fanno certo battaglie di idee. Io non penso certo di «educare» la tv delle veline e dei tronisti eroi dei nostri giorni, i rotocalchi di gossip e altro materiale simile. Non puoi fermare una valanga con le mani. E chi pensa a censure è un cretino. Ma non penso nemmeno che bisogna rassegnarsi e accettare la minestra (spesso velenosa) che ti passa il convento dei media. Penso invece che la battaglia delle idee, se è tale, non incontra solo la politica politicante ma anche la società nel suo complesso.

Ora da anni i partiti non fanno battaglie di idee. Amministrano, male, l’esistente. E anche i giornali che vanno contro corrente sono pochi e introvabili in questi Comuni del Sud. Il parroco di Niscemi ai funerali ha pronunciato parole durissime. Ma quali effetti hanno se poi tutto, anche nelle chiese, ricomincia come prima? E dopo un fatto così atroce e carico di segnali della società in cui viviamo, Penati e tanti che pensano come lui vengono a dirci che il suo partito deve essere agnostico e non deve mostrare alcun interesse per l’educazione ma per la rappresentanza. Ma, scusate, la rappresentanza di cosa ed espressa da chi?
 
da lastampa.it

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