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Autore Discussione: LEGGERE per capire... non solo la politica.  (Letto 150613 volte)
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« inserito:: Aprile 16, 2008, 12:23:34 pm »

16/4/2008
 
Sindrome di Amleto
 

EMANUELE MANCUSO

 
Nella legislatura 1996-2001, il centrosinistra, che aveva vinto le elezioni, travagliato da crisi e difficoltà varie, espresse tre presidenti del Consiglio: Prodi, D’Alema e Amato. Nelle elezioni del 2001, segretario dei Ds Veltroni, l’Ulivo non si alleò con Rifondazione comunista, responsabile della crisi del primo governo e non candidò né Prodi, né D’Alema, né Amato. Veltroni propose come leader il sindaco di Roma, Rutelli, che ottenne il consenso della coalizione ma non degli elettori. In quella campagna elettorale l’Ulivo esaltò i risultati ottenuti dai suoi governi sul terreno del risanamento dei conti pubblici e dell’impegno internazionale (soprattutto nel Kosovo) ma non candidò nessuno dei protagonisti di quella politica. Veltroni, prima del voto, lasciò la segreteria dei Ds e si candidò a sindaco di Roma. Il Cavaliere vinse. Come sappiamo, nel 2005, Berlusconi dopo cinque anni di governo era in difficoltà, Prodi ricompose la sua coalizione includendo la sinistra radicale e per un soffio vinse le elezioni.

Ma il governo non ha retto, dopo due anni si sono sciolte le Camere e il 13 aprile abbiamo votato. Intanto era nato il Pd, Veltroni non più sindaco di Roma (si ricandida Rutelli) guida il nuovo partito impegnato subito nella campagna elettorale. La coalizione prodiana però si scompone: il Pd si allea con Di Pietro e incorpora i radicali, il Partito socialista si presenta «solo», la sinistra-sinistra si unifica nell’Arcobaleno. Ma nella campagna elettorale, come nel 2001, il presidente del Consiglio sparisce. Qual è il giudizio del Pd sull’opera del suo governo non si capisce: si recita l’Amleto dell’essere e non essere.

Tutti, Pd e Arcobaleno, pensano che la presa di distanza da Prodi, senza chiarire le ragioni, basti a superare le difficoltà. Del resto il Pd e l’Arcobaleno sono formazioni la cui identità richiama «l’essere e non essere». E il risultato è quello che conosciamo. A conti fatti, il centrosinistra, nel suo complesso, rispetto al 2005 ha perso il 5,7 per cento. Su questo dato però non si ragiona. Invece bisogna ragionare. Se la sconfitta della sinistra radicale avesse prodotto la vittoria del Pd, i leader di questo partito potrebbero parlare di successo della loro strategia. Ma le cose non stanno così: la sinistra radicale ha perso 7 punti e il Pd rispetto all’Ulivo ne ha guadagnati 3.

Alcuni giornali sommariamente hanno fatto grossi titoli dicendo che «La sinistra è fuori del Parlamento». Ma quale sinistra? È vero che Veltroni ha detto e ridetto che il Pd non è un partito di sinistra, ma non si può certo dire che in quel partito, la cui identità è incerta, non ci siano forze di sinistra! Lo stesso Veltroni ha chiesto al socialista Zapatero messaggi di auguri per le elezioni, a Roma è arrivato il sindaco di Parigi, socialista e gay, per la campagna di Rutelli, abbiamo letto dichiarazioni di appoggio al Pd dei leader del partito socialista europeo: ma il Pd non è un partito di sinistra. Tuttavia l’assenza nel Parlamento dei socialisti e della sinistra radicale, che certo non spariscono dalla società, pone dei problemi. Li pone alla sinistra radicale che non può riversare sulle spalle di Veltroni la sua sconfitta. È una spiegazione infantile. Se la tua esistenza dipende da chi non ti vuole in vita c’è qualcosa di sbagliato in come tu vivi. Lo stesso ragionamento va fatto per i socialisti. Ma il Pd non può dire: tutto questo non mi interessa.

Io non credo negli scenari prefigurati da Cossiga, il quale teme che a sinistra si verifichi una deriva estremista e addirittura terroristica. Ma il problema c’è. L’esigenza di incanalare movimenti, tensioni e pulsioni sociali e politiche, che possono esprimersi sul terreno extraparlamentare, nell’ambito della dialettica democratica e parlamentare, sarà un tema di questa legislatura. Insomma, pensare che la storia della sinistra si sia conclusa è un errore che può pagare il Paese. Il tema semmai è un altro: quale sinistra è possibile dopo questo risultato elettorale? Un tema su cui occorre discutere.
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Maggio 28, 2008, 06:56:45 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 16, 2008, 06:36:13 pm »

Come sopravvivere alla coppia B&B

Roberto Cotroneo


In qualche modo bisognerà farcela. Da qualche parte una possibilità c’è. Per tutti quelli che martedì 15 aprile, come in un romanzo di Kafka, si sono svegliati, e si sono accorti, in un momento, che da ieri, l’Italia sarà di nuovo berlusconiana c’è bisogno di una terapia di sostegno, di un appoggio, di una ragione. Molti vagano increduli, altri sfogliano nervosamente vecchi giornali per ricordarsi com’era solo due anni fa, altri ancora credono che con questa maggioranza “stabile” nessuno ce la farà, perché gli anni potrebbero essere cinque, non uno di meno, e si dovrebbe camminare nella valle del regno di Berlusconi fino al 2013.

Fino al 2013 con Bossi e Cicchitto, con Fini e Maroni, con la Carfagna e Bondi, con Borghezio e Calderoli. Fino al 2013 con Gasparri, con Alemanno, con Lombardo. Fino al 2013 tutti là appassionatamente, o magari anche no, magari anche a litigare ogni tre minuti, ma certi che questa volta il potere se lo tengono stretto e si governa fino alla fine. E se qualcosa va fatto, allora non bastano palliativi facili. E ci sono una serie di strategie che si possono adottare da subito.

1. Evitare le trasmissioni televisive politiche. Innanzi tutto «Porta a Porta». Cominciare a pensare con determinazione che la politica non esiste più in quella forma, e che se ne può fare a meno. Rimuovere, se è possibile. Guardare in televisione solo film e naturalmente molto sport. Occuparsi più di calcio mercato che di toto ministri, ostentare un'indifferenza totale verso qualsiasi tipo di nomina pubblica o istituzionale, per chi vive a Roma tenersi lontani da piazza Montecitorio, perché non vengano pensieri angosciosi.

2. Darsi un'anima internazionale. Le prime tre pagine di qualsiasi quotidiano lasciarle direttamente all’edicolante. Se è opportuno munirsi di una piccola taglierina per rendere l'operazione più semplice. Almeno una volta a settimana immergersi nella lettura di Limes e occuparsi di esteri con passione e competenza. Sapere tutto dell'Africa, della Cina, del Sudamerica. Non sapere nulla della politica interna, tanto non c’è che da incavolarsi. E poi l’opposizione in Parlamento e solida e compatta, e ci penseranno loro. Ovvio. Per quanto riguarda i telegiornali, saltando i primi quindici minuti si dovrebbero evitare le cose peggiori. Dunque Tg1 e Tg5 iniziano per definizione alle 20 e 15 e il Tg2 alle 20 e 45. Desintonizzare per principio Rete 4 dal proprio televisore per non incappare neppure casualmente in Emilio Fede. Se usate internet per informarvi, è preferibile togliere dalla home page la pagina del Corriere o di Repubblica on line, e metterci quella del Paìs.

3. Pensare il meno possibile. Non è opportuno andare a riposarsi, o fare immediate vacanze, in eremi umbri e toscani, in luoghi di riflessione, o in regioni, comuni e provincie amministrate dal centro sinistra in modo particolarmente efficace. Provoca stati d’ansia. Provoca stati d’ansia anche finire in luoghi amministrati dal centro destra, perché poi si capisce cosa ci aspetta. Stare a casa propria è molto meglio. E circondarsi di feticci e simboli rilassanti e positivi. Con pochi euro e possibile farsi stampare una gigantografia di Obama da appendere in salotto, ma senza la frase «we can».

4. Molta natura. La natura funziona sempre. E soprattutto non l'ha inventata Berlusconi, fino a prova contraria. Passeggiate, studio degli insetti, della flora e della fauna. Per chi ama il mare sono indicate lunghe passeggiate sulla spiaggia. Basta che non sia la Costa Smeralda.

5. Molta natura, ma evitare accuratamente le passeggiate per la pianura Padana, o lungo gli argini del Po. Si rischia di incontrare gente con l’armatura che riempie ampolle dal fiume. E vengono inquietanti pensieri.

6. Trovarsi un hobby. Può essere uno sport, ma anche no, ovviamente. Indicati sport ossessivi senza attinenza con la cronaca politica. Il calcio ad esempio non è molto indicato. Meglio il golf. E può funzionare anche il Polo. Per chi non riesce a fare a meno di pensarci, a Berlusconi e Bossi al governo, potrebbero andare bene anche gli scacchi, la dama, il backgammon, e in genere i videogiochi. Da evitare assolutamente i giochi da tavolo. Sopra ogni cosa il “Monopoli”.

7. Allontanarsi il più possibile dalla contemporaneità. Non leggere saggi sull'Italia di oggi, darsi alla magia della letteratura. Esotismo, esotismo e ancora esotismo. Imparare a ballare, per chi non sa farlo. Balli di coppia, scegliendo accuratamente partner che non siano di centro sinistra. Perché poi si finisce per parlare solo di Berlusconi. Tutti i balli vanno bene, eccetto quelli da viveur anni Sessanta. Per chi con il ballo ha dei problemi, imparare a suonare uno strumento, o perfezionarlo è un buon modo per dimenticare. Iscriversi a una stagione di concerti, rigorosamente musica classica. Rarefazione e distanza fanno bene, meglio la musica barocca. Il rigore e le geometrie di Bach fanno illudere di vivere in un Paese migliore.

8. Per chi è single, il vecchio metodo di trovarsi subito un fidanzato o fidanzata potrebbe essere di aiuto. Ma attenzione. Meglio uno straniero o una straniera. Per motivi immaginabili, non pensano troppo a Berlusconi, e non sanno quasi chi siano Bossi o Maroni. Se proprio non si può andare oltre Italia, scegliere anime gemelle nell’area dell’astensionismo. Niente politica, per favore.

9. E niente cultura. Leggere libri certo. Ma meglio non frequentare presentazioni di testi impegnati, cineforum, teatro sperimentale, o musicisti contemporanei. Finisce che ti senti di nicchia. E non va bene affatto.

10. Attendere. Con pazienza. Non c’è altra possibilità. Ascoltare la radio di notte. È raro che telefoni Berlusconi a quell’ora durante i programmi.
Uscire circospetti, provare a sorridere, nonostante tutto. Convincersi che pioverà per cinque anni, più o meno. Perché è andata così. L’importante, come dice il poeta Paolo Conte, è che piova sugli impermeabili, e non sull’anima.


Pubblicato il: 16.04.08
Modificato il: 16.04.08 alle ore 8.19   
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« Risposta #2 inserito:: Aprile 17, 2008, 12:33:38 pm »

L’intervista

Cremaschi e il boom della Lega operaia: «Marxisti di destra. E Tremonti non sbaglia»

Il leader dell’estrema sinistra nella Cgil: l’Arcobaleno ha ottenuto zero


ROMA—«Nel 2006 Prodi diventò presidente del Consiglio grazie al voto degli operai. Gli stessi che questa volta hanno scelto in massa la Lega, mandando a Palazzo Chigi Berlusconi». Per Giorgio Cremaschi, segretario nazionale della Fiom e capo della minoranza di estrema sinistra della Cgil, «il successo della Lega era nell’aria, bastava girare nelle fabbriche».

Perché gli operai hanno scelto il partito di Umberto Bossi?

«Lo avevano già fatto nel 2001. È un voto di protesta che dice ai partiti di sinistra: "Non vi siete occupati di noi". Il segnale c’era già stato con i fischi dell’assemblea di Mirafiori del 7 dicembre 2006».

Ma perché proprio la Lega?

«Perché assomiglia di più a un partito marxista-leninista: ha una fortissima identità ma al tempo stesso un grande pragmatismo».

Solo per questo?

«No. La Lega dà una forte risposta, sia pure di destra, a chi si sente minacciato dalla globalizzazione. E nel centrodestra il libro di Tremonti, anche se un po’ spregiudicato, è però intelligente».

Lei è d’accordo con Tremonti?

«Condivido il giudizio negativo su quello che lui chiama mercatismo e io preferisco chiamare liberismo, ma non le proposte».

Se tutti questi operai che prima votavano per la sinistra ora scelgono la Lega, significa che la Lega è di sinistra?

«No. Anche un partito di destra può essere un partito popolare».

Allora gli operai sono diventati di destra?

«No. Sono rimasti di sinistra ma hanno punito chi li ha traditi». Anche la Sinistra arcobaleno? «Era la forza politica meno credibile. Aveva portato in piazza un milione di persone su salari e precarietà, ma nel governo ha ottenuto zero. Poi ha commesso anche delle stupidaggini, come lo slogan "Anche i ricchi piangano"».

Ma non hanno votato neppure per Marco Ferrando e per i partiti della falce e martello.

«Gli operai non votano per formazioni elitarie».

Rosi Mauro, segretario del sindacato della Lega, dice che il Carroccio ha sempre interpretato i bisogni operai, ma che il suo sindacato è stato discriminato.

«Rosi Mauro me la ricordo fin da quando, molti anni fa, era una delegata della Uilm. Il Sinpa non ha mai sfondato perché fare sindacato non è una cosa semplice. Detto questo, chiunque oggi dice "Mettiamo alla prova la rappresentatività del sindacato" fa una cosa giusta. Non si deve nemmeno avere il sospetto che il gioco sia truccato».

E quindi?

«Se il governo fa una legge sulla rappresentatività sindacale, anche se per fini diversi dai miei, mi sta bene. Ci vogliono elezioni delle Rsu senza quote riservate a Cgil, Cisl e Uil. Ci vuole un rinnovo periodico delle deleghe, ogni 3-4 anni. E infine regole per garantire che il finanziamento sia trasparente».

Che linea deve avere la Cgil?

«La deve decidere un congresso. So che la mia posizione è ultraminoritaria, ma sono per una Cgil conflittuale. Ma non quella di Cofferati del 2002-2003. Non dobbiamo fare la grande opposizione politica a Berlusconi, ma tornare nelle fabbriche e batterci per il salario».

Ma dove la vede tutta questa voglia di conflitto? Il voto ha punito le forze antagoniste.

«Un operaio può votare Lega e fare tantissimi scioperi. Dopo l’autunno caldo, alle amministrative del 1970 a Mirafiori il primo partito risultò la Dc. Gli operai hanno votato Lega, ma se Berlusconi e Confindustria non aumenteranno loro i salari, il conflitto scoppierà».

Perché invece i dipendenti pubblici continuano a votare in maggioranza per il Pd?

«Perché si sentono più tutelati. Nel sindacato si deve aprire una discussione vera su questo. Non voglio fare i discorsi di Ichino sui fannulloni, ma nel mondo del lavoro convivono sacche di privilegio accanto a condizioni inaccettabili».

Il sindacato è una casta?

«Sì se ci si riferisce a un apparato di 20 mila persone e ai suoi meccanismi di autoriproduzione, no se si allude a privilegi economici. Io prendo 2 mila euro al mese e quando incontro un segretario nazionale del sindacato tedesco o inglese che guadagna 5-6 volte tanto mi prende per un pezzente».

Senta, ma non sarà che alla fine il sindacato non rappresenta più gli operai, ma soprattutto dipendenti pubblici e pensionati?

«I pensionati hanno un peso abnorme e danno al sindacato una connotazione di lobby politico-sociale alla quale non corrisponde una forza sindacale».

Enrico Marro
17 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Aprile 17, 2008, 02:19:01 pm »

Voto, il day after sul blog: «Loro non molleranno mai, noi neppure»

Beppe Grillo attacca Veltroni «Ha riesumato Silvio, una salma politica»

Il comico genovese: «Il leader del Pd ha fatto cadere il governo: lui, non Mastella»


MILANO - Non perde la sua vena polemica Beppe Grillo nel day after delle politiche 2008. Dalle colonne del suo blog il comico genovese fa un'analisi del voto e se la prende con il leader sconfitto. «Veltroni (alias Topo Gigio, per l'occasione Grillo rispolvera un vecchio personaggio, ndr) ha fatto il miracolo», scrive il comico. Quale? «Aver riesumato una salma politica». L'accusa di Grillo a Veltroni è di aver resusciato Berlusconi (il nome del suo personaggio è testa d'Asfalto, ndr).

«MIRACOLO» - «Era l'autunno del 2007 - scrive Grillo -. Testa d'Asfalto regalava la pasta a un centinaio di pensionati in periferia di Milano. Fini e Casini lo avevano abbandonato. Una vecchia gloria sul viale del tramonto. Topo Gigio ha fatto il miracolo. Il suo primo atto politico è stato di riesumare una salma politica». Il comico ricorda gli approcci tra i due leader e «la foto della stretta di mano tra i due dopo una conversazione strettamente privata sulla nuova legge elettorale». «Sembravano Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Teano - ironizza Grillo -. Lo psiconano aveva un'aria incredula. Non poteva immaginare che i pidini fossero così coglioni».

«VELTRONI IL MIGLIOR ALLEATO DEL PDL» - Nel governo di centrosinistra, sottolinea Grillo, Veltroni non si preoccupò di interpellare i piccoli partiti su una legge che li avrebbe fatti scomparire. «Topo Gigio - si legge sul blog del comico - è stato il miglior alleato del PDL. Ha fatto cadere il Governo: lui, non Mastella. Ha perso le elezioni in modo disastroso. Ha cancellato la sinistra e i verdi. Si può fare. Se fossi Berlusconi lo farei vice presidente del Consiglio».

LEGGE ELETTORALE - Grillo non perde occasione per ricordare che «la legge elettorale è incostituzionale». «Ci hanno trattati come bestie che possono fare solo una X su un simbolo. E la X l'abbiamo messa lo stesso perché siamo condizionati da mezzi di informazione anti democratici». «Senza libera informazione non c’è democrazia - concluide Grillo nel suo post -. Loro non molleranno mai, noi neppure».


15 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #4 inserito:: Aprile 17, 2008, 03:17:23 pm »

Voglia di legalità, così la Lega raddoppia a «Stalingrado»

Giampiero Rossi


Tra Milano e Sesto San Giovanni non c’è soluzione di continuità. Ma Sesto non è Milano, è diversa. Certo, nella Stalingrado d’Italia non ci sono più le grandi fabbriche che sfidarono il Terzo Reich, ma la città medaglia d’oro resta ancora un caposaldo del lavoro, come dimostra il flusso di pendolari equamente distribuito nei due sensi, da e verso Milano. La storica capacità di ospitare l’innovazione e un patrimonio quasi irripetibile di aree dismesse ha permesso di affrontare il nuovo secolo con una nuova pelle. E una trasformazione urbanistica di qualità ha permesso di attirare le sedi di aziende multinazionali e anche l’università statale. E chi poteva immaginarselo ai tempi in cui il tempo era scandito dalle sirene della Falck, della Breda, della Marelli?

Ma neanche queste trasformazioni economiche hanno cancellato da Sesto i tratti sociali e politici di sempre: «Una rete associativa e solidaristica formidabile, fatta di circoli, associazioni, teatri e iniziative d’ogni genere - spiega Giancarlo Pelucchi, dirigente della Cgil regionale e figlio del fondatore della storica Libreria Sestese - che rende questo Comune da tutto l’hinterland». Altro che dormitorio di Milano, insomma, Sesto è sveglissima e vivace, anche se gli operai sono assai meno. «Ma questa non è Liverpool - sottolinea ancora Pelucchi - qui c’è stato un graduale ricollocamento, la città è ripartita anche senza fabbriche». Come è possibile, allora, che anche qui le urne abbiano premiato la Lega e bocciato la sinistra? Anche le mura di Stalingrado stanno scricchiolando?

«Leggete i numeri», è l’invito quasi sorpreso di Laura Barat, segretaria cittadina del Pd. E in effetti il voto dice che il partito di Veltroni è il primo della città con il 37,41% dei consensi contro il 32.99% del Pdl. Non è una conferma, è una conquista, perché dalla prima metà degli anni novanta era il partito di Berlusconi ad avere la maggioranza relativa. «Partivano da un 30% e grazie alla nostra capacità di coinvolgimento e siamo riusciti a crescere», insiste la dirigente democratica. Ma coinvolgere chi? «Il terreno di riferimento è sempre quello, la straordinaria rete associativa di sesto, anche se dovremo interrogarci su quella fetta di città che ha scelto la Lega».

Ecco il punto: la Lega. Anche qui. È vero, ha rastrellato meno che nel resto della provincia (10.88%) ma è pur sempre un raddoppio. Che suona ancora più come uno schiaffo se accostato al drammatico ridimensionamento della sinistra, che dal 15% della somma di Prc, Pdci e verdi passa al 5,17% di un cartello che ha coinvolto anche fuoriusciti dei Ds del calibro di Antonio Pizzinato, ex leader Cgil e sestese eccellente. «Si capiva che le cose non andavano bene - dice lui stesso - quando negli ultimi giorni ai mercati vedevi la gente andare verso i leghisti, questa è stata la manifestazione elettorale del profondo malessere che vive molta gente. Ma dovremo ricostruire un soggetto della sinistra europea del ventunesimo secolo...».

Qualcosa di simile era già accaduto nel 1994, con la prima ondata berlusconiana, ma poi la Lega ritornò a numeri meno ambiziosi. Ma che volti ha il malessere di una città di 80.000 abitanti che sta meglio di tante altre dal punto di vista economico e occupazionale e che vanta un livello di coesione sociale invidiabile? «La Lega interpreta a modo suo la preoccupazione della gente per la sicurezza - dice il sindaco Giorgio Oldrini - in una città dove il 12% della popolazione e il 20% degli iscritti alle scuole viene da tutto il mondo. Noi qui abbiamo portato da 9 a 16 milioni di euro la spesa sociale a sostegno della persona, i nostri asili e le nostre case popolari sono aperte a chi ne ha bisogno, indipendentemente dal passaporto, offriamo scuola, doposcuola, assistenza di ogni tipo agli immigrati e a tutti i cittadini che ne hanno bisogno. Però dico da “comunista di culla” - conclude indicando il prezioso ritratto di Marx, regalo di un ricco imprenditore - questo sforzo di solidarietà diventa insostenibile se non è accompagnato da risposte sul fronte della legalità e della sicurezza. Inutile girarci attorno. E sono convinto, come dimostra il voto, che il Pd si proprio la mescola di culture in grado di trovare questa sintesi senza cadere nella semplificazione leghista».

E se questa sintesi non verrà prodotta in fretta continuerà l’avanzata della Lega e della destra anche a Stalingrado? «Dovremo darci da fare perché ciò non accada - dice pacato Giovanni Bianchi, segretario provinciale del Pd che rivendica l’invenzione del concetto di “sestesità” - ma quello che si è verificato, come nel 1994, è un fenomeno arrivato dall’alto, che investe la sfera mediatica e quindi ha attecchito anche in un territorio connotato come quello di Sesto. Ma ricordo anche che già nel 1996 Pizzinato ed io riconquistammo i collegi di Camera e Senato. Quindi - conclude - anche se a volte l'immagine mangia il territorio, dopo un po’ il territorio torna se stesso».

Pubblicato il: 17.04.08
Modificato il: 17.04.08 alle ore 13.01   
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« Risposta #5 inserito:: Aprile 18, 2008, 12:24:53 am »

Piero Ignazi

L'inganno populista


L'attacco di Berlusconi a Napolitano e ai magistrati frutto di una cultura che rifiuta l'esistenza di autorità terze e autonome.

Quando verrà eletto il nuovo presidente americano, come sempre, non ci sarà nessuna proclamazione solenne. I 'grandi elettori', coloro ai quali spetta formalmente di sigillare il voto popolare, non si riuniscono mai a Washington per la cerimonia ufficiale; rimangono ciascuno nei loro Stati ed effettuano la proclamazione riunendosi nella capitale dello Stato.

Perché questa separazione fisica tra l'eletto e gli elettori? Perché, come avevano prescritto i padri fondatori della Costituzione americana nella loro ammirevole saggezza, un uomo investito di tanto potere qual è il presidente, è meglio non senta troppo dappresso il calore e l'entusiasmo degli elettori: può essere inebriato dal sostegno della folla e indotto a travalicare i limiti posti al proprio potere. Del resto già gli antichi romani facevano sfilare i condottieri vittoriosi lungo i fori imperiali accompagnati da uno scudiero che, reggendogli l'alloro, gli sussurrava "memento te esse hominem": ricordati che sei un uomo, non un dio immortale. I costruttori della democrazia americana conoscevano bene i rischi dell'entusiasmo popolare: temevano lo stordimento procurato da una folla osannante, la debordante pulsione ad assecondare i suoi desideri, l'identificazione del proprio volere con la volontà generale. Per questo hanno tenuto lontano il loro presidente dall'assemblea degli elettori.

Separare, dividere, controbilanciare i poteri: questa la triade costituzionale americana. Dagli Stati Uniti ci separa un oceano di tradizioni e di cultura politica, ma alcuni insegnamenti hanno valore universale. L'importanza dei checks and balances e dell'austerità del potere, connessa con la diffidenza per l'adulazione del (e dal) popolo, sono tra questi. Insegnamenti purtroppo trascurati nel nostro Paese. Da circa un ventennio, in Italia la separatezza tra i poteri e il rispetto per le rispettive sfere di intervento si sono attenuate. La magistratura, ad esempio, si è investita del ruolo salvifico di
 'fare giustizia' della criminalità organizzata, lasciata prosperare dal potere politico, e poi dei partiti stessi. Ma questi interventi, spesso debordanti e troppo esposti ai sentimenti del pubblico, almeno si ispiravano all'imperio della legge e perseguivano interessi generali e collettivi. Il peggio è venuto dal crollo dei partiti storici della cosiddetta prima Repubblica. Per quanto fossero corretti e autoreferenziali avevano però tutti un impianto cultuale solido e avevano assimilato, volenti o nolenti i principi fondamentali della democrazia parlamentare. La loro scomparsa e l'irruzione degli Hyksos leghisti e forzitalioti hanno messo in tensione il sistema istituzionale.

I nuovi arrivati erano estranei alla cultura politica liberal-democratica per quanto ne vantassero l'appartenenza. Erano, tecnicamente, populisti. Valorizzavano la sovranità popolare al di sopra - e quindi contro - la divisione dei poteri. L'appello al popolo doveva sormontare le resistenze degli organi costituzionali qualora questi si opponessero al volere della folla medianicamente e mediaticamente interpretata dal leader, dal capo.

Le convulsioni successive alla caduta del primo governo Berlusconi nel dicembre 1994 rappresentarono la prova generale del sorgere di questa visione stringentemente populista del sistema politico italiano. In questa visione il potere giudiziario diventava illegittimo perché privo di una unzione popolare. Come si permettono dei magistrati 'indipendenti' dal volere del popolo, di giudicare gli eletti del popolo? Il cortocircuito populista era innescato.

Nel suo furore iconoclasta il populismo tracima su ogni istituzione e ogni contropotere. Non può esistere una autorità terza, autonoma, indipendente, che controbilanci le altre. Tutti i poteri devono promanare da una sola fonte - il popolo - e ad essa adeguarsi. Di conseguenza, la Corte costituzionale è un'arma impropria del conflitto politico, non un organo di garanzia. E laPresidenza della Repubblica un covo di nemici del popolo, non un'istituzione di equilibrio, di unità e di raccordo. In fondo, l'attacco ad alzo zero di Silvio Berlusconi al Quirinale e agli altri organi dello Stato è perfettamente coerente con la sua cultura politica e con quella di buona parte del suo schieramento. Per loro il voto assume il valore di un'ordalia terrena, di uno scontro assoluto e totale; non è uno strumento per la scelta dei rappresentanti ed, eventualmente, del governo che, comunque, devono essere controllati e limitati da altri poteri.

È quest'incomprensione di fondo dei principi del costituzionalismo da parte di buona parte della classe politica italiana che rende instabile il nostro sistema; e, purtroppo, ancora diverso da tutti quelli delle democrazie consolidate.

(17 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #6 inserito:: Aprile 18, 2008, 12:30:58 pm »

POLITICA

L'ex pm conferma l'allenza ma "chiarire linea del Pd su giustizia, informazione e conflitto di interessi.

Altrimenti gruppi parlamentari autonomi"

Di Pietro affonda il gruppo unico "Chiediamo incontro con Veltroni"

Il leader dell'Idv seccato per l'incontro con Casini. "Poteva incontrare me..."

In ballo anche un milione di euro di rimborsi per il funzionamento dei gruppi

di CLAUDIA FUSANI

 

ROMA - "Cerchiamo un matrimonio di affetto e non di puro interesse. C'è una parte del Pd che ci vuole e una che non ci vuole. Quale prevale?". A tre giorni dallo scrutinio elettorale, forte di un buon successo personale di fronte a un Pd in cerca di assestamento, Antonio Di Pietro convoca una conferenza stampa per mettere in chiaro alcune questioni, "confermare l'alleanza" ma anche alzare paletti. Primo fra tutti: "Chiediamo di incontrare il segretario Veltroni - dice Di Pietro - per avere chiarimenti". Ad esempio: "Il loft ha parlato di governo-ombra. Noi dell'Italia dei valori non ne sapevamo nulla. Quale incarico è previsto per noi? Oppure intende farlo con l'Udc per mettere Cuffaro alla giustizia".

Da qui, da questo incontro, passa il destino dell'alleanza Pd-Idv e la promessa, sottoscritta prima del voto, di dare vita a un gruppo parlamentare unico. Un patto che Di Pietro conferma e caldeggia parlando di "alleanza programmatica" e di obiettivi condivisi come "un modello politico riformatore". E però, si scalda il leader dell'Idv, "visto che Veltroni ha già incontrato Casini vorrei che incontrasse anche noi per parlare, appunto, di governo ombra. E per sapere quale linea su giustizia, informazione e conflitto di interessi.... Se poi la linea del Pd non sarà compatibile con la nostra, noi faremo il nostro gruppo autonomo". Insomma, il gruppo unitario si vede "prima nei contenuti che nel contenitore". La posta in palio è molto di più di quello che sembra. Non è solo Di Pietro che se ne va per conto suo e lascia il Pd, tanto perso per perso... Riguarda, ad esempio, la progettualità politica futura del partito democratico.

Prima della conferenza stampa Di Pietro aveva riunito l'esecutivo del partito. L'ex pm ha illustrato due ipotesi: quella di dar vita ad un gruppo unico insieme al Pd e quella di costruire un gruppo autonomo. L'idea di andare da soli è sembrata prevalere anche per motivi tecnici: l'opposizione ha più gruppi e quindi più forza durante le riunioni della capigruppo delle due camere.

L'ex pm ne ha fatto, con i suoi, anche una questione di visibilità: "A che ci serve questo gruppo unico? Io
voglio parlare e se mi nascondo non mi vedono neppure. Voglio sapere chi sarà nominato alla Commissione giustizia e chi alla Commissione di vigilanza Rai". Insomma, Di Pietro - e chi è stato eletto con lui, da Beppe Giulietti a Evangelisti, da Pancho Pardi a Silvana Mura - ci vogliono essere e vogliono contare.

Opportunità politiche e visibilità a parte, nella scelta potrebbe pesare anche la questione puramente economica. "Non siamo certo qui a fare una questione per tre segretarie e quattro cadreghine (seggiole ndr)" precisa Beppe Giulietti. A prescindere dal gruppo unico, Idv incasserà circa 20 milioni di rimborsi elettorali ogni anno per tutta la legislatura (a cui si aggiungono, per i prossimi tre anni, gli altri rimborsi della legislatura appena conclusa).

Dando vita ai propri gruppi parlamentari alla Camera e al Senato rimborsi e benefici sono destinati ad aumentare. L'ex pm ha 29 deputati e 14 senatori e servono soldi per metterli in condizione di lavorare: segreterie, portaborse, consulenti, auto, uffici. Così, nel caso desse vita ai propri gruppi, tra Camera e Senato Italia dei valori riceverà complessivamente più di 1.000.000 di euro l'anno nonché i fondi necessari ad assumere una ventina di persone, addetti alle segreterie, uno ogni tre eletti (9-10 alla Camera;4-5 al Senato).

Avere i gruppi garantisce anche un segretario di presidenza sia a Montecitorio che a palazzo Madama: per ognuno oltre 4.000 euro al mese di indennità, la possibilità di assumere almeno 5 persone, l'utilizzo dell'auto di servizio e altri benefit. Politicamente la costituzione del gruppo consente di avere un rappresentante negli uffici di presidenza di tutte le
commissioni e giunte. Insomma, tra un rimborso e l'altro, si tratta di un milione di euro che altrimenti sarebbero andati al Pd e al funzionamento dei 335 deputati democrat. Dal punto di vista dei tesorieri, fa la sua differenza.

(17 aprile 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #7 inserito:: Aprile 18, 2008, 12:32:26 pm »

Il sindaco di Genova: "Perso il nord perché il Pd non è un partito federale"

Marta Vincenzi, primo cittadino del capoluogo ligure, analizza il risultato dell week end elettorale.

«Non abbiamo avuto il tracollo, ma la situazione politica è seria e abbiamo perso il Senato».

Tuttavia la Liguria può essere il punto di ripartenza della sinistra «ammesso che si voglia rileggere i bisogni della gente»

di Donatello Alfonso


 Genova dove il centrosinistra regge «perché la gente sente di essere governata, e riconosce con il voto qualcosa che trova tutti i giorni, pur con i limiti che sicuramente ci sono». Genova che può essere, ancora una volta, un punto di ripartenza della sinistra «ammesso che si voglia definire sinistra la capacità di rileggere i bisogni della gente; e per farlo abbiamo bisogno di tutti, anche di quelle forze della sinistra che non sono più rappresentate in parlamento, ma negli enti locali sì, e dove devono restare, a partire dalla mia giunta», dice la sindaco di Genova Marta Vincenzi.

La prossima visita del presidente Giorgio Napolitano, il prossimo 25 aprile, può essere il momento di coesione di tutte le forze politiche intorno alla Costituzione che, sia chiaro, può essere migliorata, ma deve restare come elemento chiave del paese. Però stiamo attenti, aggiunge la sindaco: «Non abbiamo avuto il tracollo, però la situazione politica è seria. E il Pd non è riuscito a sfondare, in Liguria in particolare dove si è perso il Senato. Bisogna quindi ridefinire una leadership regionale; che non significa dire chi deve fare una cosa piuttosto che l'altra, ma che i vertici non devono essere costituiti da replicanti. Se no, significa non aver capito»

Sindaco Vincenzi, lunedì ha detto «venite tutti a Genova che è la città più democratica d'Italia». In effetti il Pd ha avuto quasi il 44% al Senato, sfiorando il 50% insieme con i dipietristi, e lasciando l'Arcobaleno al 4...
«E' vero che a Genova il dato non è omogeneo rispetto al resto del nord, fatta eccezione per Torino. Anche se anche qui c'è stato un crollo della sinistra, forse abnorme anche di fronte alla delusione per la presenza conflittuale nel governo Prodi. Genova, peraltro, ha retto: di fronte all boom dell'appartenenza territoriale, penso che abbia pagato la sensazione che questa città, pur con alcuni problemi, sia governata, e da forze politiche ben precise. E quindi sia stata premiata questa sensazione di appartenenza, nel momento in cui si dice basta ad un paese instabile».

Una soddisfazione ma anche un bel problema, per voi del Pd.
«Sì, perché dietro al crollo della sinistra radicale c'è da interrogarsi molto, e il Pd per primo. Io già nella mia campagna da sindaco, un anno fa, vedevo il malessere di una politica che non riusciva a entrare in sintonia con le parole e i concetti della gente. Un cambiamento culturale che fa piazza pulita dello spirito pubblico. E nemmeno il Pd è stato all'altezza».

Veltroni non ha capito?
«Penso che Veltroni abbia fatto la miglior campagna possibile, ma non è bastato. Il Pd comincia bene ma non sfonda. Forse per mancanza di tempo è mancata la costruzione di un partito federale, che nello statuto c'era, era uno degli elementi più forti. Io ero stata tra i firmatari della necessità di creare un Pd del Nord, non certo per fare la secessione; ma per stare sul territorio. Questo non lo abbiamo fatto».

E quindi?
«E quindi non possiamo dire che sia stata una vittoria. C'è bisogno di ridefinire una leadership regionale, il che non significa dire chio dovrà fare una cosa piuttosto che un'altra, ma...».

Quindi non è un sollecito a chi gestisce il Pd ligure ad andarsene?
«Io dico che la nuova leadership regionale non deve essere costituita da replicanti. Se no, significa non aver capito cosa è successo».

Sindaco, lei cos'ha capito? Degli operai dell'Ilva che votano Lega, ad esempio?
«Non c'è più una lettura tradizionale. Si difende il lavoro ma in una situazione in cui manca la sensazione di sicurezza, anche quella di essere governati, ci si arrabbia per i soldi che se ne vanno in tasse e quindi vanno a Roma. Una poltiglia sociale, come si è detto, che porta a questi risultati».

Ma la sinistra che è sparita dalle camere volete recuperarla?
«Prima di tutto chiediamoci cos'è oggi la sinistra. nella capacità di rileggere i bisogni della gente, prima di tutto; di sicuro abbiamo bisogno di tutti, di forze rappresentate in Parlamento e altre no».

Sindaco, il 25 aprile qui ci sarà il presidente Napolitano. La sinistra può ripartire da Genova, in questa occasione?
«Sarà un buon inizio se si accentuerà nel 25 aprile l'esigenza di fare riferimento alla forza della Costituzione nel momento in cui si parla dell'inizio di una nuova repubblica. La Costituzione può essere migliorata, certo, ma è un qualcosa di imprescindibile, un patrimonio nazionale, la carta con cui presentarci in Europa. Vorrei che il 25 aprile ci fossero, insieme a Napolitano, tutti gli eletti di ogni schieramento, che si sentano rappresentati nel presidente».

(17 aprile 2008)

da genova.repubblica.it
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« Risposta #8 inserito:: Aprile 18, 2008, 02:20:37 pm »

POLITICA

Le tute blu lombarde contro i flussi di extracomunitari

E i camalli di Genova accusano il governo Prodi: "Ha messo fuori i delinquenti"

Gli operai Fiom che votano a destra "Così protetti da tasse e criminalità"

"Votiamo Cgil in azienda e Bossi nell'urna. Che c'è di strano?

La prima ci dà il contratto, la seconda la garanzia che i soldi restino al Nord"

dal nostro inviato PAOLO GRISERI



 BRESCIA - L'importante è saper rispondere alla domanda: "Mi conviene?". Paolo, ad esempio, ha capito che gli conviene votare Bossi perché la Lega lo protegge. Ha 22 anni, sta appoggiato al muro insieme ai coetanei durante la pausa mensa alla Innse Berardi, 250 metalmeccanici specializzati alla periferia di Brescia. Da chi ti protegge la Lega? "Dagli extracomunitari". Ne hai bisogno alla tua età? "Non è bello doversi difendere quando vai alla stazione". Che cosa vuol dire che la Lega ti difende? "Che, bloccherà i flussi, non li lascerà più entrare in Italia".

Il capannello aumenta, la discussione si anima, Enrico contesta: "Tutte balle, ti lasci riempire la testa dalla tv. Non siamo a Chicago, dov'è tutta 'sta criminalità? E poi i criminali non ci sono in Italia? Prova ad andare in Sicilia". "Quelli almeno sono nostri e ce li curiamo noi. Ma dobbiamo preoccuparci anche di quelli che esportano gli altri?". E' facile sfottere Paolo. Christian scioglie la tensione con la battuta vincente: "Vuoi bloccare l'ingresso in Italia agli extracomunitari proprio tu che sei dell'Inter?".

Paolo sembra soccombere. Ma l'aiuto vero gli arriva da Gianni, un ragazzo di 32 anni che a queste elezioni non ha votato. Un grillino adirato con la Casta? "No, non ho votato perché non posso ancora. Sono albanese, sono arrivato nel '99. Il mio vero nome è Hashim ma siccome è troppo complicato, tutti mi chiamano Gianni". Quando potrai votare per chi voterai? "Per il partito che sceglieranno la maggioranza degli italiani". In questo momento è la destra. Ti andrebbe bene la destra? "Perché no?". Forse perché potrebbe bloccare l'ingresso degli stranieri alle frontiere. "E allora? Io sono entrato, in autunno sono arrivati anche mia moglie e i miei figli. Se non arrivano tanti altri a farci concorrenza è meglio".

Così, in dieci minuti di chiacchiere da bar, Paolo e Gianni fanno a pezzi quel che resta del concetto di solidarietà, caro alla Dc di Martinazzoli, che ha governato queste terre durante la prima repubblica, come alla Fiom di Giorgio Cremaschi, che continua a governare il sindacato di fabbrica con il 70% dei voti alle elezioni delle rsu.

Votano Fiom in azienda e Bossi nell'urna? "Dov'è il problema? Si vede che la Fiom e Bossi gli servono". Angelo, delegato a un passo dalla pensione, sa che la sua è una risposta provocatoria. Ma anche profondamente vera. "Da queste parti - spiega - le aziende hanno fame di operai specializzati. Qui i contratti integrativi sono ricchi, arriviamo a strappare aumenti di 2-3 mila euro all'anno".

Tute blu quasi benestanti, ben diverse da quelle che, sull'altro lato della strada, costruiscono i camion all'Iveco, la vecchia e gloriosa Om, e portano a casa i salari degli operai Fiat. "Alla Innse - aggiunge Angelo - molti abitano nei paesi delle valli bresciane. Con il passare del tempo si sono fatti la villetta a schiera. Una conquista che adesso hanno paura di perdere con l'aumento del costo della vita". Qui si chiede ai comunisti di contrattare l'aumento con il padrone, perché loro sono ancora i più bravi nel settore ("tremila euro all'anno, sputaci sopra"), e si chiede a Bossi di realizzare il federalismo fiscale. Il comunista ti porta i soldi ma è la Lega che li difende.

La sirena del federalismo, ad esempio, è quella che ha attirato Giovanni, contadino cuneese prestato all'industria della gomma. Arriva davanti al bar "Sporting", il ritrovo degli operai sul piazzale della Michelin di Cuneo, e spiega la sua soddisfazione: "Finalmente abbiamo vinto, adesso si può fare il federalismo fiscale". Che cosa vuol dire? "Che siamo padroni a casa nostra, che le tasse restano qui e non vanno a Roma. Con tutte quelle che paghiamo io e mia moglie per l'azienda agricola".

Giovanni ha 49 anni e, come molti da queste parti, ha iniziato a compiere le sue scelte politiche nel ventre della Balena bianca: "Qui - ricorda - votavano tutti Dc, anzi votavano tutti Coldiretti", la potente associazione dei contadini democristiani. Rotto quel contenitore, Giovanni è diventato un leghista moderato. Uno che dice: "All'inizio votavo Lega per protesta. Poi mi sono un po' allontanato quando dicevano che volevano la secessione".

Ma anche lui, quando si tratta di scegliere il sindacato, finisce per affidarsi a Cgil, Cisl e Uil. Gaspare e Luigi, delegati di fabbrica, raccontano del flop del SinPa, il sindacato dei leghisti: "Nel 2000 aveva fatto il pieno alle elezioni del consiglio di fabbrica, avevano il 33% dei voti. Poi sono rapidamente spariti. Quello del sindacalista non è un ruolo che si improvvisa. Non basta dire "Roma ladrona" per chiudere un contratto". Per il momento, comunque, sono i partiti del centrodestra più dei sindacati del Carroccio a mettere in crisi i sindacati confederali. A Brescia, dove lo straordinario è la regola, la detassazione promessa da Berlusconi ha fatto breccia. Aldo, delegato della Fim dell'Innse, ammette sconsolato: "Quello è stato un colpo da maestro".

La Lega è forte, i messaggi del centrodestra bucano il video, ma la sinistra delle fabbriche dov'è finita? Sam, 35 anni, lavora alla Michelin di Cuneo insieme a un gruppo di altri ragazzi di colore. "Arriviamo tutti dal Benin, siamo in Italia da molti anni, abbiamo preso la cittadinanza. Abbiamo sempre votato Rifondazione". Ma? "Questa volta non lo abbiamo più fatto. Ci siamo riuniti per parlarne. Una parte ha scelto il Pd perché sperava di bloccare Berlusconi. Ma alcuni hanno proprio deciso di smetterla con la sinistra. Votano Berlusconi perché la sinistra litiga troppo, non si trova mai d'accordo su nulla".

Per guardare in faccia la delusione della sinistra radicale basta andare a Genova, nel cuore del Porto, roccaforte dei camalli della Compagnia unica dove su sette delegati di area Cgil quattro sono di Rifondazione due dei Ds e due di Lotta Comunista. Mauro spiega la sconfitta dell'Arcobaleno: "A Genova si dice: "Ci hanno presi nella lassa", ci hanno fregati. Molti hanno votato Pd credendo che tanto il 4 per cento alla Camera si faceva e che Veltroni fosse vicino a Berlusconi nei sondaggi. Invece non era vero niente".

Basta l'ingenuità a spiegare tutto? "No che non basta. Ne abbiamo parlato martedì tra di noi. Rifondazione ha sbagliato". Dove ha sbagliato? "Ad esempio con l'indulto". Ma l'indulto, una volta non era una legge di sinistra? "Lo dici tu. Ma quale sinistra? Ha messo fuori i delinquenti altro che sinistra". Forse non sarà solo per questo che nei seggi di Crevari, storico quartiere partigiano di Genova, la Lega batte la Sinistra arcobaleno 486 a 358. Sarà anche perché "un partito come Rifondazione non può votare a favore della guerra", come dice Matteo, operaio all'Iveco di Brescia. O perché "non si raccolgono i voti nelle fabbriche promettendo di cambiare la legge 30 sul precariato per poi non fare nulla", come rimpiange Luca che scarica container al porto.

Così finisce che la delusione ti lascia a casa (a Genova l'astensione coincide con i 40 mila voti persi dall'Arcobaleno) o ti getta nelle braccia di Ferrando e Turigliatto: "Almeno loro la guerra non l'hanno votata", si consola Matteo all'Iveco. Il risultato è che la Lega avrà quattro ministri e l'Arcobaleno non c'è più. "Adesso tocca a Bossi mantenere le promesse", dice Alberto, della Fiom di Brescia. Ma anche lui sa che è una magra consolazione: "Sai come andrà a finire? Che quando la gente che ha votato Lega si incazzerà verrà da noi a chiederci di fare gli estremisti, la lotta dura e i blocchi stradali".

(18 aprile 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #9 inserito:: Aprile 18, 2008, 05:49:06 pm »

Incontro alla scuola Livatino

Saviano agli studenti: «Io, deluso dall'inerzia della politica, non farò mai il sindaco»

L'arrivo dello scrittore è una sorpresa per i ragazzi dell'istituto vandalizzato: quando vedono Roberto scatta la caccia all'autografo 

 
 
NAPOLI - Sapete una cosa? I boss del clan Mazzarella, quello che comanda qui a San Giovanni, allevavano squali e piranha nei loro garage». Lo scrittore cita il loro quartiere, e il nome della famiglia malavitosa che lo inquina, e tra gli studenti si diffonde un sonoro mormorio: è una platea sensibile, attenta, quella di una scuola di frontiera che ai ripetuti atti di vandalismo subiti ha risposto a suon di seminari e ore speciali di dibattito sulla legalità. «I camorristi vogliono ostentare il loro potere, impressionare la gente. Capisco che possiate subire il loro fascino anche a me è successo, lo ammetto: oggi però, piuttosto che negare il loro ascendente, preferisco lavorare, e scrivere, per smontarlo».
 
Quando l'auto della scorta parcheggia e fa scendere Roberto Saviano nel cortile dell'istituto professionale «Livatino », nessuno degli studenti raccolti nell'aula magna sa qual è il nome del relatore invitato a parlare di camorra. L'arrivo dello scrittore è una sorpresa per tutti: per motivi di sicurezza solo il preside Aristide Ricci e il gruppo di insegnanti impegnate nel progetto «I giovani e le periferie» sono al corrente della notizia. Quando gli studenti vedono Saviano, l'applauso scatta fragoroso, lungo e spontaneo: tutti in piedi, la sorpresa sul volto, per salutare quello che, a giudicare dall'entusiamo, per loro è un eroe.

Quasi due ore di intenso dibattito, in cui lo scrittore, sollecitato dalle domande dei ragazzi, descrive le dinamiche della criminalità organizzata, i loro affari, i loro interessi, anche internazionali: «Pensate che un'intercettazione ha rivelato che dopo l'11 settembre un clan di Nola sperava di poter fare affari sfruttando la ricostruzione dei luoghi devastati dall'attentato terroristico». Saviano non si sottrae quando gli studenti parlano di «politica corrotta» e «responsabilità dello Stato»: «Gli ultimi anni sono stati dolorosi.

Chiara Marasca

18 aprile 2008

da corrieredelmezzogiorno.corriere.it
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« Risposta #10 inserito:: Aprile 18, 2008, 06:01:24 pm »

I sindaci del Nord: «Facciamo un Pd "padano"»


I sindaci del Nord, da Cacciari a Chiamparino, l’avevano buttata là subito dopo la discesa in campo di Veltroni. E ora dopo il boom della Lega tornano alla carica. «Serve un Pd tagliato per il Nord», dicono. E sono in parecchi a pensare che i democratici, pur rimanendo federati a livello nazionale, dovrebbero mettere in piedi la loro costola padana autonoma.

«Un Pd del Nord? È un progetto giusto, lo dico da anni – ricorda il sindaco di Venezia Massimo Cacciari – Ed è certamente realizzabile, basta volerlo». A volerlo, è il sindaco di Bologna Sergio Cofferati: «Io penso a un Pd federale e non confederato – spiega – che guardi a una dimensione macro-regionale». Ma Cacciari mette già i paletti: «l'Emilia Romagna – dice – non c'entra nulla con il Pd del Nord, è un problema del lombardo-veneto». Chiude il cerchio Sergio Chiamparino, primo cittadino torinese: «Autonomia e decentramento servono non a chiudersi nelle ridotte valligiane ma per fare, realizzare, stare nella competizione».

Ma quella di un Pd del Nord non è solo un’idea dei sindaci. Anche chi sta a Roma sente che è arrivato il momento di una svolta. «Non c'è dubbio – spiega il vicepresidente della Camera Pierluigi Castagnetti – che ci sono delle peculiarità territoriali che non possono non condizionare l'offerta politica e la domanda di federalismo sta crescendo in termini molto forti». D’accordo anche Marina Sereni, vicecapogruppo uscente del Pd alla Camera: «Ci sono – spiega – somiglianze su tematiche economiche, sociali e infrastrutturali che giustificano una scelta di questo tipo e conseguentemente una maggiore autonomia di elaborazione e di organizzazione al Pd sul territorio».

I segretari regionali del Pd si incontreranno per la prima volta dopo le elezioni il prossimo lunedì. Non a caso, a Milano.

Pubblicato il: 18.04.08
Modificato il: 18.04.08 alle ore 16.42   
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« Risposta #11 inserito:: Aprile 18, 2008, 06:02:40 pm »

POLITICA L'EDITORIALE

Il Nord e il Pd


NEL Paese che cambia, ci sono riforme che non costano nulla, se non un atto di coraggio. Esempio: andare da un notaio, e firmare l'atto di nascita del Partito Democratico del Nord, federato al partito nazionale, con il sindaco di una grande città come segretario. Una forza politica leale a Veltroni ma autonoma, coerente col Pd nei valori ma indipendente nelle sue priorità e nei suoi programmi, soprattutto insediata nella zona italiana del cambiamento, e capace di una sua specifica rappresentanza: in uomini, interessi, esigenze e problemi.

Tutto questo non nella convinzione che il Nord si sia consegnato alla destra per sempre. Anzi. Il voto, rovesciando il cannibalismo con cui Berlusconi si cibò della Lega nei primi anni della sua avventura, vede, al Senato, il Pdl calare di 70mila voti in Piemonte, di 254mila in Veneto, di 236mila in Lombardia, a vantaggio della rimonta bossiana. E il Pd, che cresce di 295mila consensi in Lombardia e di 72mila in Piemonte, è pari ad ognuno dei suoi avversari in tutto il Nordest, ed è addirittura primo in tutti i capoluoghi veneti, Vicenza, Verona e Treviso compresi.

Ma il nuovo partito "metropolitano" non arriva al popolo minuto del capitalismo personale che innerva di innovazione e modernità l'area della Pedemontana, né al reddito fisso nordista colpito dalla crisi nella sua rappresentatività sociale. Non è vero che questo sistema economico e sociale rifiuta la politica, perché nella presenza capillare della Lega unita al populismo berlusconiano ha cercato comunque una ipotesi politica di rappresentazione, di interpretazione e di tutela del suo mondo.

Il problema della sinistra è che è esterna prima ancora che estranea a questa trasformazione molecolare del lavoro e della produzione, perché ferma ad una concezione fordista, "evoluzionista", dove la piccola impresa è solo l'impresa da piccola e non un soggetto della modernità, che opera nei luoghi del cambiamento, produce beni immateriali come informazione, servizi, finanza, conoscenza: leve di nuove figure professionali, nuovi saperi, nuovi diritti, nuove domande.

Da questa metropoli diffusa, come anche da Milano, la sinistra non può rimanere fuori, se vuole essere credibile come soggetto del cambiamento. Non può regalarla alla destra, né può pensare che la destra sia lì per caso. Un'offerta di culture diverse può arricchire la zona più ricca d'Italia, nell'interesse del Paese. Forse il Pd del Nord non servirà per vincere, ma servirà per vivere, o almeno per capire.


(18 aprile 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #12 inserito:: Aprile 18, 2008, 10:53:26 pm »

L'ITALIA DOPO LE ELEZIONI

La comunità e il mercato


di Dario Di Vico


Il successo del centrodestra per le sue dimensioni si presta a riflessioni di lungo periodo sui rapporti tra politica e società civile. E vale la pena iniziare addirittura dal compito di mediare le relazioni tra individuo e mercato che il sindacato e la sinistra sociale si sono assunti nel Novecento. Quando hanno caricato su di sé, in maniera pressoché istituzionale, l'onere di rallentare la velocità del cambiamento ed evitare l'impatto violento tra le leggi dell'economia e la condizione del singolo. Per una lunga fase questa dialettica degli opposti è riuscita a generare un valore aggiunto e il nostro compromesso sociale che esaltava funzione e ruolo dei corpi intermedi è stato persino lodato dall'Europa come pratica d'eccellenza. La storia degli accordi di moderazione salariale degli anni Novanta e l'appoggio convinto della sinistra politica all'ingresso nell'euro (in precedenza il Pci si era opposto allo Sme) segna forse il punto più alto di questa esperienza.

Il compromesso sociale all'italiana non ha retto però alla prova della nuova modernità. Innanzitutto il filtro gauchista e sindacale si è ispessito fino a trasformarsi in ostruzione e potere di veto. In termini economici tutto ciò ha reso prima elevato e poi insostenibile il costo della non modernizzazione e il differenziale di competitività con i sistemi fratelli. Sull'altro versante le dinamiche di globalizzazione e la finanziarizzazione dell'economia hanno inasprito la percezione del mercato. Il padrone è diventato invisibile e l'economia si è fatta canaglia. Sono fioriti neologismi come ipercapitalismo, turboliberismo e via di questo passo a segnalare la distanza siderale tra il potere del denaro e la sua utenza di massa. Agli occhi di consistenti quote di popolazione il mercato, che per almeno 20 anni era cresciuto nella considerazione dell'opinione pubblica fino a diventare valore in sé, ha cominciato a perdere appeal. La richiesta di allargamento degli spazi di libertà economica ha cominciato a risuonare alle orecchie dei vinti della globalizzazione non più come elogio dello spontaneismo economico, inclusione, allargamento delle chance, riduzione del potere statale ma al contrario come dittatura dell'economico, supremazia della ragion globale sulla condizione del singolo. Esemplare di questo cambio di percezione è il titolo, «La solitudine del cittadino globale », che venne messo qualche anno fa alla traduzione italiana di uno dei primi volumi di Zygmunt Bauman.

Ma il cittadino globale — sia il metalmeccanico di Mirafiori o l'artigiano di Schio che con il loro voto hanno reso possibile il successo della Lega Nord — non vuole vivere da solo e chiede perentoriamente nuovi filtri, nuovi strumenti di intermediazione tra lui e il dio mercato. La competizione globale lo terrorizza, la strumentazione politica e sindacale del secolo scorso gli pare obsoleta, i modernisti non riescono a scaldargli il cuore e così riscopre i valori del territorio e della comunità. E ricrea le condizioni, dopo la morte della Dc, di un nuovo interclassismo, stavolta su base dell'identità locale. Comunità è già di per sé una parola che suona calda e le prime analisi dei flussi elettorali ci dicono che riesce addirittura a sostituire nel cuore degli operai rossi la mitica Classe perché evoca una solidarietà collettiva che promette di accompagnarlo dalla culla alla tomba, come si vantava di saper fare la socialdemocrazia dei tempi d'oro.

Il rischio che la comunità sostituisca la vecchia sinistra e le confederazioni del lavoro, che il verde subentri al rosso ma che i costi della non modernizzazione invece di scendere salgano, c'è tutto. E del resto mentre sindacati e imprenditori del '900 avevano nel fordismo almeno una grammatica comune, oggi è difficile rintracciare un alfabeto della globalizzazione nel quale si possano riconoscere le parti in causa, i ceti medi padani impauriti e le élite cosmopolite che dormono in Italia una notte su tre. La forza di coesione rappresentata dall'identità di territorio se giocata contro l'integrazione e l'apertura del sistema Paese può rivelarsi un gigantesco autogol, la moltiplicazione di tante piccole società chiuse capaci tutt'al più di rallentare i tempi del proprio inevitabile declino. Ma non è detto che sia così. Il senso di appartenenza a una comunità può anche rappresentare un fattore competitivo e la straordinaria storia dei distretti industriali sta lì a dimostrarlo. Perché non resti un'esperienza isolata forse tocca a quelli che polemicamente vengono chiamati i mercatisti un sovrappiù di elaborazione culturale. La capacità di prospettare al cittadino impaurito un mercato capace di fornire comunque una seconda chance.


18 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #13 inserito:: Aprile 19, 2008, 12:14:49 pm »

19/4/2008
 
La crisi che verrà
 
PIETRO GARIBALDI

 
In questi anni ai sindacati e ai rappresentanti dei datori di lavoro spettava il compito di riformare il modello contrattuale.

Questa importante riforma non è invece ancora stata portata a termine. E' un'occasione mancata. Non è semplice dire quanto del mancato accordo sul modello contrattuale sia addebitabile ai sindacati e quanto ai rappresentanti dei datori di lavoro. E' però indubbio che le divisioni all'interno dei sindacati confederali hanno pesato molto.

Certamente non è un buon momento per i sindacati italiani. La trattativa per la vendita di Alitalia a Air France, al di là dei sussulti della politica, ha subito un'interruzione cruciale quando la compagnia francese si è ritirata improvvisamente davanti alle richieste dei sindacati di Alitalia. Questa settimana, con il sorprendente risultato delle elezioni e la sonora sconfitta della Sinistra Arcobaleno, il sindacato ha poi visto sparire dal prossimo Parlamento italiano un suo storico alleato.

In un'importante parte della società vi è un diffuso malessere per il ruolo dei sindacati. Universalmente riconosciuti come organizzazioni con formidabili capacità di mobilitazione delle masse, i sindacati sono spesso visti dall'opinione pubblica come una forza conservatrice. L'immagine diffusa è quella di un potere che protegge gli interessi di una minoranza di lavoratori super tutelati e impiegati nella grande industria e nel settore pubblico, ma troppo poco riformista quando si tratta di difendere i lavoratori più giovani, spesso occupati in condizioni precarie e bloccati in una trappola di contratti a tempo determinato. Questo sentimento di sfiducia verso i rappresentanti dei lavoratori ha recentemente spinto Stefano Livadiotti a intitolare un libro sul sindacato «l'altra casta», da affiancare alla prima casta, quella politica di cui tanto si è parlato in questi ultimi anni.

Dei sindacati non si può certamente fare a meno e una società senza sindacati non sarebbe una società migliore. In molti momenti della storia repubblicana, e negli anni bui del terrorismo in particolare, i sindacati hanno avuto un ruolo fondamentale. Oggi però devono diventare più rappresentativi.

Un problema di rappresentanza esiste però anche tra i datori di lavoro. Così come molti sindacati finiscono per identificarsi soltanto con una piccola parte di lavoratori e pensionati, anche le associazioni dei datori di lavoro danno voce solo a una piccola parte del mondo delle imprese.

Uno dei problemi italiani è l'ossessione della concertazione. Quei lunghi tavoli di discussione a Palazzo Chigi sono un'abitudine tutta nostra e spesso poco utile. Sarebbe importante che sindacati e datori di lavoro si concentrassero esclusivamente sui problemi legati al mondo delle aziende e dei lavoratori e al sistema di relazioni industriali, lasciando al Parlamento e alle forze politiche il compito di comporre gli interessi complessi delle società moderne.


Pietro.garibaldi@carloalberto.org

da lastampa.it
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« Risposta #14 inserito:: Aprile 19, 2008, 04:27:23 pm »

POLITICA

Dure repliche di Cgil, Cisl e Uil all'attacco del presidente di Confindustria

Bonanni: "Sterile populismo", la Fiom: "Risponderemo sciopero per sciopero"

I sindacati a Montezemolo "Estremista, soffia sul fuoco"

 

ROMA - L'attacco di Montezemolo ha suscitato la pronta reazione dei sindacati. Tra sarcasmo e dichiarazioni battagliere, i "professionisti del veto e del no", come li ha definiti il presidente uscente degli industriali, accettano la sfida e rilanciano. Molto dura la replica del leader della Cgil, Gugliemo Epifani. "Con le sue dichiarazioni il presidente di Confindustria sta soffiando sul fuoco di una condizione sociale molto pesante con un linguaggio estremista e, come spesso gli capita in quest'ultima fase, senza alcun rispetto per il ruolo degli altri soggetti sociali: atteggiamento, questo sì, di casta".

"La Cgil - prosegue il segretario - lo lascia solo in questo esercizio di estremismo e non si fa trascinare sul terreno della rissa ma lavorerà, come sempre, per migliorare le condizioni retributive e i diritti dei lavoratori, a partire dai temi della sicurezza sul lavoro. Lo lasceremo solo anche nella scelta di campo politica che ha prontamente assunto". Montezemolo però, conclude Epifani, "dovrebbe spiegare cosa significa confondere il voto dei lavoratori, la loro adesione al sindacato, che non è stata messa in discussione, e gli interessi dell'impresa".

Attacca anche Giorgio Cremaschi, della segreteria nazionale della Fiom (i metalmeccanici Cgil): "La sfida di Montezemolo è totalmente accettata, fabbrica per fabbrica, sciopero per sciopero". Sarcastico il commento del leader della Uil, Luigi Angeletti. "Lavoratori più vicini agli industriali che ai sindacati? Se fosse così - dice - saremmo tutti contenti. Gli industriali trattassero meglio i lavoratori, così questi saranno ancora più vicini...". Poi aggiunge: "Gli dessero più soldi, visto che li pagano molto poco". No comment invece per quanto riguarda le affermazioni di Montezemolo sui sindacati "professionisti del veto": "Montezemolo è a fine mandato - ha chiuso Angeletti - vediamo cosa dice il prossimo presidente".

Dura replica anche da parte del segretario della Cisl Raffaele Bonanni. "Si tratta di un attacco ingeneroso e generico - ha detto - chi è senza colpa scagli la prima pietra. Così facendo - ha aggiunto il leader della Cisl - si bloccano solo i necessari processi di riforma e si fa il gioco di chi non vuole cambiare nulla. Non è con il populismo o peggio cavalcando le campagne strumentali contro il sindacato che si risolvono i problemi del Paese e delle imprese".

(19 aprile 2008)

da repubblica.it
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