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Autore Discussione: Stefano FOLLI. -  (Letto 106848 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Marzo 22, 2012, 12:21:59 pm »

La terza via del premier

Stefano Folli

21 marzo 2012


Di fronte ai passaggi stretti di una storica trattativa sul mercato del lavoro, il Governo Monti poteva scegliere fra una linea dura e una, diciamo così, molto morbida.

La linea dura si sarebbe riassunta così: mettere fine al negoziato con i sindacati presentando un testo del tipo "prendere o lasciare" per poi trasformarlo, con o senza la firma delle forze sociali, in un decreto legge sul quale il Parlamento avrebbe avuto sessanta giorni di tempo per deliberare. Magari sospinto da un voto di fiducia. Questa procedura avrebbe costituito una vera e propria sfida a tutto campo.
In particolare nei confronti della Cgil, da un lato, e del Pd, dall'altro. E non occorre molta fantasia per immaginare gli effetti di una simile scelta.

La linea morbida era l'opposto. Voleva dire proseguire nella trattativa fino all'estenuazione. Avere la Cgil come interlocutore privilegiato, subire in qualche caso i suoi veti e accettare via via le sue condizioni per un compromesso che avrebbe creato molti scontenti nel mondo delle imprese. Questa posizione sarebbe stata, è ovvio, gradita ai partiti della sinistra. Ma avrebbe determinato non poche fratture sul versante destro del Parlamento. Anche in questo caso, probabile instabilità nel tripartito della quasi-maggioranza.

Sembra di capire che Monti abbia scelto una terza via. Vediamo in che termini. Si tiene ferma la scadenza prevista per il negoziato, in modo che non si dica che il governo ha menato il can per l'aia. Si presentano le linee di un testo concreto e ambizioso, anche sulla controversa riforma dell'articolo 18. È il testo che costituisce la proposta finale dell'esecutivo alle parti sociali.
Con la Cisl di Bonanni che si dichiara d'accordo e la Cigl invece negativa; mentre la Uil è a favore chiedendo correttivi.
Si mette l'accento su ciò che ha unito gli interlocutori seduti intorno al tavolo di Palazzo Chigi. E si tende a circoscrivere, pur rispettandolo, il dissenso della Cgil proprio sulle modifiche dell'articolo 18 (nodo peraltro cruciale).

Quel che conta, non si chiedono le firme ai sindacati e alle altre parti sociali in calce a ipotetici «patti». Al contrario, si prende atto dei punti d'intesa e di quelli su cui è rimasto il disaccordo, riunendoli in una sorta di «verbale». E sulla base di questo racconto complessivo della trattativa, il governo Monti si prepara a rivolgersi al Parlamento. Chiamerà in causa le forze politiche, offrendo loro il risultato di una complessa mediazione, non del tutto riuscita. Spetterà al Parlamento recepire o no il lavoro del governo e calarlo nella cornice di una legge equilibrata che segnerà una svolta nelle relazioni di lavoro (in serata peraltro girava ancora l'ipotesi più drastica e perentoria di un decreto).

Dopo le forze sociali, spetta dunque ai partiti rinunciare a qualcosa e contribuire alla soluzione del rebus. Il sentiero rimane stretto. Ma il risultato di ieri deve molto al passo compiuto lunedì da Giorgio Napolitano, con la richiesta a tutti i soggetti coinvolti nel negoziato di guardare soprattutto agli interessi generali del paese.
Sta di fatto che Monti ha dimostrato di non aver paura di decidere. La concertazione c'è stata, ma – in ossequio alle promesse fatte – non si è rivelata paralizzante. Alla Cgil non è stato concesso di esercitare il potere di veto. E ora il coinvolgimento del Parlamento permette alle forze politiche di intervenire con la loro autonomia per correggere e integrare questo o quel punto del progetto governativo.
È questa la via che Bersani intravede per togliersi da una difficoltà che senza dubbio esiste e non è trascurabile per un partito di sinistra. La pressione della Cgil, a sua volta incalzata dalla Fiom, non sarà irrilevante nelle prossime settimane. Ma ognuno dovrà fare la sua parte.

La giornata di ieri dice che sulla riforma del lavoro non c'è stata l'intesa, ma nemmeno una frattura senza speranza. Si è verificato un dissidio ampio e profondo, ma suscettibile di essere gestito con senso di responsabilità, attraverso tempi politico-parlamentari che non saranno troppo brevi.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-03-21/terza-premier-063621.shtml?uuid=AbzxzdBF
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« Risposta #46 inserito:: Marzo 23, 2012, 11:23:06 pm »

Strappo politico da ricucire

di Stefano FollI

23 marzo 2012

«Lo strappo di Monti» titolava ieri l'Unità, giornale del Pd. È un titolo polemico, ma soprattutto vuole esprimere il risentimento di chi si sente tradito. Il colpevole sarebbe Monti, colui che ha operato lo strappo; il Pd invece dipinge se stesso nella parte della vittima, di chi ha subìto una grave ingiustizia: è questo il tono scelto dal quotidiano di Bersani, anche nel commento del direttore Claudio Sardo. Ma concentrarsi sullo «strappo» del presidente del Consiglio ha un significato politico evidente. Equivale a darsi come obiettivo la ricomposizione della frattura, sfruttando fino in fondo il passaggio cruciale in Parlamento. Se c'è stato un malinteso o una forzatura, i margini per ricomporre l'incomprensione sono, o dovrebbero essere, a portata di mano. Ed è vero che il Pd è un partito in subbuglio come mai nella sua storia, pressato dai suoi elettori, dalla Cgil, dalle correnti della sinistra interna.

Ma è altrettanto vero che il primo a desiderare la ricucitura è il segretario Bersani e con lui buona parte del vertice.

Quale sarebbe l'alternativa? Una scissione nel segno della riforma del lavoro sarebbe il suicidio del Pd. Una fetta andrebbe a ingrossare le file del "terzo polo", un segmento forse lascerebbe la politica e una parte non piccola sarebbe calamitata da Vendola, avendo la Cgil come il sole intorno a cui orbitare. Sarebbe necessario un numero imprecisato di anni prima di ricostruire una forza riformista capace di attrarre anche gli elettori moderati. Ecco perché tutti nel partito, anche i critici di Bersani (a cominciare da Veltroni che si rivolge a Monti: «Non servono diktat») appaiono cauti e concentrati sulle modifiche parlamentari.

D'altra parte, se il Pd non riesce ad accettare la riforma Monti-Fornero, sia pure emendata dalle Camere, la stabilità del Governo sarebbe scossa dalle fondamenta. Come è noto, l'equilibrio si regge sul tacito patto Pdl-terzo polo-Pd. Se l'assetto si rompe, ne deriva una crisi dell'esecutivo tecnico destinata a precipitare il Paese verso le elezioni anticipate in condizioni che dire drammatiche è poco. Non è strano che Vendola descriva questa prospettiva in termini positivi dal suo punto di vista; ma sarebbe molto strano se questa fosse la scelta finale di Bersani e del gruppo dirigente. In sostanza, la priorità è ricomporre lo strappo. Ridare un ruolo al Pd come principale partito del centrosinistra (e primo nei sondaggi a livello nazionale). Ridurre l'area delle tensioni sociali, fermo restando che la Cgil non rinuncerà alla sua linea ostile.

Non dovrebbe essere impossibile raggiungere questi traguardi attraverso il lavoro del Parlamento, tanto più che lo strumento sarà la legge delega e non il decreto. Ci sono emendamenti che stravolgono una legge e altri che ne integrano e correggono questo o quell'aspetto. Monti ha interesse a mantenere il punto, in particolare a rendere chiaro che il potere di veto sindacale è stato sconfitto. Ma ovviamente non ha interesse a sfidare un pezzo della sua maggioranza fino al punto di far naufragare il Governo. Peraltro il premier è di sicuro consapevole che il problema sociale esiste, testimoniato anche dalle prese di posizione inusuali del mondo cattolico.

Il centrosinistra, a sua volta, ha interesse a ottenere un risultato politico, perché la sua voce non può essere ignorata o mortificata. Ma non ha alcun interesse a spezzare il filo che tiene in piedi il Governo tecnico. Tanto più che, come ricorda Pietro Ichino, molti dei tasselli che compongono il testo complessivo della proposta governativa sono stati ricalcati dagli studi e dalle iniziative elaborati dallo stesso Pd negli ultimi anni. Quando c'è la convenienza politica a trovare un'intesa, è difficile che la situazione sfugga di mano. E in questo caso i margini di compromesso ci sono tutti.

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DA - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-03-22/strappo-politico-ricucire-230433.shtml?uuid=AbBJ5hCF
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« Risposta #47 inserito:: Marzo 25, 2012, 10:27:47 pm »


Ragioni e tattiche di tre protagonisti: il premier, la Cgil, i partiti

di Stefano Folli

25 marzo 2012


Sulla riforma del lavoro tutti ormai hanno fissato le loro posizioni, il che non significa che resteranno immobili. Vediamo come. Il presidente del Consiglio Monti, in partenza per l'Estremo Oriente, ha ripetuto che per il Governo il testo della legge non deve essere modificato. È una linea che ha fatto guadagnare al premier il plauso dell'Europa e di quei giornali della comunità internazionale che sono letti dagli investitori.

Il messaggio è arrivato a destinazione, c'è da presumere. Un po' come era accaduto qualche settimana fa con il decreto liberalizzazioni, che pure non è di sicuro rivoluzionario. Ora, nel caso del lavoro, il Governo non ha nemmeno fatto ricorso al decreto legge, bensì - come è noto - a un normale disegno di legge. Se avesse voluto avere maggiori garanzie che le norme sarebbero state toccate il meno possibile dal Parlamento, Monti sapeva che lo strumento più idoneo era il decreto. Il che significa una cosa: per il Governo la legge non deve mutare, ma le Camere sono sovrane. Quindi le parole del premier vanno forse interpretate nel senso che il testo della riforma non dovrà essere snaturato e stravolto dal passaggio parlamentare. Ma se le modifiche saranno compatibili con la filosofia del provvedimento (rendere più flessibile il lavoro in entrata e in uscita), il Governo le accetterà. Del resto, una posizione più blanda del presidente del Consiglio in questa fase avrebbe incoraggiato gli avversari della riforma. In questo si fissa almeno una cornice generale.

Secondo punto, il sindacato e in particolare la Cgil. A Cernobbio, il clima fra Susanna Camusso e Monti era in apparenza più disteso di quanto fosse presumibile. Non significa nulla, naturalmente, ma l'impressione è che nemmeno la Cgil voglia soffiare sul fuoco, una volta fissata la propria linea alternativa a quella del Governo. La stessa segretaria generale sa che d'ora in poi la parola spetta ai partiti e al Parlamento. Il che le consente di modulare le azioni di protesta e di rinviarne molte a dopo le elezioni amministrative. Questo permetterà non tanto di riassorbire il dissenso del maggiore sindacato, quanto di studiare l'area degli emendamenti e di individuarne alcuni su cui il compromesso sarà possibile alle Camere senza perciò irritare Palazzo Chigi. Sarà un lavoro di mediazione che richiederà molta pazienza e cautela, ma la Cgil ha l'aria di voler restare alla finestra. Almeno per adesso. A maggior ragione, Cisl e Uil vorranno giocare la loro partita (eppure, come sappiamo, il presidente del Consiglio non ha voluto firmare alcun "patto separato" con due sindacati su tre e di sicuro non cambierà attitudine).

I partiti, dal canto loro, sanno che ora viene il loro turno. Da un lato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha indicato a tutti qual è il sentiero in cui possono muoversi se vogliono rendere un servigio all'interesse generale della collettività. Dall'altro, le esigenze della propaganda impongono di tenere alto il livello della polemica, almeno fin quando non si sarà votato per comuni e province. Un test troppo importante perché lo si possa prendere sotto gamba. Casini, che è sempre il più fedele sostenitore di Monti, si è precipitato a rimbrottare Alfano e Bersani, imputando loro la volontà di indebolire il premier senza rendersi conto di quale disastro sarebbe per l'Italia la caduta dell'esecutivo. Quanto ai leader di Pdl e Pd, le loro posizioni sono molto lontane sulla carta. Il primo vorrebbe una riforma più dura, il secondo chiede i reintegri economici dei licenziati. Posizioni quasi opposte. Ma se il dibattito prenderà in Parlamento la via di tempi medio-lunghi, certe tensioni potranno essere stemperate. Specie dopo il voto. Nel presupposto che la crisi di Monti non conviene a nessuno e che nessuno è pronto al salto nel buio.

Certo, tutto questo non garantisce una buona ed efficace riforma del lavoro. Ma in ogni caso avremo un passo avanti rispetto al passato. I tabù della concertazione paralizzante sono stati abbattuti, come il premier ha fatto sapere al d là dei confini italiani. La riforma non avrà effetti taumaturgici, ma il primo passo è stato compiuto. E altri ne verranno, soprattutto se il Parlamento farà la sua parte ed eviterà d'insabbiare la legge.
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« Risposta #48 inserito:: Marzo 27, 2012, 07:18:38 pm »

Un monito da non sottovalutare

di Stefano Folli

27 marzo 2012

Il premier voluto quattro mesi fa dal Quirinale con un'operazione politica quasi senza precedenti ha lanciato da Seul un avvertimento a dir poco significativo. Ha detto di non avere alcuna vocazione al «tirare a campare» di andreottiana memoria; e di voler restare a Palazzo Chigi solo per fare buone riforme.

Se questo non sarà possibile perchè «il paese non è pronto» (leggi: se i partiti fanno resistenza passiva), allora abbandonerà il campo.
E lascerà tutti, protagonisti e comprimari della partita politico-istituzionale, soli di fronte alle loro responsabilità.

È un segnale esplicito nelle ore in cui sono più forti le polemiche sulla riforma del lavoro e in cui affiorano battute e ammiccamenti sul «governo indebolito». Bersani, che ieri ha tenuto unito il Pd nella prospettiva della discussione parlamentare, pensa che siano «parole da non sopravvalutare» in quanto, a suo dire, Monti si è già espresso così una dozzina di volte. Sopravvalutare? Il problema è che queste frasi non vanno sottovalutate. Questo è il rischio che oggi corrono i partiti. I quali hanno ovviamente il diritto di emendare la riforma del lavoro - tanto più che si tratta di un disegno di legge e non di un decreto -, ma al tempo stesso hanno il dovere di approvarla in tempi ragionevoli (entro luglio), senza stravolgerne i princìpi cardine (il pericolo delle «polpette» evocato da Elsa Fornero).

Un dovere che riguarda tutte le maggiori forze, dal Pd al Pdl. Perché è chiaro che la riforma dovrà avere il consenso del tripartito (Pdl, Pd, terzo polo) che appoggia il governo. Non esiste un'ipotesi di maggioranza «a macchia di leopardo». Quindi il passaggio è stretto. Talmente stretto da giustificare l'avvertimento di Monti, visto che la riforma - compreso il famoso articolo 18 - costituisce un passaggio ineludibile nel percorso del governo tecnico.

È chiaro che c'è una sofferenza dei partiti, di sinistra ma anche di destra, di fronte a una materia che tocca la disciplina dei licenziamenti. E c'è una sofferenza dei «tecnici» al governo perché per la prima volta in quattro mesi l'ostacolo da superare fa paura.
Ma il governo Monti resta senza alternative che non siano elezioni anticipate in autunno, svolte in condizioni disastrose per il paese: con una sinistra risucchiata sulla linea più massimalista e una destra sospinta verso un estremo populismo.

Ecco allora che Monti ha tolto alibi ai partiti. In altre parole, l'esecutivo non accetterà che la riforma Fornero sia insabbiata.
Se qualcuno pensa al passaggio in Parlamento con questa riserva mentale, ha sbagiato i conti. E il monito non è rivolto solo al Pd: più che altro è indirizzato a tutti coloro che pensano di fare del dibattito sulla riforma un'occasione di scontro permanente e sterile.

Sotto questo aspetto, Casini era stato il primo a segnalare la gravità di una crisi di governo provocata dalle liti sulle procedure di indennizzo e/o reintegro del lavoratore. Peraltro la soluzione di compromesso esiste ed è l'adozione del modello tedesco, su cui l'accordo Alfano-Bersani alle Camere è più che plausibile, purchè prevalga il buon senso. E in ogni caso i capi politici, nei prossimi tre mesi, dovranno fare attenzione a non commettere un errore di troppo.

Da un lato la caduta di Monti sarebbe un atto di irresponsabilità; dall'altro i partiti sono lungi dall'aver riacquistato un sufficiente grado di credibilità. Di sicuro sbagliano se pensano d'esser tornati al centro della scena. Per cui l'immagine non troppo felice di Casini («nel 2013 Monti consegnerà le chiavi di Palazzo Chigi alla politica; poi si vedrà se la politica gliele vorrà riconsegnare»), fissa una fotografia poco realistica dell'Italia di oggi. E soprattutto di quella di domani.


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« Risposta #49 inserito:: Marzo 28, 2012, 02:44:47 pm »

I nuovi accordi di principio sulle riforme e il paradosso di Mark Twain

di Stefano Folli

28 marzo 2012


Sosteneva Mark Twain, il grande scrittore americano, che è facilissimo decidere di smettere di fumare: «Io per esempio lo faccio ogni mattina», concludeva. Sulle riforme istituzionali in Italia vale un po' la stessa regola: decidere di farle è semplice, basta un vertice di maggioranza. E infatti è la terza o quarta volta negli ultimi tempi che si annunciano accordi di principio per diminuire il numero dei parlamentari, ridefinire i poteri del premier e soprattutto avviare una riforma elettorale in grado di accantonare l'attuale «Porcellum».

Se bastassero le intese generali, oltretutto fissate in esclusiva dai tre segretari della non-maggioranza che appoggia Monti, l'Italia sarebbe il paese più riformato del mondo. Sfortunatamente le leggi, costituzionali e ordinarie, devono passare al vaglio del Parlamento, e non c'è alcuna garanzia che i princìpi affermati nei vertici si trasformino poi in leggi dello Stato. Tutto è possibile, s'intende, anche che il «summit» di ieri segni un punto di svolta, ma finora l'esperienza è tutt'altro che incoraggiante.

Come è ovvio, quello che conta in questi casi è il dato politico. Il fatto che la strana maggioranza, messa sotto accusa dal presidente del Consiglio («io non voglio tirare a campare»), percorsa da fermenti dissonanti e addirittura inseguita da voci di crisi, persino di elezioni anticipate in autunno, ebbene questa maggioranza-non-maggioranza ha voluto dimostrare di esistere. Come dice Casini, il più attivo nel favorire l'incontro di ieri con Alfano e Bersani: «Ci era stato chiesto di battere un colpo e noi l'abbiamo battuto».

S'intende che il vertice avrebbe avuto ben altra efficacia se ne fosse scaturita un'intesa sulla riforma del lavoro. Ma era irrealistico: sul punto Bersani non avrebbe mai potuto impegnarsi, in attesa che si pronunci il Parlamento. Quindi i tre capi politici hanno tirato fuori dal cassetto i vari capitoli delle riforme istituzionali, in precedenza già definiti a grandi linee. Ed ecco la bozza Violante per la legge elettorale, con il ritorno al proporzionale corretto da una soglia di sbarramento. Accanto a un tema sempre-verde come il taglio di deputati e senatori.

La novità sarebbe che le riforme costituzionali e la legge elettorale (che è di natura ordinaria) dovrebbero prendere il via in modo parallelo al Senato la prossima settimana. Si può quindi capire la soddisfazione del capo dello Stato che da tempo incoraggiava le forze parlamentari ad assumere un'iniziativa e a dare all'opinione pubblica un segnale di vitalità riformatrice. Peraltro un Parlamento che lavora sui grandi temi ha meno tempo e voglia di tagliare l'erba sotto i piedi al presidente del Consiglio.

Detto questo, l'accordo non significa ancora molto. I ritocchi alla Costituzione restano un obiettivo remoto, visto che nel paese non si respira proprio un'aria «costituente» e quattro letture sono tante quando manca meno di un anno alla fine della legislatura. Sulla carta la riforma elettorale è invece più a portata di mano. Ma quanto è destinata a reggere l'intesa raggiunta ieri a Montecitorio?

Una parte del Pd rimprovera già a Bersani di aver abbandonato il bipolarismo, ossia la posizione ufficiale del partito fino all'altro giorno. In effetti il venir meno del vincolo di coalizione, cioè la rinuncia alle alleanze dichiarate prima del voto, segna una svolta a U per i democratici e non si sa quanti accetteranno il «patto» siglato con Alfano e Casini (quest'ultimo è il vero beneficiario dell'accordo, ove mai dovesse reggere alla prova del Parlamento). Da notare, tra l'altro, che con la riforma l'indicazione del premier non avrà più senso, in quanto la candidatura a Palazzo Chigi scaturirà solo dalle alleanze post-elettorali.

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« Risposta #50 inserito:: Marzo 29, 2012, 05:18:18 pm »

Confessioni di un impolitico? O forse mossa di un politico nascente

di Stefano Folli

29 marzo 2012


È senz'altro vero che in Italia il governo Monti registra un ampio consenso nell'opinione pubblica, quel consenso che i partiti tradizionali hanno perso. Per meglio dire, l'esecutivo «tecnico» è percepito come credibile, anche quando perde qualche punto nei sondaggi: come sta avvenendo in questi giorni a causa della controversa riforma del lavoro.

D'altra parte, gli elogi che il presidente del Consiglio va raccogliendo all'estero, da Obama alla Ue, dal leader cinese agli interlocutori giapponesi, testimoniano del personale credito che il premier si è guadagnato nei primi mesi del mandato. E lasciano capire che Monti è in questo momento l'interlocutore privilegiato, e diciamo pure insostituibile, di quel mondo globale che guarda all'Italia per investimenti e altro.

Questa è la realtà. E quando il premier all'estero ricorda, con un po' di risentimento, che i partiti hanno perso credito e consenso, non fa che confermare di essere in sintonia con la comunità internazionale. Come dire: continuate ad avere fiducia nell'Italia perché il timone lo controllo io e non i vecchi partiti pasticcioni.

Quello che Monti non dice, ma sottintende in forme trasparenti, è che i tatticismi delle forze politiche, il loro tortuoso ed estenuante modo di procedere, la tendenza a spaccare il capello in quattro, lo hanno parecchio irritato. Sentimento che deve essere più forte quando si guarda verso Roma da qualche migliaio di chilometri di distanza e tutto appare remoto e provinciale. Specie allorché c'è di mezzo una riforma, come quella del mercato del lavoro, studiata per favorire lo sviluppo e arenata sui veti politico-sindacali.

Detto questo, l'uscita del premier si presta a una serie di critiche. In primo luogo, certi concetti non possono essere reiterati ogni giorno. Monti lo aveva appena detto («io non tiro a campare»): perché ripetersi, visto che non sono emerse particolari novità nelle ultime 48 ore? Tutta questa insistenza nel sottolineare i limiti dei politici tradisce una certa insofferenza che in apparenza è impolitica. E tra l'altro contraddice l'attitudine felpata e molto astuta del primo Monti, quello che tra novembre e gennaio ha messo in riga i partiti coprendoli di elogi o almeno di riferimenti rispettosi.

In secondo luogo il premier tende a mescolare piani diversi. Il consenso al governo (e a chi lo guida) viene registrato dai sondaggi giorno dopo giorno. È sempre piuttosto alto, nonostante l'articolo 18. Tuttavia i partiti, screditati nei sondaggi, troveranno i loro voti nelle urne del 2013 e si sentiranno rilegittimati. Quale che sia il tasso di astensione, conteranno i simboli politici vecchi e nuovi. Se Monti vuole fotografare la perdita di credibilità dei partiti al di là dei rilevamenti demoscopici, non ha che un mezzo: presentare una sua lista la prossima primavera e provocare un serio smottamento degli equilibri parlamentari.

Se lo facesse otterrebbe un prevedibile successo (significativo il sondaggio volante di Sky Tg 24 sulle parole del premier: gli dà ragione circa il 75 per cento). I partiti tradizionali, a destra come a sinistra, pagherebbero un duro scotto. Il sistema politico ne uscirebbe trasformato. È questo che vuole il presidente del Consiglio? Sembra di no, visto che non perde occasione di evocare il suo ritorno alla vita privata («il dopo Monti? Sarà fantastico. Per me», ha detto in Giappone).

Eppure le frasi contro i partiti lasciano intendere che non tutto è chiaro nella storia dell'esperimento Monti, nel suo rapporto con la pubblica opinione e nella sua prospettiva politica. Il 2013 è lontano e molte cose devono ancora accadere.
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« Risposta #51 inserito:: Aprile 03, 2012, 05:30:33 pm »

Sul lavoro compromesso politico possibile, ma Monti deve guidarlo

di Stefano Folli

03 aprile 2012

C'è un interesse piuttosto evidente dei tre leader di maggioranza (Alfano, Bersani e Casini) a chiudere l'intesa sulla riforma del lavoro e sull'articolo 18 in tempi medi, se non proprio brevi. Per evitare, come dice Casini, che l'argomento avveleni per mesi il dibattito pubblico, condizionando la campagna elettorale: quella che oggi riguarda le amministrative, ma anche quella che dopo l'estate accompagnerà gli ultimi mesi della legislatura verso il cruciale voto politico del 2013. Non a caso il presidente del Senato, Schifani, pensa che siano necessari una quarantina di giorni per approvare la legge e salvaguardare il quadro politico.

D'altra parte, il compromesso non è ancora pronto. Difficile quindi credere che il disegno di legge che il governo si accinge a presentare possa rispecchiare in modo compiuto quello che non c'è. Ne deriva che ci sarà un gran lavoro per il Parlamento, se si vogliono collocare tutti i tasselli al loro posto. Sulla carta, le posizioni di merito sono distanti. E il rischio paventato dalle imprese è che il desiderio di chiudere la partita sul terreno politico porti a un cattivo compromesso: cioè allo svuotamento della riforma e a più pesanti oneri per le aziende.

Sarebbe la beffa dopo il danno. Però è vero che i nodi, come si dice, stanno arrivando al pettine. Davanti al governo Monti il bivio è chiaro. Da un lato il tripartito dà segni di voler cercare la sintesi. Soprattutto per ragioni di convenienza: nessuno può permettersi di mettere in crisi il governo «tecnico» senza sapere cosa accadrà dopo. E poi si tratta di una materia molto delicata.

In tempi di recessione e di disoccupazione, neanche Alfano ha voglia di abbracciare una linea dura quando si parla di licenziamenti più o meno facili. E infatti cosa dice il giovane segretario del Pdl? Chiede che l'accordo eventuale non sia sottoscritto alle condizioni della Cgil, adombrando che il Pd di Bersani sia succube di Susanna Camusso. È un argomento utile quando si vuole mandare un messaggio al proprio elettorato, ma non rappresenta un ostacolo serio al negoziato. Nella sostanza Alfano ha raccolto la mano che gli ha teso Bersani nell'intervista a «Repubblica». Mentre Casini, è ovvio, resta il mediatore per eccellenza, il consueto smussatore di angoli.

Dall'altro lato Monti non può rinunciare a una riforma autentica del mercato del lavoro, molto al di là delle pastoie dell'articolo 18. Ciò implica che il presidente del Consiglio sia in grado di sfruttare, sì, il disgelo tra le forze politiche, ma anche di guidare il negoziato, senza abbandonarlo alla forza d'inerzia dei partiti. Perché in tal caso il compromesso parlamentare rischierebbe di essere insoddisfacente e contraddittorio con le esigenze di una buona legge.

In altre parole, è adesso che Monti deve dimostrare che l'apprendistato politico di questi mesi sta dando i suoi frutti. Lasciata a se stessa, la semi-maggioranza parlamentare è destinata con ragionevole certezza a individuare un accordo al ribasso. Ma il polso del premier (l'uomo che guida un governo «con un consenso più alto di quello dei partiti») può rovesciare la tendenza. E spingere i partiti a intese che non tradiscano lo spirito della riforma. Una parte rilevante del mondo sindacale è pronto a sostenere questo passaggio (si vedano le costanti dichiarazioni di Bonanni). La Cgil farà le sue valutazioni, ma Bersani ha già ribadito che il Pd è «autonomo» rispetto al sindacato.

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« Risposta #52 inserito:: Aprile 05, 2012, 10:36:08 am »

Il compromesso possibile

di Stefano Folli

05 aprile 2012

L'accordo sul lavoro non è fatto per piacere a tutti. Le imprese, in particolare, vorranno vederci chiaro in un reticolo di norme che rischiano, in qualche caso, di rendere più rigido e non più flessibile il sistema e di aumentarne i costi. Ma dal punto di vista politico Monti può essere contento del risultato.

Aveva di fronte le sabbie mobili e ne è uscito senza nemmeno imbrattarsi i vestiti. Poteva rimettersi ai partiti e alle loro inquietudini, lasciando che fossero loro a trovare il bandolo della matassa in Parlamento, e invece ha guidato il negoziato che ha condotto al compromesso. Ha sfruttato le debolezze delle forze politiche, la loro ansia di rimuovere dal tavolo l'articolo 18, ma si è ben guardato dall'umiliarle.

Al contrario, ha restituito un ruolo a Pdl, Pd e Udc, rendendo i tre capi-partito compartecipi di un'intesa che può avere un significato profondo nella storia dei rapporti di lavoro. Monti ha puntato sulla stabilità e ha compreso che anche i tre leader della semi-maggioranza parlamentare avevano lo stesso interesse convergente. Nessuno vuole correre pericoli, nessuno ha la forza e la volontà di imboccare una strada diversa da quella che conduce senza alternative verso l'approdo del 2013. Con questo Governo, questo premier e con lo stesso equilibrio parlamentare. Poi, nel merito della riforma, si vedrà alle Camere. Il dibattito, possiamo immaginarlo, non sarà privo di tensioni.

Gli attacchi di Di Pietro al presidente del Consiglio sono violenti e scomposti, ma il «patto di sindacato» composto da Alfano, Bersani e Casini ha tutta l'aria di voler reggere alla prova, salvo qualche correttivo minore alla riforma. In realtà, se la Cgil, come sostiene il segretario del Pd, ha motivo di essere «soddisfatta», i margini di manovra delle forze alla sinistra di Bersani sono limitati. Quanto alla destra, la crisi devastante in cui è precipitata la Lega dimostra che la linea realistica e moderata del binomio Berlusconi-Alfano è l'unica praticabile. Monti non ha motivo di lamentarsi. Anche se è pericolosa la tentazione di Bersani di accreditarsi come il vincitore della partita: qualcosa su cui Casini può sorvolare, ma che Alfano non può accettare.

In ogni caso la parola più appropriata è compromesso. Compromesso favorito da Palazzo Chigi in nome del realismo politico. Qualcuno dirà: eccesso di realismo. Si aprirà la discussione sul bicchiere che contieme la riforma: è mezzo pieno o mezzo vuoto? Difficile dirlo oggi. Ma per Monti quello che conta è andare avanti, consolidare l'assetto che regge l'esecutivo, riannodare il filo mai spezzato che lo lega ai partiti della semi-maggioranza. Una grande coalizione di fatto, ha detto il presidente del Consiglio in un'intervista alla Stampa. Una grande coalizione che dovrà durare fino al 2013, certo, ma anche oltre. Quando «io - aggiunge con una punta di civetteria - guarderò dal di fuori».

Inutile domandarsi oggi quanto sia sincera questa affermazione, quanto sia autentico il desiderio del premier di assistere da semplice spettatore alle vicende della prossima legislatura. Molto dipenderà anche dall'eventuale riforma elettorale. Di sicuro è vero che sul mercato del lavoro, ma non solo, abbiamo avuto conferma che l'Italia è retta da un Governo tecnico-politico sostenuto in Parlamento da una larga coalizione non dichiarata, però effettiva. Il problema è capire cosa accadrà domani. Ammettiamo che la riforma del lavoro sia approvata dal Parlamento nei tempi medio-brevi evocati da Casini. E poi?

Ieri il Financial Times e il Wall Street Journal, due quotidiani che hanno sempre applaudito le scelte di Monti, esprimevano dubbi sulla sostenibilità dell'austerità economica in assenza di crescita della produzione. Questa è la sfida di qui alle elezioni politiche, fra un anno. La grande coalizione è capace di affrontare il tema dello sviluppo? Monti è disposto a giocarsi su questo punto cruciale il credito riconquistato? Nessuno oggi conosce la risposta. Crescita e sviluppo non sono termini retorici. Hanno a che fare con la vita delle imprese, con i tagli alla spesa improduttiva, con il pagamento dei debiti contratti dalla pubblica amministrazione. Se si vuole fare sul serio, i prossimi nove-dieci mesi dovrebbero scuotere l'albero dei vizi italiani come mai è accaduto in passato.

Ci si augura che Monti abbia voglia di rischiare. E che i partiti della grande coalizione mascherata non siano solo un freno, ma vogliano rendere un servigio al Paese. Del resto, il presidente del Consiglio ha detto pochi giorni fa di «non voler tirare a campare». Dopo il compromesso sul lavoro, ecco l'occasione di dimostrarlo. Con i tre partiti, se vorranno seguirlo. Oppure mettendoli di fronte alle loro responsabilità, se esiteranno.

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« Risposta #53 inserito:: Aprile 10, 2012, 11:15:41 pm »

Il sovrano decapitato

di Stefano Folli

10 aprile 2012Commenti (1)

L'uscita di scena del figlio di Bossi, il celebre "Trota", e quella imminente della vice-presidente del Senato, Rosy Mauro, ribadisce in maniera impietosa quello che è chiaro ormai da giorni: la Lega ha concluso il suo ciclo ed è ormai un rottame politico alla deriva. Può darsi, anzi è augurabile che un nuovo gruppo dirigente riesca a prendere in pochi mesi il controllo di quel che resta del movimento.

Ma occorrerà verificare quanto sarà realmente «nuova» questa leadership: se fosse solo cosmesi, sarebbe difficile arrestare il disincanto dei militanti e la fuga nell'astensione (che in questo caso fa davvero rima con disillusione).

In ogni caso l'incredibile scandalo che travolge la famiglia del leader storico e infrange il famoso «cerchio magico» equivale alla decapitazione del sovrano in uno Stato retto da una monarchia assoluta. Ed è escluso che l'assetto di potere interno possa reggere, essendo venuto meno il punto di equilibrio, anzi la fonte di ogni legittimità. La Lega di domani sceglierà probabilmente Maroni come nuovo capo: se non altro perchè l'ex ministro dell'Interno è stato il primo a reclamare «pulizia, pulizia, pulizia». Il primo, sì, ma senza affrettarsi troppo, visto che ha retto il Viminale per anni e i suoi nemici interni gli domandano come mai non si è mai accorto del malaffare. Mentre il Veneto, con Zaia, già avanza i suoi diritti.

Tuttavia, se anche Maroni riuscisse a tenere unito il movimento e a soddisfare i militanti che reclamano moralità, ebbene anche in quel caso la Lega dovrà attendere anni per ritrovare un ruolo nazionale. Il fallimento si paga e la Lega di Bossi e Calderoli, in parte anche di Maroni, ha fallito a Roma. Non ha saputo per anni dare corpo ai suoi stessi programmi, a cominciare dal federalismo (come ha ben documentato Luca Ricolfi sulla «Stampa» di ieri).

Il futuro leader farà dunque cosa saggia se proverà a rimettere in sesto il Carroccio partendo dalle amministrazioni locali. I Tosi, i Fontana e tanti altri svolgono con competenza il loro lavoro. È lì che la Lega dovrà tornare, senza farsi troppo ossessionare dal tema delle alleanze nazionali e della relativa visibilità. Di questi due punti si parlerà poi, in vista del voto del 2013 e alla luce di una legge elettorale che al momento è lungi dall'esser definita.

Sappiamo, in ultima analisi, che Maroni è persona di buon senso. Sotto la sua guida il Carroccio potrà perdere qualche elemento radicale, e non sarà un male: però con il tempo potrebbe guadagnare in credibilità e tornare a dare voce, almeno in parte, al Nord che lavora e chiede ascolto. Ciò accadrà se la nuova Lega, chiamiamola così, riuscirà a essere un soggetto che spinge per le riforme economiche (nel campo della spesa e dei servizi), anziché un blocco conservatore corrotto dalla peggiore politica.

In secondo luogo, Maroni e il nuovo gruppo dirigente dovranno rendersi conto che la questione del finanziamento ai partiti è un tema ineludibile del dibattito pubblico. Non solo per la necessità di regolare subito, anche con decreto legge, i flussi di denaro oggi privi di controlli. Ma anche per le ragioni espresse da Emma Bonino: la vicenda Lega deve essere l'occasione «per aprire i cassetti». Il che significa rivedere le norme «con cui si nominano i consigli d'amministrazione nelle municipalizzate e nelle grandi aziende di Stato». Qui è il lato oscuro del sistema.

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« Risposta #54 inserito:: Aprile 11, 2012, 07:05:36 pm »

Tre punti concreti per voltare pagina senza giochi di prestigio

di Stefano Folli

11 aprile 2012


Se bastasse l'annuncio di un intervento d'urgenza sulle regole del finanziamento per restituire credito ai partiti, forse non esisterebbe la crisi in cui si dibatte il sistema politico. Purtroppo tale crisi esiste ed è drammatica.

Le vicende Lusi e Belsito l'hanno portata all'attenzione della grande opinione pubblica, ma che l'albero fosse marcio dalle radici era purtroppo noto da tempo, senza che mai qualcuno avesse alzato un dito per correggere le storture. Dice Bersani: «Non tutti i partiti sono uguali, i bilanci del Pd sono certificati». Ma è un'affermazione debole, buona per rassicurare i quadri. Come insegnano le cronache, nessuno è al riparo dal rischio di scivolare: almeno fin quando i partiti, o almeno la maggior parte di loro, si comporteranno come altrettanti comitati d'affari.
Questo è il vero punto da cui partire. I partiti si occupano di infinite materie che non riguardano l'attività politica in senso stretto. Fanno affari, appunto. Hanno tempo da dedicare agli investimenti, operano alla stregua di società finanziarie.

I tesorieri di un tempo, da Citaristi a Balsamo a Greganti, finirono in terribili guai al tempo di Tangentopoli, ma erano uomini di un'altra epoca. Da non rimpiangere, certo, ma di un'altra epoca. Il loro compito era far tornare i conti: talvolta non ci riuscivano, altre volte facevano collimare entrate e uscite con sforzo. Raramente avevano dei surplus. Oggi il problema è come incrementare il patrimonio immobiliare o studiare i trasferimenti di denaro in luoghi esotici. Tutto questo da parte di organizzazioni che non hanno un profilo giuridico definito, nonostante che da decenni gli illusi chiedano sul punto l'attuazione pratica della Costituzione.

Ora la gran fretta con cui i tre leader della maggioranza (Alfano, Bersani e Casini) dichiarano di voler riformare il finanziamento pubblico (talvolta ribattezzato con pudicizia 'rimborso elettorale') sarebbe lodevole se non fosse sospetta.

C'è il pericolo di un gioco di prestigio mediatico per superare le difficoltà del momento, finché i partiti restano sulla graticola. Con il retropensiero di riprendere il vecchio sentiero non appena il clamore si sarà calmato. In effetti è troppo tardi illudersi di riacquistare credibilità grazie a un meccanismo di controlli più severo. S'intende, la Corte dei Conti è una soluzione più idonea di un'ennesima 'Authority' costituita ad hoc. Ma non è solo questo il punto.

Si può voltare pagina se il Parlamento avrà il coraggio di affrontare in tempi molto brevi tre punti. Primo, la quantità di risorse che in ogni legislatura arriva ai partiti. Sono centinaia e centinaia di milioni di euro. Questa montagna di denaro va ridotta in modo sensibile, controlli o non controlli. Secondo, va ricostruito un canale diretto fra il partito e la base dei militanti o simpatizzanti. Il finanziamento deve arrivare in prevalenza da costoro, lo Stato può garantire solo un minimo di rimborso certificato. Oggi il 'Sole' presenta in modo chiaro la proposta concepita dal professor Pellegrino Capaldo.

È un sistema per ridurre in modo progressivo, nell'arco di un quinquennio, il flusso delle risorse statali; favorendo al tempo stesso, attraverso un vantaggio fiscale, le donazioni dei privati. Si può contestare questa idea, a patto di produrne un'altra altrettanto efficace. Quello che non si può fare è lasciare scorrere inalterato il fiume dei finanziamenti, limitandosi a prevedere qualche controllo in più.

Terzo punto. È opportuno che i partiti evitino di suscitare attese per poi deluderle. L'opinione pubblica potrebbe non essere più disposta a chiudere un occhio. Finora la politica degli 'annunci' è stata sfruttata nel caso delle riforme istituzionali e della legge elettorale. Sarebbe grave se si ricorresse alla stessa tecnica nel caso del finanziamento/rimborso. Dopo gli scandali la pazienza potrebbe essersi esaurita.

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« Risposta #55 inserito:: Aprile 13, 2012, 12:15:15 am »

Tempi duri per le ali del sistema

di Stefano Folli

12 aprile 2012


Tempi duri per le forze «anti-sistema» o che magari pretendono di esserlo: soprattutto alla vigilia delle elezioni. Prima il caos nella Lega, ora l'inchiesta che investe Nichi Vendola.

E fa riflettere la notizia secondo cui il governatore della Puglia, e leader della nuova sinistra, è indagato per una questione legata alla sanità locale. Vecchia storia, a quanto sembra, maturata però proprio negli ultimi giorni.

Qualcuno dotato di spirito malizioso noterà che nelle sabbie mobili si stanno dibattendo due partiti di opposizione, entrambi propensi a descrivere se stessi – con parecchia retorica – come avversari del sistema: il Carroccio, da un lato, e il Sel, dall'altro. Ma si tratta, appunto, solo di malizia. Come è evidente, non ci sono molti punti di contatto fra il disastro leghista e i guai vendoliani. E poi le teorie complottarde non convincono quasi mai, senza dubbio non in questa occasione.

Quel che è certo, è che manca poco tempo alle elezioni amministrative e le inchieste giudiziarie possono fare male sia ai leghisti sia a Vendola. Si tratta, peraltro, di una probabile coincidenza temporale, per cui ha fatto bene il presidente della Puglia a dichiararsi «sereno», evitando offensive verbali contro i magistrati. Allo stesso modo, Maroni ha cominciato con il piede giusto decidendo di andare in procura, insieme al nuovo tesoriere, per fornire non pochi chiarimenti sul buco nero in cui è precipitata la Lega. S'intende che l'argomento con cui viene difeso il capo storico è deprimente («Bossi è stato raggirato»), ma è l'unico a disposizione.

Maroni deve ancora dimostrare di avere capacità di leadership, ma intanto è abbastanza attento da evitare la contraddizione di cui non si sono accorti i militanti riuniti a Bergamo martedì sera: non si può allo stesso tempo invocare pulizia, agitando le scope, e denunciare presunti «complotti» anti-leghisti. Le due cose non possono stare insieme, eppure il vecchio leader si è sforzato - senza troppa convinzione - di accreditare la seconda ipotesi, mentre il nuovo reggente si muove con una certa coerenza sulla linea della pulizia interna. L'unica, tra l'altro, che gli può permettere di consolidare il potere appena agguantato.

Ma egli stesso non è esente da contraddizioni. Ascoltare un ex ministro dell'Interno che arringa la folla al grido di «avanti per la Padania indipendente», fa un certo effetto. E' vero che Maroni pronunciava queste parole con un vago sorrisetto, come se nemmeno lui credesse davvero a quello che andava dicendo. Tuttavia è chiaro che la linea politica della Lega maroniana avrà bisogno di molteplici aggiustamenti: la «pulizia» invocata sul piano della legalità dovrà riguardare anche la paccottiglia della secessione, devoluzione, indipendenza e altri falsi miti degli ultimi quindici anni.

A sua volta Vendola dovrà scrollarsi di dosso i sospetti, se vorrà avere un futuro nel mondo della sinistra radicale. Le ambizioni del governatore della Puglia sono molto alte: condizionare da sinistra il Pd e ispirarne le politiche sociali. Ma anche lui è arrivato allo snodo cruciale della sua carriera. In un sistema di partiti sfilacciati e screditati non è strano che anche le forze d'opposizione inciampino. Ma il problema della rigenerazione riguarda tutti. A destra come a sinistra, nella psudo-maggioranza come al di fuori di essa.

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« Risposta #56 inserito:: Aprile 13, 2012, 10:45:29 pm »

Epuratore o rifondatore, ora Maroni

di Stefano Folli

13 aprile 2012


Rosi Mauro è un capro espiatorio? La domanda è abbastanza ovvia e tutti in queste ore se la pongono. Ma la risposta è intuitiva: sì, lo è. Lo è perché la sua espulsione, decisa con l'astensione di Bossi e un voto contrario (Reguzzoni), è servita a uno scopo politico: mostrare a tutti che il potere di Roberto Maroni si sta consolidando nel partito. Non c'entra il merito delle accuse che hanno colpito la vice-presidente del Senato, accuse per le quali la Mauro non è inquisita; e forse neanche il suo rifiuto di dimettersi dall'incarico istituzionale a Palazzo Madama (dimissioni che comunque sarebbero molto opportune).

Era necessario dare al 'popolo' leghista la sensazione fisica che l'equilibrio interno è cambiato. Rosi Mauro era un po' il simbolo del famoso 'cerchio magico', il piccolo gruppo di cortigiani che faceva il bello e il cattivo tempo nel Carroccio, coprendosi dietro il volto sofferente del leader storico. La sua subitanea espulsione, in compagnia dell'improbabile ex tesoriere Belsito, rende chiaro che il cerchio è andato in frantumi. E non a caso quasi tutti si sono allineati in fretta al potere emergente, anche perché sono troppo deboli e frastornati per mettersi di traverso. Vedi il caso di Calderoli, uno dei triumviri provvisori ed ex uomo forte della stagione berlusconiana, sul quale la magistratura oggi sta indagando.

Quindi la Mauro è senz'altro un capro espiatorio. La vera domanda è: e ora cosa succede? Maroni aveva promesso 'pulizia'. Se l'ex ministro dell'Interno usa questo argomento per ribaltare dalle radici la Lega, eliminare nel giro di pochi mesi il vecchio gruppo dirigente e indossare i panni del nuovo monarca, non potrà di certo fermarsi a Rosi Mauro e a Belsito. Potremmo dire allora che ha cominciato da questi due nomi, ma per andare molto oltre, in base alla retorica delle scope con il marchio del sole delle Alpi. Aspettiamoci quindi, se questa è l'ipotesi, che la scure maroniana si abbatta presto o tardi sul giovane Bossi, poi sul presidente del Consiglio regionale della Lombardia, Boni, poi sullo stesso Calderoli. E su altri ancora.

In un partito come la Lega, abituato al ventennio del potere assoluto di Bossi, la logica della sopravvivenza richiede che il successore riesca a far sentire alla base un analogo pugno di ferro. La 'pulizia' diventa la fonte della legittimazione per Maroni, purché sia una cosa seria e serva a creare un nuovo gruppo dirigente. La decisione di ieri ha quindi un senso se la cacciata della Mauro è funzionale a un disegno di potere ambizioso, per il quale Maroni dovrà dimostrarsi all'altezza. Se invece si è trattato solo di dare in pasto ai militanti un paio di nomi per tacitare il malcontento, mantenendo intatto il resto dell'oligarchia, allora c'è da aspettarsi parecchia instabilità e qualche brutta sorpresa in fondo alle urne elettorali.

Nella Cina comunista, alla morte di Mao, il corpo del 'grande timoniere' fu collocato in un mausoleo. Dopodiché l'epurazione colpì la 'banda dei quattro', una sorta di cerchio magico dell'epoca (non a caso la donna del quartetto era la moglie dello stesso Mao). Nessuno potrebbe definire quell'operazione un rinnovamento, bensì più precisamente una resa dei conti nel chiuso della Città Proibita. Ora Maroni dovrà decidere, se sarà in grado di farlo, cosa intende essere per la Lega di domani: solo un epuratore, uno che ha liquidato la 'banda dei quattro' leghista? Ovvero il rifondatore del movimento, anche sul piano del messaggio politico e magari del sistema delle alleanze? Oggi è presto per dirlo, ma la risposta non potrà tardare troppo.

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« Risposta #57 inserito:: Aprile 18, 2012, 11:09:03 pm »

Se al summit di Palazzo Chigi si sovrappone l'incontro Monti-Berlusconi

di Stefano Folli

18 aprile 2012


Davvero singolare la sovrapposizione che si è creata a Palazzo Chigi. Due passaggi: ieri sera il vertice del tripartito Alfano-Bersani-Casini con il presidente del Consiglio, un lungo colloquio non privo di tensione e di passaggi concitati.

E l'incontro a due fra Mario Monti e Silvio Berlusconi: un'occasione piuttosto rara d'incontro fra il premier in carica e il suo predecessore, ed è difficile credere che si tratti solo di una visita di cortesia. La coincidenza, sotto il profilo temporale e anche politico, è abbastanza sorprendente. Si pone una domanda: chi decide la linea politico-parlamentare del Pdl? Alfano nel summit dei tre partiti con il capo dell'esecutivo o Berlusconi nell'incontro di domani?

Il quesito non è irrilevante perché i risultati del vertice coinvolgono anche Bersani e Casini e quindi definiscono l'equilibrio complessivo su cui si regge il governo in Parlamento. Tuttavia Berlusconi, per la sua personalità e la sua storia politica, difficilmente si accontenterà di una «photo opportunity» con il suo successore. Vorrà avere voce in capitolo sui punti controversi. Ad esempio sulle famose misure per la crescita, sulle tasse e magari su temi che stanno molto a cuore all'ex premier: dalla gara per le frequenze televisive al disegno di legge anti-corruzione appena messo a punto dal ministro Severino.

È probabile che questa «ingerenza», se così si può dire, non sia plateale, forse nemmeno mediatica. Berlusconi ha una strategia e non sembra che intenda modificarla: sostenere Monti fino al termine della legislatura e usare lo schermo del governo tecnico per evitare la «diaspora» del centrodestra e anzi per cercare di puntellare l'area moderata. Ma la questione delle tv è dolorosa, anche perché inaspettata. Nella logica berlusconiana non può restare senza risposta: magari su un altro tavolo dell'agenda di governo.

Sia come sia, non c'è dubbio che il peso di Berlusconi nella società politica è ancora abbastanza rilevante da oscurare, almeno in parte, il vertice di ieri notte. Questo pone un problema ai tre protagonisti del summit. Tutti ieri sera avevano bisogno di qualche risultato tangibile da spendere con il loro elettorato (in fondo le elezioni amministrative sono alle porte).
In particolare Bersani sa di dover farsi carico delle inquietudini dei Comuni e delle angosce di quei ceti che soffrono l'asprezza della crisi. Alfano, a sua volta, tiene a che sia riconosciuto il ruolo del Pdl nel rimodellare – in qualche misura – la riforma del mercato del lavoro e nell'avviare un minimo alleggerimento del carico fiscale (ad esempio l'Iva). E Casini non vuol perdere la sua funzione di baricentro della maggioranza.

Tutti e tre sono stati spiazzati dall'irrompere sulla scena della questione delle frequenze tv. Bersani di sicuro non aveva interesse a parlarne, a Palazzo Chigi, e viceversa il segretario del Pdl non poteva non dar voce alla frustrazione di Berlusconi e di quanti nel centrodestra ritengono che il ministro Passera non abbia rispettato gli accordi.
Come si vede, la serata non è stata delle più serene. Ma il punto è che domani Berlusconi vedrà Monti. E si tratterà di capire come il premier gestirà questo incontro a poche ore dal vertice triangolare.

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« Risposta #58 inserito:: Aprile 23, 2012, 05:42:03 pm »

Roma e le conseguenze delle presidenziali in Francia, il giardino del vicino non è così lontano

Il Punto di Stefano Folli

22 aprile 2012

Era da molti anni che un'elezione presidenziale in Francia non era seguita con tanta attenzione sul versante italiano delle Alpi. È un effetto dell'Europa: tutti hanno compreso, sia pure con ritardo, che quello che avviene a Parigi, a Berlino o a Madrid ha conseguenze immediate negli altri paesi dell'Unione. E la crisi economica ci rende tutti molto sensibili a quello che succede nel giardino del vicino.

Detto questo, bisogna riconoscere che la parabola "italiana" di Sarkozy ha dell'inverosimile. Quando fu eletto, nel 2007, il successore di Chirac era visto con interesse e curiosità. Questo post-gollista moderno e dinamico aveva "charme". Sembrava in grado di rimescolare in patria gli schieramenti politici un po' troppo ingessati e soprattutto di immettere sangue fresco nel processo di costruzione dell'Europa, così burocratico e incapace di parlare ai cuori. In altre parole, Sarkozy aveva le caratteristiche della novità, non solo per la Francia ma per i popoli contigui.
   
Del resto, la sua vittoria annunciava e quasi anticipava il ritorno al successo di Berlusconi, che infatti di lì a un anno, nella primavera del 2008, si sarebbe di nuovo installato a Palazzo Chigi al posto di Romano Prodi. All'epoca si rincorrevano i paragoni fra i due personaggi e per molti Nicolas era il "Berlusconi francese". In più aveva chiamato personalità indipendenti nel suo primo governo, e anche qualche ex socialista. Un rimescolamento di carte piuttosto interessante, a cui la "gauche" sapeva opporre solo la malinconica contemplazione della propria crisi.

Cinque anni dopo lo scenario è del tutto cambiato. Da noi Sarkozy, incredibile ma vero, ha perso tutti i simpatizzanti della prima ora. La sinistra ovviamente lo combatte, tanto più che Hollande sembra vicino alla vittoria e Bersani si è già fatto vedere con il leader socialista nella capitale francese. Ma anche i berlusconiani hanno detto addio, e non senza rancore, al presidente uscente. Non hanno dimenticato i sorrisetti ironici fra lui e la Merkel nelle settimane immediatamente precedenti la caduta del presidente del Consiglio.

E in effetti quello che un tempo era un grande amico di Berlusconi si era trasformato nel tempo in un suo tenace avversario, nel solco dell'antipatia manifestata dalla Cancelliera tedesca verso il premier di Roma. Sarkozy aveva puntato sull'asse di ferro fra Berlino e Parigi, nella speranza illusoria che l'alleanza stretta riuscisse a tenerlo al riparo dalla crisi: le intemperanze del capo del governo italiano gli sono sembrate intollerabili e controproducenti.

Quindi rottura totale, peraltro bilaterale. E i moderati centristi? Anche loro hanno perso fiducia nell'interlocutore francese, soprattutto da quando l'ombra della sconfitta ha cominciato ad allungarsi su di lui. Qualcuno è diventato neutrale, altri si augurano in queste ore una buona affermazione di Bayrou, che non è destinato all'Eliseo ma è innocuo. Quello che appare evidente, è che tutti in modo più o meno esplicito guardano verso il candidato socialista. E tanti, anche a destra, si augurano – magari senza dirlo in pubblico – una sua vittoria. È il risultato della recessione e della mano tedesca sull'Europa.

Il "mitterrandismo pallido" di Hollande sembra anticipare una revisione dei trattati, la messa in soffitta del patto fiscale, la prospettiva di un'Unione diversa, meno teutonica e più mediterranea. E sperare non costa nulla. O meglio, in questo caso rischia di costare molto: la speculazione finanziaria è pronta ad addentare l'osso e molti ritengono che un socialista all'Eliseo produrrà scompiglio in un'Europa già disastrata. Per lo meno fin quando il neo-presidente non avrà fatto i conti con la realtà. Le sue promesse elettorali sembrano a molti un miscuglio di demagogia e di ingenuità. Ma la sola ipotesi che Hollande sia in grado di parlare con la Merkel dando voce alle frustrazioni di tante capitali europee sembra un viatico sufficiente.

Peraltro anche Mitterrand, quando giunse per la prima volta all'Eliseo, nel '74, provocò una gigantesca fuga di capitali. Ma all'epoca non esisteva l'euro e il contagio non era possibile. Oggi è tutto interconnesso e l'assenza di realismo – come scrive sul "Corriere della Sera" Alexandre Jardin – è un lusso che nessuno può più permettersi.

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« Risposta #59 inserito:: Aprile 26, 2012, 03:37:41 pm »

Con il vento francese alle spalle, Bersani ritrova l'iniziativa

di Stefano Folli

25 aprile 2012


Sarà il vento allegro che arriva dalla Francia, ma Pierluigi Bersani nelle ultime ore ha fissato tre punti che avranno rilevanza nel dibattito politico. In primo luogo, ha smentito di nuovo e in modo chiaro qualsiasi intenzione di promuovere le elezioni anticipate. C'era stato qualche silenzio di troppo nei giorni scorsi, mentre il tema era evocato da Berlusconi. Ieri l'ex premier è tornato a battere sullo stesso chiodo: il Pd pensa di essere in vantaggio e vuole andare a votare, di conseguenza i moderati devono restare uniti. Al che Bersani ha ribadito che la legislatura si concluderà nel 2013 come previsto: c'è di mezzo la «lealtà» nei confronti del governo Monti.
La posizione di Bersani è convincente. È vero che il Pd gode di un margine incoraggiante nei sondaggi, ma il rischio di chiudere anzitempo l'esperienza di Monti è troppo grande. La stabilità politica del paese rispetto all'Europa e ai mercati è un valore a cui il maggior partito del centrosinistra non vuole e non può rinunciare. Tanto più che i partiti presenterebbero agli italiani un bilancio semi-fallimentare, anche a causa delle riforme promesse e mai realizzate. Se mai il Pd fosse sfiorato da una tentazione, si può immaginare che il Quirinale avrebbe gli argomenti per dissuaderlo.

L'insistenza di Berlusconi, peraltro, risponde a un'esigenza interna all'area cosiddetta «moderata»: tenere unito il Pdl, nonostante le tensioni che lo percorrono; conservarne la coesione in vista del voto amministrativo e oltre. E poi rendere difficile la vita a Casini e al suo progetto di allargare i confini del "terzo polo". Forse è il nodo di fondo. Berlusconi teme che una Udc rigenerata (se mai l'operazione riuscirà) diventi la novità che una parte dell'opinione pubblica di centrodestra attende con impazienza. Di qui lo sforzo di ridurre gli spazi di manovra dell'ex alleato centrista, mentre Alfano annuncia l'imminente nascita di un Pdl rinnovato e rinominato.

Ma per tornare a Bersani, ci sono altri due punti significativi nelle sue iniziative delle ultime ore. Uno consiste nel sottolineare che il Pd vuole la ratifica parlamentare del «fiscal compact». In seguito - ma solo in seguito - il patto potrà essere modificato. Come dire che la simpatia per Hollande va conciliata con il sostegno al governo Monti. Se il Pd rigettasse gli accordi europei, il governo cadrebbe. Viceversa, un negoziato ad ampio raggio sulla crescita economica in Europa presuppone una stretta intesa preliminare con la Francia del "Mitterrand pallido". Bersani, è palese, lavora per questo obiettivo.

Infine la mossa sul finanziamento dei partiti. Dopo l'immobilismo delle scorse settimane e dopo aver definito «un errore drammatico» la rinuncia ai denari pubblici, Bersani ora propone di dimezzare «entro l'estate» il flusso dei finanziamenti. Nei giorni scorsi Casini aveva abbracciato la proposta del professor Capaldo, mentre secondo Alfano il Pdl potrebbe rinunciare "in toto" al contributo pubblico. Come si vede, il panorama è confuso. Tranne che su un punto: i grandi partiti hanno forse compreso che il finanziamento statale, così come'è, risulta intollerabile agli occhi dei cittadini. Ciò non significa che la riforma sia imminente. Siamo ancora in una zona grigia, ma sembra che si affermi finalmente una maggiore consapevolezza. Purché non sia solo il desiderio di far calmare le acque.

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