Stefano FOLLI. -
Arlecchino:
Il populismo paga i suoi tanti errori
È del tutto prematuro dedurre da questi dati che è cominciato il declino del M5S.
Del resto, per i Cinque Stelle non c’è quasi mai omogeneità fra voto amministrativo e voto politico
Di STEFANO FOLLI
12 giugno 2017
Nel vuoto di quel che resta dei partiti, mai come questa volta svogliati e distratti, la tornata delle elezioni comunali era l’inevitabile specchio di una politica sfilacciata, senza idee. Eppure dal voto negletto sono emerse rilevanti indicazioni. Non tanto il ritorno del bipolarismo centrodestra/centrosinistra, perché servono ben altre conferme prima di poterlo affermare. Quanto la grave sconfitta del Movimento Cinque Stelle, la prima seria battuta d’arresto registrata da un Grillo che forse presagiva la disfatta per come nelle ultime ore appariva scontroso e infastidito nelle strade della sua Genova. Essere esclusi da tutti i ballottaggi che contano è un pessimo presagio, tanto più che le percentuali raccolte da nord a sud sono scarse per una forza che si è proposta in questi anni come alternativa al sistema.
È del tutto prematuro dedurre da questi dati che è cominciato il declino del M5S. Del resto, non c’è quasi mai omogeneità fra voto amministrativo e voto politico. I Cinque Stelle, nella loro storia breve e turbolenta, hanno dimostrato di essere a loro agio sul terreno delle elezioni legislative, mentre le vittorie nei comuni maggiori (Parma, Livorno, Roma e ora persino Torino) non hanno portato loro granché fortuna.
Quel che è certo, un movimento radicale e populista ha bisogno di continui rilanci nel favore popolare. Un partito tradizionale, che vive di gestione del potere, può anche permettersi delle pause e dei passaggi a vuoto. Viceversa, per un movimento carismatico come quello che Grillo ha avuto l’ambizione di costruire, la crescita non può essere che continua. Quasi sempre la prima sconfitta segnala, se non altro, la fine della fase ascendente e la difficoltà di ripartire come se nulla fosse. Accadde così per l’Uomo Qualunque nell’immediato dopoguerra e per Poujade nella Francia degli anni Cinquanta.
Grillo paga per la prima volta i suoi errori. L’ultimo è recentissimo: aver dato la sua copertura al patto Renzi-Berlusconi sul falso modello tedesco. Un piccolo pasticcio parlamentare all’italiana da cui i Cinque Stelle sono usciti frastornati. E si capisce. Se si pretende la purezza, non si entra in certe combinazioni che hanno il sapore della “casta”, secondo l’ambigua terminologia grillina. Ma ci sono stati molti altri sbagli. La gestione Raggi a Roma prima o poi avrebbe presentato il conto. E l’infortunio di Chiara Appendino a Torino, con il disastro di piazza San Carlo, è accaduto troppo a ridosso del voto per non avere conseguenze.
Si potrebbe continuare. I litigi continui sul piano locale hanno lasciato il segno. A Parma Pizzarotti, personaggio emblematico, va al ballottaggio dopo essere stato espulso a suo tempo dal movimento e nessuno ha capito ancora bene perché. A Genova, come è noto, è stata cacciata da Grillo la candidata prescelta dai cittadini con il metodo delle primarie “via web”. Lo spettacolo di un partito che non rispetta le sue stesse regole, enunciate con tutta l’enfasi possibile, non è il miglior viatico per conquistare nuovi consensi. Quel tanto di campagna che il leader si è caricato sulle spalle non ha prodotto grandi risultati, come si è visto ad esempio a Taranto. O a Palermo.
Sul piano nazionale, il tentativo del movimento di trasformarsi in forza affidabile, persino moderata, sembra un po’ goffo. Si veda Di Maio che cerca di costruirsi un profilo europeista ed elogia francesi e tedeschi. Un’evoluzione è sempre possibile, non c’è dubbio, ma ha bisogno di tempo per essere credibile. Altrimenti ha il sapore di un espediente. E le operazioni fatte a metà, con eccesso di astuzia, finiscono per scontentare tutti. In questo caso, gli elettori.
Sta di fatto che la sconfitta grillina arriva nello stesso giorno in cui la Francia offre al presidente Macron la più squillante delle vittorie, in virtù di un sistema maggioritario fondato sui collegi che non ha niente, ma proprio niente in comune con l’Italicum, come pretenderebbero i nostalgici del sistema bocciato dalla Corte Costituzionale. In Francia sono sconfitti i nazional-populisti di Marine Le Pen. Ed è curioso come anche la leader del Fronte Nazionale avesse tentato nelle ultime settimane una cauta conversione, abbandonando i temi più aspramente anti-europei e ostili alla moneta unica. Chissà se anche gli elettori francesi sono rimasti sconcertati da questo zig-zagare, al pari degli elettori italiani dei Cinque Stelle.
In ogni caso, è evidente che il populismo ha conosciuto una serie di brucianti sconfitte in giro per l’Europa. Pochi mesi fa, dopo la Brexit e la vittoria di Trump, sembrava in procinto di conquistare l’Occidente. Oggi è del tutto ridimensionato. Vedremo quel che accadrà nel prossimo futuro, in Italia e altrove in Europa.
© Riproduzione riservata 12 giugno 2017
Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/06/12/news/il_populismo_paga_i_suoi_tanti_errori-167876938/?ref=RHPPTP-BL-I0-C12-P1-S3.3-T1
Arlecchino:
Una sinistra sorda mediti sugli errori
A oltre sei mesi dal referendum perso il 4 dicembre, la sconfitta in queste comunali è grave proprio perché capillare.
Difficile pensare di cavarsela affermando che si tratta di “fatti locali”
di STEFANO FOLLI
26 giugno 2017
IN FONDO alle urne di un secondo turno desertificato dall'astensionismo, c’è la vittoria del centrodestra. Vittoria netta e indiscutibile, a cominciare da Genova, città simbolo di queste elezioni comunali. Era una storica roccaforte della sinistra, da oggi avrà un’amministrazione di destra, sull'asse Forza Italia-Lega- Fratelli d’Italia che già governa la regione con Toti.
Ma le liste berlusconiane e leghiste si affermano un po’ ovunque, da Nord a Sud. Berlusconi dimostra di essere politicamente immortale: un moderno “Rieccolo” come ha detto qualcuno ricordando la definizione che Montanelli aveva coniato per Amintore Fanfani. Ma è un Berlusconi che nel settentrione deve molto alla Lega e anche all’afflusso degli elettori Cinque Stelle (quelli che si sono scomodati per andare a votare, s’intende). L’esclusione del partito di Grillo da quasi tutti i ballottaggi — tranne Asti e Carrara — ha avuto l’effetto di rinforzare i candidati del centrodestra a scapito degli avversari strategici del M5S, vale a dire le liste del Pd. Certo, è una magra consolazione per il movimento anti-sistema, le cui ambizioni erano più alte e che si è ritrovato di fatto a spalleggiare uno dei protagonisti del sistema contro l’altro. Annoverando per se stesso solo la vittoria a Carrara.
Per il centrosinistra invece è una sconfitta cocente e molto dolorosa. A parte Genova, anche altrove i dati sono sconfortanti. Si è molto detto circa la pretesa di Renzi di essere autosufficiente, cioè non condizionato dai gruppi alla sua sinistra. Ma queste amministrative dimostrano che anche laddove il Pd si presenta come centrosinistra allargato, comprendendo quindi la sinistra radicale, il risultato è ugualmente negativo. Si veda il capoluogo ligure, appunto, ma non solo. La sconfitta — con l’eccezione di Padova — riguarda un ventaglio di centri troppo ampio per non suggerire urgenti riflessioni al vertice del partito renziano. Ci sono tutte le città che contano. C’è persino L’Aquila, che alla vigilia veniva data per acquisita alla sinistra come emblema di un ritrovato rapporto con l’opinione pubblica dopo gli anni travagliati del dopo-terremoto.
A questo punto il Pd deve considerare i suoi errori. A livello locale ma soprattutto nazionale. Sarebbe miope individuare qualche capro espiatorio o peggio denunciare inesistenti complotti. È evidente che il partito ha perso credibilità e non riesce più ad afferrare il bandolo della matassa. A oltre sei mesi dal referendum perso il 4 dicembre, la sconfitta in queste comunali è grave proprio perché capillare. Difficile pensare di cavarsela affermando che si tratta di “fatti locali”. Quando gli aspetti, diciamo così, locali esprimono lo sfilacciarsi di un tessuto politico e sociale tale da abbracciare una porzione così significativa del territorio, significa che la rotta è sbagliata. E non si tratta solo di alchimie, di alleanze da cercare a tavolino o di un ceto politico da riconnettere. A questo punto c’è una relazione con il proprio elettorato che va ripensata prima che sia troppo tardi.
Ammesso che già non sia tardi. In verità il segnale del 4 dicembre è stato ignorato e oggi il partito di Renzi paga le conseguenze di questa sordità. Senza peraltro che altri abbiano in tasca la soluzione della crisi.
Quanto al centrodestra vincitore, il limite è che si tratta di elezioni locali. Nel senso che Berlusconi e forse anche Salvini sono i primi a sapere che l’alleanza vincente a livello locale non può essere riproposta tale quale a livello nazionale. Soprattutto se il sistema elettorale sarà proporzionale, con ciò incentivando la presentazione di liste separate. E non è solo questo. La linea di Salvini verso l’Europa non è conciliabile con quella dell’ultimo Berlusconi, di nuovo vicino al Partito Popolare e ad Angela Merkel. Prima di immaginare una lista unica del centrodestra alle politiche, qualcuno dovrà cambiare idee e posizioni in modo netto. Forse è più facile prevedere che ognuno vada per conto suo a raccogliere voti per poi discutere nel nuovo Parlamento.
Un Parlamento che a questo punto potrebbe anche avere una maggioranza di centrodestra. Chissà se è lo scenario preferito da Berlusconi. Forse no: l’idea di governare insieme a un Salvini trionfante non è proprio in cima ai desideri del “Rieccolo” di Arcore.
© Riproduzione riservata 26 giugno 2017
da - http://www.repubblica.it/politica/2017/06/26/news/una_sinistra_sorda_mediti_sugli_errori-169132464/?ref=RHPPTP-BH-I0-C12-P1-S3.4-T1
Arlecchino:
Governo, a chi rimane il cerino
06 MAGGIO 2018
DI STEFANO FOLLI
Se la crisi politica fosse una gara di ciclismo, si direbbe che l’ultimo approccio fra Di Maio e Salvini è arrivato fuori tempo massimo.
Ma naturalmente nel triangolo fra Quirinale, Palazzo Chigi e Montecitorio non hanno valore le regole sportive: quel che conta è il risultato. Se oggi Mattarella ottenesse un segnale di disponibilità dal centrodestra, si può esser certi che andrebbe a verificare il fatto nuovo.
Ma tutto lascia pensare che non accadrà nulla di tutto ciò. Pur guardandosi in cagnesco, i Salvini, i Berlusconi, le Meloni non hanno convenienza a rompere. Invece hanno interesse a stare insieme in questo passaggio cruciale della crisi. Tanto più se gli avvenimenti di questi giorni fossero l’anticamera dello scioglimento delle Camere appena elette: al voto andrebbe la stessa coalizione di centrodestra che si è presentata il 4 marzo, solo con un baricentro ancora più spostato verso la Lega.
In fondo, nelle ultime ore abbiamo assistito al classico gioco del cerino. Consapevoli che la crisi non ha forse alcuno sbocco, tutti — a cominciare da un Di Maio abbastanza disperato — hanno tentato di mettere sul tavolo le ultime carte. Con l’idea di lasciare ad altri la responsabilità di un rifiuto.
E così è: chi fra oggi e domani resterà con il cerino in mano, vale a dire chi pronuncerà l’ultimo, fatidico “no”, sarà anche additato come il responsabile delle probabili elezioni anticipate in autunno. Una stagione in cui potrebbe essere troppo tardi per scansare la trappola dell’esercizio provvisorio e soprattutto per neutralizzare l’aumento delle aliquote Iva.
Ecco allora il “passo indietro” di Di Maio, il balletto intorno all’ultima versione del progetto fumoso di un governo affidato a un nome terzo, ma fondato sulla garanzia parallela del capo leghista e dello stesso pentastellato. Senza Berlusconi messo nell’angolo. Un piano di corto respiro rispetto al punto in cui era giunta la crisi. E infatti la fine prematura della legislatura è nell’aria da giorni e non invoglia a compiere azzardi o acrobazie politiche.
Il fatto è che il fallimento dell’iniziativa di Di Maio è stato in qualche misura provocato o aggravato dal modo scomposto in cui il giovane leader si è avventurato in oscure insinuazioni. Era il momento di avanzare proposte con spirito costruttivo, visto che si trattava di aprire un sentiero fra mille ostacoli.
Al contrario, si è avvertito un clima vagamente minaccioso che inquieta e al tempo stesso fotografa la condizione di straordinario affanno in cui si muove il gruppo dirigente dei Cinque Stelle.
Tirare in ballo da Lucia Annunziata la «democrazia rappresentativa» che non funziona se il movimento fondato da Grillo non ottiene, con le buone o con le cattive, quello che vuole, significa fare affermazioni inaccettabili. Reiterare che «dovremo inventarci qualcosa» al posto di questa democrazia parlamentare non è rassicurante. Forse stamane il capo dello Stato chiederà conto al giovane leaderino di queste frasi, arricchite da altre perle: ad esempio il referendum sull’euro che viene annunciato o negato a seconda delle opportunità del momento, senza che lui, Di Maio, abbia nulla da eccepire nel merito. Probabilmente in queste ore
è tramontato l’ultimo tentativo di dare un indirizzo politico alla crisi, a meno che Mattarella non decida — ma è molto improbabile — di prendere in considerazione l’ipotesi di un pre-incarico a Salvini per un governo di centrodestra aperto a vari contributi in Parlamento. Nel frattempo nel grande rogo sembra bruciato anche il governo “del presidente” o di tregua. Perché di tregua non c’è traccia.
Da - https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2018/05/06/news/governo_a_chi_rimane_il_cerino-195697694/
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Commento Fase 2 Coronavirus
Governo, a chi parla davvero il premier
21 MAGGIO 2020
L'appello di Giuseppe Conte non va inteso come rivolto a tutta l'opposizione, bensì a quel segmento che potrebbe essere disponibile a condividere il dividendo europeista
DI STEFANO FOLLI
La rissa sfiorata giovedì mattina alla Camera è in un certo senso la prima risposta all'intervista di Conte al quotidiano Il Foglio, in cui il presidente del Consiglio riproponeva la sua apparente mano tesa all'opposizione. Apparente perché l'offerta rimane, come in precedenti occasioni, piuttosto generica: si evoca una terza fase dedicata alla semplificazione burocratica, alla riforma della giustizia, al rilancio del modello economico. Tutti temi condivisibili, anzi prioritari, ma non si capisce in che termini dovrebbe prendere forma la collaborazione - parlamentare, s'intende - con il centrodestra. Sotto questo aspetto, non c'è una proposta concreta, un itinerario possibile per scendere dal cielo dei principi al terreno delle iniziative.
In ogni caso, a Montecitorio qualcuno tra i Cinque Stelle ha voluto creare un piccolo incidente utile a comprendere quali potrebbero essere i margini della cooperazione sinistra/destra: allo stato delle cose, si tratta di margini inesistenti. Se infatti anche i morti per il Covid in Lombardia diventano occasione, o meglio pretesto, per uno scambio di contumelie volgari con la Lega, si capisce che siamo all'anno zero, altro che "fase tre". Tuttavia il premier ha dimostrato fin qui di essere un uomo astuto. Difficile pensare che non sia consapevole di un dato politico: semmai fosse realistica - e oggi non lo è - una qualche forma di intesa parlamentare allargata tra maggioranza e opposizione, non sarebbe lui a gestirla. Vorrebbe dire che lo scenario è cambiato in modo radicale, per cui i firmatari dell'accordo chiederebbero ovviamente un altro premier, diverso da quello che ha governato prima con Lega e 5S e poi con 5S e Pd.
Perché allora Conte ripropone uno schema che già nel recente passato ha avuto poca fortuna? Probabilmente perché non gli costa nulla e forse gli permette di guadagnare tempo. In fondo, l'appello a ridurre le tensioni e a collaborare sul piano parlamentare è tipico delle fasi di crisi. Lo stesso presidente Mattarella lo ha rivolto a più riprese alle forze politiche. Ma Conte non è il presidente della Repubblica: è un personaggio atipico che guida una maggioranza precaria dal futuro incerto. Da un lato, egli ritiene che questa maggioranza non possa dare molto più di quello che ha già dato; dall'altro, si sforza di creare qualche contraddizione nel centrodestra. Di sicuro Conte vede i sintomi di debolezza che solcano lo schieramento Salvini-Meloni-Berlusconi. E qui non si può dargli torto. Se fosse vero che l'Europa riverserà in tempi utili consistenti risorse finanziarie sul nostro Paese, si può immaginare che almeno Forza Italia sosterrà l'operazione.
Per cui l'appello del premier non va inteso come rivolto a tutta l'opposizione, bensì a quel segmento che potrebbe essere disponibile a condividere il dividendo europeista. Sempre che i finanziamenti ci siano e non arrivino fuori tempo massimo. Esiste peraltro un secondo aspetto in grado di confondere il quadro. In settembre o comunque ai primi di ottobre si andrà a votare per le regionali e le comunali rinviate, nonché per il referendum sul taglio dei parlamentari. Questo vuol dire che, nonostante il virus e l'estate, l'Italia sta per entrare in una nuova, peculiare campagna elettorale. Certo, il momento meno propizio per avviare esperimenti politici dai contorni poco definiti.
Da - https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2020/05/21/news/governo_a_chi_parla_davvero_il_premier_giuseppe_conte-257305408/
Arlecchino:
Commento Governo
La fantasia al potere
25 MAGGIO 2020
Assistenti civici: l'aspetto singolare della vicenda è che invece di concentrarsi su iniziative innovative volte a promuovere la ripresa economica e a rassicurare un Paese smarrito, l'immaginazione si applica a tutto ciò che prevede forme di controllo vagamente asfissianti
Tra i sussulti della decadenza politica in cui il Paese si agita, la vicenda delle guardie civiche (qualificate con pudore "assistenti") resterà agli atti come un caso limite di idea cervellotica ma emblematica di un certo modo d'intendere il rapporto con l'opinione pubblica.
È chiaro che l'esercito dei sessantamila controllori non prenderà mai servizio: in poche ore ha suscitato la diffidenza o l'ostilità trasversale di un buon numero di forze politiche, di gran parte degli scienziati e infine del ministero dell'Interno che non è stato nemmeno consultato.
Di conseguenza, come di solito accade, la proposta si è scoperta in un attimo senza padri né padrini. Tranne uno: il ministro degli Affari regionali, Boccia, che l'ha concepita e messa sul tavolo in buonafede, ottenendo tuttavia il solo effetto di esasperare il nervosismo che si avverte nell'aria e di far perdere altro tempo a un governo che ne ha perso già parecchio.
L'aspetto singolare è che invece di concentrarsi su iniziative magari innovative volte a promuovere la ripresa economica e a rassicurare un Paese smarrito, la fantasia del potere si applica a tutto ciò che prevede forme di controllo vagamente asfissianti.
Anziché credere al senso di responsabilità dei cittadini, che nel complesso si sono ben comportati nelle strettoie dell'emergenza sanitaria, si preferisce inventare nuovi strumenti sicuramente inefficaci - oltre che costosi per un erario esausto - ma dal sapore poliziesco. Oltretutto all'insaputa di chi - il Viminale - ha il dovere istituzionale di gestire le forze dell'ordine.
Chi non ricorda la storia tragicomica delle "ronde padane" propugnate un tempo dalla Lega, ma respinte dagli spiriti liberali con l'argomento che deve essere lo Stato con i suoi organismi a provvedere alla sicurezza collettiva?
Ne deriva che le nuove ronde anti-assembramento sono proprio quello che non serve a una società piegata da oltre due mesi di isolamento e bisognosa di risentirsi viva. Con ogni cautela, ovvio, ma senza la sensazione di vagare per l'eternità dentro un mediocre film di fantascienza. In ogni caso, come è possibile che tali bizzarrie prendano forma con una certa regolarità? Certo, esiste una crescente debolezza della politica, di cui è sempre più evidente la carenza di visione e l'incapacità di trasmettere messaggi coerenti.
Il Pd, si dice, ha normalizzato il M5S: purtroppo sembra averne assorbito i lati peggiori, a cominciare dalla sub-ideologia illiberale. Per cui si cerca il colpo a effetto, il titolo del giorno dopo, il talk show serale. Ma tutti tendono a vivere alla giornata. E per qualcuno la pandemia è l'occasione per esercitare una vigilanza coercitiva sull'insieme dei comportamenti sociali che diventa il surrogato della politica forte e credibile che manca.
A proposito di credibilità, chiunque può rendersi conto che la faida all'interno della magistratura, o meglio tra le correnti e le fazioni del Consiglio Superiore, ha molto a che fare con la politica debole. I conflitti di potere fuori controllo offrono un'immagine distorta e purtroppo degenerata della funzione giudiziaria.
È un'altra prova del declino in atto a tutti i livelli. Ed è legittimo domandarsi: quanto può valere una riforma del Csm annunciata quando è tardi, per di più affidata a un ministro come Bonafede appena scampato per il rotto della cuffia alla sfiducia parlamentare?
Da - https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2020/05/25/news/la_fantasia_al_potere-257617797/?ref=nl-rep-a-bgr
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