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Autore Discussione: Pier Luigi BATTISTA  (Letto 108908 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Settembre 23, 2012, 04:57:35 pm »

L'OPINIONE

Carcere per il giornalista Sallusti?

Sembra Vendetta più che atto di giustizia


C'è qualcosa che non funziona, in assoluto, in una giustizia che oscilla tra una condanna al pagamento di 5 mila euro a una di 14 mesi di carcere con sentenza definitiva (e senza condizionale).

Se poi ad Alessandro Sallusti, il direttore del Giornale, viene indicata la galera per un vizio nell'esercizio della difesa giudiziaria, la severità acquista la forma ancor più sgradevole di una rappresaglia punitiva abnorme. Difendere Sallusti e protestare per l'enormità della sentenza che lo condanna a un non breve periodo di detenzione non è, da parte di un giornalista, una difesa corporativa.

Sallusti infatti rischia concretamente la galera per un reato connesso a un'attività giornalistica ma che appunto, normalmente, viene sanzionato anche finanziariamente in modo pesante ma non con la reclusione in carcere. Chi sbaglia deve pagare. Ma deve pagare in modo proporzionato, conforme alle leggi e al buonsenso. C'è chi afferma che Sallusti è stato condannato per un reato d'opinione. La diffamazione non è, tecnicamente, un reato di opinione. Ma la pena deve avere un rapporto con la gravità del reato e infatti la prima condanna prevedeva il pagamento di 5 mila euro. Come si possa arrivare dai 5 mila euro a un anno e due mesi di prigione è invece un mistero e anche un indice della volubilità di giudizio di chi amministra la giustizia in Italia e che, necessariamente, genera sfiducia nell'equanimità e nella serenità di chi deve decidere su un argomento tanto delicato come la libertà altrui.

Naturalmente ci sarà chi obietterà: ecco che sui giornali vanno a finire solo gli episodi della gente che conta e dei colleghi giornalisti. La replica è però questa: Sallusti è stato condannato a una pena tanto severa proprio per cose che erano finite sul suo giornale e che nemmeno aveva scritto lui, limitandosi a sottoscriverle come direttore responsabile (di Libero , al tempo). Il carcere per questo? Sembra una vendetta, più che un atto di giustizia.

Pierluigi Battista

22 settembre 2012 | 15:39© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_settembre_22/battista-carcere-giornalista-sallusti_5019d58c-04ba-11e2-ab71-c3ed46be5e0b.shtml
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« Risposta #91 inserito:: Ottobre 01, 2012, 03:01:24 pm »

L'AFFOLLATA AREA DEI MODERATI

L'ombrello e la scialuppa

Ora è esplicito che l'arcipelago neocentrista, il nuovo partito di Montezemolo, quello di Casini, quello di Fini più altri e variegati frammenti della galassia moderata andranno alle elezioni con un candidato che non si candida: Mario Monti. Non si sa come la prenderà l'attuale presidente del Consiglio. Si sa però che la prenderanno bene le istituzioni europee, i mercati, gli investitori, gli alleati dell'Italia, i partigiani dell'euro timorosi che con le elezioni vada smarrito il rigore e il recupero di credibilità internazionale incarnato dalla figura di Monti, nonostante incertezze ed errori nell'azione di governo. Si allontana il rischio che con il «ritorno della politica» l'Italia sprofondi nuovamente nelle cattive abitudini della spesa spensierata e del consenso pagato con i debiti. Ma, paradossalmente, è proprio la nascita di un «partito» pro Monti a nascondere un'insidia per l'attuale presidente del Consiglio e per i sostenitori di un «Monti bis».

Il rischio maggiore è che il governo tecnico, diventando la bandiera di una parte, smarrisca quel connotato ecumenico che ne fa l'espressione di una grande coalizione cementata dal senso di responsabilità per l'Italia che non si è ancora liberata dallo spettro del collasso; lasciando peraltro, come doveroso in una democrazia, la parola al voto degli italiani. Il secondo rischio è che la campagna elettorale che si sta per aprire perda ogni significato sul piano dei contenuti per trasformarsi in un referendum pro o contro Monti. Il terzo riguarda il fronte che si schiera a favore del Monti bis a priori, che finisce per fare un simbolo del premier chiamato a salvare l'Italia dal fallimento, ma anche per trincerarsi dietro una nobile figura apprezzata dalla comunità internazionale per evitare i difficili dilemmi di una scelta. Che cosa ha da dire il nuovo arcipelago centrista sul futuro dell'Italia? Mario Monti è una garanzia, certo, ma forse l' endorsement a favore del Monti bis esime una forza politica dalla fatica della proposta, dall'agenda che si vuole suggerire, dalle scelte dolorose che si devono compiere?

È chiaro che la stessa ipotesi di un nuovo governo Monti non può prescindere dal riconoscimento che solo un'ampia maggioranza di «unità nazionale» potrebbe garantirne la base e la solidità. E che in una situazione in cui il disagio sociale è destinato inesorabilmente ad acuirsi, solo la scelta delle principali forze politiche di stare insieme può consentire a un governo tecnico di proseguire la sua azione dopo la consultazione elettorale. Intestarsi unilateralmente il nome e l'immagine di Monti potrebbe perciò risultare, oltre che errato in linea di principio, pericoloso e controproducente anche per chi sostiene la necessità di non tornare alla paralisi in cui si era cacciata la «vecchia» politica. Senza considerare che la stessa configurazione degli attuali schieramenti politici potrebbe essere travolta se nelle primarie del Pd e del centrosinistra dovesse prevalere il ciclone impersonato da Matteo Renzi. I moderati italiani (sempre che questa denominazione abbia un senso) stanno finalmente impegnandosi a dare rappresentanza politica a quella parte dell'Italia che non vuole veder dispersi i risultati del governo Monti. Ora sta a loro non ottenere risultati opposti a quelli sperati. E non apparire come politici che si aggrappano alla scialuppa di Monti cercando di scansare il naufragio.

Pierluigi Battista

1 ottobre 2012 | 9:46© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_01/ombrello-e-scialuppa-pierluigi-battista_c5339b8a-0b88-11e2-a626-17c468fbd3dd.shtml
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« Risposta #92 inserito:: Ottobre 26, 2012, 09:37:03 am »

Purché siano vere

Con la rinuncia alla candidatura del leader carismatico e l’indicazione delle primarie del Pdl indette per il 16 dicembre si chiude la stagione berlusconiana della monarchia assoluta. Per la prima volta un partito nato e cresciuto come emanazione del leader si apre alla scelta democratica della leadership. Non è importante appurare se questa decisione sia troppo tardiva, o se sia stata concepita in extremis per evitare la dissoluzione di un partito che si è abbandonato negli ultimi tempi a una rovinosa e fratricida guerra per bande. E non è nemmeno obbligatorio spiegare questo improvviso successo del metodo delle primarie nel centrodestra con la sferzata di energia che l’apertura delle primarie del centrosinistra ha già dato al Pd. Resta l’importanza di una svolta vera. E la possibilità che la campagna elettorale possa essere ricondotta sui binari di una democrazia normale, con forze che competono per governare il Paese dotate di un minimo di credibilità dopo la virtuosa parentesi tecnica.

Dovranno essere primarie autentiche: il contrario della cooptazione oligarchica con cui un leader magnanimo indica un suo successore. Primarie con divisioni nette, linee politiche differenti, aspiranti leader con profili personali caratterizzati. Nel Pd si è avuto un soprassalto di dinamismo politico perché Renzi ha portato in quel partito una sfida aperta, fatta di critica anche umanamente molto dura al suo gruppo dirigente, e anche di una sensibilità politico- culturale eccentrica rispetto al modello di sinistra tradizionale che è stato il recinto storico in cui il Pd ha preso forma. A volte il conflitto rischia di assumere forme autodistruttive e la vessazione burocratica di regole troppo ferree e conservatrici per lo svolgimento effettivo del voto rischia di dilapidare il capitale di fiducia che l’avvio della campagna per le primarie nel centrosinistra aveva già cominciato ad accumulare. Ma la scintilla di un confronto democratico vero si è accesa. E gli effetti positivi sono già nei numeri e nell’attenzione crescente per il Pd.

Il Pdl parte in condizioni decisamente peggiori. I sondaggi sono crudeli. Tutto ciò che aveva fatto in un ventennio politico la forza di Berlusconi è diventato motivo di debolezza. Eppure se le primarie del centrodestra coinvolgessero davvero (non la solita visita guidata ai gazebo) una base larga, non solo di militanti, ma di gente comune che si mette in fila per scegliere un leader in competizione libera e leale tra candidati, forse si imboccherebbe non la strada per la vittoria elettorale, ipotesi molto remota, ma quella per la rigenerazione di una parte dell’Italia politica, molto consistente, che ancora non vuole essere condannata al destino dell’irrilevanza. Se la scelta coraggiosa di Berlusconi vorrà avere conseguenze positive per il suo partito non dovrà apparire come una trovata furba, o l’ennesimo annuncio frustrante. Si apre per il centrodestra una stagione nuova: il congresso reale che non si è mai fatto, da celebrarsi il 16 dicembre.

Pierluigi Battista

25 ottobre 2012 | 11:00© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_25/battista-purche-siano-vere_5cbb2edc-1e62-11e2-83ec-606b68a0023b.shtml
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« Risposta #93 inserito:: Ottobre 31, 2012, 05:55:12 pm »

I PARTITI E L'ONDA ASTENSIONISTA

Il senso perduto dell'emergenza


Forse i partiti non hanno ascoltato bene il messaggio siciliano. Certo, ammettono che c'è qualche problema se oltre la metà dell'elettorato non si reca alle urne. Si dicono sensibili al disagio che si esprime nel massiccio voto a Grillo. Promettono di cambiare. Assicurano che saranno «concreti». Si mostrano pensierosi sui «problemi della gente». Ma è tutto qui. Non hanno capito che un astensionismo rivendicato così esteso è un segnale di rivolta. Che siamo prossimi al ripudio globale. E che manca pochissimo per raggiungere il livello più basso della credibilità dei partiti. Non di un partito, ma dell'intero sistema dei partiti.

Forse non hanno capito che qualche partito è leggermente messo meglio di un altro ma non è che se il Pdl è alla dissoluzione, gli altri non esibiscano una debolezza che fa spavento quando c'è da affrontare, senza l'ausilio di un governo tecnico, una crisi che moltiplica tensioni e rabbia. Dovrebbero tenere aperto a oltranza il Parlamento per prendere nei tre mesi che restano provvedimenti drastici. Ridurre al minimo i finanziamenti scandalosamente elevati e senza rendiconti ai partiti vivi e ai partiti defunti ancora gratificati delle risorse pubbliche. Non mettere ostacoli al ridimensionamento delle Province. Calmierare le spese delle Regioni. Fare una legge elettorale decente. E invece, dopo aver ritualmente mostrato di comprendere l'inquietudine dell'elettorato, si sentono finalmente liberi dai vincoli del governo Monti. Si sentono in libera uscita. Sospirano fiduciosi al prossimo «ritorno della politica». Pensano che l'emergenza sia conclusa. Che si possa tornare come prima. Costringono il governo a fare retromarcia sulla riduzione dei costi della politica. Fanno ostruzionismo sulla spending review . Si gingillano con le più astratte soluzioni per riformare sul serio la legge elettorale.

I partiti stanno diventando la fabbrica del qualunquismo nazionale: si comportano in modo tale da acuire il senso di estraneità che il loro linguaggio suscita nella stragrande maggioranza dei cittadini. La loro totale incapacità di reagire impedisce di capire che i numeri hanno un loro valore incancellabile, e che oramai i principali partiti tradizionali godono di percentuali sempre più irrisorie. Vincerà chi perderà di meno: non è normale. I vincitori diranno che hanno «tenuto», come a evocare un naufragio, ma non fanno nulla per evitarlo. Manca loro il senso di un'emergenza. Di un allarme vero. Cosa devono aspettare ancora per capire che un astensionismo così rabbioso ed esteso è il sintomo di un rapporto spezzato e che il compito di una politica responsabile è di ricucire un filo, un legame, il superamento di un disprezzo tanto corale? In Sicilia si è rotto un tabù.
Finora l'astensionismo è stato visto come disaffezione contenuta. Ma in Sicilia la disaffezione ha voluto parlare. E ha parlato in una lingua che non lascia spazio a interpretazioni indulgenti. Ora i partiti hanno davanti a sé meno di cento giorni. Possono far finta di niente. O addirittura illudersi di trarre reciprocamente vantaggio dalle difficoltà di tutti. O possono affrontare l'emergenza. L'ultima chiamata. Ecco il messaggio siciliano.

Pierluigi Battista

31 ottobre 2012 | 7:14© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_31/senso-perduto-emergenza-battista_3bed7f24-2322-11e2-b95f-a326fc4f655c.shtml
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« Risposta #94 inserito:: Novembre 06, 2012, 10:32:30 pm »

L’IRRINUNCIABILE RIFORMA DEL VOTO


Il rispetto degli elettori


I partiti farebbero cosa saggia se seguissero le esortazioni del capo dello Stato a varare nel pochissimo tempo che resta una decente legge elettorale. E non solo per sensibilità istituzionale e per non lasciar cadere in modo sciatto l’allarme del Quirinale su una riforma ineludibile. Ma perché per lucrare nell’immediato su un piccolo vantaggio alla vigilia del voto, si rischia il disastro per i tempi che verranno dopo le elezioni. E perché l’avevano promessa, una nuova legge elettorale, anche per dimostrare che i partiti esistono malgrado il governo tecnico. Se non fossero capaci di trovare un accordo, si dimostrerebbero miopi. E incapaci. Senza appello. Con il Porcellum inalterato o con una legge elettorale che peggiorerebbe le cose se venisse gratificato di un premio di maggioranza non la coalizione bensì il singolo partito, chiunque vincerà le elezioni non riuscirà a governare con un Parlamento frammentato e caotico.

Dopo il terremoto siciliano, l’idea di premiare il singolo partito, sotto l’effetto dell’incubo di un Grillo che arriva inopinatamente primo, appare un po’ intiepidita. È forte la tentazione di lasciare le cose come stanno. Ma se si cedesse all’immobilismo, si commetterebbero due errori fatali. Il primo: non si rimedia all’espropriazione degli elettori che ancora una volta non potrebbero votare i loro rappresentanti ma semplicemente ratificare le nomine volute dalle oligarchie dei partiti. Scelgano loro le forme e i modi per evitare questo oltraggio al diritto di scegliere chi mandare in Parlamento. Ma la scelta di non scegliere e di lasciare le cose come stanno sarebbe un incitamento all’astensione, una nuova frattura tra il ceto politico e un’opinione pubblica esterrefatta e delusa. Il secondo errore sarebbe la sottovalutazione dei rischi che la nuova legislatura inevitabilmente dovrà affrontare se, come sembra evidente da tutti i sondaggi e alla luce del semplice buon senso, il divario tra i voti della coalizione vincente e la maggioranza dei seggi «drogata» con un gigantesco premio a chi vince dovesse risultare troppo marcato. Sarà possibile governare se chi vince le elezioni otterrà il 30, massimo il 35 per cento dei voti?

E se, come è molto probabile, questa percentuale dovesse essere calcolata su un corpo di cittadini votanti ulteriormente ridotto da una febbre astensionistica simile a quella siciliana, come sarà possibile affrontare le tempeste della crisi con un consenso tanto risicato? Si può governare stabilmente con il consenso di più o meno un quarto degli italiani, adottare misure severe e «impopolari» con la stragrande maggioranza degli italiani che non si riconosce in quella che regge le redini del governo? Nell’ingorgo istituzionale che seguirà il momento elettorale, con la scelta del nuovo presidente della Repubblica si aggiungerà anche il rischio che una minoranza iperpremiata possa condizionare in modo determinante il Quirinale. L’esiguità di questo consenso si farebbe notare con tutti i suoi effetti negativi. Dalla sinistra e dalla destra dello schieramento politico si cementerebbe un’opposizione la cui spinta la maggioranza di governo dovrà arginare con una compattezza che oggi, viste le forze in campo, è difficile immaginare. È difficile anche capire se i partiti, molto attenti, e legittimamente, al loro particulare si rendono conto della situazione esplosiva che rischiano di suscitare. Non sarà solo una legge elettorale a scongiurarne i pericoli. Ma senza una legge elettorale nuova quei pericoli diventeranno una certezza. È quello che tenta di spiegare Napolitano, alla vigilia del termine del suo mandato.

Pierluigi Battista

6 novembre 2012 | 9:04© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_06/rispetto-elettori-battista_d794916c-27da-11e2-9e66-88ac4e174519.shtml
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« Risposta #95 inserito:: Dicembre 03, 2012, 06:39:51 pm »

L'EDitoriale

Il salto necessario

 di Pierluigi Battista

Pier Luigi Bersani ha vinto nettamente, con un ampio vantaggio rispetto allo sfidante Renzi. La sua leadership è oramai sorretta da una forte legittimazione popolare. La sua scelta di affrontare il rischio delle primarie, anche piegando le resistenze conservatrici dell’establishment del partito, lo ha reso, confortato adesso anche da numeri robusti e inequivocabili, un candidato premier indipendente e autorevole. Renzi ha preso al ballottaggio meno voti di quanto sperasse. Ma è stato coraggioso, con la sua sfida ha contribuito in modo determinante a ridare smalto al Pd, ha reso visibile una corrente di emozioni, di idee e di opinioni che nell’apparato del partito era frustrata e silente. Ma esisteva.

Ora però Bersani deve dimostrare di saper fare da solo. Ha stravinto il secondo turno. Non può e non deve sperare che Renzi gli dia una mano per riconquistare quel 40 per cento di elettorato di centrosinistra. Ha fatto il pieno dei voti di Vendola, e il rischio è che debba essergli troppo grato, spostando l’asse della coalizione eccessivamente a sinistra. Con ogni probabilità, vista la condizione disastrosa del centrodestra, Bersani potrà puntare agevolmente a Palazzo Chigi. Ma per durare e avere credibilità in Italia e nel mondo non potrà cedere a chi considera
l’esperienza del governo Monti, lealmente sostenuto da oltre un anno anche dal Pd, come un cedimento al «liberismo», come ossessivamente viene ripetuto anche all’interno del Pd dalle sue componenti più diffidenti verso le politiche di un riformismo moderno.

Ora a Bersani, vinta con ampio margine la battaglia delle primarie, spetta il governo del Paese, se i numeri reali confermeranno ciò che i sondaggi dicono senza possibilità di equivoco. Non può illudersi che i voti che gli sono stati dati e quelli di Renzi siano facilmente sommabili. Renzi ha portato, come dice, un’idea «alternativa» di centrosinistra. E la sua forza era e resta la capacità di parlare con una fetta dell’elettorato italiano che sta fuori dai recinti tradizionali di quello schieramento. Bersani, per ragioni culturali e biografiche molto complesse, ne è meno capace e per questo, per parlare al mondo dei moderati, sarà costretto a rivolgersi ai «centristi» presidiando il territorio della sinistra.

Mentre si sa cosa sarà del 60 per cento che ha votato Bersani, il futuro dovrà dirci cosa ne sarà del 40 per cento che ha invece scelto Renzi come messaggero di una rottura radicale con la cultura e la tradizione maggioritaria della sinistra. Lo sconfitto dice che non utilizzerà quei voti per farsi una «correntina ». Sarà compito di Bersani tentare di convincerli prima di tutto dando seguito a quelle promesse di rinnovamento espresse in campagna elettorale contro l’avversario «rottamatore». La vittoria di ieri è una tappa. Il traguardo finale è ancora lontano, ma con un Pd decisamente più forte di quanto non fosse tre mesi fa. Anche per merito dello sconfitto Renzi.

Pierluigi Battista

3 dicembre 2012 | 8:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_03/battista-salto-necessario_b439c558-3d0f-11e2-ab92-9e1ea30a782c.shtml
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« Risposta #96 inserito:: Dicembre 12, 2012, 05:53:42 pm »

Gli interrogativi sulla vicenda del direttore del «Giornale»

Sallusti, l'arresto e l'arbitrio


Diranno (anzi, l'hanno già detto), che se l'è andata a cercare e che, tecnicamente, un condannato che tenta e realizza un'evasione non può non essere arrestato. Certo, Alessandro Sallusti lo fa apposta. Vuole apertamente che l'ingiustizia che deve subire non si consumi nel silenzio della burocrazia giudiziaria, e anzi deflagri e faccia rumore. Una scelta coraggiosa. Discutibile, ma coraggiosa. E che mette in risalto la non normalità di un direttore di giornale arrestato nella sua redazione.

La libertà di stampa non è libertà di diffamare. La diffamazione è un reato che va sanzionato, con pene che siano commisurate all'entità del reato. La diffamazione non è un reato d'opinione e i diffamati hanno il diritto di veder punito chi macchia la loro reputazione con notizie false. Però gli «antipatizzanti» di Sallusti che si nascondono sotto una coltre di mille cavilli per dar sfogo alla soddisfazione di vedere un odiato nemico politico dietro le sbarre, devono anche loro dare la notizia giusta. E spiegare che le porte della galera (anche gli arresti domiciliari sono appunto «arresti») si chiudono alle spalle di Sallusti perché il direttore responsabile di un giornale, che porta la responsabilità di un articolo diffamatorio senza esserne l'autore, viene bollato da una sentenza giudiziaria come un soggetto pericoloso, con una condotta da «delinquente abituale».

La pena più dura, il carcere, viene motivata con la pericolosità di un giornalista: questo è il nucleo di ingiustizia di questo provvedimento. È pericoloso perché ha avuto più condanne per diffamazione di altri direttori di giornali? La pericolosità sociale di un giornalista viene misurata quantitativamente? È per questo che un giornalista viene arrestato: perché è pericoloso. Ecco perché, non per ragioni corporative, la solidarietà a Sallusti è anche un principio di resistenza al pericolo che si valuti la «pericolosità» di un giornalista «delinquente abituale» con criteri totalmente arbitrari. La dismisura tra il reato commesso e la pena comminata è tutta in questa arbitrarietà. Un giudice può considerare Sallusti un «delinquente abituale» e ammanettarlo. Ma chi ha a cuore la libertà di stampa non può non considerare quella di ieri una giornata buia per tutti. Anche per chi brinda all'arresto del nemico. Ultimo sintomo di un imbarbarimento politico che non fa onore a nessuno.

Pierluigi Battista

2 dicembre 2012 | 9:16© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/12_dicembre_02/sallusti-arresto-e-l-arbitrio-battista_63f4fee0-3c52-11e2-bc71-193664141fb2.shtml
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« Risposta #97 inserito:: Dicembre 12, 2012, 06:01:44 pm »

Vecchie trincee

Ripiombati nel peggio della seconda Repubblica

È come essere costretti a indossare un vestito vecchio e logoro che si credeva in disuso, adatto solo a un rigattiere senza pretese.
In una settimana siamo ripiombati nel peggio della Seconda Repubblica, prigionieri di un sortilegio, di uno schema sempre desolatamente identico a se stesso. Dopo un anno di astinenza, riprendiamo l'unico giochino che sappiamo recitare a meraviglia.

Scongelati dal freezer tecnico, eccoci di nuovo qui ad assistere alla rissa gigantesca tra le due maschere sempre più invecchiate e sfatte di questo ventennio: il berlusconismo e l'antiberlusconismo. E continuiamo così, all'infinito, a farci del male. Il centrodestra, dopo qualche velleitario vagito di autonomia democratica, si riallinea, e la corte di nuovo obbediente si dispone dietro il Capo che ritorna a urlare le invettive che dopo vent'anni appaiono sempre più sgangheratamente ripetitive, figure retoriche inattuali, oramai guastate dall'abuso, parole svuotate di senso. Anzi, che di senso ne hanno uno solo: segnalare che si è ancora disponibili a sparare l'ultima cartuccia nella trincea degli irriducibili.

E dall'altra parte? I dibattiti appassionati ma civili tra Bersani e Renzi, due idee di società, l'impegno a guardare il futuro? Tutto svanito, tutto silenziato. Si ricomincia come prima. L'unico argomento di cui si parla è Berlusconi. L'unica paura è Berlusconi, l'unico fantasma è Berlusconi, l'unico linguaggio conosciuto e quindi usato come un mantra per cacciare gli spettri, per fuggire dai dolori della sconfitta, quello dell'antiberlusconismo. Chi seguiva più, a parte i magistrati, gli avvocati, i cancellieri e le disinibite testimoni, davvero, chi seguiva il processo milanese detto anche «processo Ruby». «Cercatela», intima il pubblico ministero per rintracciare l'ex minorenne che potrebbe incastrare il Caimano. E tutta la platea che non vede l'ora che ritorni Ruby, che implora una sentenza alla vigilia delle elezioni.

Prima dicevano, compunti e saggi: «Il processo faccia il suo corso senza che la politica interferisca». Se ne sono disinteressati per un po'.
E oggi si risveglia il loro interesse. Si è risvegliato il mostro assopito che ci aveva dominato per vent'anni, lo schema immutabile di un bipolarismo primitivo. Basta scorrere i proclami dei social network: una pentola di isterismo, di panico incontenibile, una folla che urla con i forconi nel campo immateriale della Rete ma non per questo meno concitata e dissennata. Sperano che schizzi lo spread, tifano per la catastrofe pur di rintuzzare il Caimano. E i berlusconiani che con voce sempre più rauca ululano: «comunisti», «complotto europeo contro Berlusconi», «la magistratura di sinistra, la tv di sinistra, i poteri forti di sinistra», «i grandi giornali di sinistra». Un delirio cospirazionista incrociato senza più freni.

E i partiti? I partiti si adeguano. Quelli della destra ripassano il copione messo da parte un anno fa e cercano di riacchiappare in extremis un consenso buttato via, milioni di elettori in libera uscita che si spera di riattirare con la grande rissa, di rimotivarli con i decibel delle loro grida, i volti paonazzi del duello da talk show. Il Pd, che pure ha dalla sua sondaggi straordinari, non parla più un suo linguaggio, non impone un suo modello di priorità, non descrive più una sua agenda da almeno una settimana. Invece di disporsi come tranquilla forza di governo. Assiste allo sbandamento dei propri seguaci terrorizzati dalla ricomparsa della «Mummia», come la chiamano sull'onda di una copertina di Libération .

Archiviata la novità incarnata da Matteo Renzi, sente il richiamo della foresta e viene irresistibilmente attratto dalla replica infinita dell'eterno teatro della Seconda Repubblica, in modo autodistruttivo. Il Centro anche, fa il Centro come l'ha fatto in tutto il ventennio, con la destra che ulula per esserne la controparte moderata e la sinistra che rumoreggia in disordine per essere la controparte anche qui.
Uno schema asfissiante. Che vanifica un anno in cui, almeno sul piano dello stile e della comunicazione politica, sembrava che l'Italia avesse trovato un punto di svolta. E invece ecco questo collettivo ritorno ai riti del passato, senza aver appreso la lezione. Per una campagna elettorale che si preannuncia come la più brutta degli ultimi decenni. Se questo è il «ritorno della politica», rimpiangeremo a lungo la breve stagione dei tecnici.

Pierluigi Battista

12 dicembre 2012 | 7:53© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_dicembre_12/ripiombati-peggio-seconda-repubblica_e9668ea6-4425-11e2-a26e-c89e7517e938.shtml
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« Risposta #98 inserito:: Dicembre 19, 2012, 05:47:02 pm »

La lettera

D'Alema: anche Napolitano ha detto che Monti non è candidabile


Caro Direttore,
approfitto della sua cortesia per tornare sui temi sollevati nella mia intervista a Roberto Zuccolini del 14 dicembre e sulle polemiche che ha suscitato. D'altro canto, il presidente Monti non ha ancora sciolto le sue riserve e mi pare, quindi, non inutile ritornare ad argomentare le ragioni per le quali appare gravemente inopportuno che egli finisca per capeggiare una lista o uno schieramento di parte. Sono sinceramente rammaricato per le critiche così aspre e così poco pertinenti che mi ha rivolto Pierluigi Battista. La sensazione è che l'impegno militante anticomunista sopravviva alla fine della Guerra Fredda e del comunismo stesso. Cosa c'entra la pretesa superiorità morale dei comunisti (che fra l'altro non ci sono più)? Qui si tratta di capire quale impressione potrebbe fare ai cittadini italiani il fatto che il capo del governo si candidi contro la principale forza che lo sostiene. Qui si tratta di spiegare perché egli non abbia ancora replicato a chi, dopo averlo sfiduciato, lo chiama a guidare uno schieramento «contro la sinistra».

Come non capire che queste ambiguità rischiano di alimentare confusione e qualunquismo e di logorare l'immagine stessa del presidente Monti? I riferimenti a Carlo Azeglio Ciampi e a Lamberto Dini sono, com'è evidente, totalmente inappropriati. Ciampi, infatti, da presidente del Consiglio non si candidò e gestì in modo imparziale la campagna elettorale del '94. Dini presentò una sua lista a sostegno di Romano Prodi dopo che il centrosinistra aveva sostenuto il suo governo e le sue riforme. Nessuno dei due inoltre era stato nominato senatore a vita. Vorrei che si riflettesse su questo aspetto, perché è evidente che accettando questa nomina alla vigilia dell'incarico per il governo, il presidente Monti ha sostanzialmente preso un impegno - non giuridico, ma appunto morale - a collocarsi al di sopra delle parti e fuori dalla competizione politica. D'altro canto, il capo dello Stato alcuni giorni fa ha ricordato che egli è appunto non candidabile.

Chi scrive nutre da molti anni stima e considerazione verso il professor Monti. Credo di averlo dimostrato fin da quando decisi di confermare Monti come commissario europeo con una scelta non facile, perché il suo nome era in alternativa alla validissima candidatura di Emma Bonino. Certo, non è un mistero che io sia stato fra quanti lo hanno sollecitato a rendersi disponibile per guidare il governo in un momento così difficile. Proprio per questo, sono preoccupato che una sua candidatura possa radicalizzare il confronto elettorale e possa finire per dare argomenti, nella sinistra, assai più alle componenti radicali che lo hanno contrastato, che non a quella grande maggioranza riformista che lo ha sostenuto in questi mesi difficili. Torno quindi a ripetere ciò che ho detto qualche giorno fa, forse con parole un po' brusche ma chiare (e mi rivolgo anche a quanti lo sollecitano e lo vogliono in campo): Mario Monti è una risorsa per il Paese, non la si sprechi in una operazione elettorale che rischia di dividere e che, ne sono convinto, apparirebbe difficilmente comprensibile per una larga maggioranza degli italiani.

Massimo D'Alema

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Mi era sembrato di capire che l'onorevole D'Alema giudicasse «moralmente discutibile» un'eventuale scelta di Monti molto meno «schierata» di quella, a vantaggio della sinistra, del tecnico Dini nel '96.

Pierluigi Battista

19 dicembre 2012 | 10:31© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #99 inserito:: Dicembre 30, 2012, 05:13:28 pm »

I RISCHI DELLA NUOVA COALIZIONE

Quel sapore di antico

È difficile definire cosa sia il «nuovo» in politica. Più agevole capire cosa invece rischia di emanare un sapore di antico. E di già visto.
La coalizione che si ispira all'Agenda di Mario Monti può essere tante cose, e raccogliere molte anime. Può essere il punto di riferimento né centrista né moderato di una borghesia moderna che, assieme al rigore finanziario che ha caratterizzato oltre un anno di governo tecnico, esige più liberalizzazioni, meno bardature burocratiche, uno Stato più snello, un mercato del lavoro meno punitivo con i giovani, la promozione della meritocrazia, un fisco meno opprimente. Oppure può annacquare la sua novità imbarcando nelle sue scialuppe un personale politico logorato. O addirittura facendo il verso, stavolta con una massa elettorale meno cospicua ma con una spinta molto accentuata del mondo cattolico e financo dei vertici vaticani, ai fasti di ciò che fu la Democrazia Cristiana.

I primi passi dell'universo centrista che si sta raccogliendo attorno alla figura di Monti lasciano immaginare che la strada imboccata sia la seconda, piuttosto della prima. È ancora molto presto per tirare conclusioni affrettate e poi sarà il modo con cui si formeranno le liste elettorali a dimostrare con più chiarezza la fisionomia del nuovo fronte dei moderati italiani. Si spera che la frammentazione delle liste alla Camera non suoni come il richiamo della foresta per partiti e partitini che vedono in Monti un salvatore, l'uomo del destino che con la sua sola figura regala un valore aggiunto a formazioni politiche condannate all'irrilevanza elettorale e alla marginalità politica. E si spera anche che la «società civile» di ispirazione laico-liberale, che si vuole rappresentata principalmente dal neo-movimento di Luca Cordero di Montezemolo, faccia da argine a una certa propensione «confessionale» che serpeggia già nell'arcipelago centrista appena formatosi nelle stanze di un istituto religioso neanche molto distante, dal punto di vista della geografia fisica e politica di Roma, dai Sacri Palazzi.

La forza della nuova coalizione potrebbe essere invece la sua singolarità e diversità dalle forze politiche esistenti, dalla sua capacità di imporre un'«agenda» nuova, e di saper attrarre quella fetta di elettorato che non si sente rappresentata dai partiti e che è stanca di un bipolarismo rissoso e primitivo. Monti ha auspicato che la battaglia politica nuova si fa con le idee, e non con le costrizioni di schieramento e di appartenenza. Ma un'idea che vuole sottoporsi al giudizio popolare deve anche presentarsi senza macchie in tema di credibilità. E bisogna anche che il nuovo raggruppamento sappia dare risposte sui temi civili ed «eticamente sensibili» (dalle coppie di fatto al «testamento biologico») che un eccesso di schiacciamento sulle logiche espresse dal mondo ecclesiastico rischia di condannare alla reticenza e, addirittura, all'afasia. Ma un'Agenda così ambiziosa non può permettersi il silenzio delle opportunità.

Pierluigi Battista

30 dicembre 2012 | 10:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_30/quel-sapore-di-antico-battista_42fdc2f4-524f-11e2-90d5-1b539b66307f.shtml
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« Risposta #100 inserito:: Gennaio 17, 2013, 12:12:27 am »

IL RITRATTO

Corna e Cucù, come Totò e Trombetta

Berlusconi trasforma ogni nemico in «spalla»

Persino Ingroia è stato «scritturato» in una scenetta memorabile


Nel fare della politica uno spettacolo, è indubbiamente il numero uno. I suoi detrattori dicono che non è spettacolo, ma avanspettacolo.
Ma i cinepanettoni vendono più di un film da cineclub. Silvio Berlusconi lo sa e ha deciso di dar fondo al suo repertorio per ribaltare ogni pronostico, e combattere l'ultima battaglia disperata. Non diventerà di nuovo capo del governo, ma nell'ideazione e nell'esecuzione della politica-sketch non lo batte nessuno.

Tutti, anche i sui acerrimi nemici, diventano la spalla ideale delle sue gag. Persino Ingroia è stato scritturato in una scenetta memorabile nella parte del cattivo e del magistrato talebano avvezzo a mandare in galera la gente con una certa disinvoltura. All'ingresso di «La 7», l'uomo di spettacolo si muove d'istinto, si accerta della presenza di telecamere e fotografi e, tra una trasmissione politica e un'altra, appena incontra casualmente il magistrato «comunista» per eccellenza, incrocia platealmente i polsi con il gesto dell'ammanettato. Una presenza di spirito micidiale. Ride persino Ingroia, che non ride mai per temperamento e per principio, e improvvisamente, senza essere nemmeno avvertito, l'arcigno magistrato che aveva dichiarato la guerra santa al berlusconismo si ritrova nella parte di Carlo Campanini con Walter Chiari in una delle migliori interpretazioni dei fratelli De Rege. O in quella di Gianni Agus che tiene botta a una performance di Paolo Villaggio-ragionier Fracchia. O, per restare nell'ambito della politica, in quella del grande Mario Castellani nei panni dell'«onorevole Trombetta» sbeffeggiato da Totò.

Ecco, Totò. Cinefili di lungo corso sono stati consultati per svelare in quale film del principe De Curtis, Totò abbia dato fondo alla sua vena comica con il gesto di spolverare con il suo fazzoletto la sedia dove era seduto un suo imprecisato nemico. E chissà se un richiamo inconscio non abbia ispirato Berlusconi quando, al culmine del suo scoppiettante show in casa di Santoro in «Servizio pubblico», prima ha iniziato la sua gag alla Totò con un foglio dei suoi appunti, poi ha completato l'opera estraendo con gesto perentorio il fazzoletto dal taschino della giacca. Persino la claque ostile di Santoro ha accompagnato la scena con risate e ululati alla maniera dei teatri popolari di una volta. E Berlusconi, l'istrione, l'attore, il re dell'improvvisazione da palcoscenico ha perso ogni freno. Dopo la scena della sedia spolverata, alla Totò, Berlusconi ha indossato i panni di Petrolini quando ha chiesto retoricamente al pubblico santoriano certamente pieno di «comunisti»: «Sono tutti coglioni quelli che mi hanno votato?». E il pubblico: «sìììììì». Il precedente? Petrolini-Nerone: «E Roma rinascerà più bella e più superba che pria». «Bravo!!», «Grazie!»

Dopo Totò e Petrolini a «Servizio pubblico» (e gli osanna dei suoi, galvanizzati dalla nuova esuberanza scenica del Capo), ecco il Berlusconi di ieri con Ingroia. E subito prima, ad «Omnibus», facendo finta di prendere a mazzate di carta il giornalista Damilano. Questo era Alberto Sordi. Gli mancava il romanesco «te pòzzino» . Oramai è una sequenza interminabile. Berlusconi sa che il suo repertorio è inesauribile.
Attira l'attenzione pubblica. Oscura la presenza dei suoi competitori. Impone un linguaggio popolare. È un attore che fa parlare i suoi istinti. Come quella volta che nella foto di gruppo di capi di Stato e di governo si fece immortalare nel gesto delle corna, tanto per far divertire un gruppo di scout presenti alla cerimonia (dice lui). O il celeberrimo cucù alla Merkel che si spaventò per la scenetta messa su da quel mattacchione.

O quel grido da stadio «Obamaaaa» che tanto fece inorridire la regina Elisabetta. O il sorriso da malandrino quando si fa dare del «latin lover».

Tutta una serie di maschere, gag, tormentoni, situazioni comiche che hanno fatto di Berlusconi e dei suoi nemici i soliti mugugnatori pronti a deprecare la volgarità dei tempi moderni. La solita scena. Una girandola di battute, un fuoco d'artificio con il saccheggio della comicità da spettacolo e da avanspettacolo. Una sarabanda di citazioni. Come questa, sempre di Petrolini-Nerone: «Lo vedi? Il popolo, quando s'abitua a dì che sei bravo, pure che nun fai niente, sei sempre bravo». «Bravo!!». «Grazie».

Pierluigi Battista

@Pierluigibattis16 gennaio 2013 | 17:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_gennaio_16/come-toto-trombetta-cavaliera-trasforma-nemico-in-spalla-battista_4cd08596-5fa6-11e2-9e33-1d7fb906e25e.shtml
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« Risposta #101 inserito:: Gennaio 29, 2013, 10:26:37 pm »

Stereotipi e falsità

Quando la Storia si fa con le Battute


Avesse declamato la massima più frequentata dai nostalgici, «i treni arrivavano in orario», la perorazione pro-mussoliniana (e pre-rituale rettifica) di Berlusconi avrebbe raggiunto la perfezione della battuta al bar di sera. Mussolini aveva fatto «cose buone»? Sicuro, mica c'era la delinquenza di oggi, e «si dormiva con le porte aperte». Questa non l'ha detta Berlusconi? No, questa (ancora) no. Ma più o meno, ieri, l'ex premier era nello spirito adatto per dirla.

Tutti a scervellarsi sull'enigmatico perché. Ma questa cosa di Berlusconi che, nel Giorno della Memoria, nel corso di una cerimonia che avrebbe dovuto essere solenne, si è messo a disquisire sulle cose «buone» che Mussolini avrebbe fatto, che significato ha? Possibile che Berlusconi non capisca che in una giornata molto particolare non solo in Italia ma in tutto il mondo, nel ricordo imperituro dell'Olocausto, non è che ci si può concedere ai microfoni dei cronisti come se si dovesse sciorinare l'ennesima battuta sull'Imu da abolire sulla prima casa? Ipotesi dietrologica: è stato forse un messaggio subliminale a ciò che resta di un elettorato fascista o neofascista? Ipotesi fantasiosa: aveva forse saputo che le liste di CasaPound (poi rientrate in lizza) non erano state accettate? Ipotesi realistica: non era esattamente nelle condizioni di soppesare con un minimo di saggezza le avventurose considerazioni storiografiche in cui si stava cacciando? Ipotesi estremista: era una voce dal sen sfuggita, perché in cuor suo Berlusconi è un cripto-fascista come da decenni vanno dicendo i suoi detrattori? Ipotesi psico-politica: era già in uno stato di semi-sopore prima che i fotografi lo cogliessero dormicchiante durante la cerimonia delle Giornata della memoria?

Intanto, un piccolo dettaglio, per dire la vacillante conoscenza delle date della storia in casa da parte del leader del centrodestra. Nel '38, quando Mussolini e il regime fascista vararono l'orrore delle leggi razziali, non c'era nessuna alleanza bellica con la Germania di Hitler. Non ci fu imposizione «tedesca», costrizione, patteggiamento, ricatto: il regime fascista accettò l'abiezione di quelle leggi persecutorie in uno stato di pur demenziale autonomia, non gliela ordinò proprio nessuno. Cominciò a discriminare gli ebrei per proprio conto, con vocazione imitativa nei confronti della Germania hitleriana: ma non ci fu nessuna costrizione, come con non sorvegliata velleità politico-storiografica ha invece detto Berlusconi (prima della rituale rettifica, ovvio). E poi Berlusconi non è nuovo a una lettura minimizzante ed edulcorata del regime fascista. Qualche anno fa, sembra aizzato dallo storico giornalista britannico Nicholas Farrell, non seppe frenarsi nel dire che Ventotene, durante il fascismo, più che un luogo dove venivano confinati gli oppositori del Mussolini che fece anche cose «buone», era soprattutto un ameno luogo di «villeggiatura», forse menzionando inconsciamente il titolo di un film di Marco Leto, girato per la verità con tutt'altro spirito.

Insomma Berlusconi, immortalato con un fez quando, ironia della storia, disse che avrebbe appoggiato Fini nel '93, più volte accusato dall'opposizione più oltranzista di voler instaurare un «regime» simile a quello fascista, sfidato da Michele Santoro con una celeberrima versione di «Bella ciao» per esaltare le imprese dei nuovi partigiani in prima serata tv, sembra davvero non considerare il fascismo come un capitolo interamente oscuro della storia italiana. No, le leggi razziali, proprio no, ma c'è lo stereotipo dell'italiano brava gente a salvarci: sono stati i cattivi tedeschi ad imporceli. Certo la libertà d'opinione conculcata, gli oppositori perseguitati, ma volete mettere la ferocia repressiva fuori dell'Italia con il blando trattamento riservato agli oppositori nei luoghi di confino-villeggiatura, malgrado le descrizioni di Giorgio Amendola nell'«Isola». È un continuo ammiccare a un'opinione pubblica più «afascista» che «antifascista», un parlare a un pezzo d'Italia che alle «cose buone» di Mussolini un po' di credito lo dà. Salvo poi, raccontano i retroscena politici (seguiti da rituale rettifica), bollare come insopportabili «fascisti» gli ex An che facevano pesare la loro presenza molesta del Pdl creando il grande rimpianto della non «fascista» Forza Italia. Salvo tirar fuori un po' volgarmente le «fogne» per saldare i conti con il nemico Fini. Ma forse voleva riferirsi al Mussolini delle cose «cattive». Mica erano la Giornata della memoria.

Pierluigi Battista

28 gennaio 2013 | 10:09© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_gennaio_28/quando-la-storia-si-fa-con-le-battute-battista_d0f049fa-691b-11e2-a947-c004c7484908.shtml
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« Risposta #102 inserito:: Febbraio 04, 2013, 11:18:52 pm »

UNA CAMPAGNA A QUALSIASI COSTO

Il festival delle promesse

È efficace l’ultima «proposta choc» di Berlusconi, culmine di una campagna elettorale che due mesi fa appariva irrimediabilmente perduta? Dipende da qual è il punto di partenza. Si vuole partire dai sondaggi che negli ultimi mesi del 2012 davano il Pdl a poco più del 10 per cento? Allora la strategia di parziale recupero dei consensi perduti conosce con il pacchetto delle misure palesemente irrealizzabili — e con la promessa fantasiosa di restituzione cash dell’Imu versata l’anno scorso sulla prima casa—il coronamento di una campagna tambureggiante. Ma se si parte dal 38 per cento che il Pdl conquistò non un secolo fa, bensì nel 2008, allora Berlusconi può proporre le cose più fantasmagoriche, vagheggiare «restituzioni » più volte promesse e tuttavia mai mantenute per il loro evidente irrealismo, ma il successo è oramai solo un ricordo del passato: il centrodestra si è sgretolato e il suo leader può puntare solo su una sconfitta di misura. Che certo, confrontata col precedente stato comatoso, appare quasi come una miracolosa mezza vittoria.

Ora però gli avversari di Berlusconi possono solo fargli un regalo: mettersi sulla scia delle sue fantasiose dichiarazioni e sciorinare da qui al giorno delle elezioni il solito repertorio di invettive contro il «venditore » che smercia promesse mirabolanti. Nell’opinione di sinistra, ora impaurita perché convinta che l’elettorato berlusconiano sia composto da rozzi creduloni eticamente inaffidabili e inebetiti dalla tv, la proposta di restituzione dell’Imu suona come una venefica dose di droga. Ai tempi delle primarie, il Pd e il centrosinistra sembravano una squadra invincibile, ma solo perché il centrodestra era sepolto sotto le macerie. Oggi temono il ritorno del 2006, del Berlusconi dato per sconfitto, ma che alla fine se la giocò per poche migliaia di voti. Negli incubi della sinistra quella rimonta ha un solo nome: la promessa dell’abolizione dell’Ici. Non si riflette mai sul modo confuso con cui si presentava lo schieramento guidato da Prodi. O su quel dire e non dire sui Bot che assomiglia in modo impressionante al dire e non dire di oggi del Pd su una non precisata «patrimoniale » (sopra o sotto il milione e duecento mila euro? Non si capisce). La colpa è sempre nella «credulità» degli italiani e della diabolica capacità di Berlusconi di spacciare sogni proibiti. Eppure, diversamente che nel 2006, Berlusconi si trova, stavolta per esclusiva colpa sua, in condizioni quasi disperate: solo gli errori e i terrori dei suoi avversari possono aiutarlo in un’impresa impossibile.

Oggi la missione di Berlusconi, finora indubbiamente efficace, è quella di riportare ai seggi i milioni di voti del centrodestra che sono già fuggiti o intendono fuggire verso l’astensione. È il popolo vastissimo dei delusi, di chi si è allontanato, di chi si sente massacrato dall’oppressione fiscale e non crede più alla promessa di Berlusconi di ridurre le tasse. Berlusconi, a differenza delle altre volte, non deve convincere e portare a sé nuovi elettori, ma arginare la fuga dei «suoi» elettori che lo hanno abbandonato. Questo è il messaggio delle sue «proposte choc». Che la sinistra farebbe bene a non sottovalutare. Il richiamo della foresta della protesta antitasse è infatti, nel popolo del centrodestra, l’unico linguaggio comune che gli sia rimasto.

Pierluigi Battista

4 febbraio 2013 | 12:53
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da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_04/il-festival-delle-promesse-pierluigi-battista_96e45026-6e93-11e2-87c0-8aef4246cdc1.shtml
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« Risposta #103 inserito:: Febbraio 11, 2013, 12:18:44 am »

INTERROGATIVI SULL'AVANZATA DI GRILLO

Un monarca nelle piazze

I partiti tradizionali sembrano rassegnati al quasi certo exploit elettorale di Beppe Grillo. Anzi, sembra che lavorino per lui. In un anno e passa di inattività, affidata a un governo tecnico la missione di far uscire l'Italia dai guai, non hanno nemmeno cominciato a ridurre sul serio i costi esorbitanti della politica, regalando fertile terreno all'antagonismo polemico del Movimento 5 Stelle. E ora, mentre fanno a gara per conquistare il Premio simpatia e affabilità in tv, lasciano a Grillo la fatica delle piazze, città per città, provincia per provincia, con un tour capillare simile a quello che lo ha già fatto trionfare in Sicilia, nella latitanza distratta degli altri leader nazionali. Perciò non potranno lamentarsi quando, a urne aperte, si scoprirà l'effettiva dimensione del consenso grillino e dovranno sperare, per il dopo, che Grillo commetta molti errori per permettere loro di tirare un po' il fiato.

Il primo errore che Grillo potrebbe commettere, ricambiando così il favore che i partiti gli stanno facendo con la loro inerzia e il loro immobilismo, è di pensare che un semplice umore, per quanto esacerbato, sia capace di durare nel tempo. Non tutte le proteste antisistema sono uguali. E se la Lega delle origini aveva un radicamento territoriale (il Nord), una base sociale (il «popolo delle partite Iva» e delle piccole e piccolissime imprese), una bandiera (il federalismo) per rivelarsi, come è accaduto, un fenomeno duraturo, il movimento di Grillo appare invece più volatile, legato a uno stato d'animo di esasperazione, all'invettiva, alla collera, al «vaffa» gridato ed esibito: una cosa potentissima, quando c'è, ma sfuggente, mutevole, infida. Che farà Grillo, per tenere insieme i suoi presumibili milioni di voti, il numero elevatissimo di parlamentari eletti, una rappresentanza istituzionale tutt'altro che marginale? Imporrà per cinque anni ai suoi di mandare senza tregua tutti a quel paese, di urlare il malcontento, di denunciare le malefatte dei partiti incapaci di autoriformarsi?

Certo, i seguaci di Grillo cavalcheranno in Parlamento la battaglia per la riduzione dei privilegi della politica. Ma saranno capaci di dire qualcosa, per fare degli esempi, sulle politiche del lavoro, sul sistema fiscale, sulle unioni civili, sulla scuola e l'università? Oggi Grillo dice ai suoi di avere una «visione». Basterà la «visione» per non vanificare un consenso che si profila tanto imponente? Grillo ha sin qui guidato in modo dispotico la sua creatura politica, selezionando le candidature con criteri assai discutibili, teorizzando e praticando la defenestrazione dei dissidenti. Potrà esercitare un potere assoluto sull'esercito dei neoparlamentari oppure la smetterà di avere paura di voci autonome, di contributi e contenuti non conformisti da parte dei suoi? È troppo chiedere oggi a Grillo un programma dettagliato (che pure c'è, consultabile su Internet, pasticciato e generico come tutti i programmi elettorali)? Certo, non è questo il carburante che sta spingendo la sua macchina, animata da spirito di protesta, di umori «anti» tutto, di insopportazione per le espressioni meno onorevoli della politica di questi decenni. Non è detto però che i suoi stessi elettori non vogliano chiedere a Grillo qualcosa di meno effimero di un corale «vaffa». Se non un impegno, almeno un'indicazione su come si comporteranno i parlamentari e sulle scelte da compiere. È «vecchia» politica anche questa?

Pierluigi Battista

9 febbraio 2013 | 7:26© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_09/un-monarca-nelle-piazze-p-battista_41f7e3e0-727e-11e2-bdf7-bdbb424637ab.shtml
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« Risposta #104 inserito:: Febbraio 19, 2013, 11:32:50 pm »

Le prime elezioni al freddo

E nella politica italiana debutta la «sindrome Bianca»

Il meteo nell'urna


Si fa presto a dire «precipitazioni nevose anche in pianura». Ma se dall'intensità di queste «precipitazioni» non meglio quantificate dovesse dipendere il risultato delle elezioni? Ecco perché gli staff dei candidati consultano con tanta trepidazione le previsioni meteo del prossimo weekend. E mica per sapere quanti centimetri di neve imbiancheranno le piste di sci. Ma per sapere se ci saranno disagi per chi dovrà o vorrà votare. Un fiocco in più e rischia di cambiare il prossimo inquilino di Palazzo Chigi?

Le prime elezioni invernali cambiano completamente le ossessioni che le parti in campo riservano al complicato rapporto tra meteo e politica. Adesso, dicono, che i prossimi giorni una poderosa nevicata farà da suggestiva cornice delle operazioni elettorali. Ma quando le elezioni cadevano nella stagione tiepida o calda, di solito i «moderati», consapevoli dello scarso spirito di militanza del loro elettorato, guardavano le previsioni metereologiche sperando in qualche acquazzone dissuasivo che inchiodasse i maniaci del weekend al mare senza abbandonare la città, e dunque la condizione minima per recarsi ai seggi. Oggi è la neve, il «Generale Inverno». La neve bloccò l'invasione napoleonica della Russia, come è scritto in «Guerra e pace» glorificando la saggezza sorniona del generale Kutuzov. La neve determinerà le prestazioni elettorali dei candidati? Sembra una delle tante eccentricità scombiccherate della politica odierna, ma la risposta è: sì. Lo dicono sottovoce i sondaggisti (senza poter pubblicare i risultati delle loro investigazioni): se la massa di chi annuncia di volersi astenere si dovesse assottigliare, ne verrebbe indubitabilmente favorito il centrodestra nelle cui schiere si conterebbe la gran massa dei delusi e dei potenzialmente astensionisti. E se le imponenti «precipitazioni nevose» dovessero rendere decisamente più difficile il percorso per recarsi ai seggi? E se, nelle zone dove di solito non nevica, l'euforia per i bianchi fiocchi dovesse comportare un ulteriore calo di attenzione dell'opinione pubblica? E se un'abbondante nevicata a Roma dovesse distogliere i genitori dai loro doveri elettorali per accompagnare i loro emozionatissimi pargoli a provare le gioie dello slittino lungo i pendii di Monte Mario o del Gianicolo?

Saranno pure quisquilie superficiali, ma la «sindrome bianca», l'ossessione del fiocco di neve, l'ansia da precipitazione, stanno davvero contagiando gli staff impegnati in questo ultimo miglio di campagna elettorale invernale. Si era rotto finalmente il tabù che impediva di indire le elezioni nei rigori invernali. Ma adesso l'immagine dei seggi elettorali sommersi dalla nave risveglia incubi che sembravano sopiti. Un occhio ai sondaggi (segreti) e un altro ai bollettini meteo (pubblici): questa è la preoccupazione divorante di chi sta combattendo la battaglia per vincere le elezioni del 24 e 25 febbraio. Non è ancora chiaro se c'è chi giocherà all'allarmismo per indurre gli indecisi e i tiepidi a rinunciare all'esercizio del loro diritto. E non è scientificamente provato che una maggiore astensione sfavorisca il centrodestra di Berlusconi, e viceversa. Ma l'irruzione della sindrome meteo nella campagna elettorale è l'ultima nevrosi della discussione un po' isterica che sta caratterizzando questa caccia al voto al freddo e al gelo. Da che parte di schiererà il «Generale Inverno» è tutt'altro che chiaro. Ma in una campagna elettorale in cui si sono scatenati i timori persino per il festival di Sanremo, tutto è possibile. Un fiocco di neve li seppellirà.

Pierluigi Battista

19 febbraio 2013 | 10:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

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