NATALIA ASPESI.

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IL COMMENTO

Il peccato delle donne

di NATALIA ASPESI


Potevano essere altri, più fiammeggianti e costruttivi, più remunerativi e sperati, insomma vere proposte di libertà, i primi solenni impegni presi dagli scalpitanti nuovissimi governatori del povero Nord che si avvia malconcio a precipitare nella Padania.  Roberto Cota e Luca Zaia, due non brutti giovanotti in cravatta verde, sono stati eletti a furor di popolo anche da frotte di ammiratrici che ne adorano il celodurismo di partito.

Ebbene, i due si sono subito dimostrati soprattutto devoti, tradizionalisti, forse nostalgici della messa in latino, e soprattutto ben diversi dai faciloni loro alleati pdl, che si sono fatta la brutta fama di perdigiorno dietro escort ambosessi e sempre a gridare su pratiche di giustizia che non interessano ad anima viva tranne una.

Si sa che ormai le donne sono diventate l'anello più floscio della società, loro che pareva avessero in mano il mondo e adesso invece non basta un bel sedere per far carriera, se non sai almeno praticare l'igiene dentale. Quindi prima che agli evasori, agli inquinatori, ai criminali, ai fannulloni e persino ai clandestini, i nuovi ras della Padania hanno preso subito a randellate le donne; che se non ci fossero non ci sarebbe l'aborto, quindi l'obbligo di perder tempo con un grattacapo epocale irrisolvibile, reso stordente dal continuo martellare ecclesiastico che ogni mattina si sveglia, dà un veloce sguardo annoiato sulla montagna impolverata di pratiche pedofile che riguardano i suoi pii fratelli in tutto il mondo, e subito gli viene un diavolo per capello pensando all'infame dal nome innominabile, la diavolessa RU486, che gli fa passare anche la voglia del cappuccino.

Quella pozione luciferina ha qualcosa di veramente abominevole: procura l'aborto senza che chi la ingoia quasi se ne accorga, la paziente non subisce ferri chirurgici o aspiratori, non si sente strappare le viscere, non si dissangua, non prova che lievi dolori. Ignominia su ignominia, i nemici del farmaco sostengono che con questo metodo sbrigativo la peccatrice non ha tempo di sentirsi quello che è, un'assassina, e di continuare a soffrire e chiedere perdono per tutti i suoi giorni. Questo non è vero, perché se non in termini così apocalittici, non c'è aborto che non lasci una ferita in una donna, che sempre si chiederà a cosa ha rinunciato e chi sarebbe stato quella rinuncia una volta diventata persona. Certo, l'interruzione di gravidanza, voluta dalla legge 194 e necessariamente cruenta, piace di più ai nemici dell'aborto, in quanto punitiva: anche se poi, quel che davvero si meriterebbero le donne sarebbe un bel ritorno all'aborto clandestino, quando almeno le malvagie assassine spesso morivano come meritavano.

A questo punto risulta chiarissimo, e senza condizionali, che le parole dei vescovi alla vigilia delle elezioni erano un ordine cui non si poteva disubbidire. E i vincitori hanno subito risposto come dovevano, rassicurato le gerarchie, in cambio dell'appoggio alla vittoria: a questo punto, la morte della RU486, potrebbe anche preludere a una revisione della legge 194. Ci sono ministri mistici o governatori tutto casa e chiesa che si svegliano pensando ai feti, e giù lacrime, e già si armano per mettere definitivamente le donne al tappeto con una legge che renda una interruzione legale più difficile che un Nobel al pensoso erede Bossi.

Il problema è che i feti di Cota, Zaia e tutti gli altri governatori spaventati e inetti, non hanno nessuna riconoscenza; se ne stessero lì, buoni, feti per sempre, non darebbero fastidio: ma pretendono di diventare bambini, di crescere e farsi noiosi e ingombranti e pieni di pretese: e si lamentano dei preti pedofili, e non si accontentano di pane e acqua alla refezione scolastica, e fan fare brutte figure ai giovanotti che li ammazzano di botte, e strillano se li vendono per la prostituzione o li usano per ricavarne organi sani. Cota e amici, giusto martellare la cattiva pillola, ma magari una vostra premurosa occhiata leghista su come vivono i bambini, non potreste sprecarla più per i bambini che per i feti?

© Riproduzione riservata (02 aprile 2010)
da repubblica.it

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IL COMMENTO

La miseria nel cuore che fa il pieno di share

di Natalia Aspesi

CHI se la ricorda più la piccola Sarah, dal corpicino sottile e dal sorriso innocente, coi biondi capelli lisci di tutte le sue identiche coetanee, e la minigonna sulle gambe infantili. Quindici anni e l´aspetto ancora di bambina, a vederla nelle immagini del cellulare e dei video di famiglia, mentre fa le smorfie e ha voglia di scherzare, di giocare: di vivere. L´hanno ammazzata, e perciò col passare dei giorni da protagonista si è fatta comparsa, la sua immagine si è affievolita, poi si è annebbiata la sua persona, si è dimenticato che era viva: è uscita di scena, perché anche nei romanzi gialli, nei film noir e nelle fiction thriller, della vittima si finisce col perdere le tracce, ciò che conta sono gli assassini, e meglio se ad ogni capitolo, ad ogni scena, la storia si ingarbuglia, i sospetti crescono, deviano, si fanno sempre più caldi, gli indizi si accumulano, i detective indagano, arrivano le prove scientifiche, poi le confessioni: e la ferocia si estende dall´atto terribile che spegne una vita così breve, alla morbosità del coro sempre più vasto, della moltitudine di estranei che rimuovono le crepe della loro vita immergendosi senza pietà nelle storie macabre degli altri: spettatori di una tragedia che gelidamente infiamma ed eccita, i vicini, il paese, la stampa, ovviamente la televisione che tutto accumula e tutto cancella.

Ci sarà prima o poi un omicidio in diretta, o un suicidio come nel vecchio (1976), preveggente ‘Quinto potere´di Sidney Lumet, e in quel momento il picco di share farà del sagace e fortunato conduttore una star insuperabile? Sino a ieri il protagonista della maratona televisiva da Avetrana era questo Michele Misseri, un orco dall´aspetto intristito e fragile, attaccato al suo cappelluccio come al distintivo della sua modesta persona, in grado di narrare, della sua vita spenta e invisibile di operaio, di contadino, di padre di famiglia, quel momento buio e luminoso, inenarrabile: «È stato un raptus. L´ho strangolata nel garage di casa mia, poi l´ho caricata in macchina e l´ho portata in campagna, l´ho spogliata, ho bruciato i vestiti e ho seppellito Sarah nuda». Dice anche di aver violentato il giovane corpicino cadavere. C´era bisogno di raccontare agli inquirenti tanto orrore, non bastava dire l´ho ammazzata? No, non bastava, forse per liberarsi da un incubo o forse per rendere ancora più appetibile la sua orribile storia alla stampa e soprattutto alla televisione, che appena c´è un´efferatezza l´afferra e la dilaga non ponendosi più alcun limite.

Finalmente nella vicenda che fa perdere la testa a ogni conduttore (pare di sentire le voci di quegli imprenditori che dopo il terremoto dell´Aquila se la ridevano), entra l´immancabile Donna Funesta, che di solito è una fatalona crudele come le sapeva dipingere Boldini. Ma in questa storia la femmina sinistra è una ragazza di 22 anni un po´ cicciotta, con gli occhi azzurri del padre assassino, molto chiacchierina, sicura di sé, e se davvero colpevole, grande attrice: anche lei ha vissuto il suo momento fatale, è uscita dal torpore della vita di paese, ha intravisto il futuro luminoso che tutti pensano l´apparire in televisione possa assicurare. Lei, Sabrina, ragazza senza storia, è stata vista da milioni di persone, che hanno parlato di lei, l´hanno ammirata, compatita, ed ora si divideranno come sempre in innocentisti e colpevolisti.

Lei si dice innocente, e forse lo è, e non basta il suo esibizionismo o forse la sua capacità di mentire a fare di lei una colpevole. Anche perché se lo fosse, bisognerebbe chiedersi da quale miseria del cuore e del pensiero può venire l´odio, il desiderio, il gesto che uccide, anche qui senza ragione: non si uccide per eliminare una rivale di un amore inesistente, non si uccide perché la cuginetta è più carina e più felice, non si uccide per paura che si venga a sapere che il padre è sporcaccione, non si diventa complici del padre assassino che ha appena strangolato la cuginetta ed amica del cuore. A vent´anni non può essersi spento il senso della vita, non si può dimenticare un padre nel momento in cui strangola la sua amica e cugina, senza restarne segnata per sempre.

Ma Sabrina non si è mai mostrata sconvolta e per questo forse si proverà che non è colpevole. O che lo è doppiamente. O forse si può davvero uccidere o diventare complici di un assassino perché succede nei romanzi e negli sceneggiati, dove spesso però c´è chi resuscita (vedi Beautiful) e comunque se sei in gamba, la fai franca. Si sa che è in famiglia, la sacra famiglia che tutti vogliono proteggere, che accadono i fatti più spaventosi, ma ogni volta pare impossibile: lo zio, la nipote, la cuginetta, chissà chi altro, e tutti finalmente in televisione, spettatori, conduttori, a dimenticare la pietà, il rispetto, il dolore. Lo share sarà stato fantastico, a ‘Chi l´ha visto?´, ‘La vita in diretta´, ‘Porta a porta´, ‘Quarto grado´ ‘Matrix´ e continuerà ad esserlo attorno al cadavere della povera Sarah. Ma poi i numeri hanno un senso tutto loro: se l´altra sera ‘Matrix´ ha raggiunto il recordo storico, se ‘Quarto grado´ l´han seguito in più di 4 milioni, vuol dire che la maggioranza assoluta degli italiani ha visto altro, o, più probabilmente, ha tenuto spenta la tv.

(17 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/10/17/news/miseria_nel_cuore-8143460/?ref=HREC1-1

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CIAO MAESTRO

Monicelli e l'Italia dei Brancaleoni Imbrogliona, maschile e colta

Facendo ridere rivelò il nostro lato oscuro.

Con "Amici miei" diede l'addio al paese dei vitelloni provinciali di mezza età.

Il suo talento trasformò piccoli vizi e modeste virtù in irresistibili commedie

di NATALIA ASPESI


ROMA - Probabilmente gli italiani di Monicelli non sono mai davvero esistiti, neppure negli anni in cui si correva nei cinema a ridere di loro. Un pubblico entusiasta che si credeva al riparo da quei personaggi, gli italiani altri: i ladruncoli sfigati, gli imbroglioni pasticcioni, gli opportunisti fifoni, i Brancaleoni, i Perozzi, i Busacca e i Jacovacci, l'Onofrio e il Rambaldo. Maschere meravigliose affidate ad attori grandiosi, Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni e Alberto Sordi, Philippe Noiret e Totò, ma anche Capannelle, e Murgia, e Carotenuto e Moschin e Celi, tutti gli eroi di un cinema ricco di intelligenza e forza, divertente e colto, folto di centinaia di film che si presentavano modesti, artigianali, popolari, senza fisime autoriali, e anche per questo grandi. Scritti da geni della commedia bonaria e periferica, che sfornavano storie sublimi, dialoghi impeccabili, aforismi eterni: Steno, Age e Scarpelli, Suso Cecchi D'Amico, Zapponi, Benvenuti e Bernardi.

Come per molti italiani del suo tempo, il mondo di Monicelli era soprattutto maschile: popolato da vizi, debolezze, malinconie, presunzioni, inadeguatezze, sconfitte. Di maschi, appunto maschi italiani, forse esagerati anche allora, che la crudele e nello stesso tempo affettuosa sua maestria di regista rendeva irresistibili. Però il giudizio divertito e talvolta crudele era il suo, un giudizio da uomo sugli altri uomini, non quello delle donne, che negli anni 50 e 60, nella realtà come nei film, era sommesso e sottomesso, e che solo con i mutamenti
sociali degli anni 70, il femminismo, le leggi che liberavano le donne dalla soggezione familiare e sessuale, si era fatto sempre meno indulgente ed ipocrita.

Questo mutare delle donne italiane deve aver colto Monicelli di sorpresa, costringendolo a riconoscere un mondo diverso, alieno, un protagonismo nuovo che in un certo senso rifletteva le sue convinzioni politiche, di democrazia, di sinistra: e infatti per la prima volta, nel 1986, a 71 anni, un suo film, Speriamo che sia femmina, si riempie di donne: Ullmann, Deneuve, De Sio, Sandrelli, Cenci, Lante della Rovere, non più un gruppo di uomini, legati da amicizia, svaghi, infantilismi, guerre, bordelli, fratellanza, complicità, terrori, ma di donne di ogni età, quelle tenute sino ad allora ai margini delle sue storie, ed ora protagoniste forti, vitali, padrone del futuro. Come uno scudo, tra tutte quelle vincenti, Monicelli trascina nel film due suoi amabili maschi, Philippe Noiret e Bernard Blier, in ricordo di quando in altre sue storie, era lui, e non le donne, a giudicare gli uomini egoisti, assenti, fragili: addirittura inutili.

Se il suo cinema coglieva i mutamenti della realtà, era il suo modo di vivere e di pensare che non poteva cambiare. A 59 anni aveva fatto quello che soprattutto nel suo mondo fanno in tanti: si era messo con una ragazza di 19, 40 anni meno di lui, Chiara Rapaccini, artista ironica e femminista, caduta innamorata di quell'affascinante gentiluomo cinico e buono; a 74 anni era diventato padre di una bimba, Rosa, per accorgersi subito dopo che la vita di famiglia, che donne in casa, ingombranti con il loro imperio, il loro amore e il loro mistero, non erano per lui. Gentilmente, le invitò ad andarsene, a lasciarlo in pace, solo, "Per rimanere vivo il più a lungo possibile, perché l'amore delle donne è molto pericoloso", e non quello delle nuove donne liberate, ma proprio di quelle cui aspiravano i suoi coetanei, e non solo loro, donne devote e protettive: alla fine soffocanti. "La donna è infermiera nell'animo, e se ha vicino un vecchio, è sempre pronta a interpretare un suo desiderio... Così piano piano questo vecchio non fa più niente, rimane in poltrona... e diventa un vecchio rincoglionito... Se invece il vecchio è costretto a farsi le cose da solo, rifarsi il letto, uscire, accendere i fornelli, qualche volta bruciarsi, va avanti dieci anni di più".

Nel 1968 Monicelli aveva girato La ragazza con la pistola, un film di cui era protagonista una donna, interpretata da Monica Vitti, l'attrice cinematografica italiana di maggior talento di quegli anni. Era la storia di un paese dai costumi molto arretrati, un'Italia in cui ancora l'articolo 587 del codice penale sanciva la minor punibilità del delitto d'onore. Il pubblico si divertì moltissimo per la ragazza sicula che raggiunge in Inghilterra il giovanotto che l'ha sedotta e abbandonata per ucciderlo, e poi si adatta contentissima al costume di un paese più civile. Il film fu giudicato male per i luoghi comuni sul Sud, eppure quell'articolo di legge esisteva ancora, e fu abrogato solo nel 1981, dopo l'approvazione del nuovo diritto di famiglia e della legge sull'interruzione di gravidanza.

Facendo ridere, Monicelli aveva rivelato agli italiani il loro lato oscuro, insospettato, oltre una retorica di eredità fascista che ne vantava la forza, l'eroismo, il potere, l'imperio sulla donna. Ma era difficile accettare di assomigliare a quegli uomini ingenui e un po' imbecilli, fatui e spesso sfortunati, invecchiati senza crescere e un po' vili: infatti il talento di Monicelli aveva trasformato i nostri piccoli vizi e modeste virtù in irresistibili commedie, che tenevano lontano lo spettatore dallo specchiarsi, negli anni 50, negli incapaci pasticcioni di I soliti ignoti, negli anni 60 negli eroi involontari di La grande guerra, poi negli scalcinati avventurieri medioevali dei due Brancaleone che con il loro linguaggio colto, inventato e irresistibile, sembrava voler opporsi all'impoverimento sbracato dell'italiano televisivo.

Con Amici miei (1975) e Amici miei atto II, (1982), Monicelli dava l'addio a un'Italia forse già scomparsa, quella dei vitelloni provinciali di mezza età, dalle vite giocose e inconcludenti, rivelando del tutto, finalmente, la sua elegante misoginia e la sua forse malinconica, misantropia.
 

(01 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2010/12/01/news/monicelli_e_l_italia_dei_brancaleoni_imbrogliona_maschile_e_colta-9710249/?ref=HREC1-3

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IL COMMENTO

Il grido delle donne al paese umiliato

di NATALIA ASPESI

Duecentomila a Roma, centomila a Milano e Torino, 50mila a Napoli, 30mila a Firenze, 20mila a Palermo, persino a Bergamo 2000. In tutte le 230 piazze italiane, più una trentina straniere, almeno un milione, forse di più, non ha importanza. Importa l'immenso, forse inaspettato successo, il risveglio improvviso di chi sembrava rassegnato al silenzio, a subire, ad adeguarsi.

Invece il messaggio delle donne, 'se non ora quando?', è corso veloce ovunque, e ha riempito le piazze come un richiamo ineludibile, finalmente sorridente, entusiasta, liberatorio.

Basta, basta, basta! il basta delle donne al di là di bandiere e partiti, il basta contro questo governo e questo premier, il basta contro la mercificazione delle donne ma anche contro l'avvilimento di tutto il paese. Il basta gridato da tutte, le giovani e meno giovani, le attrici e le disoccupate, le studentesse e le sindacaliste, le suore e le immigrate, le casalinghe e le donne delle istituzioni, facce note ma soprattutto ignote, donne tutte belle finalmente, non per tacchi a spillo o scollature o sguardi seduttivi, ma per la passione, e l'indignazione, e l'irruenza, e la coscienza di sé, dei propri diritti espropriati e derisi: e uomini, tanti, finalmente non intimiditi o infastiditi dal protagonismo femminile, consci che il basta delle donne poteva avere, ha avuto, un suono più alto, più felice, più coraggioso, cui affiancarsi, da cui ripartire per cambiare finalmente lo stato del paese. In mano alle donne, ieri, la politica si è fatta più radicale e credibile, perché ha usato le parole, le voci, i gesti, non per le solite invettive e ironie e slogan e promesse che intorbidiscono e raggelano, ma per raccontare il disagio, la paura, la fatica, la rabbia, l'umiliazione, che le donne vere sopportano ogni giorno, come lavoratrici senza lavoro, e madri senza sostegno pubblico, e professioniste la cui eccellenza non le esime dalla precarietà, e giovani donne che non possono fare figli perché senza sicurezze per il futuro, e donne che nessuno protegge dallo sfruttamento, dai maltrattamenti, dall'amore assassino dei loro uomini.

Si sa che l'armata mediatica del berlusconismo che deve il suo imperio alla menzogna e alla capacità di confondere, aveva stabilito che la manifestazione di oggi sarebbe stata dettata dal bigottismo di donne così sfortunate da non poter fare le escort, e da una superba rivalsa contro le vittoriose ragazze di Arcore e altrove. Che delusione! Nessuna, delle tante donne che si sono alternate sul palco, emozionate eppure decise, forti, ha avuto parole arroganti di separazione tra le buone e le cattive. Al massimo è stato detto quello che anche le belle signore del Pdl dovrebbero condividere: che cioè i letti dei potenti più o meno ossessionati dal sesso non dovrebbero essere istantanee scorciatoie per entrare in ruoli pubblici di massima responsabilità. E per esempio la sempre improvvida Gelmini, prima ancora che le piazze cominciassero a riempirsi, annunciò che ci sarebbe stato solo un gruppetto di desolate radical chic, termine così stantio e irreale che forse gli esperti di slogan del governo dovrebbero modificare. Povera ministra da poco mamma e scrittrice di libri per l'infanzia, oltre che falciatrice dell'istruzione pubblica italiana. Davanti a quelle migliaia di persone in ogni piazza, a quel milione accorso al richiamo di un piccolo gruppo di donne arcistufe e finalmente decise a ribellarsi, cosa avrà pensato?

Se persino le donne scese in piazza, persino i partiti dell'opposizione, non si aspettavano un simile successo, figuriamoci gli altri: hanno cominciato a perdere la testa, e prima ancora che vengano dettate dal politburo governativo gli slogan denigratori per negare la realtà, han fatto la loro brutta figura, accusando curiosamente la manifestazione di essere  antiberlusconiana: come infatti vistosamente, fortemente, appassionatamente, voleva essere. I cervelloni berlusconisti da poco tornati a galla come ultima trincea, terrorizzati da quelle piazze gremite, hanno parlato di "odioso sfruttamento delle donne per abbattere il premier" non avendo capito niente dell'autentica civile autonoma rabbia femminile; c'è chi ha vaneggiato di una contro-manifestazione da parte delle ministre in carica, "di orgoglio e di amore anche nelle sue perversioni", e la solita sottosegretaria cattivissima, lei devota ad ogni sospiro del suo idolo e fan delle sue movimentate serate, ha accusato le centinaia di migliaia di donne in piazza "di essere solo strumenti degli uomini", non si sa quali, ma di sicuro non dell'ormai pericolante premier.

Chissà se le tante donne intelligenti e libere che hanno trovato mille colte ragioni per disertare una manifestazione che non risultava loro sufficientemente femminile o femminista, si sono alla fine commosse nel vedere tante altre donne, più sbrigative e meno sofisticate, gridare insieme, senza divisioni, senza distinzioni, il loro bisogno di dignità e di cambiamento. Che poi la differenza è anche questa: le donne non berlusconiane sono in grado di scelte differenti, libere di agire secondo i loro principi in contrapposizione con altre anche se le divergenze sono capillari: nessuna delle signore berlusconiane, dai loro scranni di ministre, sottosegretarie, rappresentanti di partito, osano esprimere non si dice un dissenso, ma un lievissimo, simpatico dubbio. Loro sì, pare, sono al servizio del maschio padrone.

Però una domenica come quella di ieri, così bella, e appassionata, e corale, dovrebbe mettere in guardia anche l'opposizione. Le donne hanno detto basta a questo governo e al suo leader, ma resteranno vigili: dalle piazze ieri è venuta allo scoperto una riserva di energia, di intelligenza, di bellezza, di potere, di senso del futuro femminile, che parevano dispersi o rassegnati. Le donne promettono obiettivi ambiziosi, assicurano che non torneranno indietro, soprattutto che dopo una così straordinaria, spontanea prova di forza, niente, ma proprio niente, sarà più come prima.

(14 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica

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IL COMMENTO

Se questa è una moderata

di NATALIA ASPESI

UNA signora così elegante, non solo nelle borse ma anche nei modi, chi l'avrebbe mai detto? Magari noiosa ma sempre impeccabile, e infatti era del tutto impensabile che la sua nota, signorile compostezza si rifugiasse nella sola sua marmorea cotonatura, e che lei si allineasse ai metodi più che fangosi della sua parte politica. È accaduto ieri nel faccia a faccia su Sky 24 tra lei, Letizia Moratti, sindaco uscente di Milano, ricandidata dal Pdl, e Giuliano Pisapia, che ha l'immane compito di riportare il Comune di Milano al centrosinistra.

La signora è precipitata in una di quelle figuracce che da buona dama milanese educata nel famoso Collegio delle Fanciulle, era sempre riuscita ad evitare. E lo ha fatto con metodo, studiato dai suoi rustici ispiratori, adusi alle massime porcherie, aspettando la chiusura per lanciare la sua immondizia sull'avversario, sapendo che lui non aveva diritto di replica.

Lo ha accusato all'improvviso di essere stato un ladro, più o meno quarant'anni fa, o meglio "di essere stato giudicato responsabile del furto di un veicolo usato per il sequestro e il pestaggio di un giovane. Poi è stato amnistiato". La povera signora sudava e balbettava sventolando un documento, vistosamente affranta perché, pur essendo adusa alle bugie e alle fantasie, non innocue ma neppure fatali, forse non immaginava che sarebbe stata costretta ad arrivare a tanto: a unirsi alla folla della bassa politica berlusconiana, ad usare quei dossier finti e menzogneri di cui devono essere pieni i cassetti del premier e del suo personale di servizio, a diventare lei, una Moratti nata Brichetto Arnaboldi, ricca di famiglia e di petrolio, benefattrice di San Patrignano, ex ministro sia pure mediocre dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, ed ex presidente non luminoso della Rai, un Sallusti, un Feltri, un Belpietro, addirittura uno Scilipoti, una Santanché, uno dei tanti innominabili che hanno tolto ogni dignità alla politica.

Sia il moderatore, Emilio Carelli, che lo stesso Pisapia, che sino a quel momento, elegante come non capita spesso di vederlo, aveva picchiato dura sulla inquieta sindaca, sono rimasti di sale. È stato uno dei soliti momenti cui ormai siamo abituati, in cui i brandelli che restano di una democrazia si sfilacciano del tutto. Carelli non ha avuto la prontezza, dopo la carognata bugiarda, di permettere la replica all'avversario poi, chiusa la trasmissione con quel funesto, vergognoso finale, ha ricordato che da quell'inesistente reato Pisapia era stato assolto con formula piena "per non aver commesso il fatto". Naturalmente gli informatori lo sapevano e non ne hanno tenuto conto, come fanno sempre: si poteva pensare che la Moratti non lo sapesse, ma in questo caso prima di distruggere per sempre la sua già pericolante immagine, avrebbe dovuto informarsi. O forse lo sapeva, ma non è stata in grado di opporre la sua dignità alla violenza distruttiva di chi la comanda, o peggio ancora, terrorizzata dal pensiero che le elezioni si possono anche perdere, e in questo caso non succede niente di grave, soprattutto se una è milionaria e ultrasessantenne, ha scelto di assoggettarsi a un gesto vergognoso, che le toglie per sempre il titolo di "moderata" di cui anche ieri la signora si vantava. E ha continuato a vantarsene, in conferenza stampa, sostenendo di aver usato quella notizia (e pazienza se falsa) proprio per marcare la differenza "tra la mia storia e la sua", una storia, quella morattiana, vistosamente moderata, mentre quella di Pisapia, almeno allora, sul piano politico non lo era. Nella sua giacchina bianca, moderatissima, la sindaca ormai straparlava, non riuscendo nessuno ad afferrare il suo corrucciato ragionamento. In ogni caso, ormai si è capito che "moderato", è definitivamente diventata una brutta parola, visto che si definiscono tali persone che la signora Moratti in altri tempi non avrebbe mai invitato nel suo appartamento milanese su tre piani, e neppure nella casa Batman del figlio, e che ora sono i suoi compagni di viaggio, specialisti nel far uso di estremismo verbale, killeraggio mediatico, attacco alle istituzioni, abitanti di un nuovo mondo dove ogni vergogna è possibile.

L'incontro tra i due contendenti seduti in poltrone fin troppo lontane, come a prevenire un'eventuale scazzottata, poteva essere molto importante per i milanesi sotterrati dai manifesti della ridente fata Letizia che promette da ogni angolo nero di inquinamento della città ben 61mila posti di lavoro nuovi ogni anno e abbraccia coppie di vecchietti adoranti cui promette case gratis, e che di Pisapia conoscono soprattutto l'aspetto e i discorsi ultramoderati, mentre scarpina infaticabile in ogni angolo cittadino per raccontare la sua Milano. Il sindaco magnificava corrucciata il già fatto, preferendo comunque i verbi al futuro, faremo, costruiremo, daremo..., del tutto impermeabile al buon senso pisapiano che le rinfacciava lo stato malinconico della città, le infiltrazioni mafiose, l'Expo ancora per aria. Era la prima volta che i milanesi sentivano parlare di Milano, il che pareva addirittura stravagante, pur trattandosi, per il 15 e il 16 maggio, di elezioni amministrative, cioè dell'elezione del sindaco. Della Moratti. Di Pisapia, non di Berlusconi. Ma poiché gli italiani non possono mai occuparsi di se stessi, dei loro problemi, della loro vita, e nel caso dei milanesi, della disoccupazione, della mancanza di case, delle strade dissestate, della sicurezza in periferia, della solitudine che attanaglia tutti, ma solo del premier, soprattutto questa volta non sono chiamati a decidere se questo sindaco ha amministrato bene, o come capita ovunque esista la democrazia, si può provare a cambiare. Noi disgraziati cittadini siamo chiamati a votare soprattutto pro o contro la magistratura, pro o contro il premier. Ci derubano della nostra città, della nostra quotidianità, di noi stessi. Non contiamo nulla. Forse la pessima figura che ha fatto la Moratti potrà aiutare i milanesi a capire, e come dice Pisapia, a voltare pagina. A non accettare più, oltre alla pessima amministrazione, anche certi metodi politici infamanti e indegni. A sognare di nuovo che Milano torni ad essere la capitale morale del Paese. 

(12 maggio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/05/12/news/

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