Rinaldo GIANOLA

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La spallata di Confindustria

Rinaldo Gianola


Il tono è deciso. Le parole inequivocabili. «Meglio un taglio netto, ma limpido, cioè una crisi di governo, che una crisi politica opaca e strisciante» scrive il Sole-24 Ore nell’editoriale di ieri in prima pagina. La voglia di dare una spallata a Romano Prodi deve essere ben forte e motivata in Confindustria.

Dopo le dure esternazioni di Luca di Montezemolo, anche il giornale degli industriali, di solito così misurato ed elegante, spara bordate contro il governo chiedendogli di andare a casa. Sarà forse anche un segno dei tempi se l’attacco è firmato da Guido Gentili, già direttore del Sole-24 Ore nell’epoca oscura della presidenza di Antonio D’Amato, come se nel firmamento confindustriale si volessero ricomporre tutte le divisioni, ritrovare tutte le anime per colpire uniti, e possibilmente affondare, l’esecutivo sostenuto dal centrosinistra.

Le critiche sono già note e ripetute, riguardano in particolare la scarsa propensione «riformista» che Prodi avrebbe messo in campo nella partita delle pensioni e, di più, il giornale della Confindustria (con il riverbero degli altri potenti giornali delle confraternite bancarie e industriali che su pensioni, mercato del lavoro e contratti sono ormai al pensiero unico) rimprovera ai «veri riformisti» di non impegnarsi abbastanza per difendere lo scalone di Maroni e il taglio dei coefficienti. Quello che sorprende, abituati alla dialettica spesso così sopita e sonnolenta della Confindustria, è il crescendo dei toni e degli attacchi al governo, come se Prodi e i suoi alleati, che certo soddisfano poco anche i loro più fedeli elettori, in un anno di governo non avessero fatto nulla, anzi avessero addirittura peggiorato le condizioni finanziarie, sociali ed economiche del Paese.

Eppure sui conti pubblici qualche progresso sostanziale s’è visto, c’è stata la «lenzuolata» di Bersani sulle liberalizzazioni, l’economia è in ripresa e ci sono segni positivi anche sul fronte dell’occupazione. Mettiamoci anche, e per noi non guasta, che c’è stata una lotta serrata all’evasione che ha avuto benefici effetti sulle entrate e soprattutto ha rotto la spirale eticamente devastante di condoni e sanatorie di Berlusconi e Tremonti. In più le imprese hanno portato a casa circa 5 miliardi di euro con la riduzione del cuneo fiscale. Forse non sarà molto, ma è pur sempre un bel gruzzolo. Non per far paragoni, sempre antipatici in questi casi, ma ai lavoratori dipendenti e ai pensionati è andata peggio.

Ma, evidentemente, agli industriali tutto questo non basta. Per gli imprenditori la centralità dell’impresa sconfina nell’esclusività dell’impresa, i loro interessi sono quelli che contano. Gli altri possono aspettare. Siamo in un’altra dimensione. Non si tratta più di criticare e di stimolare, come si conviene a un’organizzazione importante com’è quella degli imprenditori, l’esecutivo e la sua azione, qui si va oltre. C’è qualche cosa di più e di più preoccupante, che potrebbe essere anche una naturale conseguenza dei recenti interventi «politici» di Montezemolo, contro il governo, i partiti, il «sindacato dei fannulloni». Si parte dall’attacco all’esecutivo, si tracima nell’antipolitica perchè destra e sinistra «sono tutti uguali», fino ad arrivare a chiedere la crisi di governo, come se Confindustria fosse un partito dell’opposizione, perchè la riforma delle pensioni non è gradita. Nella latitanza della politica, nel vuoto lasciato dai partiti si infilano gli imprenditori ad occupare ruoli e spazi che a loro, tuttavia, non competono. Qualcuno, anche nel governo, dovrebbe garbatamente ricordarlo agli industriali.

Pubblicato il: 05.07.07
Modificato il: 05.07.07 alle ore 8.40   
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Il destino degli operai

Rinaldo Gianola


Non è vero che gli operai non fanno più notizia. Continuano a morire come ieri è accaduto a Porto Marghera a Paolo Ferrara e Denis Zanon. Altri lavoratori, nelle ultime ore, hanno perso la vita nel Padovano e ad Andria.

A Marghera pare che la bombola di ossigeno che poteva salvare i due portuali fosse vuota. Come gli estintori difettosi della ThyssenKrupp a Torino. Non cambia nulla. Tra pochi giorni i morti saranno solo un numero e basta.

Gli operai sono sui giornali e in tv. Muoiono, scioperano, qualcuno pure s’arrabbia e blocca stazioni e autostrade perché magari gli imprenditori, che sono pure loro dei “lavoratori” anche se diversi dai poveri Ferrara e Zanon che certo non godevano di stock option o benefit di varia natura, non vogliono rinnovare il contratto e concedere 117 miserabili euro. Certe categorie di lavoratori devono stare attente: chi muore nel periodo di vacanza contrattuale non incassa nè gli aumenti a regime, nè le una tantum o le altre mance che gli industriali potrebbero garantire in futuro. E’ davvero un peccato.

Ma, d’altra parte, gli operai sono dei rompiballe: continuano a morire nei momenti meno opportuni. I sette della ThyssenKrupp sono arsi vivi proprio prima di Natale, quasi a volerci rovinare le feste. I portuali di Marghera sono asfissiati mentre si prepara il Carnevale veneziano. Se almeno morissero in silenzio e i loro colleghi non facessero tutta quella baraonda di scioperi, cortei, proteste, vuoi mettere come il Paese sarebbe più moderno, più tranquillo, più sereno, più collaborativo. Sarebbe tutto più facile anche per il Partito democratico che ha bisogno di smussare gli angoli, evitare conflitti, usare toni soft che fa anche rima col mitico loft.

Lo sappiamo: a questo punto qualcuno potrebbe alzare il ditino in segno di protesta e chiederci che cosa c’entrano gli «omicidi bianchi» con i rinnovi dei contratti. Perché fare della facile demagogia e mischiare la tragedia della morte con quattro soldi in busta paga, perché legare la sicurezza sui luoghi di lavoro con i metalmeccanici che bloccano le autostrade. Perché, cari signori e cari professori, tutto si tiene. La rabbia e le lacrime che avete visto ai funerali di Torino sono le stesse che trovate oggi a Marghera e nei porti italiani. I problemi di chi non arriva alla fine del mese perché deve pagare il mutuo, le bollette, la scuola sono gli stessi di milioni di famiglie, ed è per questo che vedete gli operai incavolati e offesi per la morte dei loro colleghi e frustrati e rabbiosi perché non gli rinnovano il contratto. È tutto uguale. È un sentimento che si vive dentro, bisogna conoscerlo, ma ha una concretezza palpabile. Basta guardarli, basta parlare con quei lavoratori, ai funerali o alle manifestazioni. Sono testimoni della difficoltà di vivere, di tirare avanti, di emanciparsi, di alzarsi in piedi e camminare spediti, di dare un futuro di speranza ai propri figli senza costringerli a dover elemosinare poche decine di euro per campare al padrone di turno.

La storia è sempre la stessa: ogni volta che uno cerca di andare avanti, di fare un balzo, una forza oscura agisce per tirarti indietro, ti obbliga a restare lì, a non muoverti. La sicurezza sul luogo di lavoro, il salario dignitoso, la possibilità di veder riconosciuti i propri diritti anche economici non sono obiettivi scindibili, sono la stessa cosa. Gli operai di Torino e di Marghera chiedono dignità e rispetto, rispetto per le loro vite e dignità per i loro salari, le loro famiglie, il loro futuro. Rispetto e dignità vuol dire anche che non si possono prendere gli operai per fame, ritardando i rinnovi contrattuali per mesi e per anni, fino alla beffa di leggere sui giornali di lorsignori che i sindacati hanno rifiutato una proposta di aumento superiore alle stesse richieste dei lavoratori. Ma non vi vergognate a raccontare queste balle? Così come ci sarebbe da chiedere a Montezemolo se è davvero moderno minacciare elargizioni unilaterali ai propri dipendenti per tirare uno schiaffo ai sindacati, per fregarsene di mediazioni ministeriali, contratti e firme.

Ma, alla fine di una giornata triste, quello che rimane non è nemmeno la voglia di polemizzare e di litigare, anche se ne vale la pena e non abbiamo alcun timore a farlo. Quello che resta, in verità, è solo il lutto, il dolore, il silenzio per quelli che non ci sono più e una grande, profonda solidarietà per le loro famiglie e per gli operai di Marghera.

Pubblicato il: 19.01.08
Modificato il: 19.01.08 alle ore 10.25   
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Due secoli in Borsa

Rinaldo Gianola


Gli anniversari vanno festeggiati con brindisi e cotillon, a maggior ragione quando i protagonisti sono importanti istituzioni come la Borsa che oggi, presente il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, compie duecento anni. Questo non vuol dire, tuttavia, nascondere i ritardi, i guai e anche i pasticci. Il napoleonico Palazzo Mezzanotte continua a ospitare il mercato azionario che, nel bene e nel male, rappresenta la nostra economia, il capitalismo nazionale in tutte le sue espressioni, le migliori e le peggiori. Se usassimo il metro della Storia si potrebbe dire che Rivoluzione e Congresso di Vienna si sono spesso alternati in piazza Affari.

Eppure, è sempre stato arduo, quasi impossibile, distinguere gli autentici innovatori dai restauratori. Certi protagonisti ti apparivano a prima vista illuminati e coraggiosi, campioni senza macchia e senza paura, ma poi, appena ti illudevi, si palesavano come mascalzoni o peggio. Un vecchio cronista di Borsa, Emilio Moar, cresciuto dai Martinitt, di fronte a inspiegabili successi di certi personaggi commentava in milanese: «Ma se la se gira...», cioè se l’aria cambia vedrete come finiranno i nostri eroi. È una filosofia ancora giusta come dimostrano le cronache di casa nostra e le storie di recenti scandali in America, in Inghilterra, in Francia La Borsa è come il capitalismo tricolore. Capace di grandi imprese, a volte geniale, ma ristretto, oligarchico, spesso familiare o peggio familista, un capitalismo di relazione tra pochi eletti che si ritrovano in circoli esclusivi dove si entra per cooptazione e non per merito. Anche per questo, nonostante il matrimonio con Londra che ci fa partecipare ai grandi giochi, il listino italiano è ancora poca cosa per rappresentare una delle potenze economiche del mondo (ammesso che questo G7 abbia ancora un senso, di fronte a giganti come India e Cina). Le società quotate superano di poco il numero di 300, la capitalizzazione (cioè il valore complessivo di tutte le aziende quotate) sfiora a malapena il 50% del prodotto interno lordo mentre altri paesi a noi vicini raggiungono livelli molto più elevati. In più dobbiamo considerare lo scarso “pluralismo” del nostro mercato azionario. Ci sono pochissimi grandi gruppi, e ci sono poche piccole e medie aziende quotate. Insomma ci manca un pò di tutto. La concentrazione del listino è fortissima: appena sette imprese (Eni, Unicredit, IntesaSanPaolo, Enel, Generali, Telecom, Fiat) coprono oltre il 50% dell’intera capitalizzazione. Interessante è verificare che di queste società solo due (Generali e Fiat) sono di origine esclusivamente privata, mentre alcune sono di Stato (Eni ed Enel) e altre vengono anche dalla sfera pubblica (la privatizzata Telecom, Unicredit che contiene le ex bin Credito Italiano e Banca di Roma, IntesaSanPaolo che ingloba la gloriosa Commerciale).

Da anni economisti, politici, imprenditori si interrogano sul motivo per cui la Borsa sia così ristretta, seppur con una lenta tendenza a crescere, e gli inviti e le sollecitazioni alla quotazione sono continui anche se restano privi di risultati apprezzabili. Spesso gli studi di Mediobanca o di Confindustria ci hanno spiegato che sono migliaia le piccole e medie aziende che potrebbero accedere al listino, raccogliere capitali per il loro sviluppo, rafforzare le loro strutture patrimoniali. In realtà la Borsa è vista ancora, e non solo dalle imprese, come qualcosa di lontano, un veicolo interessante ma pericoloso, col quale ci si può anche far male. Gli italiani sono, o forse erano, un popolo di risparmiatori ma piazza Affari non li ha mai convinti del tutto. Negli anni Ottanta ci fu il boom legato alla nascita dei fondi di investimento e i Bot people si aprirono a nuove opportunità. Per la cronaca va segnalato che proprio nel mese di gennaio appena terminato il sistema del risparmio gestito ha registrato il peggior risultato della sua storia. Poi venne la stagione dei “condottieri” come Carlo De Benedetti, forse il primo industriale italiano capace di usare la Borsa in modo moderno, oppure Raul Gardini che voleva fare la «chimica mondiale» ma finì suicida nella sua abitazione milanese, mentre Silvio Berlusconi, unico grande imprenditore cresciuto lontano dall’ombrello protettore della Mediobanca di Enrico Cuccia, non ha mai amato la Borsa: ha ceduto solo quando per salvare se stesso e il suo gruppo decise di quotare, e con successo, Mediaset.

A ben vedere la storia di piazza Affari è piena di reazionari e di ben pochi “rivoluzionari”. Chi minaccia l’ordine costituito di solito finisce male. Una certa simpatia la ispirò Mario Schimberni che, a metà degli anni Ottanta, sfidò i suoi stessi padroni. Schimberni guidava la Montedison e scalò la Bi Invest della storica famiglia Bonomi che venne disarcionata in una torrida giornata d’estate. Non contento Schimberni si mise poi a scalare la Fondiaria sfidando l’ira di Cuccia e di Gianni Agnelli che sentenziò: «Bi Invest umanum, Fondiaria diabolicum».D’altra parte la Borsa è stata spesso teatro di battaglie e di vere e proprie guerre. Purtroppo quasi sempre combattute in assenza di regole o di arbitri credibili, per cui anche semplici contrasti facevano scappare i risparmiatori. Anche se può apparire un pregiudizio la nostra Borsa è sempre stata in ritardo, sia negli assetti istituzionali sia per le regole che spesso mancavano. Un paio di esempi non guastano.

La prima offerta pubblica di acquisto, la leggendaria Opa Bastogi, venne proposta da Michele Sindona che, diciamolo, non era proprio un galantuomo. Per far entrare davvero in funzione la Consob, l’Autorità di controllo delle società e la Borsa, ci volle il crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, all’inizio degli anni Ottanta. Solo con il biennio 1992-’93, dopo l’esplosione di Mani Pulite che fece emergere la commistione indebita tra politica e affari, le società, in particolare i grandi gruppi, fecero pulizia al loro interno, cancellando fondi neri, conti truccati, tesoretti vari, contributi ai partiti che erano autentiche forme di corruzione. In quegli anni la crisi di Montedison-Ferruzzi, dell’Eni, della Fiat furono la cartina di tornasole non solo di una recessione che colpiva l’Italia, ma la fine di una stagione. U

na nuova epoca, in effetti, venne inaugurata nel 1992 con una politica coerente di privatizzazioni, come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, protagonista di quel periodo in veste di direttore generale del Tesoro, prima di trasferirsi alla Goldman Sachs.Le vendite di aziende di Stato hanno certamente favorito la lotta al debito pubblico, la crescita del mercato azionario, anche importanti processi di aggregazione in particolare nel settore bancario. Ma, a ben vedere, non è stato raggiunto l’obiettivo di rendere più aperto, pluralista e potremmo dire democratico, rischiando l’ossimoro, il capitalismo.

Le privatizzazioni, a volte, si sono risolte nel semplice trasferimento di rendite di Stato o di settori “tariffati” dal pubblico al privato, come nel caso delle Autostrade (perchè mai devono stare nella mani dei Benetton?) o di Telecom, la cui vendita ha rappresentato il maggior fallimento del capitalismo tricolore anche se ci ha regalato l’Opa lanciata dall’Olivetti, una delle poche vere operazioni di mercato realizzate in questo Paese. In conclusione l’unica consolazione per la Borsa e anche per l’intero Paese è che tutti, ma proprio tutti, siamo stati salvati dall’Europa. Meno male che ci siamo dentro, altrimenti chissà che guai in piazza Affari e fuori.


Pubblicato il: 15.02.08
Modificato il: 15.02.08 alle ore 14.43   
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Telecom Italia confidential

Rinaldo Gianola


Se la limatura del contratto di qualche anchorman de La7 ho mobilitato fior di commentatori, se la paura di perdere le interviste della Bignardi tiene alcuni in ansia, se la linea editoriale di Giovanni Stella, in arte “er canaro” neo capo della tv di Telecom Italia, ha fatto gridare allo scandalo perché così poco elegante, allora c’è da chiedersi cosa succederà nei prossimi giorni quando si dovrà discutere dei 5000 esuberi annunciati dal gruppo di telecomunicazioni. Qui non si tratta di rimpiangere le Markette di Chiambretti, ma di sapere come mai Telecom voglia allontanare qualche migliaio di dipendenti per «recuperare efficienza». Questa notizia degli esuberi, di cui pochi si sono occupati anche se ovviamente è più importante delle sorti di Crozza e Ferrara, rappresenta un passaggio importante per capire dove sta andando uno dei grandi gruppi industriali che, dalla fine dello scorso anno, è guidato da Gabriele Galateri di Genola e Franco Bernabè e conta su un nuovo pool di controllo dove la novità è la spagnola Telefonica.

Ora se il tremendo Stella fa quello che può e che deve per tentare di salvare una società che perde un terzo di quanto ricava, e quindi in un’altra dimensione aziendale sarebbe già defunta, la ristrutturazione di Bernabè suscita qualche interrogativo e più di una perplessità. Tanto che i sindacati non hanno affatto gradito le migliaia di esuberi e per venerdì prossimo hanno deciso uno sciopero generale del gruppo.

Dove sta andando Telecom? Il ritorno di Bernabè alla guida dell’ex monopolista, dopo il veloce passaggio del 1999 quando venne esautorato dalla scalata dell’Olivetti, non è stato finora molto fortunato, diciamo così. Se si prendesse in considerazione il mercato, che anche per lady Emma Marcegaglia è il supremo giudice, il bilancio provvisorio non potrebbe essere confortante: negli ultimi sei mesi il titolo Telecom ha perso oltre il 40% del valore. Ma non ci si può legare solo a questo indicatore, che pur ha un rilevante impatto sugli investitori, i risparmiatori e anche sulle stock options dei manager, per giudicare l’operato della nuova compagine di azionisti e dei nuovi vertici. Ci vuole tempo, prima di fare bilanci. Soprattutto solo il tempo dirà se Telecom continuerà ad esistere come entità autonoma o sarà costretta a una fusione magari proprio con l’aggressiva Telefonica.

Bernabè ha iniziato la sue seconda stagione in Telecom con uno stile da partito democratico: buonista, cercando il dialogo e di fare la pace con tutti. Innanzitutto ha avviato un chiarimento con l’Autorità del settore, con la quale la passata gestione di Marco Tronchetti Provera aveva avuto più di un conflitto, e ha stabilito, almeno sembra, rapporti più sereni anche con i più forti competitori presenti sul mercato domestico. Ha detto che non abbandonerà ma anzi rafforzerà la presenza in Brasile, mercato ad alto tasso di sviluppo, vuole investire nei servizi più avanzati, avvierà un discorso con Tiscali (di proprietà del neo editore de l'Unità, Renato Soru), vuole portare la banda larga ovunque (anche il governo, pare, gli sta dando una mano), riducendo l’indebitamento e premiando comunque gli azionisti.

Il titolo, però, continua a scendere. Come mai? Qui non c’entrano solo la crisi finanziaria, i subprime e la recessione. Le telecomunicazioni hanno perso quella valenza forse esagerata che avevano verso la fine degli anni Novanta, sull’onda del successo della New Economy quando le compagnie di telecomunicazioni venivano valorizzate in misura abnorme dal mercato e dai consumatori. Oggi l’interesse è minore. Le telecomunicazioni e tutto quello che le lega a internet, alla tv, alla multimedialità sono ancora molto importanti ma vengono percepite come una merce, una “commodity” o poco più: le compagnie si comprano un pezzo di banda larga in un paese, un po’ di telefonia mobile in un altro, sperimentano una tv in un altro ancora. Non c’è più il tocco magico e nemmeno quell’euforia irrazionale che spingeva tutto al rialzo. Allora bisogna lavorare sui servizi, le tariffe, la competizione.

La scelta di ridurre di 5000 unità la forza lavoro non è una brillante idea manageriale: non c’è bisogno di aver studiato ad Harvard per cacciare qualche migliaio di persone sperando di ridurre i costi e guadagnare qualche euro in più nell’ultima riga del conto economico. In più questi esuberi non sono ben motivati e c’è la spiacevole sensazione che si voglia far pagare ai lavoratori, che certamente saranno tutelati nella loro eventuale uscita, un conto che altri non hanno pagato. Bernabè ha sempre beneficiato di un’immagine di manager progressista, fin dai tempi in cui scampò allo scandalo Enimont e riuscì poi a spingere fuori dall’Eni i partiti delle tangenti. Per questo ci saremmo aspettati da un uomo cui non difetta il coraggio (fummo testimoni addirittura di un suo rock and roll scatenato in coppia con Lilli Gruber a Wall Street nel gennaio 2002...) e anche una sicura abilità dialettica una spiegazione convincente al momento dell’annuncio delle migliaia di esuberi. Perché nelle vicende Telecom degli ultimi tempi sono ancora aperte partite (com’è governata oggi le Security? Che eredità ha lasciato la passata gestione?) che meritano di essere chiarite. Soprattutto da chi si pone come un campione di un presunto capitalismo leale e trasparente, sempre ammesso che non sia un ossimoro.

Facciamo un esempio che può aiutare. A pagina 144 della relazione del bilancio consolidato Telecom del 2007, nel capitolo sulle Risorse Umane, in maiuscolo ovviamente, si legge: «Le società del gruppo riconoscono la centralità delle Risorse Umane, nella convinzione che il principale fattore di successo di ogni impresa sia costituito dal contributo professionale delle persone che vi operano, in un quadro di lealtà e di fiducia reciproca. Le società del gruppo tutelano la sicurezza e la salute nei luoghi di lavoro e ritengono fondamentale il rispetto dei diritti dei lavoratori». Bene, allora perchè cacciate 5000 persone? Ma poi qualcuno potrebbe anche incavolarsi, e di brutto, passando alle pagine 176-177 dove si parla «delle indennità degli amministratori in caso di dimissioni, licenziamento o cessazione del rapporto a seguito di un’offerta pubblica di acquisto».

Da queste note apprendiamo, a proposito di «efficienza», che l’ex vicepresidente esecutivo Carlo Buora, uscito nel dicembre 2007, è stato corrisposto «un importo pari ad euro 4.400.000». Ma non basta. «Con lui è stato altresì stipulato un patto di non concorrenza di durata biennale, relativo ai business del gruppo e per il territorio europeo, con corrispettivo di euro lordi 4.000.000 da liquidarsi in quattro rate semestrali posticipate a partire dalla chiusura del rapporto». Non è finita, c’è anche la liquidazione dell’ex amministratore delegato Riccardo Ruggiero al quale è stato corrisposto «un c.d. “incentivo all’esodo” di euro 9.915.000». C’è di più. Scrive il consiglio di amministrazione che «la considerazione poi delle particolari circostanze che hanno caratterizzato la vita aziendale dello scorso esercizio e dell’evidenza che di esse è stata ripetutamente data dai media ha suggerito altresì di stipulare con il dott. Ruggiero una c.d. “transazione tombale” mediante la quale Telecom Italia ha ottenuto, a fronte di una corresponsione di una somma di 2 milioni di euro (poco più di una annualità di compensi fissi), la rinuncia a qualsiasi rivendicazione retributiva (...) nonchè la rinuncia a qualsiasi rivendicazione per danni di qualsivoglia natura, anche di immagine». Che spettacolo!

Ci sarebbe anche da raccontare il caso di Antonio Campo Dall’Orto, il genio della “tv dei fighetti” con percentuali di audience da prefisso telefonico difeso da Aldo Grasso sul Corrie della Sera, che grazie a una clausola contrattuale che regolava le dimissioni in seguito alle eventuali modifiche dell’assetto azionario, ha portato a casa un vero e propro tesoretto. Forse Bernabè, che ha dedicato una-riga-una ai 5000 esuberi nell’intervista concessa a Giovanni Pons su Repubblica nei giorni scorsi, potrebbe illustrare almeno che relazione esiste tra certe liquidazioni miliardarie e gli obiettivi di «efficienza» aziendale che spingono a tagliare migliaia di posti di lavoro.

Pubblicato il: 30.06.08
Modificato il: 30.06.08 alle ore 9.04   
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2008-10-05 21:33

UNICREDIT, PIANO DA 6,6 MLD. MERKEL, GARANZIE SU DEPOSITI


 MILANO - Il consiglio di amministrazione di Unicredit ha approvato un piano anti-crisi da 6,6 miliardi di euro per rafforzare la patrimonializzazione del gruppo per raggiungere un Core Tier 1 ratio del 6,7%. Lo si apprende da una nota diffusa dopo una seduta straordinaria del cda, riunita per oltre 5 ore nella sede di Piazza Cordusio. 

"Il sostegno convinto dato dai nostri principali azionisti al piano di rafforzamento del capitale è un chiaro messaggio di fiducia nel gruppo, nel suo modello di business diversificato e nella sua solidità finanziaria".  "Il consiglio di amministrazione ha voluto sottolineare il suo forte sostegno e la sua completa fiducia nel management". Questo il messaggio del presidente di Unicredit Dieter Rampl al termine del Cda.

"Questa operazione - ha proseguito Rampl - fa di Unicredit uno dei gruppi con il più elevato livello di patrimonializzazione in Italia". Rampl si è poi detto convinto che "la performance commerciale e un'ancora più solida base patrimoniale continueranno a rappresentare gli elementi chiave per la creazione di valore di Unicredit a beneficio dei suoi azionisti, dei suoi clienti e dei suoi dipendenti".

MERKEL: GARANZIE SUI DEPOSITI - Ampliate le garanzie sui depositi e trattative a tutto capo per salvare Hypo Re, al fine di rassicurare il sistema ed evitare che una crisi sul mercato finanziario tedesco possa ripercuotersi sulla maggiore economia europea. La cancelliera Angela Merkel, all'indomani del G4 di Parigi, assicura che il governo tedesco non lascerà fallire nessuna società: "Non permetteremo che le difficoltà di un'istituzione finanziaria mettano in pericolo l'intero sistema. Per questo motivo stiamo lavorando duramente per proteggere e rendere stabile Hypo Real Estate".

La seconda banca tedesca specializzata in mutui immobiliari ha visto svanire in poche ore il piano di salvataggio da 35 miliardi di euro, il maggiore della storia tedesca. Approvato anche dalla Commissione Europea, il progetto avrebbe dovuto coprire i bisogni di cassa di Hypo fino ad aprile. Il consorzio di banche che avrebbe dovuto fornire le linee di liquidità si é però tirato indietro, lasciando così Hypo sull'orlo della bancarotta. L'operazione consisteva in un apporto immediato di liquidità dalle banche e dalla banca centrale con una garanzia fornita dallo stato tedesco per 26,5 miliardi dei 35 complessivi. Per evitare il fallimento della banca, il governo tedesco sta lavorando - spiega il ministro delle finanze tedesco Peer Steinbrueck - a una "soluzione specifica" per l'istituto.

 "Abbiamo dovuto ripartire da zero: alla fine della scorsa settimana pensavano di aver trovato una soluzione", spiega Steinbrueck, precisando che Hypo Re accusa mancanza di liquidità per miliardi euro. Una soluzione dovrebbe essere trovata prima dell'apertura dei mercati lunedì. Nel piano allo studio rientra anche l'impegno a punire chi abbia assunto decisioni di mercato sconsiderate, di cui dovrà rispondere, ma anche la garanzia per tutti i depositi. L'estensione delle garanzie riguarderà tutti i conti privati ed è simile alla misura adottata dall'Irlanda nei giorni scorsi: i dettagli della decisione saranno formalizzati nei prossimi giorni ma l'annuncio odierno mira a smorzare le eventuali preoccupazioni dei tedeschi: "Vogliamo inviare un messaggio, e cioé che nessuno deve avere timori di perdere neanche un euro dalla crisi". Attualmente il limite di assicurazione dei depositi in Germania é fissato al 90% per tutti risparmi privati fino a 20.000 euro. Si tratta del limite più basso in Europa. 


da ansa.it

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