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Autore Discussione: MASSIMO GIANNINI  (Letto 167107 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Ottobre 23, 2010, 06:35:26 pm »

L'ANALISI / 2

Tutti i dubbi del Quirinale

di MASSIMO GIANNINI

Il nuovo Lodo Alfano pone "una grande questione costituzionale". Una questione che va addirittura al di là dei problemi posti dal principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, previsto dall'articolo 3 della Carta del 1948, e gravemente "vulnerato" dalla retroattività dello scudo giudiziario introdotto dall'emendamento Vizzini a beneficio del presidente del Consiglio.

Una questione che investe l'intero "impianto costituzionale". La pseudo-riforma voluta da Silvio Berlusconi per sfuggire ai suoi processi rischia di stravolgere la "forma di governo parlamentare", sancita dagli articoli 55-69. Di alterare le "prerogative del presidente della Repubblica", fissate dagli articoli 87-91. Di squilibrare i "poteri del governo", disciplinate dagli articoli 92-96. Chi in questi giorni difficili ha avuto occasione di parlare con Giorgio Napolitano, ha potuto toccare con mano la sua grande preoccupazione per questo strisciante sovvertimento del nostro "ordine costituzionale".

Sulla scrivania del Capo dello Stato c'è un dossier sul nuovo Lodo Alfano (allestito e aggiornato quotidianamente dai suoi collaboratori Donato Marra, Salvatore Sechi e Loris D'Ambrosio) in cui sono raccolti gli interventi e i contributi di giuristi e costituzionalisti. E l'attenzione del Quirinale si concentra soprattutto su questo secondo aspetto del disegno di legge che porta il nome del ministro della Giustizia. Gli "effetti costituzionali", prima ancora delle sue implicazioni processuali. Effetti potenzialmente dirompenti, in primo luogo sul piano ordinamentale, e in secondo luogo anche sul piano politico. Perché le nuove norme previste dal Lodo-bis, di fatto, avviano la trasformazione dell'Italia da "Repubblica parlamentare" a "Repubblica presidenziale", attraverso la tappa impropria e intermedia del "premierato elettivo".

Il passaggio cruciale (già segnalato dal Sole 24 Ore di domenica scorsa e descritto su questo giornale da Giuseppe D'Avanzo e Carlo Galli) è la "metamorfosi" del presidente del Consiglio implicita nella riforma costituzionale pretesa dal centrodestra. Con il nuovo Lodo il premier, in forza della legittimazione che gli deriva dall'investitura popolare sancita dall'indicazione del suo nome nella scheda elettorale, viene "elevato" di rango rispetto ai ministri del suo governo (nei cui confronti è "primus" non più "inter", ma "super pares") ed equiparato a tutti gli effetti al presidente della Repubblica. Si introduce così una forma spuria di "dualismo istituzionale" che non ha raffronti in nessun altra democrazia occidentale, e che altera l'intero meccanismo di formazione e di bilanciamento dei poteri.

Il primo Lodo Alfano, varato con legge ordinaria all'inizio della legislatura, prevedeva lo scudo processuale per le cinque "alte cariche" dello Stato: presidente della Repubblica, presidente del Consiglio, presidenti delle due Camere, presidente della Consulta. La Corte costituzionale lo bocciò, con la sentenza 262 del 2009. E lo fece, sia pure riconoscendo l'interesse repubblicano al "sereno svolgimento" delle funzioni del presidente del Consiglio, stabilendo che lo stesso dovesse comunque restare sullo stesso piano dei suoi ministri, secondo l'interpretazione consolidata dell'articolo 92 della Costituzione: il presidente, organo monocratico nominato dal Capo dello Stato, non essendo definito "primo ministro" né "capo del governo" dalla carta, non è considerato in posizione di supremazia gerarchica o di "preminenza" nei confronti del Consiglio dei ministri. Inoltre, stabilì allora la Consulta, essendo il primo Lodo Alfano una legge ordinaria, non era in alcun modo "idonea a modificare la posizione costituzionale del presidente del Consiglio".

Uscì sconfitta, allora, la tesi opposta sostenuta in giudizio dall'ex avvocato difensore del premier, Gaetano Pecorella: il premier non è "sullo stesso piano dei ministri", poiché la Costituzione e le leggi "gli attribuiscono espressamente rilevantissimi poteri-doveri politici, di cui è il solo responsabile". E la conferma di queste "attribuzioni speciali" sarebbe proprio la legge elettorale vigente, che "collega l'apparentamento dei partiti politici a un soggetto che si candida espressamente per esercitare le funzioni del presidente del Consiglio".
Ora, nel secondo Lodo Alfano, questa volta di rango costituzionale secondo le procedure previste dall'articolo 138, il Pdl recupera e reintroduce nell'ordinamento proprio il "teorema Pecorella". L'esclusione dei ministri dalla copertura processuale, decisa dalla maggioranza il 29 settembre scorso, formalizza e costituzionalizza la "preminenza" del presidente del Consiglio, che lo rende "sovraordinato" rispetto ai suoi ministri (perché eletto dal popolo) e meritevole delle stesse "guarentigie" assegnate al Capo dello Stato (perché ugualmente "speciale" dal punto di vista costituzionale). Questa forzatura delle regole vigenti, bocciata dalla Consulta un anno fa perché tentata con la via semplice della legge ordinaria, diventa adesso possibile con la procedura rinforzata della legge di revisione costituzionale. Se il Lodo Alfano bis fosse approvato dalle Camere con la maggioranza dei due terzi, o se venisse approvato a maggioranza semplice ma poi ratificato dagli elettori con il referendum confermativo, il "delitto" sarebbe perfetto.

La Costituzione sarebbe stravolta, e non ci sarebbe nessuna Consulta e nessun altro organo di garanzia titolato a fermare il "colpevole". Ecco perché Napolitano osserva con una comprensibile inquietudine ciò che sta avvenendo al Senato. L'esito di questo ennesimo strappo berlusconiano è "imprevedibile", da tutti i punti di vista. Sul piano costituzionale, si profila l'avvento di un "premierato elettivo", che è molto più di una "coabitazione all'italiana" tra capo del governo e capo dello Stato. E' in realtà l'anticamera di un presidenzialismo anomalo, in cui convivono e fatalmente confliggono un presidente del Consiglio consacrato dal popolo e un presidente della Repubblica eletto dal Parlamento. E in cui fatalmente, presto o tardi, il primo sostituirà il secondo. O renderà comunque necessario un definitivo e a quel punto forzoso "consolidamento" dei due poteri in uno solo.

Nel frattempo, sul piano politico si profilano conseguenze altrettanto imprevedibili. La nuova "forma di governo" implicita nel Lodo bis, mai vista altrove, giustifica ulteriori preoccupazioni. Si pone un "caso di scuola". Se la pseudo-riforma fosse approvata anche solo dal primo ramo del Parlamento, e se si dovesse arrivare a una crisi di questa maggioranza nella prossima primavera (come qualcuno ipotizza anche dentro il Pdl) chi può escludere che il Cavaliere non userebbe proprio il principio del "premierato elettivo" implicito nel Lodo bis come una "clava" da brandire contro il Quirinale, per impedirgli di affidare l'incarico a chiunque non sia stato "votato dal popolo italiano", e per scongiurare così qualunque ipotesi di "governo tecnico"?

Eccola qui, "l'improvvida e affrettata riforma della Costituzione" denunciata su questo giornale da Carlo Galli, che dà corpo all'idea "erronea, semplificatoria, illusoria oltre che in stridente contrasto con la Costituzione, che il presidente del Consiglio sia eletto direttamente dal popolo". Ed eccolo qui, il "corollario" avvelenato di questa idea: che nella nostra Repubblica sia illegittimo qualunque governo diverso da quello guidato da chi ha ricevuto la sacra unzione operata dalla sola "divinità laica (il popolo sovrano) capace di trasformare qualitativamente l'eletto, e di conferirgli un carisma speciale".

Sembra fanta-politica. Ma non lo è affatto. Per questo, sul Colle si segue passo passo il "percorso del Lodo bis". Napolitano, per usare una formula ciampiana, è "silente ma tutt'altro che assente". La riforma lo chiama in causa direttamente, ma mai come nel caso di una legge di revisione costituzionale il presidente della Repubblica deve limitare il suo ruolo pubblico a quello di "notaio". Si spiega così il comunicato di tre giorni fa, con il quale il Quirinale ha ribadito per la seconda volta (come già aveva fatto il 7 luglio) la sua assoluta e rigorosa estraneità "alla discussione, nell'una e nell'altra Camera, di qualunque proposta di legge e di sue singole norme, specialmente ove si tratti di proposte di natura costituzionale o di iniziativa parlamentare".

Anche in questo caso, com'è ormai prassi consolidata nel settennato di Napoltano, nessuna intromissione e nessuna "moral suasion". Ma questa "neutralità" formale, ovviamente, non significa affatto conformità sostanziale. Al contrario. Sul Colle è in corso una "riflessione profonda" su ciò che sta accadendo a Palazzo Madama, e su ciò che accadrà nelle prossime settimane intorno al Lodo Alfano bis. L'auspicio del Capo dello Stato, in attesa di mettere a fuoco i modi e i tempi di un suo possibile intervento istituzionale sul tema, è che di questa riflessione si facciano carico tutti coloro che hanno a cuore i destini della Repubblica. Sarebbe paradossale se, nell'Italia troppo disincantata e assuefatta di oggi, funzionasse al contrario quello che ai tempi della Costituente, sulle macerie della dittatura fascista, fu definito "il complesso del tiranno".

(22 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/10/22/news/tutti_i_dubbi_del_quirinale-8318387/?ref=HREC1-2
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« Risposta #151 inserito:: Novembre 05, 2010, 09:48:16 pm »

IL COMMENTO

In fondo al pozzo

di MASSIMO GIANNINI


UN UOMO esausto, che annaspa in fondo al pozzo. Sommerso dagli scandali sessuali, che lo inseguono dovunque, e dai guai processuali, che lo tormentano comunque. Sfibrato dalla sindrome dell'inazione che uccide il suo governo, e dalla guerra di fazione che dilania la sua maggioranza. A dispetto del solito marketing politico, Silvio Berlusconi appare così alla Direzione del suo partito, che cerca di salutare l'improbabile rinascita del leader, mentre in realtà celebra l'inevitabile autunno del patriarca.

Quella di ieri, per il presidente del Consiglio, non è stata una fragorosa "chiamata alle armi", secondo il collaudato rito berlusconiano degli anni roventi. È stato l'esatto contrario: un sommesso "inno alla debolezza". Nella forma psicologica: il premier è apparso provato, a tratti dimesso, e alla fine addirittura commosso. Nella sostanza politica: il premier ha poco da dire, e nulla da dare. La risposta alle domande inquietanti del "Ruby-gate" è fiacca e del tutto implausibile (stavolta non solo il trito "complotto delle toghe rosse e dei comunisti", ma niente meno che "una vendetta della malavita"). Soprattutto, la replica alle questioni dirimenti poste da Gianfranco Fini è modesta e tutta difensiva (al punto da riproporgli persino l'ennesimo, a questo punto davvero impensabile "nuovo patto di legislatura" insieme alla Lega).

Dal fondo del pozzo, dunque, il Cavaliere chiede aiuto, e tende le mani. È il punto più basso, mai toccato finora, della curva del potere berlusconiano. Che implicitamente si offre all'ordalia dell'ex alleato e co-fondatore del Pdl, chiamato domenica prossima a Perugia ad una scelta difficile e forse esiziale. Mai come oggi, il futuro della legislatura è in mano ai futuristi di Fini. "Non romperà, perché ha paura delle elezioni", sostiene con la consueta sicumera padana Umberto Bossi. Ha totalmente ragione sulla paura delle elezioni, che nessuno vuole a parte il Carroccio. Ma ha parzialmente torto sull'impossibilità della "rottura" finiana. Di fronte a un esecutivo che non risolve i problemi del Paese, e a un presidente del Consiglio che affoga nei suoi problemi personali, il leader di Fli ha di fronte a sé tre opzioni: tendergli una mano, lasciare che anneghi da solo, o assestargli l'affondo definitivo.

La prima opzione è ormai esclusa, perché tardiva e impercorribile: poteva forse funzionare qualche settimana fa, se il Cavaliere avesse avuto la voglia di fermare i sicari dei suoi giornali lanciati nel massacro mediatico del presidente della Camera, e la forza di rilanciare un Progetto-Paese ben più concreto e ambizioso dei risibili "cinque punti" del programma, utili solo a lui medesimo (per la parte relativa alla giustizia) e al Senatur (per il capitolo legato al federalismo). Oggi non ha più senso, perché non c'è più tempo.

La terza ipotesi è la più ardita, perché "costosa" e imprevedibile: Fini dovrebbe dichiarare chiusi i giochi, e chiedere formalmente la crisi di governo, assumendosi tutta intera la responsabilità della rottura. Il co-fondatore dovrebbe certificare in esplicito la morte del berlusconismo, sciogliere per sempre il centrodestra nato con la rivoluzione del Predellino, candidarsi come leader alternativo del centrodestra che verrà, e nel frattempo negoziare con tutti gli oppositori del Cavaliere (dal Pd all'Udc, dall'Idv a Sinistra e Libertà). Per formare una nuova maggioranza, nell'ipotesi di prosecuzione della legislatura. O per sottoscrivere un nuovo patto elettorale, nell'ipotesi di scioglimento anticipato delle Camere. Detto altrimenti: Fini dovrebbe profilarsi come "candidato killer" di un governo di destra berlusconiana, non potendo ancora spendersi come "candidato premier" di un governo di destra europea.

Il "costo" politico dell'operazione sarebbe per lui molto alto: l'ex delfino di Almirante, ed ex leader di An, si troverebbe a sostenere un governo tecnico, o un cartello elettorale, non solo e non tanto insieme ai Bersani e i Franceschini, ma insieme ai Vendola e ai Bonelli. Tanto, per un leader che è nato e cresciuto nella destra missina, e che comunque sempre nella destra (sia pure costituzionale, repubblicana e post-berlusconiana) vuole e deve cercare i suoi consensi. Ma anche l'esito dell'operazione, al momento, sembra incerto: questa maggioranza alternativa, dal vago sapore di Cln, non pare ancora matura, proprio per oggettive difficoltà di osmosi identitaria. E dunque, nel momento in cui aprisse la crisi, Fini non sembra avere la certezza assoluta che una "alleanza repubblicana" possa presentarsi compatta al Quirinale, offrendo una solida alternativa al Capo dello Stato chiamato a decidere se sciogliere le Camere o dare il via libera ad un altro governo.

Resta la seconda ipotesi, al momento più pratica e quindi probabile. Fini lascerà che sia il Cavaliere ad annegarsi da solo, nel pozzo delle sue contraddizioni. A Perugia il leader futurista tirerà ancora la corda, senza ancora romperla del tutto. Dirà che così non si può più andare avanti, e che la vera destra italiana sarà quella finiana, e mai più quella berlusconiana. Lascerà intendere che sono maturi i tempi di un "appoggio esterno". Ma questa sarà solo la tappa intermedia, verso una "rupture" finale che il presidente della Camera vorrà a tutti i costi decretata sul campo dal presidente del Consiglio. Quando e su che cosa, si vedrà. C'è l'imbarazzo della scelta. La giustizia è il terreno più doloroso, almeno per il Cavaliere. Ma ora si aggiunge anche la manovra economica, che è il terreno più scivoloso per l'esecutivo. Le prime avvisaglie si vedono già. La Pdl alla Camera va sotto su un emendamento dell'Udc sui fondi Fas. Giulio Tremonti propone addirittura una pausa di riflessione per inserire nella Finanziaria un corpo di emendamenti che ricalchino e anticipino il decreto sullo sviluppo. Sono segnali inequivoci: prove di cedimento della maggioranza nel primo caso, tentativi di accomodamento del governo nel secondo.

È la strategia del logoramento. Quasi un "classico" della storia repubblicana di questo Paese. Ma anche questa può avere i suoi costi. Sicuramente li ha per l'Italia, che rischia di continuare ad essere sgovernata ancora per mesi, tra l'accidia rancorosa del premier e l'inedia disastrosa del Consiglio dei Ministri. Ma può averli anche per lo stesso Fini, che rischia di logorarsi insieme al Cavaliere, e di non approfittare neanche questa volta del suo momento di estrema, quasi irreversibile disperazione. Per questo, nel "sommario di decomposizione" della destra berlusconiana, il leader futurista non può non interrogarsi su un "titolo" di Primo Levi, antico ma attualissimo: se non ora, quando?

m.giannini@repubblica.it
 
(05 novembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #152 inserito:: Novembre 08, 2010, 05:04:13 pm »

IL COMMENTO

E' arrivato il 25 aprile

di MASSIMO GIANNINI

Sembra impossibile, eppure il 25 aprile è arrivato davvero.
Gianfranco Fini chiude il sipario, su Berlusconi e sul berlusconismo. Scaduto il tempo delle segrete trame di palazzo, gli oscuri riti bizantini, i vecchi tatticismi da Prima Repubblica. Esaurito lo spazio per i giochi del cerino, le partite a scacchi, lo sfoglio dei tarocchi. Quello che va in scena non è più il solito "teatrino della politica" che il Cavaliere esecra abitualmente a parole, rappresentandolo quotidianamente nei fatti. È invece il dramma pubblico di una maggioranza che si dissolve.

L'ultimo atto, esibito sul palcoscenico delle tv, di un governo che muore. La cerimonia degli addii collettivi ad un partito mai nato.
Non sappiamo esattamente come e quando cadrà il Berlusconi IV. Stavolta sappiamo però che la fine è imminente. Questione di ore, tutt'al più di giorni. E il Paese si libererà anche di questa ennesima, fallita messinscena cesarista. Di questo ulteriore, disastroso esercizio di leaderismo populista. 

Dovrà ricredersi, chi da Perugia si aspettava un Fini ambiguo e attendista sul destino del governo, o prudente e possibilista sul futuro della maggioranza. Il presidente della Camera è stato netto e inequivoco, sul primo e sul secondo.

Il famoso "Patto di legislatura" che Berlusconi gli ha riproposto mercoledì scorso durante la direzione del Pdl è una cambiale in bianco che nessuno potrebbe firmare, perché ormai palesemente scaduta. Era stato lo stesso Fini a fare al premier un'analoga offerta, a Mirabello, in un estremo tentativo di ricucire uno strappo che già allora si intuiva non più ricomponibile. Anche questo risibile ping pong, adesso, è finito. Il leader di Futuro e Libertà chiede al premier di prenderne atto. Di salire al Quirinale per rassegnare le dimissioni, di riconoscere di fronte all'Italia che il governo non ce l'ha fatta e che ne serve un altro, con una nuova agenda, un nuovo programma e soprattutto con una maggioranza più ampia e allargata all'Udc. Pena il ritiro della delegazione del Fli dall'esecutivo.

Quello di Fini è stato, innanzi tutto, un atto di coraggio politico. Non era facile, per l'erede di Giorgio Almirante, consumare fino in fondo la rottura con l'alleato che, dal 1994, ha definitivamente sdoganato la destra post-missina nell'arco costituzionale, ha fatto entrare An nella stanza dei bottoni e il suo capo nell'ufficio di presidenza della Camera dei deputati. Non era scontato, per il co-fondatore del Pdl, decretarne unilateralmente la definitiva bancarotta politica, addebitandone tutta intera la responsabilità al fondatore. Era il 17 novembre di tre anni fa, a Piazza San Babila, quando il Cavaliere lanciava la Rivoluzione del Predellino. Non erano le "comiche finali", come le liquidò troppo frettolosamente lo stesso Fini. Era invece l'inizio di una "commedia politica" che lui stesso avrebbe contribuito a rappresentare nei molti mesi successivi, dentro il Partito del popolo delle Libertà.

Ma oggi è proprio questo progetto che è fallito, perché non è stato capace di dare anima e corpo alla "rivoluzione liberale" che aveva promesso, e perché ha esaurito la sua missione nel momento in cui ha costruito se stesso sull'illusione che l'intera destra italiana potesse riflettersi e riassumersi in Silvio Berlusconi, e che tutto il resto fosse un orpello ridondante, quando produceva condivisione, o un intralcio ingombrante, quando esprimeva dissenso. Fini lo ha capito e lo ha detto, facendo mea culpa. L'uomo è il messaggio: su questa scorciatoia falsamente carismatica e smaccatamente populista è fallito il Pdl.

E con il partito è fallito il governo. Non "governo del fare", piuttosto "governo del fare finta". Governo che "non ha più il polso del Paese", che galleggia sulle emergenze, che "vive alla giornata". Senza vedere, ma anzi spesso contribuendo a creare l'indebolimento dell'identità nazionale, la caduta della coesione sociale, il crollo di competitività dell'economia, la diffusione della cultura dell'arbitrio e dell'illegalità, il decadimento morale e la perdita di decoro delle istituzioni infangate dal Ruby-gate. Di nuovo: Fini lo ha capito e lo ha detto, denunciando lo scandalo pubblico che interroga e pregiudica la nostra democrazia. Raccontando agli italiani tutto quello che sta accadendo sotto i loro occhi, e che solo un sistema televisivo addomesticato dal regime finge di non vedere e si sforza di nascondere. E ha avuto la forza di dire basta.

Ma quello di Fini è stato anche un atto di posizionamento strategico. Il leader futurista sapeva di correre un rischio mortale.
Che il suo obiettivo di "staccare la spina" al governo, cioè, potesse esser letto come una banale manovra di palazzo. Una disinvolta forma di "intelligenza col nemico", per far fuori il "Tiranno" e sostituire il suo governo con una nuova e un po' spuria "macchina da guerra" guidata da molte, troppe mani: Fli e Pd, Udc e Idv, Mpa e Sinistra e Libertà. Una specie di "Cln", che desse effettivamente corso a un atteso 25 aprile, ma che avesse un respiro troppo corto e un orizzonte troppo confuso. Anche su questo, Fini ha mostrato coraggio, raccogliendo una sfida allo stesso tempo più circoscritta, ma più alta. La sfida è più circoscritta, perché il presidente della Camera ha tracciato con nettezza assoluta i confini di una forza politica, la sua, che nasce, cresce e si consolida rigorosamente nella metà campo del centrodestra. Certo, un centrodestra che si rifà al popolarismo europeo, e dunque costituzionale, repubblicano, laico. Ma pur sempre un centrodestra. Cioè una forza politica che rivendica i suoi valori fondativi, e che per questo non vuole essere né la zattera di tutti i naufraghi dell'indistinto anti-berlusconiano.

Ma la sfida è anche più alta. Quando ripete che Futuro e Libertà è una formazione che punta a raccogliere il consenso dei moderati italiani, confermando che la sua costituency politica è e resta la destra italiana e che a quel mondo vuole parlare e in quel mondo vuole prendere voti, Fini osa l'inosabile. Si candida ad esserne il leader. Dunque il prudente Gianfranco, sempre incline all'attacco e poi al ripiegamento, stavolta rompe gli ormeggi. E si lancia subito, qui ed ora, "oltre Berlusconi". È un passaggio cruciale. Che lo vedrà in mare aperto, forse a navigare insieme ai Bersani e ai Di Pietro contro il "vascello fantasma" del Cavaliere. Ma è e resta pur sempre un passaggio provvisorio. Affondata la nave berlusconiana, Fini riprenderà la sua rotta, che è quella di dare forma e sostanza a "un'altra destra" italiana, finalmente risolta e compiutamente europea. Apertamente anti-leghista e naturalmente post-berlusconiana. È importante che il leader futurista l'abbia chiarito. Per sgombrare il campo dagli equivoci, sul durante e sul dopo crisi di governo. Ci potrà essere un nuovo esecutivo, tecnico, istituzionale, di salute pubblica, sostenuto da una maggioranza eterogenea che vari una nuova legge elettorale e tenga salda la barra del timone dell'economia. Ma sarà molto più difficile che, in caso di voto anticipato e sotto le stesse insegne multi-partitiche, nasca un "cartello elettorale" che veda insieme Fini da una parte, e i Vendola, i Ferrero e i Bonelli dall'altra.

Vedremo ora come, quando e dove precipiterà la rottura. Il premier non può accettare l'ultimatum finiano, che lo inchioda ben al di là del "compitino dei cinque punti" richiesto in Parlamento agli "scolaretti" del centrodestra. Per questo ha già risposto picche.
Sia pure chiedendo, com'è logico e giusto, che l'eutanasia del governo si realizzi comunque in Parlamento. Andreottianamente parlando: Berlusconi non può più tirare a campare, può solo tirare le cuoia. Capiremo presto se dopo la crisi arriveranno altri governi o elezioni anticipate. Nel frattempo ci sarebbe da brindare a champagne, a questo 25 aprile imminente.

Ma c'è poco da festeggiare: il "conto" di questi rovinosi due anni e mezzo, purtroppo, li ha pagati e li pagherà l'Italia.

m.giannini@repubblica.it

(08 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/08/news/25_aprile-8866794/?ref=HREC1-3
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« Risposta #153 inserito:: Novembre 20, 2010, 09:06:28 am »

IL COMMENTO

Le nomine fine regime

di MASSIMO GIANNINI


Ci sono due possibili chiavi di lettura, per decrittare il pacchetto di nomine varato dal Consiglio dei ministri ai vertici di Consob, Antitrust e Authority per l'energia. Può essere un atto di fine regime. La spartizione finale di un potere al crepuscolo, che un esecutivo al capolinea consuma in un clima da ultimi giorni di Pompei, nel quale il crollo della casa dei gladiatori anticipa simbolicamente l'autodafé della casa del Cavaliere. Oppure può essere un atto di rifondazione dell'establishment: il nuovo inizio di una maggioranza che si credeva ormai in liquidazione, e che invece rilancia la ditta con la protervia e la sicurezza di aver "ricomprato" i numeri giusti al mercatino di Montecitorio, in vista dell'ordalia parlamentare del prossimo 14 dicembre. In tutti e due i casi, le scelte compiute dal governo sono pessime, per non dire indecenti. Nel merito e nel metodo.

C'è prima di tutto una questione di merito. Cominciamo dalla Consob. Era già di per sé uno scandalo che l'organo di vigilanza sulla Borsa e sui mercati finanziari fosse da quasi cinque mesi senza presidente (dopo la scadenza del mandato di Lamberto Cardia a fine giugno) e da nove mesi senza il quarto commissario (dopo le dimissioni di Paolo Di Benedetto a inizio marzo). Ora questa intollerabile "vacatio" viene finalmente colmata. Ma la toppa è quasi peggiore del buco. Il nuovo presidente Giuseppe Vegas, viceministro al dicastero dell'Economia con Tremonti, è persona seria e credibile. Ma ha vasta esperienza di finanza pubblica, e poca dimestichezza di finanza privata. E poi è stato pur sempre senatore di Forza Italia per ben due legislature e mezza, tra il 1996, il 2001 e il 2006. Lo definiscono un "tecnico", in realtà è a tutti gli effetti un "politico". E questa non è una buona cosa, per un'istituzione che dovrebbe esprimere il meglio della tecnocrazia di un Paese.

Il nuovo quarto commissario (che affiancherà Vittorio Conti, Luca Enriques e Michele Pezzinga) è Paolo Troiano. E qui la scelta è ancora peggiore. Consigliere di Stato, Troiano è stato nominato vicesegretario generale della presidenza del Consiglio nel corso della seconda legislatura berlusconiana 2001-2006. Già citato (suo malgrado) nelle intercettazioni telefoniche dell'inchiesta sullo scandalo napoletano e poi romano di Alfredo Romeo, il ras degli appalti, Troiano è salito agli onori delle cronache ai tempi della legge Gasparri sul sistema radio-televisivo, una delle tante "leggi-vergogna" e "ad aziendam", servita a blindare lo strapotere di Mediaset dentro lo schema del falso duopolio televisivo con la Rai. All'epoca, era il 2004, si disse che proprio Troiano fosse uno dei due grand commis che avevano scritto materialmente quella legge, in nome dell'allora ministro delle comunicazioni Maurizio Gasparri e per conto dell'allora premier Silvio Berlusconi.

Veniamo alle nomine nelle altre authority. All'Autorità per l'energia, liquidata la stagione felice di Alessandro Ortis che in questi anni l'ha gestita da solo con grande coraggio e con troppa autonomia, il governo trasferisce Antonio Catricalà, che lascia così l'Antitrust. Al suo posto, al vertice dell'organo di vigilanza sulla concorrenza e sui monopoli, assurge Antonio Pilati, attuale membro "anziano" della stessa Authority. Ma Pilati non è famoso per la tenacia con la quale in questi anni ha "marcato" i grandi trust, a beneficio dei consumatori e a vantaggio del libero mercato. È invece più noto per essere il secondo grand commis ad aver redatto di suo pugno, insieme al già citato Troiano, la Legge Gasparri. Ricapitolando: un politico ex forzista sulla poltrona della Consob, e due "apparatciki" promossi sul campo (alla stessa Consob e all'Antitrust) per meriti acquisiti nel core business del Cavaliere.

C'è poi una questione di metodo. Ancora una volta, dopo mesi di colpevole attesa nel riorganizzare e ridefinire gli organigrammi di istituzioni di garanzia decisive per il buon funzionamento di tutti i mercati, quello che prevale è il "Sistema-Letta". In tutte le grandi democrazie economiche, le autorità amministrative indipendenti sono preziosi custodi dei principi di uguaglianza delle regole e di bilanciamento dei poteri. Chi vi entra, per scelta di governi consapevoli, deve avere rigorosissimi requisiti di autorevolezza, professionalità, indipendenza. In Italia non funziona così. In questi gangli vitali per il controllo delle società quotate in Borsa, dei grandi gruppi industriali e dei colossi dell'elettricità e del gas, la scelta dei nomi viene fatta secondo il collaudato rito lettiano, cattolico, apostolico e romano. Il bacino degli "eletti" è sempre lo stesso: la nomenklatura che orbita intorno alle magistrature pubbliche capitoline (Tar, Consiglio di Stato, Corte di Cassazione, gabinetti ministeriali) sulle quali il sottosegretario di Palazzo Chigi esercita da sempre il suo dominio assoluto e incontrastato. È un sistema chiuso e autoreferenziale, che si riproduce per partenogenesi e che ormai si sposta dall'una all'altra istituzione con un meccanismo di "porte girevoli" (il caso Catricalà insegna). Un sistema che controlla poteri e apparati, e che talvolta purtroppo è anche finito al centro delle inchieste della magistratura, per il modo in cui può pilotare le sentenze e dirottare gli appalti.

Questo metodo è anti-democratico e pre-moderno. Non è degno di un Paese che si immagina ancora come la quinta potenza mondiale dell'Occidente. Un Paese che chiede regole, efficienza, competitività. E che sulle poltrone dei regolatori si ritrova ogni giorno a fare i conti con i cavalli scelti dall'ultimo Caligola di un impero comunque in declino.
m.giannini@repubblica.it
 

(19 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/19/news/nomine_fine_regime-9267484/
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« Risposta #154 inserito:: Novembre 27, 2010, 05:53:49 pm »

IL COMMENTO

La Spectre globale

di MASSIMO GIANNINI

La Spectre globale Franco Frattini, ministro degli Esteri

Complotto contro l'Italia. In un pirotecnico gioco di specchi, si potrebbe capovolgere così il titolo del magnifico romanzo di Philip Roth, dove la dura e rancorosa e America di Lindbergh si chiude in se stessa per non vedere i suoi guai, e addita il mondo come nemico. Oggi Silvio Berlusconi e il suo governo fanno la stessa cosa. Per non vedere quanto è già sotto gli occhi di tutti, dal disastro dei rifiuti al crollo di Pompei, dalle inchieste della magistratura su Finmeccanica ai file segreti di Wikileaks, il nostro Consiglio dei ministri si riunisce come fosse un gabinetto di guerra, e alla fine stila il suo comunicato farneticante, dove si rievoca una "Cosa" pericolosa e informe che somiglia tanto alla cara, vecchia congiura giudo-pluto-massonica. "C'è una strategia per colpire l'Italia e la sua immagine internazionale", scandisce il nostro ministro degli Esteri, ripreso in un comunicato ufficiale di Palazzo Chigi. 1

Una "strategia" nella quale si mescola tutto, per confondere tutti. La monnezza di Napoli e le macerie della Domus dei gladiatori, gli avvisi di garanzia sul caso Enav-Selex e le "rivelazioni imbarazzanti" sui rapporti Italia-Usa che il terribile e temibile Assange sta per diffondere in rete. Un'enormità, sul piano politico e diplomatico: il governo italiano spara in alto, e nel mucchio, senza dire chi, dove,
come, quando, perché. Poco più tardi, forse consapevole della sparata, lo stesso capo della Farnesina si corregge, con una prosa avventurosa: "Non c'è nessun complotto contro di noi, ma elementi preoccupanti che sono la combinazione di informazioni inesatte, di enfatizzazioni mediatiche, di fattori negativi per l'Italia". Salvo poi aggiungere, con involontaria comicità, che "non c'è un unico burattinaio, ma una combinazione il cui risultato è dannoso per la nostra immagine".

Riepilogando. C'è una strategia internazionale contro l'Italia e contro il suo governo. Magari nasce in America, va a sapere, e poi dilaga in Europa. E non c'è una sola "centrale", al lavoro contro il Belpaese. forse ce n'è più d'una. È grottesco che si possa anche solo immaginare uno scenario da Spectre globale, soprattutto se rapportato alla nostra sostanziale irrilevanza nello scenario internazionale. Possibile che il Cavaliere e i suoi accoliti non dubitino che di "centrale" anti-italiana non ce n'è proprio nessuna? Possibile che non abbiano il ragionevole dubbio che l'unica "centrale" che, in questo momento, sta arrecando veri danni all'immagine e alla credibilità dell'Italia è proprio l'istituzione che la governa? È colpa delle cancellerie europee se la Campania è invasa dai rifiuti come due anni fa? È colpa di Obama se l'inchiesta su Finmeccanica porta ad avvisi di garanzia che colpiscono al cuore la nostra industria della Difesa, strategica per il Paese?

È vero che ogni tramonto di un'illusione (è tale è il rovinoso declino del berlusconismo) contiene in sé elementi teatrali, oltre che tragici. Ma qui stiamo davvero esagerando. Manca solo l'attacco frontale alla Perfida Albione, da un balcone di Palazzo Grazioli. Poi la farsa sarà davvero completa.

(26 novembre 2010) © Riproduzione riservata
da repubblica.it
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« Risposta #155 inserito:: Dicembre 01, 2010, 05:25:30 pm »

Verso il voto anticipato


MA dei finiani ci si può fidare? Che faranno il 14 dicembre, quando il Parlamento deciderà di staccare o meno la spina al governo Berlusconi? Da qualche giorno, sul fronte del centrosinistra, la domanda ricorrente è esattamente questa. Dopo uno sbandamento improvviso di Gianfranco Fini, che sembrava aver virato verso posizioni più concilianti nei confronti del Cavaliere, nelle ultime ore ha ripreso quota l'idea dei una mozione di sfiducia congiunta, tra Fli e Udc. Ma l'incertezza rimane. Il via libera al disegno di legge Gelmini sulla riforma dell'università, benché ampiamente annunciato dal presidente della Camera, ha lasciato sul campo parecchi dubbi, a proposito delle reali intenzioni dei futuristi, e sul "doppio registro" che stanno tenendo nei confronti del Pdl. Tutto questo rende molto più complicata qualunque riflessione sul "dopo". Non è affatto chiaro cosa possa accadere, nel momento in cui la crisi di governo sarà formalmente aperta. Non è affatto scontato che si possa arrivare a una nuova maggioranza, e dunque a un nuovo governo, qualunque sia il suo "codice genetico": tecnico, di transizione, di salute pubblica, di responsabilità nazionale.

Ma anche sul fronte del centrodestra le incognite sono altrettanto radicate. Nel partito di Fini e in quello di Casini, oltre che nelle frange di dissenso del Popolo delle Libertà, cresce una domanda uguale e contraria: ma del Pd ci si può fidare? Con il caos che regna dentro il partito di Bersani, dove D'Alema e Veltroni sembrano aver ritrovato un terreno comune almeno per mettere in "amministrazione controllata" il segretario e stoppare l'Opa di Nichi Vendola, si può immaginare di costruire un alternativa credibile al berlusconismo? Anche in questo caso, il dubbio è fondato e legittimo. Non è affatto chiaro chi, nel principale partito di opposizione, stia tessendo la tela delle alleanze possibili: o per costruire una nuova maggioranza ed evitare le elezioni anticipate (secondo lo schema di D'Alema e Veltroni) o per andare alle elezioni anticipate con una nuova "alleanza costituzionale" (secondo lo schema di Dario Franceschini). Chi comanda nel Pd? E' la domanda che si fanno da giorni Fini e Casini. E' la domanda che in queste ore si fa persino Giulio Tremonti, uno dei leader che nel Pdl potrebbe giocare un ruolo alternativo a Berlusconi, ove mai la Lega decidesse di sottrarsi all'abbraccio mortale con il Cavaliere.

In assenza di risposte plausibili, dall'una e dall'altra parte, crescono fisiologicamente le quotazioni del voto anticipato.
C'è un'ultima carta, che D'Alema sta tentando in solitaria, per scongiurare questo pericolo. Rilanciare al più presto, a beneficio di Casini e soprattutto di Fini, una road map per la riforma della legge elettorale. Si tratterebbe di fissare subito  due punti cardine, per modificare il Porcellum: drastico innalzamento della soglia al di sopra della quale scatta il premio di maggioranza, e ritorno al sistema delle preferenze per evitare un Parlamento di "nominati" e non di "eletti". Ma poi, e questa è la novità assoluta, si dovrebbe proporre un referendum popolare "di indirizzo", sulla forma di governo: i cittadini, cioè, dovrebbero scegliere tra la "repubblica parlamentare" (nel solco di quella che abbiamo ora ma rafforzata almeno per la parte che riguarda l'esecutivo) e la "repubblica presidenziale" (sul modello del semipresidenzialismo alla francese o con l'elezione diretta del capo dello Stato). Questo sbocco consentirebbe ai "contraenti" del patto di aderire a una riforma elettorale "aperta", che eviterebbe a ciascuno dei leader di dover rinnegare un pezzo del proprio passato e della propria linea. E' un tentativo estremo, quasi disperato, per cercare una piattaforma condivisa che eviti lo scioglimento anticipato delle Camere. Ma altre idee, in circolazione, non se ne vedono. E il 14 dicembre è maledettamente vicino.

m.giannini@repubblica.it
(01 dicembre 2010)

http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2010/12/01/news/ma_dei_finiani_ci_si_pu_fidare_-9711979/
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« Risposta #156 inserito:: Dicembre 01, 2010, 05:34:24 pm »

L'ANALISI

Nel bunker di via XX Settembre Tremonti teme il "rischio euro"

E' scontro tra le cancellerie e la Banca centrale europea su come intervenire per evitare la catastrofe dell'Unione monetaria.

Secondo il ministro dell'Economia non esiste un allarme per l'Italia come Paese e non c'è bisogno di una manovra aggiuntiva

di MASSIMO GIANNINI


I GOVERNI d'Europa si affannano a ripetere che "la moneta unica non è a rischio". Ricordano i passeri di Arthur Koestler, che in "Schiuma della terra" cinguettano sui fili del telegrafo, mentre sugli stessi fili corre l'ordine di ucciderli. È il momento della verità, per le leadership politiche e le nomenklature tecnocratiche. A dispetto delle dichiarazioni rassicuranti di Angela Merkel e di Jean-Claude Trichet, i mercati finanziari hanno cominciato a giocare una partita più grande, che va oltre i debiti sovrani dei "Pigs". Oggi - come si ammette per la prima volta al ministero del Tesoro - non è in pericolo solo la tenuta dei singoli Paesi del "Club Med": "In gioco, ormai, c'è l'euro".

È la moneta unica che può saltare davvero, sotto i colpi di quella che viene impropriamente definita la "speculazione". La "fine dell'euro" è un evento politicamente insostenibile, ed anche tecnicamente ingovernabile (come ha spiegato su questo giornale Luigi Spaventa). Ma il dubbio che prima o poi l'Unione monetaria europea possa disgregarsi davvero non appare più così remoto. Il sospetto che convenga tornare alle valute nazionali, o ripiegare su due euro (uno per i Paesi forti del Nord, l'altro per i Paesi deboli del Sud) inizia a farsi strada. Per lo meno, nelle cancellerie ci si comincia a ragionare. Tra gli economisti se ne discute. Ma quello che più conta, è che i mercati sembrano crederci. E tanto basta a scatenare
l'eurodelirio di questi giorni.

Un eurodelirio che per la prima volta investe anche l'Italia. Se persino il Richelieu di Palazzo Chigi, Gianni Letta, si spinge a dire in pubblico che esiste "una preoccupazione forte" su un rischio di contagio "forse anche per l'Italia", vuol dire che il livello di guardia è stato raggiunto. La sortita del sottosegretario alla presidenza del Consiglio ha fatto infuriare Giulio Tremonti. Con chi lo incontra in queste ore, il ministro dell'Economia schiuma rabbia contro il braccio destro di Berlusconi: che ne sa di mercati internazionali, lui che è stato a malapena a Milano un paio di volte? Ma Tremonti sa che Letta, sull'effetto-domino, non ha per niente torto. Ci sono segnali inequivoci. Per quanto riguarda l'Italia, lo spread tra i Btp decennali e i bund tedeschi ha sforato quota 210 punti base. La stessa cosa è accaduta per i Cds, i contratti con i quali gli operatori si assicurano dal rischio di default di un Paese, schizzati a quota 263 punti. È il segno che i mercati, non fidandosi della tenuta italiana, chiedono un premio di rischio più alto per continuare a investire sui nostri titoli. Per quanto riguarda l'Europa, continua lo stillicidio sui Paesi "periferici" (Grecia, Irlanda e Portogallo). Ma l'attacco speculativo si estende anche alla Spagna. E da ieri addirittura al Belgio. "E se nel mirino finisce il Belgio - si sostiene a Via XX Settembre - il rischio non è più nazionale, ma diventa sistemico". La conferma, esplicita, è nella caduta dell'euro e nel crollo delle Borse.

Se questo è lo scenario, in lento e graduale disfacimento, bisogna capire se ci sono margini per salvare i singoli Paesi sotto attacco, e in prospettiva la moneta unica. E per capirlo, bisogna ascoltare ciò che si dice nelle due trincee dove si sta combattendo la partita. La prima trincea, per quanto riguarda l'Italia, è appunto il ministero del Tesoro. Tremonti è chiuso nel suo ufficio, muto come un pesce. Ma la sua versione dei fatti è la seguente. Domenica scorsa, all'Ecofin, l'Ue ha fatto quello che poteva per far partire il piano di salvataggio da 85 miliardi per l'Irlanda. Consapevole delle incognite presenti sui mercati, il ministro si è battuto per far discutere e approvare, prima del "bailout irlandese", la riforma del "meccanismo di salvataggio". L'European Stability Mechanism, che sostituirà quello temporaneo appena creato (l'Efsf) e che dal 2013 fornirà sostegno ai Paesi in difficoltà. È "un compromesso accettabile", per Tremonti: "Il meccanismo diventa permanente, e così si crea in nuce una sorta di Fondo monetario europeo...". Più di questo, per il ministro italiano, i governi in questo momento non potevano fare.

Consapevole dei limiti dell'Europa politica, Tremonti ha messo nel conto la reazione dei mercati, che infatti non hanno premiato l'accordo. E questo non può non preoccupare il ministro. Non la posizione italiana, che lui considera sotto controllo. Le tensioni sui nostri Btp riflettono le incognite generali e "di sistema", oltre che specifici "aspetti tecnici": siamo alle ultime aste, dicembre è da sempre un mese poco liquido. I timori sul nostro debito, a suo giudizio, sono esagerati: resta alto, ma il suo costo non è aumentato molto, e le dinamiche della finanza pubblica, a partire dal deficit, sono "sotto controllo". Per questo, a Via XX settembre non puoi parlare di manovra aggiuntiva da 45 miliardi, che la Ue potrebbe imporci dopo il Consiglio dei capi di governo del prossimo 16 dicembre. Tremonti giudica questa una "leggenda metropolitana". Intanto perché l'eventuale nuova disciplina del Patto di stabilità scatterebbe dal 2014. E poi perché in ogni caso, rispetto a un Trattato che non fissa numeri precisi ma parla di un rientro dal debito "in misura sufficiente", il nuovo Patto terrà comunque conto dei "fattori di sostenibilità complessiva" di ciascun Paese. E su questo, secondo il ministro, l'Italia è seconda solo alla Germania, tra "risparmio privato, solidità delle banche e pensioni già riformate".

Dunque, secondo Tremonti nessun caso Italia, nessuna manovra aggiuntiva. Neanche quella ipotizzata ieri dalla Ue e cifrata in 7 miliardi, che sarebbero necessari solo là dove il quadro previsivo fissato dal governo italiano, tra andamento del Pil e delle entrate fiscali, non fosse rispettato. Il ministro è convinto che lo sarà, perché il Prodotto lordo, ancorché fiacco, è in linea con le stime, e il recupero di evasione fiscale è già "in the bag", per usare una formula che gli è cara. E allora cosa rischiamo? A sentire Via XX Settembre, nulla come Paese, tutto come sistema. E come se ne esce? Tutto dipende dalla Bce: se farà come la Fed, e cioè comprerà titoli e riverserà liquidità sui mercati, la speculazione si placherà, e l'euro si potrà salvare. In caso contrario, si entra in una terra incognita, insidiosissima. E questa opinione, in base alle ricostruzioni che circolano al Tesoro, è condivisa anche dagli altri governi dell'Eurozona, a parte la Germania.

Ma le cose stanno realmente così? Per capirlo, bisogna spostarsi nell'altra trincea, cioè a Francoforte, per sentire la versione della Bce. Una versione che non coincide con quella delle cancellerie. Anche all'Eurotower le bocche sono cucite, compresa quella del membro italiano del board, Lorenzo Bini Smaghi, in vista del consiglio di domani. Ma la linea della banca centrale è già segnata: "Non saremo noi a togliere le castagne dal fuoco dei governi". Quello che sta avvenendo sui mercati, secondo gli uomini della Bce, ha una lettura opposta a quella che ne danno i governi. Il fatto che la speculazione stia colpendo i Paesi più deboli dell'area dimostra esattamente che non c'è un problema di "sistema" che riguarda tutti, ma un problema di "scarsa virtù finanziaria" che riguarda solo alcuni. "Guarda caso - dicono a Francoforte - i Paesi sotto attacco sono quelli che hanno problemi enormi sul fronte delle banche, come l'Irlanda, o quelli che non hanno fatto riforme vere, dalla Pubblica Amministrazione al mercato del lavoro, come la Spagna, e quelli che sommano, a queste mancate riforme, un alto tasso di instabilità politica, come l'Italia". Dunque, secondo la Bce, da questa palude in cui la moneta unica affonda si esce solo se i governi dei Pigs prendono coraggio, e cominciano a fare quello che devono: riforme vere.

Certo, in queste ore febbrili in cui molto è in gioco per l'Europa politica e monetaria, la Banca Centrale non si rifiuta di fare la sua parte. Ha cominciato a muoversi un po' come la Fed: pare infatti che ieri l'Eurotower abbia effettuato acquisti consistenti di titoli sul mercato secondario, soprattutto presso banche asiatiche. È un buon segnale di disponibilità. Che tuttavia non va equivocato: "Siamo pronti ad assumerci le nostre responsabilità - dicono a Francoforte - ma solo a condizione che i governi facciano altrettanto". Come è evidente, la logica è ribaltata rispetto a quella del governo italiano e degli altri governi. Che resistono, e invocano il "DDD problem", acronimo che sta per "Doomed Debtors Dilemma": più adotti politiche di rigore per contenere il deficit, più deprimi l'economia e il Pil, e così finisce per far lievitare ulteriormente il deficit.

Il conflitto tra queste due linee nasconde in realtà due "culture". Da un lato quella più pragmatica della maggior parte dei soci fondatori dell'Unione, dall'altra quella più ortodossa della Germania e dei suoi satelliti, di cui la Bce continua ad essere l'emanazione monetaria. Ma proprio nello scontro tra questi due schieramenti si annidano le insidie maggiori. Quanto potrà reggere la Germania, con una crescita impetuosa che sarà il triplo della media europea nei prossimi 5 anni, come confermano gli ultimi dati Ifo? Per ora non c'è risposta. E le parole ambigue, e spesso contraddittorie pronunciate in queste settimane dalla Merkel lasciano aperte tutte le ipotesi. Non tutte le sue uscite destabilizzanti si possono spiegare con la tornata elettorale del prossimo marzo nel Baden Wurttemberg, che spinge la Cancelliera a rassicurare i suoi elettori sul fatto che non saranno i contribuenti tedeschi a dover pagare le pensioni allegre degli spagnoli o i pingui salari pubblici degli italiani. C'è dell'altro. In prospettiva, proprio Berlino potrebbe diventare l'epicentro di un sisma monetario.

Per tutte queste ragioni, oggi, il peggio può essere dietro l'angolo. Purtroppo lo è per l'Italia, che nei prossimi giorni rischia di finire sulla graticola dei mercati. E lo è per l'euro, che nei prossimi mesi rischia di finire nel tritacarne della Storia. Di trasformarsi in incubo, dopo esser nato come sogno. Per tornare a Koestler, "nessuna morte è triste e definitiva come la morte di un illusione".
 

(01 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/12/01/news/nel_bunker_di_via_xx_settembre_tremonti_teme_il_rischio_euro-9707670/?ref=HREC1-1
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« Risposta #157 inserito:: Dicembre 05, 2010, 12:17:29 am »

IL COMMENTO

Gli arditi del premier

di MASSIMO GIANNINI

MANCAVA ancora qualcosa, al processo di decomposizione del berlusconismo. L'irridente "me ne frego", che gli arditi del Pdl sbattono in faccia alle regole, alle istituzioni, alla Costituzione. Ebbene, grazie a Denis Verdini, pluri-inquisito coordinatore del Popolo della Libertà, è arrivato anche questo.

"Ce ne freghiamo", annuncia il plenipotenziario berlusconiano. Se ne fregano delle prerogative del Presidente della Repubblica, al quale la Carta del '48 assegna compiti precisi nella gestione della crisi di governo. Le conoscono, queste prerogative. I falangisti del Cavaliere sanno che la nostra, ancorché malridotta, è ancora una Repubblica parlamentare, dove le maggioranze nascono, muoiono e si modificano in Parlamento. Sanno che i parlamentari non hanno vincolo di mandato. Sanno che in presenza di una crisi di governo il capo dello Stato ha il dovere di verificare se esiste un'altra maggioranza. Sanno che in caso affermativo ha il dovere di affidare l'incarico di formare un nuovo governo a chi la rappresenta.

Sanno tutto questo. Ma appunto: se ne fregano. Perché per loro, come si conviene a un populismo tecnicamente totalitario, la "ragion politica" prevale sempre e comunque sulla ragion di Stato. Il leader incoronato dalla gente è sempre e comunque sovraordinato alle norme codificate dal diritto. Questo, fatti alla mano, è dal 1994 il dna politico-culturale del berlusconismo. E così, al grido di "no al ribaltone", le truppe del Cavaliere sono pronte a marciare
sul Colle, sfidando Giorgio Napolitano e stuprando la Costituzione, di cui il presidente della Repubblica è il supremo custode.

Questo è dunque lo spirito con il quale un premier in confusione e una maggioranza in liquidazione si accingono ad affrontare le due settimane di vita che ancora restano al governo, prima del voto del 14 dicembre. Questo è il "grido di battaglia", con il quale il Pdl si prepara a combattere la guerra che comincerà il giorno dopo quella drammatica ordalia. Sapevamo, a nostra volta, che l'ultimo atto della commedia umana e politica di Berlusconi sarebbe stato pericoloso e destabilizzante. Ma non immaginavamo che al vasto campionario di violenze verbali e di macellerie costituzionali ora si aggiungesse anche il "me ne frego".

Restano una certezza e una speranza. La certezza è che la massima istituzione del Paese, il Quirinale, è affidata alle mani salde e sagge di un uomo che saprà esattamente cosa fare, per il bene dell'Italia e degli italiani. La speranza è che alla fine anche la parabola del berlusconismo, più che in tragedia, degeneri in farsa. E che per i suoi fedelissimi, come ai tempi di Maccari e Flaiano, valga un altro slogan, assai meno impegnativo: o Roma, o Orte.
m.giannini@repubblica.it
 

(04 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/12/04/news/arditi_premier-9825007/?ref=HREA-1
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« Risposta #158 inserito:: Dicembre 11, 2010, 06:29:37 pm »

IL COMMENTO

Scandalo in Parlamento

di MASSIMO GIANNINI


Solo nel tragicomico fumetto di Berluscopoli la doverosa e persino tardiva apertura di un'inchiesta sullo scandalo del mercato dei voti può diventare "un'ingerenza gravissima della magistratura" sull'autonomia delle Camere. Solo nella grottesca manipolazione semantica dei fatti, quotidianamente praticata dai "volonterosi carnefici" del Cavaliere, il patto scellerato tra un parlamentare dell'Idv e tre "colleghi" del Pdl (che gli offrono di passare nelle file della maggioranza in cambio dell'estinzione del suo mutuo per la casa) può diventare esercizio di "una libera dialettica parlamentare".

A tanto ci ha ridotto, il collasso dell'etica pubblica di questi anni. Siamo ai "saldi di fine legislatura". Gli operosi apparatciki del presidente del Consiglio, per consentirgli di raggiungere la fatidica "quota 316" nella conta sulla fiducia di martedì prossimo a Montecitorio, offrono alle anime perse dell'altra sponda non più solo incarichi ministeriali e poltrone di sottogoverno, ma addirittura denaro sonante. Questo, oggi, è l'ulteriore "salto di qualità" nell'indecente compravendita in corso tra i deputati: i soldi. Questo, oggi, dichiarano senza pudore pseudo dipietristi come Antonio Razzi e finti democratici come Massimo Calearo.

Il primo, in un'intervista radiofonica su Radio 24 al programma "La zanzara" del 16 settembre: "Sono stato avvicinato da cinque, tre del Pdl. Le offerte più concrete che mi hanno fatto sono state la
ricandidatura e la rielezione sicura, ma questa volta in un collegio italiano. Ho comprato casa a Pescara, devo pagare ancora un mutuo da 150 mila euro. Io gli ho detto che avevo questo mutuo e loro: "Ma che problema c'è? Lo estinguiamo"...". Il secondo, in un'intervista al "Riformista" di martedì scorso: "Dai 350mila al mezzo milione di euro. E pensi che la quotazione, nei prossimi giorni, può ancora salire. Soprattutto al Senato. I prezzi, quelli per convincere un indeciso a votare la fiducia al governo, per adesso sono questi... Io sono un caso a parte... Sa cosa mi ha detto Berlusconi, quando ci siamo incontrati di recente: "Calearo, io non ho nulla da offrirle perché lei, come me, vive del suo"...".

Cos'altro sembra di scorgere, in tutto questo, se non un tentativo di corruzione (secondo l'articolo 319 del codice penale) che non ha nulla da spartire con il diritto del parlamentare di esercitare la propria funzione "senza vincolo di mandato" (secondo l'articolo 67 della Costituzione)? E di fronte a queste parole, che pesano come pietre e contengono a tutti gli effetti una possibile "notitia criminis", cos'altro deve fare una procura della Repubblica, se non aprire un'inchiesta e verificare la fondatezza delle gravissime dichiarazioni rese da questi deputati? Questo è lo scandalo. Un Parlamento, tempio sacro della democrazia rappresentativa, trasformato in un hard discount, luogo profano della politica mercificata.

Così si compie il capolavoro berlusconiano: prima la personalizzazione, poi l'"aziendalizzazione" della politica, che si riduce a una variante del marketing mentre le Camere si sviliscono in una "fabbrica" di voti. In questo orizzonte, tecnicamente a-morale e puramente economicista, tutto si può vendere e comprare. Una candidatura o un mutuo, una fiducia o una sfiducia. Perché nella logica del tycoon della televisione commerciale tutti gli uomini hanno un prezzo. Si tratta solo di individuare quello giusto, e al momento giusto.

Eppure, per i Cicchitto e i Verdini, i Bondi e gli Alfano, non è questo lo scandalo. Questa è, appunto, la "libera dialettica parlamentare". Questa è, appunto, la politica fatta di "sangue e merda", per usare una vecchia formula cara a Rino Formica ai tempi della Prima Repubblica. Non è la compravendita, che indigna questo centrodestra trasformato in appendice del cda Mediaset. Perché secondo le guardie azzurre del Cavaliere o non è vera: e dunque non c'è nulla da cercare tra le bancarelle del suk di Montecitorio. O si è sempre fatta, anche ai tempi del governo Prodi: e dunque "todos caballeros", tutti colpevoli, nessun colpevole, come da requisitoria parlamentare di Bettino Craxi all'epoca di Tangentopoli.

Il vero scandalo, per le truppe del Popolo della Libertà che si preparano alla battaglia di martedì prossimo, è ancora una volta la magistratura che indaga. Le toghe che turbano il "normale confronto" del Parlamento, alla vigilia di un voto decisivo per il futuro del governo. Anche questa, dunque, sarebbe giustizia a orologeria. Ci vuole una certa impudenza, per sostenere una tesi del genere. Proprio nel giorno in cui la Consulta annuncia il rinvio a gennaio della sentenza sulla costituzionalità del legittimo impedimento.

La verità è che questa penosa Votopoli è l'altra faccia, l'ultima, di un potere sempre più debole e disperato, e per questo sempre più temerario e velleitario. "Ora inizia il calciomercato...", dice Gianfranco Fini, commettendo un errore di metodo (perché è il presidente della Camera, e se sa qualcosa deve denunciarlo ai pm) e di merito (perché le trattative sono cominciate da un pezzo, e semmai il calciomercato sta per finire).

Tuttavia non sappiamo quanto abbia inciso la campagna acquisti del Cavaliere, proprio nelle file dei futuristi, molti dei quali si professano malpancisti. Non sappiamo quanto peseranno martedì prossimo gli anatemi del premier contro gli eventuali "traditori", che saranno "fuori per sempre dal centrodestra". Può anche darsi che l'aritmetica salvi il presidente del Consiglio. Ma se anche fosse, la politica lo ha già condannato. Non si governa un Paese instabile come l'Italia, con un paio di voti di maggioranza. Per quanto ben remunerati, restano comunque voti a perdere.

m.giannini@repubblica.it

(11 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/12/11/news/scandalo_parlamento-10063256/?ref=HREA-1
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« Risposta #159 inserito:: Dicembre 16, 2010, 03:44:26 pm »

IL COMMENTO

La Bastiglia del Cavaliere

di MASSIMO GIANNINI

Sono bastate appena ventiquattrore, per capire quanto sia posticcio lo "straordinario trionfo" ottenuto l'altroieri da Silvio Berlusconi ai danni del suo nemico Gianfranco Fini. Appena ventiquattrore, per toccare con mano quanto sia fragile la Bastiglia forzaleghista nella quale il premier si trincera, fingendo di voler governare il Paese "fino alla fine della legislatura". Nel dolceamaro "day after" dell'ordalia del 14 dicembre, il presidente del Consiglio deve prendere atto che quella prova di forza (che pure c'è stata e che pure ha superato di strettissima misura) non solo non serve ad annientare l'opposizione disarticolata del centrosinistra, ma produce come reazione immediata la nascita di un'opposizione strutturata di centrodestra.

Il battesimo ufficiale del Terzo Polo tra Fli, Udc, Api e Mpa cambia profondamente il panorama politico di metà legislatura. È una risposta politica dell'area moderata anti-berlusconiana alla vittoria aritmetica della destra radicale berlusconiana. Ed è significativo che quella risposta arrivi immediatamente dopo che il Cavaliere ha riaperto il borsino della compravendita dei parlamentari, rivelando una transumanza collettiva di numerosi esponenti di Fli e annunciando un "porta a porta" individuale con singoli esponenti dell'Udc.

Lo slogan sul quale poggia la pubblicità ingannevole del premier, che per questa via si spaccia agli italiani come un "leader rafforzato", è "allargare la maggioranza". Obiettivo facile, a suo
dire, per chi ha appena sconfitto i traditori e per questo diventa una calamita che attrae i pentiti, invece di respingere i transfughi. La verità è esattamente l'opposto. L'allargamento della maggioranza, per il premier, non è il test della sua ritrovata forza, ma la prova della sua moltiplicata debolezza. Non è un atto di generosità, ma di necessità. Con tre voti di scarto, il governo Berlusconi-Scilipoti non va da nessuna parte. Per questo, e con la sola stampella della Lega, getta un ponte verso il centro.

Ma la novità è che il centro ha già mollato gli ormeggi. La nascita del Polo della Nazione è un altro effetto della vittoria di Pirro berlusconiana. Piuttosto che terremotare il campo di Futuro e Libertà, raccogliendo le macerie a suo vantaggio, Berlusconi ha spinto definitivamente Fini nella faglia in movimento del Nuovo Centro. Ha gettato cioè l'ex co-fondatore del Pdl nelle braccia di Casini, che insieme a Rutelli e Lombardo possono annunciare oggi la nascita di un coordinamento tra i parlamentari, domani il varo di un unico gruppo parlamentare, e magari dopodomani la formazione di una lista unitaria e più in là, chissà, di un vero e proprio partito.

Il PdN si configura dunque non come "costola", ma come alternativa assoluta al Pdl. E con questa prospettiva, non più teorica ma pratica, il Terzo Polo si blinda: la sua costituency parlamentare appare oggettivamente meno permeabile alle lusinghe del Cavaliere. In qualunque forma si materializzino: mutui o poltrone. Così muta la geo-politica del Paese, che assume un assetto tendenzialmente tripolare. Anche questo è un esito della battaglia di martedì scorso, oltre che della più generale deriva populista e tecnicamente eversiva del berlusconismo. Pessimo risultato, anche dal punto di vista del Cavaliere: da alfiere irriducibile del bipolarismo, diventa il maieuta involontario del tripolarismo.

Vuole allargare la maggioranza. Per ora è riuscito ad allargare l'opposizione. Dopo il 13 aprile 2008, alla Camera aveva "contro" 276 parlamentari. Ora ne ha contro 311. Questa è la dura realtà di una maggioranza che si pretende tuttora autosufficiente. Il PdN potrà anche sembrare l'ultimo "fortino degli sconfitti". Potrà anche apparire velleitario in un'Italia in cui, dalla virata maggioritaria indotta dai referendum dei primi anni '90, le terze forze non hanno mai goduto di particolari fortune. Potrà persino risultare nefasto, per chi ricorda la sciagurata politica andreottiana dei due forni all'epoca della Prima Repubblica. Ma resta il fatto che dietro ai sacchi di sabbia della trincea appena costruita, l'artiglieria terzopolista può fare danni incalcolabili, nei confronti di Berlusconi e di quel che resta della sua coalizione.

Li può fare a legislatura vigente. Molto più di quanto non dimostri la rigida ed eccezionale aritmetica del voto di fiducia dell'altroieri. Quel 314 a 311 a favore della maggioranza è infatti una situazione unica e irripetibile. Un esempio: nell'attuale perimetro Pdl-Lega ci sono almeno 30 parlamentari che sono anche ministri e sottosegretari, e che dunque sono spesso assenti dall'aula per impegni istituzionali e internazionali. Nella fisiologia dei lavori parlamentari, la maggioranza non sarà materialmente in grado di schierare stabilmente i suoi 314 effettivi alla Camera, e i suoi 162 al Senato. Per questo la neonata opposizione di centrodestra, insieme all'opposizione di centrosinistra, ha sulla carta i numeri sufficienti per mandare sotto il governo sulla mozione di sfiducia a Bondi o su quella per il pluralismo radiotelevisivo, sul disegno di legge Gelmini per l'università o sul decreto legge s per i rifiuti.

Ma il PdN può fare danni irreparabili anche nella prospettiva delle elezioni anticipate. Con l'attuale legge elettorale il Terzo Polo sarebbe ininfluente alla Camera, dove non potrebbe arrivare comunque primo rispetto al Pdl e al Pd, e dunque non potrebbe in alcun modo incassare il colossale premio di maggioranza garantito dal Porcellum. Ma sarebbe decisivo al Senato, dove il premio di maggioranza è su base regionale, dove non gioca il fattore "voto utile" e dove la soglia di sbarramento per i partiti coalizzati è solo del 3%. Dunque in questo caso, almeno a Palazzo Madama, il Terzo Polo sarebbe decisivo. Una lista unitaria Fini-Casini-Rutelli-Lombardo raggiungerebbe un risultato sicuro: farebbe perdere Berlusconi, che con la sola maggioranza alla Camera non potrebbe tornare al governo del Paese.

Non sappiamo quanto filo da tessere avrà la Cosa Bianca, che è forse ancora informe, ma che certo è già conforme all'idea di un "altro centrodestra". Una formazione davvero moderata e finalmente costituzionale, ormai avversaria conclamata della destra estremista di Berlusconi e Bossi, che può avere a cuore l'interesse nazionale, e non più quello di un singolo. E con la quale persino il Pd può dialogare senza pregiudizi, per provare almeno a riscrivere un modello di legge elettorale e un programma di messa in sicurezza dell'economia del Paese. Una cosa è certa: questo Cavaliere, con il suo "governo del Cepu", non può farcela.

m.giannini@repubblica.it

(16 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #160 inserito:: Dicembre 18, 2010, 09:34:50 pm »

E ora, il non-governo

Massimo GIANNINI

Berlusconi alla Camera fra Frattini e Tremonti
 
Con uno dei suoi colpi di coda, il Caimano ha salvato la pelle. Silvio Berlusconi ha vinto la sua partita personale contro Gianfranco Fini. La sfiducia non è passata. La campagna acquisiti ha funzionato, drenando dove doveva drenare. Nella pancia dolente di Futuro e Libertà, dove l’ala filo-berlusconiana si è rivelata più resistente di quanto si potesse immaginare. E nel ventre molle del centrosinistra, dove le "anime perse" del dipietrismo d’accatto hanno ceduto in fretta alle lusinghe del mutuo casa (vedi Domenico Scilipoti) e dove le "anime belle" del veltronismo d’antan hanno svelato in corsa il loro assoluto vuoto identitario (vedi Massimo Calearo)

Si può dire che sia una vittoria di Pirro. Si può dire che sia stata ottenuta con i metodi più cinici e abietti che la recente storia repubblicana ricordi. Ma resta pur sempre una vittoria. Non consente al Cavaliere di riprendere la rotta di governo con il vento nelle vele. Rimane anzi bloccato tra le secche, senza un orizzonte politico credibile, per sé e per quel che resta della sua maggioranza. Ma grazie ai voti di quei tre transfughi, il premier può restare al timone, e gestire la fase da una posizione di relativa forza, che gli consente di evitare le dimissioni, qui ed ora, di tirare a campare almeno fino a gennaio (in attesa di capire cosa deciderà la Consulta sulla legge per il legittimo impedimento) e di condizionare le prossime mosse del presidente
della Repubblica. Insomma, è una vittoria tattica, non una vittoria strategica.
 
Sotto questo profilo, ha qualche ragione Fini, quando sostiene che Berlusconi ha vinto sull’aritmetica, ma non sulla politica. Ma è una ragione che non consola il presidente della Camera, che esce sconfitto da questa battaglia mortale, perché in democrazia, almeno in certi momenti, l’aritmetica pesa quanto la politica. E questo è uno di quei momenti. Ora a Fini non resta che sperare di tenere serrati i già sfibrati ranghi futuristi, promettere un vero Vietnam al governo nei prossimi appuntamenti parlamentari, e nel frattempo acconciarsi da comprimario dentro un Terzo Polo dove dovrà condividere la leadership, verso l’alto con Casini, e verso il basso con Rutelli. Non proprio quello che Fini sognava, quando diceva "un’altra destra è possibile". Finchè c’è in campo il Caimano, un’"altra destra" vincente non c’è.

Cosa può fare il Cavaliere, con questa vittoria alle spalle? Una sola cosa: portare il Paese alle elezioni anticipate, guidando il processo e scegliendo il momento a lui più propizio per far saltare il tavolo. Bossi, che come sempre parla il linguaggio ruvido del disincanto e che sarà il vero "utilizzatore finale" dello scioglimento anticipato delle Camere, ha già tracciato il solco: si vota in primavera. E si tratta solo di capire che fine farà lo scudo processuale costruito dal premier per difendersi dai processi. È un successo, per un leader populista che ha dimostrato di non saper governare il Paese, ma di saper fare magnificamente bene le campagne elettorali. È un disastro per l’Italia, che ha davanti a sé alcuni mesi di totale "non governo", proprio nel momento in cui ci sarebbe più bisogno di un esecutivo capace di ridefinire l’agenda, avviare una politica riformatrice indirizzata alla crescita economica, alla redistribuzione fiscale, all’innovazione sociale e al sostegno dei redditi e degli investimenti.

Questa missione, che farebbe tremare i polsi a qualunque "Grosse Koalition" alla tedesca, è del tutto fuori dalla portata del "governo di minoranza" berlusconiano. A dispetto di quello che vagheggia lui stesso, e di quello che vaneggiano i suoi altoparlanti alla La Russa, che si spinge a dire "ora il governo è più forte di prima". Sparate da campagna elettorale, nella quale siamo ormai già precipitati. L’Italia non è la Gran Bretagna del dopoguerra, dove Winston Churchill teorizzava che un voto di maggioranza è solo "un voto in più del necessario per governare". Montecitorio non è Westminster. E non si vede proprio come questo governo, uscito vivo ma comunque malridotto dall’ordalia del 14 dicembre, possa fare adesso le grandi riforme che non ha fatto in questi due anni e mezzo. Se non ci è riuscito con oltre cento parlamentari di maggioranza, è impossibile che ci riesca con tre. Prodi insegna: Polidori e Siliquini, con tutta la buona volontà, non sono meglio di Rossi e Turigliatto.

(14 dicembre 2010)
http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2010/12/14/news/e_ora_il_non-governo-10200308/
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« Risposta #161 inserito:: Dicembre 22, 2010, 04:58:55 pm »

Donne sull'orlo di una crisi di nervi

Massimo GIANNINI

Il caos delle Libertà sembra un film di Pedro Almodovar. Gli manca quel tocco leggero di "pietas" che il regista di Ciudad Real è riuscito a mettere nei suoi lavori più commoventi (da "Tutto su mia madre" a "Parla con lei"). Ma per il resto gli ingredienti ci sono tutti.

Prima l'affondo di Veronica Lario in Berlusconi, sul "ciarpame politico" delle veline candidate alle elezioni del 2008, "offerte come vergini al drago": una deriva che costrinse la moglie del premier a chiedere il divorzio. Poi la stagione delle minorenni e delle escort, tra Noemi Letizia, Patrizia D'Addario e Ruby Rubacuori, che espose il premier ai velenosi report riservati dell'Ambasciata americana e pubblicizzati da WikiLeaks: un "uomo debole e stanco", troppo impegnato nei "festini privati" per occuparsi della cosa pubblica.

Poi lo strappo di Mara Carfagna (dimissionaria da tutti gli incarichi previa denuncia della metamorfosi del Pdl da partito del popolo a "comitato d'affari"), ricomposto a fatica dal Cavaliere in cambio di un po' più di agibilità politica nella Campania di Cosentino. Poi la lite delle comari tra la stessa Carfagna (accusata di "flirtare" con il nemico futurista Italo Bocchino e immortalata con mms rubato a Montecitorio) e Alessandra Mussolini (debitamente ripagata con un sonoro "vajassa", l'epiteto più classico del basso partenopeo). Poi, ancora l'accusa di Barbara Lario in Berlusconi alla stessa Carfagna, "l'ultima che si deve lamentare", essendo transitata senza colpo ferire "dai Telegatti a ministra", Poi Rosy Mauro, che da vicepresidente del Senato incappa in un clamoroso "fallo di confusione", approvando di testa sua gli emendamenti al ddl Gelmini sull'Università senza farli votare da un emiciclo di Palazzo Madama, nel frattempo trasformato nel solito bivacco di manipoli. Infine, l'ultima rottura: molla anche Stefania Prestigiacomo, ministra dell'Ambiente che dice (anche lei) di "non riconoscersi più nel Partito del popolo delle Libertà". E annuncia (anche lei) il trasloco nel Gruppo Misto, che di questo passo, tra transfughi dell'una e dell'altra parte, diventerà il primo partito del Parlamento italiano.

"Donne sull'orlo di una crisi di nervi". È il minimo che si possa dire, della nutrita e colorita "quota rosa" che anima la vita politica, notturna e diurna, di questo centrodestra. Ma sarebbe un gioco fin troppo facile limitare l'analisi al problema (pur drammaticamente e statisticamente rilevante) della convivenza della componente femminile in un partito machista e sessista come quello berlusconiano. Qui c'è di più. La diaspora "di genere" che si è aperta dentro il Pdl è il sintomo più oggettivo e vistoso della dissoluzione finale di un ciclo politico. Le donne del Capo non obbediscono più, perché sentono che il Capo non comanda più. Il Cavaliere non è uscito da trionfatore, dall'ordalia parlamentare del 14 dicembre. È uscito da sopravvissuto. E non alla testa di un "governo di legislatura", ma alla coda di un "governo della non sfiducia". Un Andreotti qualsiasi, senza l'ambizione del disegno politico che, nel bene o nel male, resse per quasi un biennio quell'esperienza del 1976. Il "divorzio" della Prestigiacomo certifica questo decadimento progressivo, che ci accompagnerà almeno fino all'11 gennaio, quando cadrà l'unico appuntamento che sta davvero a cuore al presidente del Consiglio: la decisione della Consulta sul legittimo impedimento. Fino ad allora, sarà "caos calmo", per usare un'altra metafora cinematografica. Poi, a seconda di quello che decideranno gli ermellini della Corte costituzionale, può succedere di tutto. Chi non ricorda il finale del "Caimano" di Nanni Moretti, se lo vada a riguardare. È ancora cinema. Ma non lo è forse anche quello che stiamo vedendo ogni giorno?

m.giannini@repubblica.it

(22 dicembre 2010)
http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2010/12/22/news/donne_sull_orlo_di_una_crisi_di_nervi-10502765/?ref=HREA-1
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« Risposta #162 inserito:: Dicembre 24, 2010, 06:37:52 pm »

IL COMMENTO

Il delirio del potere

di MASSIMO GIANNINI

COME Charlie Chaplin con un gigantesco mappamondo tra le mani, Silvio Berlusconi contempla un orribile 2010 esaltando gli splendori del pianeta "pacificato" grazie alle sue virtuali capacità taumaturgiche, e non vede le reali miserie politiche ed economiche nelle quali sta precipitando il Paese che governa. Il presidente del Consiglio celebra il rito della conferenza stampa di fine d'anno tra la velleità ridondante del "Grande Dittatore" e la verbosità estenuante di Fidel Castro.

Il mondo gli deve tutto: lui ha "imposto a Obama e Medvedev la sigla del Trattato Start" sulle armi nucleari, lui "ha fermato i carri armati russi a 20 chilometri da Tbilisi", lui ha "suggerito a Gheddafi di dare una casa di proprietà di 25 metri quadrati a ogni libico", lui si occupa "da trent'anni di Medioriente, per sanare la ferita aperta tra israeliani e palestinesi".

Un delirio di onnipotenza imbarazzante. Che svanisce miseramente quando il Cavaliere è costretto suo malgrado a ripiegare lo sguardo sui disastri della povera Italia. Qui emerge un ricettario di impotenza inquietante. Il premier non ha una soluzione da offrire, per nessuno dei problemi che tormentano il Paese. Dalla governabilità politica alla crisi economica. Dal disagio sociale al divario inter-generazionale. Nell'eterna transizione italiana, Berlusconi non sa indicare alcun approdo. Sul piano dell'immagine, l'alluvionale "performance" di Villa Madama ci regala soprattutto questo: un leader non più
capace della "narrazione" che gli ha consentito di stravincere tre elezioni in quindici anni. Demiurgo con il sole in tasca, è ideale per cavalcare i tempi d'oro, ma del tutto inadatto a gestire i tempi di ferro. Parafrasando Ilvo Diamanti: l'uomo della Provvidenza non c'è più, l'uomo dell'Emergenza non c'è mai stato.

Sul piano politico, le quasi tre ore di vaniloquio berlusconiano ci consegnano un premier palesemente indebolito dalla vittoria di Pirro del 14 dicembre. Un premier costretto al puro galleggiamento, di qui all'inizio del 2011. In attesa del buon esito di un'improbabile, ulteriore tornata di affari al "mercatino di gennaio", come si conviene alla truce campagna-acquisti parlamentare avviata alla vigilia del voto sulla fiducia di due settimane fa. In attesa, soprattutto, della sentenza della Consulta sul legittimo impedimento, fissata per l'11 gennaio. Sarà quello il vero snodo della legislatura, perché al dunque, l'unica cosa che sta a cuore al Cavaliere è il suo destino processuale, dal quale non può scindere il suo destino politico. In questa quiete che prepara la tempesta, il Cavaliere navigherà a vista.

La sua lettura del quadro politico attuale e potenziale è un coacervo di contraddizioni. "Con tre voti di maggioranza si può governare", dichiara. Ma al tempo stesso proprio lui evoca i "governi di minoranza" che già guidano altre grandi democrazie, dalla Germania della Merkel all'America di Obama, passando per il Canada. È "ragionevole" aprire un tavolo con il Terzo Polo, annuncia. Ma poi quantifica in appena 325 la quota dei deputati raggiungibili di qui al prossimo mese: una Linea Maginot francamente modesta, e dunque destinata a franare comunque. Considera "irragionevole" il ritorno alle urne, ma poi torna lui stesso ad ipotizzare le elezioni anticipate, "se non dovessimo avere una maggioranza sufficiente in tutti e due i rami del Parlamento".

Tutto è il contrario di tutto. Con una sola certezza: l'orizzonte corto di questo governo e di questa maggioranza. Con un leader che mangia il panettone di Natale, ma non ha munizioni per fronteggiare il Generale Inverno che attanaglia il Paese. Al cronista che gli chiede conto dei dati ufficiali sui freschi record negativi italiani nella disoccupazione, nella competitività e nella pressione fiscale risponde solo "faccia un bagno di ottimismo". E alla domanda "ha in mente qualcosa di specifico" per fronteggiare queste emergenze, replica l'irreplicabile: "No, non ce l'ho". Testualmente. Detto dal capo di governo di un Paese con crescita zero e con i fucili puntati della speculazione internazionale, c'è da rabbrividire.

Come c'è da rabbrividire sul rilancio del "grande partito dei moderati". Al fondo, l'unico messaggio forte di questa kermesse berlusconiana di fine d'anno è l'ennesimo attacco devastante alla magistratura. Un ricatto ai pm, riuniti "in un'associazione per delinquere con finalità eversive": processatemi pure, poi ne risponderete in una commissione parlamentare d'inchiesta. E una minaccia ai giudici della Corte costituzionale, "organo non più di garanzia perché in mano alla sinistra": bocciate pure la legge sul legittimo impedimento, e la vostra sarà "una sentenza politica". Ineccepibile: è la versione berlusconiana della "leale collaborazione tra le istituzioni".
Ma qui, ancora una volta, sta la vera posta in gioco. Il ciclo politico berlusconiano si può chiudere com'era cominciato: con l'ossessione giudiziaria. La fuga dalla responsabilità penale, sanata per sempre dal suffragio popolare. Se l'11 gennaio la Consulta farà saltare questo nesso "sacrale" (e, nella visione tecnicamente totalitaria del premier, fondativo di un nuovo potere non tangibile e non imputabile) salterà il tavolo della politica. Berlusconi imboccherà la via delle elezioni anticipate, privilegiando l'interesse personale a dispetto dell'interesse nazionale. E non farà prigionieri, lanciandosi in una campagna elettorale feroce. Consumata nelle tv, nelle piazze e persino nelle aule di tribunale. È l'ultima scena del Caimano di Nanni Moretti. Speravamo fosse una finzione. Rischia di diventare una realtà.

m.giannini@repubblica. it

(24 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #163 inserito:: Dicembre 30, 2010, 08:54:16 pm »

IL COMMENTO

Il sistema Marchionne

di MASSIMO GIANNINI

Nel Paese degli opposti estremismi, il caso Fiat è diventato un paradigma della Modernità.
Sedicenti leader sindacali lo usano con poca prudenza: una clava da brandire contro i "padroni", rispolverando un conflitto di classe irripetibile e rievocando un clima di fascismo improponibile. Ma sedicenti pensatori liberali lo usano con poca conoscenza: una pietra angolare del riformismo, da lanciare contro tutti i conservatorismi.

Pomigliano e Mirafiori si impongono nel discorso pubblico come luoghi-simbolo di ogni cambiamento, non solo industriale.
Secondo questa chiave di lettura, conservatrici sono quelle migliaia di operai che non si adattano all'idea di veder ridotto il perimetro dei diritti e peggiorato il modo della produzione. Conservatrici sono quelle casamatte della sinistra sindacale che non si rassegnano alla dura legge del mercato globale. Conservatrici sono quelle trincee della sinistra politica che non scorgono nella trasformazione post-fordista della fabbrica l'opportunità di riscrivere il proprio decalogo di valori. Conservatrici sono persino quelle frange della rappresentanza confindustriale, con modelli di relazioni solide nel settore pubblico delle public utilities e collaudate nel settore privato delle piccole imprese, che non capiscono la chance irripetibile offerta dalle vertenze-pilota aperte dal Lingotto.

Chi non accetta la "dottrina Marchionne" è dalla parte sbagliata della Storia. Quasi a prescindere.
E così, per sconfiggere l'ideologia delle vecchie sacche di resistenza corporativa, si adotta un'ideologia uguale e contraria: quella delle nuove avanguardie della "modernizzazione progressiva". Questa impostazione del problema Fiat deflagra in modo potente, e patente, con l'ennesima firma separata prima sugli accordi per Mirafiori e ora sulla riapertura di Pomigliano. Pochi ragionano sui contenuti degli accordi. Molti si preoccupano di giudicare i torti della Fiom che ancora una volta si è sfilata dal tavolo. La si può raccontare come si vuole. Ma in questa vicenda ci sono due dati di fatto, oggettivi e incontrovertibili. Il primo dato: l'accordo di Pomigliano doveva essere un'eccezione non più ripetibile. Si è visto ora a Mirafiori che invece quell'eccezione, dal punto di vista della Fiat, deve diventare la regola. Chi ci sta bene, chi non ci sta è fuori da tutto, dalla rappresentanza e dunque dall'azienda. Il secondo dato: questo accordo è obiettivamente peggiorativo della condizione di lavoro degli operai e della funzione di diritto del sindacato. Si può anche sostenere che non c'erano alternative, e che firmare era la sola opzione consentita, per evitare che la Fiat smobilitasse. Tuttavia chi oggi parla di "svolta storica" abbia il buon senso di riconoscere che si è trattato di una firma su un accordo-capestro basato su un ricatto.
Legittimo, per un'impresa privata. Ma pur sempre ricatto.

Per questo c'è poco da brindare di fronte al passo compiuto dal nostro sistema di relazioni industriali verso la "terra incognita" indicata da Marchionne. Per questo fanno male i modernizzatori, che inneggiano agli accordi separati di Mirafiori e Pomigliano come se si trattasse degli accordi di San Valentino dell'84 (quelli sì, davvero storici) che troncarono il circolo vizioso del "salario variabile indipendente" e salvarono l'Italia dalla vera tassa occulta che falcidia gli stipendi, cioè l'inflazione. La verità è che in questa partita quasi tutti i giocatori usano carte false o fingono di avere carte che non possiedono.

Il giocatore che non ha carte da giocare è il governo.
Berlusconi non è Craxi, e Sacconi non è Visentini. Questo governo non è stato capace di mettere in campo uno straccio di proposta, né sulle misure per la competitività del sistema né sulla legge per la rappresentanza: ha saputo solo gettare benzina ideologica sul fuoco delle polemiche. Il giocatore che non ha carte da giocare è anche il Pd, che sa solo dividersi e non sa capire che l'unico metro per misurare il suo tasso di riformismo sta nel proporre un'agenda alternativa e innovativa per la crescita del Paese, un progetto per l'occupazione, per la produzione del reddito e per la sua redistribuzione. E sta nel riconoscere i diritti, uguali e universali, nel difenderli dove e quando serve, rinunciando a tutto il resto.

Il giocatore che usa carte false è il sindacato.
La Fiom ha le sue colpe, per non aver saputo accettare il confronto con solide controproposte e non aver voluto prendere di petto il drammatico problema dell'assenteismo nelle fabbriche. La Cgil ha le sue ambiguità, per non aver potuto ricondurre a unità la sua dialettica interna, ancora dominata da una logora "centralità metalmeccanica". Ma Cisl e Uil che si gridano "vittoria" spacciano carte false. Bonanni e Angeletti porteranno a lungo sulla coscienza una gestione gregaria dei rapporti con la politica e con la Fiat, e un accordo che per la prima volta riconosce il principio che chi non accetta i suoi contenuti non ha più diritto di rappresentanza sui luoghi di lavoro. C'è poco da festeggiare, quando peggiorano le condizioni di lavoro e si comprimono gli spazi del diritto, a meno che non ci si accontenti di monetizzare tutto questo con 30 euro lordi di aumento mensile.

Il giocatore che bluffa, infine, è Sergio Marchionne.
Ha il grande merito di aver salvato la Fiat quando il gruppo era a un passo dalla bancarotta, e di aver lanciato il gruppo da una proiezione domestica a una dimensione finalmente sovranazionale, grazie all'accordo con Chrysler. Ma ora il "ceo" col golfino e senza patria, l'inafferrabile manager italo-svizzero-canadese che vive "tra le nuvole" (come il George Clooney dell'omonimo film) in transito perenne tra il Lingotto e Auburn Hill, ha il dovere della chiarezza. Verso il Paese e verso i lavoratori. C'è una questione di merito. Nessuno ha ancora capito cosa ci sia nel piano-monstre Fabbrica Italia: quali e dove siano indirizzati i nuovi investimenti, quali e quanti siano i nuovi modelli di auto che il gruppo ha in programmazione, dove e come saranno prodotti. Nessuno ha ancora capito di cosa parla l'azienda quando esalta, giustamente, la via obbligata del recupero di produttività. Con le condizioni pessime nelle quali versa il Sistema-Paese, c'è davvero qualcuno pronto a credere che questa sfida gigantesca si vince riducendo le pause di 10 minuti al giorno, o aumentando gli straordinari di 80 ore l'anno? E' vero che in Germania e in Francia le pause sono già da tempo minori che in Italia. Ma solo un cieco può non vedere che Volkswagen e Renault hanno livelli di produttività giapponesi, macinano utili e aumentano quote di mercato grazie all'innovazione di prodotto e di processo, prima ancora che all'incremento dei tempi di produzione.

C'è poi una questione di metodo.
Dove porta questa volontà pervicace e quasi feroce di mettere fuori gioco la Cgil, con piattaforme divisive che servono solo a spaccare il fronte confederale? Dove porta questa necessità di disdettare il contratto dei meccanici e di uscire da Confindustria? Si dice che Marchionne punti a un modello di relazioni industriali all'americana, dove il parametro è Detroit e non più Torino. Probabilmente è così. Ma questo tradisce una volta di più i contenuti veri del Lodo Fiat-Chrysler. Non è la prima che ha comprato la seconda, com'è sembrato all'inizio. Ma in prospettiva sarà la seconda ad aver comprato la prima, nello schema classico del "reverse take-over".

Uno schema che non prevede compromessi.
Il modello è il capitalismo compassionevole degli Stati Uniti, non più il Welfare universale della Vecchia Europa. Se vi sta bene è così, altrimenti il Lingotto se ne va. Questa è la vera posta in palio del caso Fiat.

Alla faccia della Modernità.

m.gianninir@epubblica. it

(30 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #164 inserito:: Gennaio 02, 2011, 06:48:20 pm »

IL COMMENTO

Generazione tradita

di MASSIMO GIANNINI

Cani randagi nella notte scura, la vita no, non fa paura. Nelle parole di una vecchia canzone c'è la nuova fotografia di tanti giovani di oggi. Vagano irrequieti, a volte arrabbiati, quasi sempre sfiduciati. Abbaiano alla luna. Con un'aggravante: la vita, stavolta, fa davvero paura. Su questa sottile linea d'ombra, sul crinale sospeso tra protesta e proposta per una modesta "riforma" dell'Università, gli Invisibili tra i 18 e i 30 anni sembrano tornati al centro della scena pubblica.

A questa Generazione Tradita il presidente della Repubblica ha dedicato il suo messaggio di Capodanno. Parole non banali e non rituali, quelle di Giorgio Napolitano, che alla politica detta un'Agenda totalmente nuova e diversa. Che serva a restituire un'idea di futuro ai giovani, e quindi un progetto di crescita all'Italia intera. Che sia scritta fuori "dall'abituale frastuono e da ogni calcolo tattico". Ma proprio per questo, l'Agenda del Quirinale non ha chance per trasformarsi in un'Agenda di governo.

La diagnosi del Capo dello Stato è incontrovertibile. Il profondo malessere delle nuove generazioni. Il distacco abissale e allarmante tra la politica, le istituzioni e la società civile. La mancanza di opportunità di lavoro, senza le quali "la democrazia è in scacco". La disoccupazione che dilaga soprattutto tra i ragazzi e le donne, nella colpevole indifferenza dell'establishment, quando ci sarebbe l'urgenza di trasformarla invece "nell'assillo comune dell'intera nazione". Il dovere di estinguere
l'enorme cambiale del debito pubblico che nonni e padri hanno scaricato all'incasso di figli e nipoti, macchiandosi di una "colpa storica e morale". L'imperativo di tagliare il nodo delle disuguaglianze del reddito e della ricchezza, che hanno acuito "l'impoverimento di ceti operai e di ceti medi, specie nelle famiglie con più figli". La necessità che lo Stato dirotti risorse su scuola, formazione e cultura, razionalizzando la spesa corrente e rendendo "operante per tutti il dovere del pagamento delle imposte". L'opportunità che le imprese investano in ricerca e innovazione, perché "passa anche di qui l'indispensabile elevamento della produttività del lavoro". Sono dati di fatto drammatici. Interrogano la responsabilità delle classi dirigenti del Paese.

Ma chi raccoglierà concretamente la sfida, al di là degli encomi solenni e rigorosamente bipartisan che sempre accompagnano i moniti del presidente della Repubblica? Berlusconi, occupato a comprare qualche deputato in vista della ripresa dei lavori parlamentari e a minacciare qualche giudice della Consulta in vista della sentenza sul legittimo impedimento? Tremonti, impegnato a non far uscire un solo euro dal bilancio pubblico e a coltivare sogni para-leghisti da primo ministro in caso di collasso del berlusconismo? Marchionne, abituato a "volare alto" su queste miserie italiane e a misurare la produttività di un'azienda solo con il cronometro dei turni alla catena di montaggio? Oppure, sul fronte opposto. Fini e Casini, ingaggiati in un Terzo Polo che li costringe ad allearsi ma anche a marcarsi a vicenda? Bersani e Vendola, condannati a convivere e a confliggere, per impedirsi l'un l'altro di lanciare un'opa sull'intera sinistra? Bonanni e Angeletti, ormai consegnati mani e piedi a un "sindacalismo di maggioranza" dove conta solo la firma purchessia su un accordo, meglio se separato? La Camusso, obbligata prima o poi a una resa dei conti con la frangia interna del "pansindacalismo metalmeccanico"?

Nell'Italia politica di oggi, purtroppo, non si vedono le condizioni per raccogliere la lezione civile impartita da Napolitano. Anche il Capo dello Stato rischia di abbaiare alla luna.
Già a maggio il governatore della Banca d'Italia Draghi aveva avvisato: "I giovani sono le vere vittime di questa crisi". La disoccupazione nella fascia di età tra i 15 e i 29 anni è pari al 24,7% a livello nazionale e al 35,2% nel Sud. Quasi il 60% dei disoccupati totali ha meno di 34 anni. Le assunzioni nel 2009 sono diminuite del 30%, mentre quelle andate in porto sono regolate quasi tutte da contratti temporanei. Ma intanto, come avverte Pierluigi Celli nel suo ultimo libro, il 90% dei licenziamenti degli ultimi due anni ha riguardato contratti a tempo determinato. Ciò significa che i giovani pagano due volte il costo della flessibilità: in entrata (hanno solo contratti a tempo) e in uscita (sono i primi a perdere il posto).

La pubblica istruzione non aiuta. Scuola e università, con o senza legge Gelmini, sono e continueranno ad essere come li descriveva Alberto Ronchey quasi trent'anni fa: parcheggi antropologici. I nostri laureati sotto i 30 anni hanno un tasso di occupazione inferiore del 20% alla media europea. Le retribuzioni medie, in ingresso, sono inferiori di oltre il 50%. Tutto questo è noto da anni. Eppure la politica non ha mosso un dito. Dobbiamo solo fare "un bel bagno di ottimismo", come ha proposto il Cavaliere nella sua indecente conferenza di fine d'anno. E invece ha di nuovo ragione Napolitano, quando lo avverte che "non possiamo consentirci il lusso di discorsi rassicuranti e di rappresentazioni convenzionali del nostro lieto vivere collettivo".

Non lo ascolteranno. Perché al dunque, a dispetto di una certa vulgata "liberale" terzista e a tratti fiancheggiatrice di questo centrodestra, sono loro, i governanti di oggi, i primi veri "conservatori". Sono loro che in due anni e mezzo non hanno cambiato di una virgola la "narrazione" fasulla intorno a questo Paese. I giovani scendono in piazza. Qualche delinquente indulge alla violenza, macchiando un intero movimento ed offrendo nuovi alibi al vecchio Potere. Ma non c'è un assedio al Palazzo d'Inverno, non c'è una piazza che urla e si oppone alle dure e indispensabili "cure" somministrate al Paese. Chi protesta, chi sta male, chi è inquieto, lo fa per la ragione contraria, e cioè perché da troppo tempo non si vede una sola riforma.
"Gli abbiamo intossicato il futuro", è l'autocritica dolente che Zygmunt Bauman ha formulato di fronte ai disagi dei giovani d'oggi. "Tornatevene a studiare, invece di tirare le molotov", è la critica sprezzante con cui li ha liquidati Berlusconi, pochi giorni prima che Napolitano li ricevesse sul Colle.

Tra queste due "visioni" c'è un abisso spaventoso. L'Italia ci sta precipitando dentro.

(02 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
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