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Autore Discussione: Dario Di VICO.  (Letto 113265 volte)
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« Risposta #210 inserito:: Luglio 12, 2016, 11:59:23 am »

L’inchiesta
La generazione rebus dei giovani «Né né»
Quelli che per le statistiche non lavorano e non studiano.
Dalle Onlus alle ripetizioni ecco in che cosa sono impegnati

Di Dario Di Vico

Ma cosa fanno veramente i Neet? Sono davvero solo dei forzati del divano oppure anche tra di loro passa una linea di ulteriore disuguaglianza? Una divisione che separa gli «esogeni», quelli che sono impegnati ogni giorno in un duro corpo a corpo con un mercato del lavoro che non vuole includerli, dagli «endogeni», gli scoraggiati che si sentono drammaticamente inadeguati e sono portati ad arretrare davanti a qualsiasi sfida? L'Italia ha il triste primato europeo dei giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non sono impegnati in un corso di formazione. Parte di loro - un milione su 2,3 totali - compare alla voce «disoccupati» ed è disponibile dunque a iniziare un lavoro nelle successive due settimane. Sono 700 mila - sempre secondo le classificazioni statistiche - «le forze di lavoro potenziali», le persone che nelle ultime 4 settimane non hanno cercato lavoro ma sono mobilitabili a breve, infine ci sono gli «inattivi totali» che raggiungono quota 600 mila. Dietro questi ultimi c’è quasi sempre un percorso accidentato di studi con bocciature e interruzioni, un basso livello di autostima e una forte dipendenza dal contesto familiare di provenienza. Ma per calibrare gli interventi e non limitarsi a invocare misure miracolose è forse necessario capire da dentro il fenomeno Neet (in Italia «né né»), monitorare i loro comportamenti, le piccole mosse che maturano nel quotidiano, sapere come e dove passano la giornata. Il programma di Garanzia Giovani avrebbe dovuto servire anche a questo ma purtroppo non è stato così. Eppure una strategia d’attacco bisognerà darsela in tempi brevi perché non possiamo permetterci di bruciare quasi un’intera generazione. Un giorno qualcuno, legittimamente, ci chiederà dove eravamo quando il Paese della Bellezza dilapidava una quantità così rilevante di capitale umano.

Cosa fanno
In aiuto alla nostra ricognizione viene una delle poche ricerche («Ghost») su cosa fanno i Neet condotta nel 2015 da WeWorld, una Onlus impegnata nel secondo welfare. L’indagine è articolata su più campioni, integrata da interviste individuali a giovani tra i 15 e i 29 anni e ci conferma il peso delle condizioni di disuguaglianza a monte che determinano la caduta in una trappola. In più ci aiuta a focalizzare una porzione interessante dei Neet, i volontari. È chiaro che la scelta di fare volontariato (condivisa in Italia da un milione di coetanei, maschi e femmine alla pari) nasce come opzione di ripiego ma è pur sempre una scelta sorretta da un robusta rete valoriale e dall’incoraggiamento dei genitori che condividono/supportano. È un antidoto al sentirsi Neet e identifica una tribù di giovani che come dicono loro stessi «non si lascia andare» (vedi intervista 1). Anzi ha persino maturato un atteggiamento critico nei confronti degli altri giovani a cui rimprovera un atteggiamento passivo, «una mancanza di progettualità».

Senso di esclusione
I volontari seppur non contrattualizzati, non si considerano e non si sentono parcheggiati in una Onlus e quando devono parlare della loro esperienza usano la parola «lavoro». È evidente dai racconti che avere un ambito di socializzazione serve a mitigare il senso di esclusione ma l’unica istituzione veramente amica è la famiglia. Il 92% pensa che abbia un ruolo positivo e solo l’8% le rimprovera la condizione di Neet «perché non ascolta i bisogni dei giovani». Volontari o non, la fiducia nello Stato e nelle istituzioni è al 19%, nei politici al 14% e la prima parola abbinata ai partiti è «corruzione». I volontari, pur sorretti da una forte identità, sono pessimisti sul futuro, non vedono maturare miglioramenti a breve, almeno per tre anni. Del resto è la prima grande crisi che vivono, non hanno in mente raffronti. Temono però che la recessione favorisca il dilagare di raccomandazioni e precariato e allarghi l’area del lavoro nero. Sono coscienti che la loro attività nelle Onlus spesso non è coerente con la formazione ricevuta ma confidano che possa aggiungere skill al proprio curriculum e in questa convinzione sono aiutati dall’opinione di molti reclutatori. Che sostengono come la gestione di attività complesse, e spesso caratterizzate da piccole e grandi emergenze, faccia maturare in fretta.

Una vera tribù
La seconda tribù dei Neet che seppur con qualche approssimazione si può intravedere è quella degli sportivi che a sua volta ospita molte figure, dal frequentatore di palestre al tifoso ultrà. Lo sportivo vive in un mondo in cui i valori della competizione più dura riempiono la giornata e diventano una piccola filosofia di vita. Del resto il mondo dello sport ha giornali, tv, produce lessico, genera meccanismi di solidarietà che creano attorno al nostro Neet un effetto-comunità ed evitano la ghettizzazione. Sia chiaro però: mentre il volontario interpreta tutto nella chiave del «noi», lo sportivo si trova più a suo agio usando la prima persona singolare. Anche loro non si sentono Neet perché hanno una vita attiva e anche solo essere legati a una pratica continuativa, o meglio far parte di un club, aiuta a non sentirsi fantasmi. A Torino è nato negli anni scorsi a cura di Action Aid un programma-pilota di recupero dei Neet (vedi intervista 2) centrato sull’attività sportiva che insegna ad affrontare «vittorie e sconfitte e attraverso lo sport dà la forza per riprendere gli studi o cercare lavoro». Dentro l’ampia tribù troviamo figure diverse: il mistico del fitness, il patito del calcetto, l’atleta tesserato convinto di poter diventare un campione, il tifoso organizzato. È chiaro che a differenza dei volontari queste esperienze non si rivelano professionalizzanti, non aggiungono molto al curriculum. Per finanziare i suoi corsi, attività e tornei il Neet attinge alla paghetta dei genitori (che si chiama così anche nell’era di Facebook) e finisce per prolungare la condizione adolescenziale. È vero che le palestre (in Italia sono 8.500) fanno a gara nell’offrire abbonamenti a prezzi stracciati, mentre nell’ambito del tifo organizzato i gruppi giovanili spesso operano come piccole ditte, ricevono ingaggi per servizi e piccoli lavori che ridistribuiscono al loro interno per finanziare trasferte, ingressi allo stadio e coreografie.

Colpa dell’iperprotezione
Non va nascosto che in qualche caso questo tipo di attività è monitorato dalle Questure, secondo le quali nel tempo si sono create zone grigie (la più alta quota di tifosi sottoposti a provvedimenti restrittivi — il 55% — è nell’età 18-30). È difficile che lo sportivo trovi un lavoro stabile nel settore che lo appassiona (a meno che non sfondi) e quindi più del volontario questa si presta a essere una condizione di passaggio. Ma il rapporto di dipendenza con la famiglia che lo sportivo perpetua è tra i motivi che fanno dire al demografo Alessandro Rosina, nel suo libro dedicato ai Neet, come «l’iperprotezione tende a mantenere immaturi più a lungo i figli, mentre nei Paesi nord-europei la spinta all’autonomia subito dopo i 20 anni porta a confrontarsi prima con la realtà circostante». Risultato: i giovani italiani sono nella maggior parte dei casi «passivamente dipendenti dai genitori» e «disorientati sul proprio futuro».

Arrangiarsi coi piccoli lavori
La terza tribù di Neet che si può individuare è quella di chi si arrangia con i piccoli lavori. «Non studio ma con le promozioni lavoricchio» dice Anna, torinese. Aggiunge Silvia, una coetanea milanese: «Ho studiato come estetista, ho fatto periodi di stage in centri benessere, ho accudito bambini e ho fatto persino la donna delle pulizie». La ricerca Ghost ci dice che l’80% degli intervistati ha avuto esperienze intermittenti, nella maggior parte dei casi un ingaggio nella ristorazione e nel commercio come cameriere, commessa, fattorino per consegne a domicilio, facchinaggio leggero e volantinaggio, dogsitting. Un 20% ha già fatto l’operaio per brevi periodi. Il 44% sottolinea che l’interruzione del rapporto seppur precario di lavoro è stata subita, loro avrebbero continuato. E infatti ci tengono a smentire che i Neet stiano a vegetare davanti alla tv, i media li presentano come fannulloni e invece «noi ci sbattiamo da mattina a sera, siamo attivi». Nella grande tribù dei lavoretti un comparto importante e per certi versi specializzato è quello femminile (vedi intervista 3). L’occupazione prevalente è la babysitter, figura richiestissima, dotata di una propria identità sociale e abituata a fare i conti con il passaparola della reputazione. Nelle grandi città le stesse ragazze fanno anche spesso le hostess, attività più stressante ma pagata tramite i voucher. In definitiva la tribù dei lavoretti entra e esce di continuo dal mercato del lavoro, non riesce a stabilizzare un proprio profilo professionale e stenta a includere nel curriculum la maggior parte delle esperienze. La famiglia rimane sullo sfondo, si comporta come un ammortizzatore sociale nelle fasi di totale inoccupazione, segue con trepidazione il rinvio delle scelte di vita della prole. Nel 55% dei casi i genitori restano decisivi per scegliere il percorso di studio e sono anche il principale veicolo per cercare lavoro grazie alle conoscenze (al 32%, superando Internet al 21% e la consegna del curriculum vitae di persona al 14%). Commenta Stefano Scabbio, amministratore delegato di Manpower: «Bisogna distinguere tra lavoro intermittente e un lavoretto che manca di sviluppo professionale, è legato al breve termine e serve solo al guadagno temporaneo. Ai ragazzi per crescere servirebbe una specializzazione orizzontale e una formazione rivolta al digitale e saltando di qua e di là non si ottengono».

I laureati
Una quarta tribù dei Neet è quella dei già laureati, potenzialmente più occupabili ma ingabbiati anche loro. I numeri dicono che su 10 giovani Neet uno è laureato, 5 sono diplomati e 4 hanno al massimo la licenza media. Lo riporta nel suo libro Rosina citando una ricerca Oecd e aggiunge che il rischio di restare nella trappola dell’inattività volontaria è superiore per chi ha basse competenze. I dati dell’ultimo Rapporto Istat dicono che un laureato impiega in media 36 mesi nel trovare lavoro, ma se è in possesso di un titolo umanistico l’attesa è più lunga. Un laureato dunque transita nella condizione di Neet quasi a sua insaputa e finisce per alimentare il mercato delle ripetizioni a studenti più giovani (vedi intervista 4). Su 100 docenti pomeridiani 30 sono per lo più freschi laureati. Il 90% dei ricavi non è dichiarato al Fisco e vale 800 milioni di euro l’anno, secondo stime della Fondazione Einaudi. Un laureato disoccupato è dunque automaticamente un Neet al punto che Ivano Dionigi, ex rettore e ora presidente di Almalaurea, punta l’indice verso il sistema del 3+2, le lauree triennali deboli viste come concausa dell’allargarsi del fenomeno. E i dati gli danno ragione: i laureati disoccupati sono il 20,6% con picchi di oltre il 30% nelle specializzazioni umanistiche.

La trappola del divano
Il minimo comun denominatore delle tribù di cui abbiamo parlato è una sorta di resilienza all’apatia, il tentativo di uscire dalla trappola del divano. Ma nel grande contenitore della disuguaglianza giovanile c’è un girone ancor più svantaggiato. È quello dei Neet endogeni, come li chiamano gli psicologi del lavoro, giovani che non si integrano a prescindere dalle condizioni esterne del mercato del lavoro. Non si sentono adeguati ai ritmi della vita contemporanea, hanno la tendenza ad auto-isolarsi e non emanciparsi dalla famiglia, sono demotivati sul futuro. È lo zoccolo duro dell’apartheid generazionale e le catene che li hanno bloccati rimandano quasi sempre all’eredità negativa del contesto familiare: una storia di immigrazione, un basso livello di scolarizzazione, vivere in territori marginali, genitori disoccupati o anche solo divorziati. Nel mondo che esalta l’innovazione, che registra il trionfo del digitale, che si prepara a governare l’intelligenza artificiale loro rappresentano la più desolata e mal illuminata delle periferie.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
9 luglio 2016 (modifica il 10 luglio 2016 | 09:00)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/cronache/16_luglio_10/i-giovani-ne-ne-5d836602-4615-11e6-be0f-475f9043ad28.shtml
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« Risposta #211 inserito:: Settembre 06, 2016, 03:59:14 pm »

Crescita, tasse
La realtà dei numeri e gli impegni necessari

Di Dario Di Vico

Ieri abbiamo avuto due notizie, una cattiva e una buona. La prima è venuta dall’Istat che comunicando il dato definitivo del Pil del secondo trimestre 2016 ha purtroppo confermato le sue stime: crescita zero. La seconda è arrivata da Cernobbio dove il premier Matteo Renzi davanti alla platea di imprenditori ed economisti del tradizionale seminario Ambrosetti ha ribadito che abbasserà le tasse. Il verdetto sul Pil ha spiazzato il ministero dell’Economia che con scelta singolare e avventata aveva predetto solo tre giorni fa che la pallina non si sarebbe fermata sullo zero.

Tirare l’Istat per la giacca è sbagliato dal punto di vista istituzionale e poi evidentemente non porta nemmeno fortuna. Onestamente un decimale non vale una guerra di comunicazione e alle prossime tornate il governo farà bene a non trasformare di nuovo i suoi economisti in aruspici. È vero che l’Istat ha anche corretto al rialzo (da 0,7 a 0,8 per cento) il dato del Pil anno su anno ma è il risultato di un arrotondamento tecnico legato alla destagionalizzazione e non ci dice nulla di nuovo sulla salute dell’economia reale. In parole povere saremo costretti ad attendere con il fiato sospeso anche i verdetti dei prossimi trimestri quando pur partendo da una crescita acquisita dello 0,7 per cento non è sicuro che riusciremo a raggiungere la fatidica soglia dell’1 per cento.

Del resto le immatricolazioni di auto non viaggiano più allo stesso ritmo dei semestri precedenti, i consumi si sono fermati di nuovo, le costruzioni non sono ripartite, l’indice di fiducia di imprese e famiglie è calato. E in più i venti neoprotezionistici che scuotono il globo non consentono ottimismo su un nuovo poderoso contributo delle esportazioni al Pil. Restano da vagliare l’andamento della produzione industriale e il contributo della stagione turistica in corso, sulla quale si fa molto affidamento in virtù dello spostamento delle destinazioni dalla Tunisia e dall’Egitto verso i nostri lidi. A metà del mese di dicembre sapremo. Più in generale comunque non è certo tempo di illusioni, è chiaro a tutti che il dopo crisi si sta rivelando una bestia assai difficile da domare. I vecchi modelli interpretativi non funzionano più e il ministro Pier Carlo Padoan, sempre a Cernobbio, da economista con una robusta esperienza al Fmi e all’Ocse ha sottolineato che parlare di stagnazione secolare sarà un’esagerazione ma il malessere dell’economia planetaria è assai profondo. Ascoltando ieri in riva al lago di Como i guru delle previsioni, infatti, si è avuta la sensazione che anche loro vivano un momento di transizione: capiscono di dover adeguare la cassetta degli attrezzi, ancora però non ci sono riusciti e finiscono per usare quelli vecchi.

Torniamo però alla bella notizia. Renzi in un efficace botta e risposta con il pubblico ha affermato che, pur consapevole di dare un dispiacere a molti suoi compagni di partito «che vivono su Marte», abbasserà il tax rate ad iniziare dall’Ires, come del resto già previsto dalla scorsa legge di Stabilità. La domanda che sorge immediata è se/come il governo riuscirà a trovare le risorse per tener fede a un impegno che va considerato assolutamente corretto. Il ministro Padoan ha ricordato che 15 miliardi dovranno andare prioritariamente a evitare che scattino le clausole di salvaguardia e maturi addirittura la beffa sotto forma di nuovi aumenti tributari. Per non finire quindi in un cul de sac l’unica strada che si para davanti a Renzi è accompagnare la scelta di ridurre le tasse con il rilancio delle riforme strutturali. Un’abbinata che Bruxelles in passato ha sempre apprezzato.

2 settembre 2016 (modifica il 2 settembre 2016 | 22:41)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_settembre_03/realta-numeri-4a6555b8-714d-11e6-82b3-437d6c137c18.shtml
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« Risposta #212 inserito:: Novembre 08, 2016, 11:11:20 pm »

Questa Italia

Case, auto e cibo: così il ceto medio si sta salvando con l’economia condivisa
L’affitto degli appartamenti con le piattaforme Internet integra il reddito e fa nascere piccole imprese L’utilizzo Si calcola che il 17% degli italiani usi una piattaforma digitale di condivisione (Airbnb, BlaBlaCar, Gnammo e il car sharing) e il successo è crescente La funzione La sharing economy favorisce il ceto medio che ha bisogno di integrare il proprio reddito e coltivare la possibilità di diventare piccolo imprenditore

Di Dario Di Vico

Iniziativa di Airbnb durante il Salone del mobile: privati accolgono visitatori nelle proprie case. Nella foto Claudia Emilitri con ospiti francesi in via Meda 3. Airbnb è il sito di condivisione case con più utenti al mondo

Il primo sciopero dei rider, i fattorini torinesi della piattaforma di consegne a domicilio Foodora, ha già avuto l’effetto di rilanciare sulla Rete la discussione sugli effetti della sharing economy sul mercato del lavoro italiano, discussione finora vissuta quasi esclusivamente sul conflitto tra Uber e i tassisti. Si calcola che il 17% degli italiani usi una piattaforma digitale di condivisione (Airbnb, BlaBlaCar, Gnammo e il car sharing) e il successo è crescente avendo la sharing economy saputo coniugare l’elemento razionale (l’utilizzo ottimale delle risorse) con quello valoriale (la gratificazione di concorrere a qualcosa di socialmente utile). E abbia di conseguenza coinvolto oltre al popolo del politicamente corretto anche una frazione crescente del ceto medio non riflessivo. Per di più è riuscita a mettere d’accordo culture politiche assai diverse tra loro, si trovano tifosi della sharing tra i liberali ortodossi come tra i sostenitori della teoria dei beni comuni. Spiega però Ivana Pais, sociologa dell’Università Cattolica di Milano: «Attenzione a non fare confusione. Il caso di Foodora non rientra nella sharing, è una prestazione a chiamata e quindi più tradizionale. A fare il prezzo non è chi presta il servizio ma l’azienda-madre e può accadere che si parta con compensi alti per i fattorini e prezzi bassi per i clienti e poi una volta conquistato lo spazio di mercato si cambino le regole per aumentare il profitto».

La verità è che la sharing economy favorisce il ceto medio che ha bisogno di integrare il proprio reddito e coltivare la possibilità di diventare piccolo imprenditore, quanto al lavoro dipendente invece crea quelli che ci siamo abituati a chiamare lavoretti - negli Usa la chiamano gigeconomy - che dovrebbero essere retribuiti con equità e non con meccanismi da economia sommersa.
Spiega Marta Mainieri, fondatrice di Collaboriamo e organizzatrice della due giorni di Sharitaly in programma a Milano per metà novembre: «La sharing si confà alla perfezione al ceto medio: per avere un ruolo attivo bisogna possedere un bene e se si tratta della casa è più facile metterlo a reddito. Non averla equivale a rimanere senza il biglietto d’ingresso». Questo spiega come la piattaforma che ha più successo in Italia - e va in soccorso del ceto medio - è Airbnb, che affitta le abitazioni e oggi coinvolge almeno 100 mila host (nel gergo sono le persone che mettono a disposizione la loro prima o seconda casa). A proposito di beni posseduti gli inglesi noleggiano persino i gioielli o il posto macchina e la piattaforma Skillshare ha provato a mettere sul mercato della condivisione le competenze intellettuali (skill).

Il caso Airbnb
Avendo le proteste dei tassisti bloccato Uber, Airbnb resta il vero caso di studio monitorato con attenzione anche dalle associazioni degli albergatori che non mancano di avanzare dubbi sulla reale trasparenza della piattaforma. I dati nazionali ci dicono che i 100 mila host di cui abbiamo parlato hanno percepito in media nel 2015 un bonus di 2.300 euro ciascuno. Ancora poco, ma si tratta di una media perché il grosso delle transazioni si ha in quattro città (Venezia, Firenze, Roma e Milano) che richiamano turisti per l’intero anno e in questi casi l’integrazione di reddito è molto superiore. In riva all’Arno siamo sui 6.300 euro annuali e nella Capitale sui 5.500. Si calcola che in media un host dia vita a tre annunci di affitto di spazi diversi, di conseguenza è facile che in futuro si crei una polarizzazione: da una parte chi del noleggio-casa ha fatto un’attività costante e chi invece si è fermato all’integrazione saltuaria di reddito. Per ora i dati sulle fasce di ricchezza degli host sono equilibrati: il 27% gode già di un reddito annuo superiore ai 33 mila euro ma il 24% ha meno di 13.600 euro. «Il reddito generato grazie alla nostra piattaforma aiuta gli host italiani a far quadrare i conti e a rimanere nelle case che amano. Il reddito di molti di loro è inferiore al reddito medio in Italia» dicono ad Airbnb. E il caso più citato è quello di Milano dove c’è la maggiore estensione del numero di host e nella settimana del Salone del Mobile risulta si affittino anche case molto lontane dal centro.


Un reddito extra per il ceto medio
Così mentre le élites rimpiangono la vecchia cetomedizzazione del Paese (che prima disprezzavano) la sharing economy in qualche modo la ricrea. Qualche host si è trasformato addirittura in un piccolo giocatore di Borsa che aumenta il prezzo dell’affitto in corrispondenza del mutamento della domanda, vedi sempre il caso milanese di Expo e delle settimane della moda. Altri sono diventati dei piccoli albergatori, capaci di studiare i movimenti della concorrenza, curare il marketing e la soddisfazione del cliente, investire sul look della casa: tutto con l’obiettivo di riempire per un maggior numero di giorni possibili l’anno. Teniamo presente che la differenza di guadagno tra affittare l’abitazione a un inquilino fisso come da tradizione e invece puntare sulla rotazione via sharing può essere del 100% a favore di quest’ultima anche con un’occupazione dell’appartamento di 20 giorni su 30 al mese. Il fenomeno non è solo italiano e il «Financial Times» ha dedicato qualche mese fa un lungo articolo all’extra-reddito immobiliare del ceto medio inglese. E comunque per avere un’idea delle iniziative sorte attorno alle piattaforme di affitto (non c’è solo Airbnb che è la più nota) a Firenze si è formata Ospitalità Alternativa un’associazione di piccoli gestori, ma soprattutto sono nate attività legate all’indotto del noleggio di abitazioni. Servizi di pulizia, servizi di consigli di arredamento, portierato. A Milano è spuntato un gruppo Facebook curato da Carlotta Bianchini che serve a scambiarsi le informazioni su aspetti fiscali, pratiche burocratiche, rapporti con le autorità amministrative e di polizia. «Vogliamo evitare che si allarghi la piaga degli abusivi che già esistono e con prezzi bassissimi in realtà eludono Fisco e controlli» dice Bianchini. C’è anche un’altra variante, di tipo generazionale: i genitori che danno in gestione le loro seconde case ai figli perché si responsabilizzino, inizino un’attività o comunque facciano apprendistato organizzativo. Le idee di business non mancano e sta nascendo anche un filone di turismo sanitario con collegata offerta di servizi complementari capace di fornire infermieri h24.

Il rischio «professionalizzazione»

Sarebbe un errore però ricondurre tutta la sharing ad unum vuoi perché si tratta di esperienze recenti e in rapida trasformazione (e quindi difficili da normare con un legge passepartout) vuoi anche perché i modelli di business delle piattaforme sono assai diversi tra loro e risentono delle caratteristiche del settore dove operano e anche delle differenze di carattere culturale tra americani ed europei. «La grande divaricazione che nel mondo della sharing si è creata è tra lavoro professionalizzato e prestazione occasionale e le piattaforme si caratterizzano anche per la scelta a monte che hanno fatto» spiega la sociologa Pais. Ad esempio BlaBlaCar, la piattaforma francese che organizza i viaggi in condivisione e ha riportato all’onore delle cronache il vecchio autostop, sta ripulendo gli elenchi dei suoi autisti per evitare che qualcuno di loro, insistendo su una determinata tratta, si costruisca un business. Al contrario di Airbnb e di come avrebbe agito Uber. La piattaforma Gnammo, che consente di organizzare cene in casa propria facendo pagare gli ospiti, ha messo addirittura un limite ai ricavi di 5 mila euro annui, assai basso, proprio per evitare la professionalizzazione spinta. «Sono esperienze sicuramente più vicine alla narrazione iniziale della sharing - sostiene Mainieri -. Qui diventa centrale non tanto l’incremento di reddito o la professionalizzazione ma il risparmio e il confronto culturale. Viaggiando insieme in auto si mischiano comunità diverse e in una fase storica in cui la diffidenza dell’altro cresce il fatto che si accetti di stare ore in macchina con dei perfetti sconosciuti è un segno di grande apertura mentale». Resta, infine, il tema della tutela sindacale per chi lavora nelle piattaforme a chiamata come Foodora. «Lo sviluppo della sharing pone anche al sindacato una serie di domande nuove - risponde Massimo Bonini, giovane segretario generale della Cgil di Milano -. Se hai la seconda casa e la metti su Airbnb è integrazione del reddito, l’autista di Uber invece fa un vero lavoro. Per il resto bisogna capire bene quale sia il rapporto di lavoro tra l’azienda di consegna del cibo e i fattorini. La sharing non c’entra, bisogna più semplicemente accertare se sono rispettate le leggi e se esiste un contratto di qualsiasi natura esso sia».

(2 - continua)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
10 ottobre 2016 (modifica il 10 ottobre 2016 | 10:22)

Da -  http://www.corriere.it/economia/16_ottobre_10/case-auto-cibo-cosi-ceto-medio-si-sta-salvando-l-economia-condivisa-e54116d6-8eb6-11e6-85bd-f14ac05199eb.shtml
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« Risposta #213 inserito:: Marzo 04, 2018, 08:51:36 pm »

La democrazia che dobbiamo reinventare

Di Dario Di Vico

Svegliandoci questa mattina possiamo esser lieti almeno di una cosa, di esserci lasciati alle spalle una campagna elettorale così vacua e irritante.
La parola passa agli elettori e mai come questa volta non sappiamo quale sarà l’indicazione degli italiani.
Sappiamo che il Rosatellum è una legge con cui nessuno rischia di vincere o di scomparire, è una fotografia degli umori della nazione e niente di più.
Le manca quel valore aggiunto che dovrebbe consistere nel trasformare il sentimento popolare in un’ipotesi di maggioranza parlamentare e di conseguenza in un’indicazione di governo.
Queste critiche per quanto possano essere radicali non devono però mettere in ombra la forza della democrazia e del metodo della rappresentanza politica.
Quale che sia il risultato di oggi dobbiamo tenere a mente che stiamo parlando di valori di lungo periodo, gli stessi che ci hanno assicurato negli anni un esteso ciclo di pace, prosperità, giustizia sociale, crescita della società civile e che hanno permesso a un Paese come l’Italia, pur di piccole dimensioni, di iscriversi nel ristretto rango delle nazioni che guidano il pianeta.
Questo riconoscimento, e l’implicito invito a partecipare alle elezioni e a non accrescere il già largo campo degli astenuti, non vuol suonare come elogio dello status quo.
La democrazia, per come dovremmo intenderla, è materia viva e ci rifiutiamo di considerarla un fossile.
Gli anglosassoni usano con una certa frequenza l’espressione reinventing per segnare, anche in maniera volontaristica, il passaggio da una fase all’altra.
Noi — più disincantati — siamo molto parchi nell’utilizzarla ma è questo il compito che ci attende, quasi a prescindere dall’esito del voto.
Chiunque vinca e chiunque perda.
Il guaio è che oggi sembra mancarci una classe dirigente — non solo politica — all’altezza del compito, capace di interpretare l’umore della società e fornire delle risposte adeguate.
Questo deficit viene dalla somma di tante debolezze: potremmo partire dalle carenze della scuola e proseguire con la mancanza di luoghi di alta formazione, potremmo parlare di una storica tendenza ad ostacolare concorrenza/ricambio o dell’inadeguatezza del nostro capitalismo e persino dei peccati del giornalismo ma alla fine dovremmo concludere che l’ostacolo che abbiamo davanti a noi non è la protervia di una casta. Caso mai il pericolo è rappresentato dal vuoto.
Votare oggi è quindi reinvestire sulla democrazia e sicuramente non in chiave retorica.
Non è la nostalgia che ci spinge ma il desiderio di lasciare qualcosa in cui le nuove generazioni possano riconoscersi.
Per farlo, con qualche speranza di successo, dobbiamo partire dalle profonde trasformazioni che l’hanno interessata e in qualche maniera depotenziata.
I mercati politici restano nazionali mentre le dinamiche che veramente contano — dall’immigrazione alla diffusione delle tecnologie, dai flussi finanziari a quelli commerciali — sono globali.
Per di più a fronte di sistemi di rappresentanza dell’Occidente che appaiono rissosi e inconcludenti, i regimi autoritari alla Putin ed ora alla Xi Jinping appaiono più efficienti e persino più moderni.
Per tentare di rispondere a queste sfide le classi dirigenti dell’Ovest, ma forse noi tutti, sono/siamo chiamati a un doppio compito: tenere alta la bandiera dell’apertura delle frontiere, dei mercati, delle menti e al tempo stesso ridurre le distanze con le periferie dello scontento.
Finora quest’abbinata non è assicurata per nessuno, compreso Macron, e per questo motivo abbiamo la sensazione di essere alla vigilia di un terremoto. Vedremo.
E come è compito dell’informazione racconteremo.
E chiunque vinca non cambieremo le domande.


http://www.lastampa.it/2018/03/04/italia/speciali/elezioni/2018
« Ultima modifica: Marzo 04, 2018, 08:58:29 pm da Arlecchino » Registrato
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« Risposta #214 inserito:: Marzo 06, 2018, 02:14:42 pm »

La democrazia che dobbiamo reinventare

Di Dario Di Vico

Svegliandoci questa mattina possiamo esser lieti almeno di una cosa, di esserci lasciati alle spalle una campagna elettorale così vacua e irritante.
La parola passa agli elettori e mai come questa volta non sappiamo quale sarà l’indicazione degli italiani.
Sappiamo che il Rosatellum è una legge con cui nessuno rischia di vincere o di scomparire, è una fotografia degli umori della nazione e niente di più.
Le manca quel valore aggiunto che dovrebbe consistere nel trasformare il sentimento popolare in un’ipotesi di maggioranza parlamentare e di conseguenza in un’indicazione di governo.
Queste critiche per quanto possano essere radicali non devono però mettere in ombra la forza della democrazia e del metodo della rappresentanza politica.
Quale che sia il risultato di oggi dobbiamo tenere a mente che stiamo parlando di valori di lungo periodo, gli stessi che ci hanno assicurato negli anni un esteso ciclo di pace, prosperità, giustizia sociale, crescita della società civile e che hanno permesso a un Paese come l’Italia, pur di piccole dimensioni, di iscriversi nel ristretto rango delle nazioni che guidano il pianeta.
Questo riconoscimento, e l’implicito invito a partecipare alle elezioni e a non accrescere il già largo campo degli astenuti, non vuol suonare come elogio dello status quo.
La democrazia, per come dovremmo intenderla, è materia viva e ci rifiutiamo di considerarla un fossile.
Gli anglosassoni usano con una certa frequenza l’espressione reinventing per segnare, anche in maniera volontaristica, il passaggio da una fase all’altra.
Noi — più disincantati — siamo molto parchi nell’utilizzarla ma è questo il compito che ci attende, quasi a prescindere dall’esito del voto.
Chiunque vinca e chiunque perda.
Il guaio è che oggi sembra mancarci una classe dirigente — non solo politica — all’altezza del compito, capace di interpretare l’umore della società e fornire delle risposte adeguate.
Questo deficit viene dalla somma di tante debolezze: potremmo partire dalle carenze della scuola e proseguire con la mancanza di luoghi di alta formazione, potremmo parlare di una storica tendenza ad ostacolare concorrenza/ricambio o dell’inadeguatezza del nostro capitalismo e persino dei peccati del giornalismo ma alla fine dovremmo concludere che l’ostacolo che abbiamo davanti a noi non è la protervia di una casta. Caso mai il pericolo è rappresentato dal vuoto.
Votare oggi è quindi reinvestire sulla democrazia e sicuramente non in chiave retorica.
Non è la nostalgia che ci spinge ma il desiderio di lasciare qualcosa in cui le nuove generazioni possano riconoscersi.
Per farlo, con qualche speranza di successo, dobbiamo partire dalle profonde trasformazioni che l’hanno interessata e in qualche maniera depotenziata.
I mercati politici restano nazionali mentre le dinamiche che veramente contano — dall’immigrazione alla diffusione delle tecnologie, dai flussi finanziari a quelli commerciali — sono globali.
Per di più a fronte di sistemi di rappresentanza dell’Occidente che appaiono rissosi e inconcludenti, i regimi autoritari alla Putin ed ora alla Xi Jinping appaiono più efficienti e persino più moderni.
Per tentare di rispondere a queste sfide le classi dirigenti dell’Ovest, ma forse noi tutti, sono/siamo chiamati a un doppio compito: tenere alta la bandiera dell’apertura delle frontiere, dei mercati, delle menti e al tempo stesso ridurre le distanze con le periferie dello scontento.
Finora quest’abbinata non è assicurata per nessuno, compreso Macron, e per questo motivo abbiamo la sensazione di essere alla vigilia di un terremoto. Vedremo.
E come è compito dell’informazione racconteremo.
E chiunque vinca non cambieremo le domande.


La posta in gioco per i leader e il ruolo di Mattarella
Pubblicato il 04/03/2018
FEDERICO GEREMICCA, AMEDEO LA MATTINA, FABIO MARTINI, UGO MAGRI, MARCELLO SORGI
ROMA
Più dei partiti, con il Rosatellum 2.0, contano i leader. Per questo i big in corsa, a eccezione di Matteo Renzi, hanno puntato molto sulla personalizzazione. Il segretario democratico e Silvio Berlusconi, hanno già guidato un governo da premier; Luigi Di Maio e Matteo Salvini sognano di arrivare a Palazzo Chigi. Ma con i due terzi del proporzionale nella legge elettorale tutti rischiano: il 5 marzo potrebbero trovarsi in «fuorigioco» con le urne che consegnano un Paese ingovernabile. Ecco cosa rischiano e su cosa hanno scommesso i quattro principali leader. E quali saranno gli ostacoli per il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

 MATTEO RENZI 
Il segretario democratico al bivio con l’incubo dello stigma di perdente 
(di Fabio Martini) 

All’età di 43 anni, dopo essere stato il più giovane capo del governo nella storia italiana, Matteo Renzi si gioca tutto. Un bivio prematuro, perché i leader di solito lo affrontano in età più avanzata. Per il segretario del Pd, salvo tracolli, a breve non è in discussione il controllo sul suo partito: quello è garantito dalla filosofia ispiratrice della legge elettorale, pensata per consentire a tutti i leader di ammortizzare le perdite. Per Renzi, in caso di sconfitta anche limitata, il vero rischio è un altro: restare in campo, ma con lo stigma del perdente di successo. Pronto a replicare nuove sfide, ma nel ricordo collettivo delle ferite precedenti. 

Certo, il destino politico del leader di Rignano dipenderà molto dal livello sul quale si fermerà l’asticella elettorale. Se il Pd si confermerà il primo gruppo parlamentare, Matteo Renzi sarà tra i leader che detteranno le regole del gioco e sarà lui, alle prossime elezioni, a giocarsi di nuovo la sua chance. Se invece, come indicavano i sondaggi prima del divieto di pubblicazione, la sua coalizione risulterà non la prima e neppure la seconda, ma la terza, con un distacco di una decina di punti dal centrodestra, tutto è destinato a complicarsi. 

Cinque anni fa l’allora leader del Pd Pierluigi Bersani scoprì che avevano votato per il suo partito 8 milioni e 646 mila elettori (pari al 25,4 per cento), ben tre milioni e mezzo in meno rispetto a cinque anni prima, quando il segretario era Walter Veltroni. Ma soprattutto si trattava del peggiore risultato nella storia del Pd e delle liste unitarie dell’Ulivo. Per Renzi stabilire un nuovo record al ribasso aprirebbe uno scenario ad alto rischio per sé e per il suo partito.

Per questo il voto conta ma conta anche la gestione del dopo-voto. Renzi ha già anticipato tre indicazioni che sono state sottovalutate. La prima: la colpa dell’eventuale flessione elettorale del Pd è tutta di D’Alema e Bersani. Ma affrontare il dopo-elezioni con una lettura riduttiva non aiuterebbe il rilancio del leader. La seconda promessa: se perdo, non mi dimetto. La terza: il Pd potrebbe andare all’opposizione. Si tratta di due affermazioni da non sottovalutare. Matteo Renzi, avendo intuito l’inconfessabile veto «ad personam» da parte di tutti gli altri leader per future maggioranze da contrarre con lui, potrebbe essere tentato dalla suggestione di rifarsi una verginità politica da leader dell’opposizione di un governo Tajani di centro-destra allargato ai «responsabili» di turno. Magari passando da un duello per la presidenza del Senato con Massimo D’Alema, che ha sussurrato questo scenario ad alcuni imprenditori toscani.

LUIGI DI MAIO 
La voglia di governo del nuovo M5S e il pericolo delle accuse di inciucio 
(Di Federico Geremicca) 
Che cosa vogliono davvero Di Maio e i Cinque Stelle? O meglio: quale ipotesi politica - e di governo - è realmente percorribile da un Movimento che non ha mai fatto alleanze e ha appena abbandonato la linea, diciamo così, del «Vaffa»? Bisognerebbe rispondere a queste domande per capire qual è - in questo voto - la posta in palio per gli uomini di Grillo e per il loro «capo politico». E le risposte non sono univoche: perché gli ultimi dieci giorni di campagna del M5S si prestano ad almeno una doppia lettura.

La prima, insiste sul fatto che la «nuova stagione» del Movimento sia davvero avviata e che molte cose - dalla inedita moderazione al varo anzitempo di un team di ministri - siano lì a dimostrare la voglia di governo. La seconda, più scettica, dà una interpretazione diversa della sceneggiatura proposta agli elettori in questa campagna elettorale: e cioè, che tutto quanto fatto - dall’abbandono del «Vaffa» alle tante rassicurazioni - servirebbe solo a dare più argomenti (e dunque forza) a una possibile scelta di ritiro da ogni trattativa nel dopo-voto: noi volevamo davvero provare a cambiare il Paese, ma con questi partiti non c’è niente da fare.

Esiste una terza ipotesi, in realtà, che tiene assieme parte delle due letture precedenti: e cioè che i Cinque Stelle - pur puntando davvero al governo - non riescano ad abbattere il «muro» del cambio di linea sulle odiate alleanze, pena spaccature interne e la frammentazione dei gruppi parlamentari. Come si vede, dunque, la posta in palio per Di Maio e il Movimento potrebbe essere - diciamo così - variabile, in rapporto ai veri obiettivi degli uomini di Beppe Grillo: provare ad andare al governo costi quel che costi, oppure autoconfinarsi all’opposizione scommettendo su un patto Renzi-Berlusconi, una legislatura breve ed elezioni ravvicinate nelle quali puntare davvero al fatidico 40 per cento?

In entrambi i casi i rischi sono evidenti. Andare al governo con partiti definiti fino a ieri inaffidabili e impresentabili, potrebbe rappresentare un vero choc per la base grillina; ma anche riporre di nuovo in freezer milioni di voti non pare un buon affare per il Movimento. Scegliere, insomma, non sarà né facile né indolore. Soprattutto per Luigi Di Maio, che rischia di rimanere stritolato nella morsa tra ortodossi e governisti.

Per lui le accuse sono già pronte: non esser riuscito a guidare la metamorfosi del Movimento o - al contrario - aver accettato di far «inciuci» con gli odiati partiti. Paradossale. Ma come dice il vecchio proverbio, chi semina vento raccoglie tempesta.

MATTEO SALVINI 
Una sola mano da giocare senza assi, vincere o diventare un comprimario 
(Di Amedeo La Mattina) 
I rivoluzionari, una volta al governo, si calmano. Diventano più pragmatici, fanno i conti con i numeri (quelli parlamentari e del bilancio pubblico) e gli alleati che non la pensano allo stesso modo. Potrebbe succedere pure a Matteo Salvini, che dice di voler fare la rivoluzione perché «quando prometti certe cose, guardando le persone negli occhi, senti una responsabilità enorme». Al governo, ancora di più se nel ruolo di premier, si gioca tutta la popolarità accumulata in questi anni nei quali ha sostituito il verde padano con il blu nazionalpopulista, il Dio Po e i riti pagani di Umberto Bossi con il Vangelo e il rosario. I «terroni» si sono un po’ convertiti e dovrebbero spingere Matteo verso le alte vette a due cifre per scavalcare Berlusconi e rispedire a Strasburgo il moderato europeista Antonio Tajani. Se non riuscisse nel sorpasso, diventerebbe un comprimario. Per far valere le sue posizioni sovraniste dovrebbe sommare i suoi seggi a quelli di Fratelli d’Italia, bilanciando l’asse dei moderati Forza Italia-Noi con l’Italia. Ma Giorgia ha il dente avvelenato con Matteo e non è disposta a spalancargli le porte della destra nazionale. 

Si gioca tutto Salvini nelle urne, da Milano a Trapani. Ha scommesso tutte le sue fiches su un solo colore nella roulette della politica. Lo dice lui stesso che ha una sola mano da giocare. «Gli italiani non mi darebbero una seconda occasione se fallissi». Se fallisse l’operazione Lega nazionale, se dovesse acconciarsi a una maggioranza e a un governo a trazione forzista, che guarda più alla Merkel che all’ungherese Orban, la pagarebbe a caro prezzo. La fila è lunga. Ad aspettarlo sulla riva del fiume sono in tanti. A cominciare da Roberto Maroni, che da domani è libero da impegni al Pirellone. 

Ma a fargliela pagare per le promesse non mantenute saranno gli elettori, soprattutto quelli meridionali che hanno cominciato a fidarsi del milanese che è andato a casa loro a promettere tasse al 15%, la protezione delle arance e dell’olio made in Italy dai prodotti nordafricani. E tanti rimpatri, a migliaia ogni mese. Petto in fuori, ha pure aggiunto che se Bruxelles dovesse mandargli una lettera con i compiti da fare a casa (come quella che arrivò a Berlusconi nel 2011), la butterebbe nel «bidone della carta da riciclare». I dubbi che possa farlo non mancano. 
Salvini si è imposto nel panorama politico italiano. Dalla notte delle scope dei Barbari sognanti che servirono a Maroni per far dimenticare lo scandalo Bossi-Belsito, la Lega di Salvini ha guadagnato più di dieci punti e la cavalcata continua. Ma sul tavolo della corsa al potere c’è un’infinità di promesse che da sola la Lega non può mantenere.

SILVIO BERLUSCONI 
Stanco e criticato dai suoi alleati, l’ex Cav teme il boom della Lega 
(Di Marcello Sorgi) 
Non è più lui. È stanco. Non sa più incantare il Paese. Ha fatto una campagna elettorale ripetitiva. Non ha saputo estrarre il coniglio dal cilindro come in tutte le campagne precedenti. Sembrava un disco rotto, sempre e solo «flat tax». Il contratto con gli italiani firmato per la seconda volta a Porta a porta s’è risolto in un’inutile parodia della geniale trovata di diciassette anni fa. È andato a rimorchio degli alleati, che, si vede, con lui non hanno alcun feeling e sono fin troppo più giovani di lui.

Il florilegio delle critiche - alcune delle quali indubbiamente motivate - è arrivato all’orecchio del vecchio Silvio. Qualche preoccupazione, inutile nasconderlo, ce l’ha anche lui: il timore che alla fine i 5 stelle prevalgano, che il crollo del Pd vada a ingrossare la lista di Di Maio, di ritrovarsi condizionato da un successo di Salvini e Meloni superiore alle aspettative, o che il Quirinale, in mancanza di una chiara maggioranza di centrodestra, che risulta ancora difficile da raggiungere, scelga altre strade. Queste idee frullano per la testa dell’ex Cavaliere, che ha scelto di trascorrere la vigilia del voto a Napoli, dove sempre gli è stata tributata un’accoglienza trionfale.

 Eppure basterà solo che stanotte il centrodestra si confermi primo come numero di voti, con un sensibile distacco sui pentastellati, e che Forza Italia superi, anche di poco, la Lega, per fargli cambiare umore. Silvio Berlusconi si era accostato alla settima campagna elettorale della sua ormai lunga vita politica con nelle vele il vento della vittoria alle regionali siciliane, ciò che gli aveva fatto immaginare possibile, anche se non garantito, la replica del risultato su scala nazionale. Di qui la sua testarda volontà di rimettere in piedi la coalizione - che non si può più definire «berlusconiana», ma di cui rimane tuttavia federatore -, anche con alleati che non fanno mistero di non riconoscere più la sua leadership, e puntano apertamente a disarcionarlo. 

Il florilegio di punzecchiature e vere e proprie polemiche con Salvini e Meloni, il dichiarato dissenso sull’Europa, specie quando, negli ultimi giorni, dopo il viaggio di Meloni a Budapest e l’incontro con Orbán, anche il leader leghista ha rispolverato gli slogan anti-euro, la scelta del presidente dell’Europarlamento Tajani come candidato-premier, hanno riaperto il solco delle divisioni interne al centrodestra. E nessuno è in grado di prevedere cosa succederebbe dopo il voto, se Berlusconi, in mancanza di una maggioranza parlamentare, dovesse strizzare l’occhio a Renzi. Il rischio vero è che non ci siano i numeri neanche per un governo di larghe intese e Salvini e Meloni, d’intesa con Di Maio, puntino a un ritorno alle urne.

 

SERGIO MATTARELLA 
Porte aperte a chiunque darà una mano, il metodo inclusivo per evitare il caos 
(Di Ugo Magri) 
La speranza, ovvia, del presidente è di non essere protagonista. Dipenderà non da lui ma dagli elettori: se sceglieranno con chiarezza, conferire l’incarico di governo diventerà quasi una formalità. Come massimo, il Quirinale sarà chiamato a vigilare sulla scelta dei ministri, ma non sembra impresa da far tremare i polsi. Altra cosa sarebbe invece se dalle urne non emergesse una maggioranza. In quel caso, suo malgrado, Sergio Mattarella dovrebbe assumere la regia della crisi e sulla sua persona si appunterebbero enormi responsabilità. Ancora non si conoscono i risultati, eppure già c’è un’attesa perfino un po’ malata delle mosse e, addirittura, delle acrobazie che il Capo dello Stato sarebbe costretto a compiere per evitare il caos. Si dà per scontato che i partiti non riuscirebbero a mettersi d’accordo, e forse nemmeno ci proverebbero, cosicché l’ultima salvezza andrebbe cercata nei super-poteri presidenziali. In caso di stallo, ecco l’aspettativa, Mattarella dovrebbe imporre una soluzione, proprio come fece Giorgio Napolitano dall’alto della sua autorità.

Purtroppo non funziona così. I super-poteri esistono soltanto nel mondo dei fumetti. Lo stesso Napolitano si mantenne sempre nell’ambito delle regole: mai avrebbe potuto designare Mario Monti senza il via libera preventivo, e poi anche in Parlamento, di chi oggi da destra gli rimprovera addirittura un golpe. Ci vollero 127 giorni, oltre quattro mesi in «stand-by», prima che Pd e Forza Italia trovassero un accordo sul governo Letta: nemmeno in quel caso vi furono forzature, solo tanta intraprendenza del Colle. Chi si attende che Mattarella possa spingersi oltre quei confini, e mettere in pratica ciò che nessun predecessore aveva mai osato pensare, mostra di non conoscere il successore di Napolitano. Il campo da gioco è quello tracciato dalla Costituzione, l’arbitro vorrà essere il primo a rispettarlo. Poi è chiaro che, come ogni figura arbitrale, pure Mattarella ci metterà del suo.

Un paio di novità si colgono fin d’ora. Anzitutto, lo sforzo presidenziale di spiegare che «compromesso» non è una parola oscena, anzi stipulare accordi è nella logica sana del sistema. Se nessuno vince, venire a patti resta l’unica via d’uscita. È chiaro che, dopo una campagna elettorale in cui tutti hanno promesso di non «inciuciare» con gli avversari, difficilmente vedremo i partiti subito a braccetto. Serviranno tempo e pazienza. Magari si renderanno necessari svariati tentativi, anche solo per constatarne il «fiasco» e riportare certi protagonisti con i piedi per terra. L’aspetto positivo, colto da qualche frequentatore del Colle, è che nessun leader muore dalla voglia di andare all’opposizione. Tutti sono animati, semmai, dalla smania di governare. E questa voglia collettiva di mettersi alla prova viene colta lassù come un segnale, incoraggiante, di potenziale disponibilità. Mattarella (ecco l’altro elemento nuovo) non mette alla porta nessuno. Se Luigi Di Maio è stato ricevuto al Quirinale, nella persona del segretario generale Ugo Zampetti, va proprio nel senso dell’inclusione. Il messaggio è chiaro: chiunque volesse dare una mano, verrebbe bene accolto. Il bipolarismo appartiene al passato, e la nuova sfida consiste nel far funzionare la democrazia tripolare, a Costituzione invariata. Come? Rendendo tutti partecipi, Cinquestelle compresi. 

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« Risposta #215 inserito:: Aprile 28, 2019, 12:22:09 pm »

RADICI CON LE ALI, SE VUOI INNOVARE FAI UN MUSEO

Di Dario Di Vico 24 apr 2019

Radici con le ali, se vuoi innovare fai un museo Il museo della Ferrari a Maranello
Chi vuole innovare potrebbe cominciare aprendo un museo aziendale. Messo così può sembrare un azzardato calembour ma «le radici e le ali», per usare un’espressione del sociologo tedesco Ulrich Beck, si toccano. L’innovazione è sicuramente la grande sfida che si para davanti all’industria nazionale per difendere quel vantaggio competitivo di saperi e processi produttivi che rappresenta il cuore del made in Italy. Lavorare sulla propria storia aziendale per recuperare non tanto la cronologia né solo gli oggetti, ma il senso profondo di un impegno è un’operazione quasi propedeutica all’innovazione. È una ricetta di valorizzazione dell’umanesimo industriale che può servire proprio a fare la differenza, soprattutto quando è capace di sottolineare le discontinuità storiche.

Gli esempi non mancano: unico Paese in Europa, l’Italia ha un’associazione (Museimpresa) che riunisce 84 tra musei e archivi di grandi, medi e piccole imprese. L’elenco comincia dal Piemonte con il Museo Alessi di Crusinallo di Omegna e si chiude con il Museo della liquirizia Giorgio Amarelli di Rossano Calabro, passando per il Museo della Calzatura di Villa Foscarini Rossi a Stra (Venezia) e il Kartell Museo di Noviglio (Milano). Museimpresa è ormai un network che dialoga costantemente con le istituzioni pubbliche e private e finisce per essere, messi tutti assieme, una comunità in viaggio dentro la modernità. In prevalenza i musei ospitano i prodotti delle aziende, ne raccontano la genesi e la contestualizzano rispetto al tempo e agli avvenimenti-chiave.

In generale molta attenzione viene anche data all’evoluzione della comunicazione aziendale sottolineando laddove l’azienda è stata capace di aprirsi, spesso in chiave pionieristica, alla collaborazione con artisti e intellettuali. Forse meno spazio trova la rilettura dell’evoluzione delle culture organizzative, sia nello specifico dei processi industriali sia nel rapporto con le varie esternalità, ma ciò che è importante trasmettere è soprattutto il metodo. Si rielaborano le radici di ieri con l’obiettivo di contribuire, oggi, alla creazione di valore. E in una fase nella quale siamo ancora il secondo Paese manifatturiero d’Europa, grazie proprio al valore aggiunto superiore - in maniera significativa - a quello della Francia (terza) si capisce meglio che non stiamo parlando di vecchie soffitte ma di sfide aperte. E il cui esito, per altro, non è certo garantito.
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Da - https://www.corriere.it/economia/opinioni/19_aprile_24/radici-le-ali-se-vuoi-innovare-fai-museo-ec5f18c8-65dc-11e9-8d28-170002d143ad.shtml
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