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Autore Discussione: Dario Di VICO.  (Letto 120758 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Ottobre 07, 2010, 11:14:16 pm »

Come trattare con i cinesi


Il sindaco di Prato ha sbagliato non dichiarando il lutto cittadino per le tre donne cinesi vittime del nubifragio. Un gesto di sensibilità pubblica nei confronti della comunità asiatica sarebbe stato politicamente opportuno. E avrebbe assunto un rilievo maggiore per la concomitanza della tragedia pratese con la visita in Italia del premier Wen Jiabao.

Perché è inutile girarci intorno, l’effetto numero uno della globalizzazione per noi italiani è il palesarsi di una vera e propria questione cinese. Le nostre élite evitano accuratamente di riconoscerlo, sperano così di mascherare l’incapacità di dare risposte. La conseguenza, come a Prato, è dividerci tra chi spera di lucrare elettoralmente sul pericolo giallo e chi ha paura di litigare con i nuovi padroni del mondo. Siamo un Paese industriale, basato su imprese piccole, e in molti settori e lavorazioni siamo concorrenti diretti di Pechino. La capacità imprenditoriale e commerciale dei cinesi, unita all’assenza di qualsiasi regola laburista, li candida al monopolio dell’intero mercato italiano del low cost, dalle bancarelle rionali ai parrucchieri per signora che a Milano spopolano con tariffa a sei euro.

La minaccia cinese non è più solo concentrata nel tessile, si sta allargando velocemente al commercio e all’edilizia. E nei giorni scorsi ha fatto sensazione in Emilia che una ditta cinese con tanto di logo «Modena Machinery » si presentasse a una fiera specializzata di macchine per la ceramica. I tedeschi, a differenza nostra, sono riusciti ad essere complementari con l’offerta cinese, hanno costruito numerose fabbriche di auto in Asia ed esportano tecnologia a man bassa. Per loro la Cina è interamente un’occasione, per noi è metà un pericolo e metà un’opportunità che ancora non sappiamo cogliere.

La contraddizione sta qui: mentre temiamo che le nostre aziende chiudano davanti alla concorrenza sleale degli asiatici, sogniamo ad occhi aperti che la loro middle class (per McKinsey in 15 anni sarà composta da 270 milioni di persone) sostituisca il consumatore americano. E compri vestiti, piastrelle, vino, parmigiano, prosciutto e mobili made in Italy. Il guaio è che i due processi — la concorrenza in casa nostra e lo sbarco da loro — avvengono con una sfasatura temporale perché il sistema Italia è una tartaruga. La nostra industria manifatturiera per poter vendere in Cina ha bisogno di una strumentazione adeguata e di strategie commerciali non improvvisate. I pletorici enti di promozione all’estero dovevano essere riformati, ma chi sa come è andata a finire? Le banche italiane sono veramente in grado di seguire le aziende-clienti nei Paesi emergenti e di aiutarle a farsi largo in mercati nei quali tutti vogliono entrare? È mai possibile che la mano sinistra non sappia che cosa fa la destra, che le strutture incaricate di attrarre investimenti stranieri nella Penisola operino totalmente distanti da quelle che devono programmare lo sbarco italiano negli stessi Paesi? Senza rispondere a queste domande l’idea di diventare (addirittura) un partner privilegiato di Pechino è pura velleità. E non facciamo nemmeno passi in avanti nel governare i difficili rapporti con le comunità cinesi in Italia.

Dario Di Vico

07 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_07/divico_trattare_cinesi_25c518f4-d1d2-11df-93c4-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #46 inserito:: Ottobre 23, 2010, 06:32:03 pm »

CURA INGLESE, MIOPIA ITALIANA

Scomode verità

L’annuncio dato dal premier inglese David Cameron ha turbato il Regno Unito. Mezzo milione di dipendenti pubblici in meno, in un Paese che ha privatizzato tutto il possibile, rappresentano una misura senza precedenti. Specie se abbinata a un taglio di 20 miliardi di euro dei trasferimenti per il welfare. Che cosa accadrebbe in Italia davanti a un annuncio simile? Se non con le stesse proporzioni, anche altri leader europei stanno indicando ai propri elettorati la fine della spesa facile e di uno stato sociale generoso. Quale che sia il loro profilo politico, quanti e quali siano gli errori che hanno commesso in passato, questi leader mettono a repentaglio popolarità e forse carriera politica. Nicolas Sarkozy e Angela Merkel pensano che un’epoca stia volgendo al termine e cercano nuove strade. Potranno anche sbagliare nelle misure che propongono e nelle tattiche che adottano, ma per una volta la politica europea si mostra responsabile, non si nasconde, non partecipa al gioco dei sondaggi e dei talk show. Più di Sarkozy è significativo che la Merkel vada nella direzione di correggere le politiche della spesa. Dimostra che sono in ballo orientamenti di lungo termine e non scelte a breve. Perché sul piano della contingenza la Germania sembra uscire dalla crisi addirittura come Paese vincitore. Cresce a un ritmo superiore al 3%, i disoccupati sono scesi sotto la cifra simbolo di tre milioni e, come recitava una recente copertina di Der Spiegel, i tedeschi sono gli unici in grado di sfidare la Cina. Cameron e colleghi hanno scelto la responsabilità e intendono spiegare ai propri cittadini che se si vuol conservare quel modello che ha fatto dolce l’Europa bisogna lavorare sui correttivi. Profondi, ma pur sempre correttivi.

Nessuno sta indicando una fuoriuscita dalla storia del Continente e dalle sue virtù. Stanno dicendo che per riprendere la strada della crescita occorre una sosta ai box. Dolorosa, per carità, ma pur sempre finalizzata a una ripartenza. Se dall’Europa volgiamo lo sguardo alla politica italiana dobbiamo registrare, ahinoi, una sfasatura. Il discorso pubblico non è focalizzato sugli stessi temi. L’Italia sta uscendo lentamente, assai lentamente dalla crisi, ed è forte la convinzione di ricadere vittime di quella maledizione che nessun governo di destra o di sinistra è riuscito a esorcizzare: la crescita zero virgola. È vero che reggiamo grazie alla forza di tradizioni come la famiglia e i territori che fungono da grandi ammortizzatori sociali, ma fino a quando? La sussidiarietà quotidiana evita il tracollo del welfare statale, non è però un progetto a lungo termine. Può essere un formidabile compagno di viaggio di una buona politica, non il sostituto. Intanto non si hanno più notizie certe della riforma della pubblica amministrazione che, secondo il ministro Renato Brunetta, avrebbe garantito la riorganizzazione della macchina statale. Intanto le cronache dei Consigli dei ministri raccontano di recital dei responsabili di questo o quel dicastero che chiedono solo di poter spendere. Intanto nelle proposte dell’opposizione rimane forte la tentazione di eludere i vincoli di bilancio. Fatta la somma, non si può non avvertire la mancanza di una o più coscienze critiche, di autorità morali che, senza invadere il sacrosanto terreno dei partiti e della raccolta del consenso popolare, dicano al Paese alcune verità. Quelle scomode. Solo dopo un bagno di realtà si può pensare al secondo tempo, si può progettare la fine della maledizione italiana.

Dario Di Vico

22 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_22/divico_scomode_verita_9a1543e6-dd99-11df-a41e-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #47 inserito:: Novembre 25, 2010, 04:39:49 pm »

IL CASO LOMBARDIA, L’EURO E LE IMPRESE

Secessione silenziosa

Il copyright è dell’ex governatore Riccardo Illy che per primo parlò di «secessione dolce», di un processo lento e graduale di separazione, prima psicologica e poi politica. Illy si riferiva al sentimento delle popolazioni del Nord verso i destini del Paese, ma il suo ossimoro calza a pennello oggi per descrivere lo stato d’animo degli imprenditori italiani di fronte all’incancrenirsi della crisi politica. L’anticipo di federalismo richiesto da Emma Marcegaglia, al di là della valutazione tecnica sulla bontà e lo stato di avanzamento della legge 42, ha questa valenza. È la presa d’atto della divaricazione tra gli interessi e le aspettative del mondo delle imprese e le preoccupazioni/ priorità coltivate dai professionisti della politica. Sarà un caso, ma oggi il tavolo della concertazione non si riunisce nel palazzo del governo bensì nella sede dell’Associazione bancaria. Nessun politologo avrebbe mai immaginato un’analoga forma di secessione indolore.

Imprenditori e politici hanno, dunque, due agende qualitativamente diverse. In quella di chi si sforza di produrre ricchezza e occasioni di lavoro spiccano le inquietudini sul futuro di Eurolandia. Con tutti i faticosi adattamenti che la moneta unica ha richiesto — non ultimo compensare il rapporto squilibrato con il dollaro debole — le imprese sono coscienti che senza euro resteremmo disancorati, saremmo in balia delle nostre contraddizioni e pigrizie. C’è nel milieu politico sufficiente consapevolezza di questi rischi? Oppure prevale il batticuore per la scelta definitiva che farà in Parlamento uno dei rappresentanti degli italiani all’estero? È chiaro che l’export resta la carta più importante che possiamo giocarci per uscire dalla crisi, per entrare nei mercati emergenti, quelli che promettono di crescere di più. Ma nell’agenda politica di questa priorità non v’è traccia. Nei giorni scorsi il ministro Giulio Tremonti ha definito «folkloristiche» le nostre strutture di promozione all’estero. È da maleducati chiedere ai partiti della maggioranza di sospendere per un momento la compravendita di deputati e/o senatori e decidere cosa vogliamo fare dell’Ice e delle sue sette sorelle? O aspettiamo che tutti, proprio tutti, i nostri concorrenti abbiano nel frattempo conquistato le loro brave quote di mercato in India, Cina, Brasile e Sudafrica?

Parliamo, infine, della domanda interna. La maggior parte delle piccole imprese, che non hanno massa critica emuscoli per andare all’estero, opera sul mercato nazionale e non intravede alcuna prospettiva di crescita. Qualche calcolo, pur approssimativo, ci porta a dire che avremo uno stock di circa 13 milioni di famiglie con un reddito disponibile attorno ai 1.500 euro o poco più. I riflessi in termini di politiche sociali sono più che evidenti, mentre per le aziende italiane il rischio è chiudere per mancanza di clienti o essere stroncate dalla concorrenza sleale che si nutre di contraffazione e illegalità. Anche questo tema, purtroppo, resta fuori dall’agenda della politica e così il sentimento di estraneità si fa più forte. La secessione, a questo punto, può anche cambiar sapore, diventare più aspra. Non ci vuole molto, si chiude in Italia e si riapre al di là del confine. Nel Canton Ticino, in Carinzia o in Slovenia.

Dario Di Vico

25 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_25/seccessione-silenziosa-editoriale-dario-di-vico_26228548-f85b-11df-a985-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #48 inserito:: Dicembre 16, 2010, 09:56:56 pm »

L'EDITORIALE

Un copione da non ripetere

La novità degli scontri che hanno devastato martedì pomeriggio il centro di Roma è che dopo tanto tempo si è rivista all'opera una vera «macchina della violenza». Per il livello di organizzazione, per la preparazione allo scontro, per l'assoluta determinazione mostrata dagli attaccanti, abbiamo assistito sgomenti a un salto di qualità.

È vero che in Italia si ripetono ormai con preoccupante frequenza le perfomance dei centri sociali e dell'area antagonista che per lo più hanno preso come bersaglio Raffaele Bonanni, ma martedì nella Capitale è accaduto qualcosa di diverso. Si è visto all'opera in piazza un professionismo della guerriglia che per massa critica e «competenze» non si improvvisa e che si era dato come obiettivo esplicito l'attacco ai luoghi simbolo delle nostre istituzioni repubblicane. Tocca agli inquirenti accertare se e come sia in atto un'ibridazione tra l'area antagonista dei centri sociali e gli addestratissimi ultrà del calcio, ma intanto non dobbiamo farci illusioni. È più che probabile che la macchina della violenza non si fermi al prototipo, che abbia voglia di stare in campo anche nei prossimi difficili mesi. Perché oltre al livello militare dello scontro colpisce come i facinorosi abbiano saputo modulare la loro azione in stretta relazione con ciò che via via avveniva a Montecitorio (la Scilipoti comedy). E mentre i soggetti politici, dopo l'esito del braccio di ferro parlamentare, stavano ricalibrando le rispettive strategie, la macchina della violenza ha rubato la scena a tutti e l'ha occupata per ore. Tanto che sui giornali di ieri le cronache degli scontri competevano in spazi con i resoconti sulla fiducia accordata dalle Camere al premier in carica.

Nel day after la domanda da farsi è che cosa possono fare le forze democratiche perché non si ripeta il drammatico copione degli anni 70 che insanguinò le nostre strade e le nostre vite. La risposta è netta: bisogna evitare che questa macchina si trasformi in un partito, che all'efficienza distruttiva dimostrata sul campo si cumuli una soggettività politica, una capacità di leggere l'evoluzione della crisi italiana e di trovare di volta in volta la chiave per ordire e legittimare nuovi assalti al cuore delle istituzioni. Per dirla chiara e tonda bisogna evitare che il Caimano prenda il posto del Sim, lo Stato imperialista delle multinazionali di 40 anni fa, diventi il teorema, la giustificazione teorico-politica di un nuovo partitino armato. La sinistra che, con più o meno fortuna, si oppone a Silvio Berlusconi è quella che meno ha da guadagnare da un clima impastato di violenza politica e disordini di piazza. La storia recente lo dimostra ampiamente, quando lo scontro politico ha ceduto il passo a quello militare l'aggettivo che ha preso il sopravvento è stato sempre «torbido», un modo per segnalare strane connivenze e alleanze indicibili.

Si offre involontariamente una sponda alla macchina della violenza anche quando si finisce per confondere sociologia e politica.
Conoscere la società italiana e le sue mille pieghe è uno sforzo continuo, i cambiamenti sono veloci, le contraddizioni sempre dietro l'angolo e la reductio ad unum in Italia non funziona. Nel dibattito mediatico, invece, spesso si compie il percorso opposto. Si semplifica, si prefigura a tavolino che a un contrasto di tipo sociale equivalga immediatamente un cambio di preferenza/schieramento politico, che un pugno di persone che manifesta esplicitamente il suo orientamento rappresenti automaticamente l'universo.

Basta invece leggere le cronache minute di una qualsiasi giornata italiana per capire come sia difficile anche solo aggiornare la mappa sociale. I cinesi comprano un banco del pesce a Venezia e il governatore Luca Zaia protesta, un artigiano del Varesotto è morto per una disattenzione mentre lavorava al tornio di sabato per una commessa urgente, l'immigrazione straniera che tanto ci preoccupa sta invece rallentando il suo flusso, le coop rosse si fondono con quelle bianche. Come si fa a sintetizzare questa complessità dentro la facile formula «la società è contro il Tiranno»? Come si fa a pensare che i facinorosi di Roma siano la proiezione politica di una generazione anch'essa attraversata da mille contraddizioni e tutt'altro che orientata a sinistra? La verità, scomoda da pronunciare, è che non esiste un Paese reale che abbia già scelto compattamente di andare oltre Berlusconi.

La linea di frattura (che esiste) tra le speranze degli italiani e le risposte che vengono dall'alto riguarda per ora l'intero mondo politico e non solo il Caimano. Quando gli imprenditori del Nord dichiarano che proveranno ad andare in Cina «nonostante l'assenza del governo», non stanno annunciando che non voteranno più per Berlusconi, così come i giovani italiani che appena possono vanno a vivere all'estero (oggi a Berlino più che altrove) se ne andrebbero anche se governasse il terzo polo, Pier Luigi Bersani o Nichi Vendola.

Conosco l'obiezione che a queste riflessioni può venire da chi milita a sinistra: negare le ragioni dell'indignazione contro il tiranno vuol dire depotenziarci, toglierci argomenti e favorire così il perdurare del regime. Ma pur coltivando un sacrosanto rispetto dei valori dell'etica pubblica penso che non possano essere sostitutivi di una buona piattaforma politica orientata ad allargare il consenso.
La crisi italiana non si sbloccherà fin quando agli elettori non verrà proposta un'alternativa competitiva.

Per costruirla l'opposizione deve, intanto, smetterla di amare solo gli italiani che vanno in piazza.

Dario Di Vico

16 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_16/dario_di_vico_un_copione_da_non_ripetere_10d8e3d0-08dc-11e0-a831-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #49 inserito:: Gennaio 26, 2011, 11:57:26 pm »


I DUBBI SU ICI E IRPEF

Federalismo con piu' tasse?

Il rischio che il federalismo fiscale finisse nel tritacarne politico era già alto in passato e in questi giorni di «sospensione delle egemonie» lo è evidentemente ancora di più. Scorrendo le dichiarazioni rilasciate in queste ore le parole «ricatto» e «tradimento» fanno bella mostra di sé, mentre ci sarebbe bisogno di un esercizio di responsabilità. Si prendono decisioni che non sarà facile smontare e che comunque avranno riflessi che vanno ben oltre la durata di un governo. Proviamo, dunque, a non urlare e a mettere in fila i problemi.

Siamo tutti d'accordo che il bello del federalismo sta nella responsabilizzazione delle classi politiche locali che, a fronte delle competenze che il centro trasferisce loro, potranno avere autonomia di imposizione fiscale sui cittadini. Molti Comuni versano oggi in grave difficoltà, non pagano addirittura i fornitori e quindi faranno sicuramente ricorso a nuove tasse, ma è altrettanto evidente che dovranno operare con giudizio per non subirne i contraccolpi in termini di credibilità e di consenso. Prendiamo il caso concreto dei sindaci leghisti la cui sofferenza politica - a cominciare da quello di Varese, città simbolo - era emersa nettamente nell'ultimo raduno di Pontida. La spesa per investimenti nelle comunità amministrate dal Carroccio è caduta verticalmente per i vincoli del patto di stabilità interna: che scelte faranno i sindaci? Riprenderanno a spendere, a migliorare la qualità della vita urbana e, dopo, come si rapporteranno al loro elettorato particolarmente allergico alle tasse?

Queste domande in una costruzione federalista perfetta non dovrebbero aver campo perché i sacri testi recitano che, a fronte di competenze devolute alla periferia, il centro dovrebbe ridurre il prelievo erariale. Due punti di Irpef passati alle Regioni per far fronte alle nuove spese dovrebbero essere compensati da due punti di Irpef in meno dal centro. Ma sarà così? Oppure vista la particolare e critica situazione del budget pubblico si andrà verso uno slittamento temporale, magari rimandando il tutto alla riforma fiscale? Qualche voce si è già levata in queste ore per denunciare il pericolo di un aumento della pressione fiscale dovuta alla generalizzazione e all'inasprimento delle addizionali comunali sull'Irpef. Anche perché sul tema, a giudizio degli addetti ai lavori, la legge delega resta un po' sul vago.

A complicare il quadro c'è sicuramente il pasticciaccio sull'Ici. In tutti i Paesi occidentali gli enti locali si finanziano in primo luogo con la tassa sulla casa, da noi prima il governo Prodi e poi l'esecutivo presieduto da Silvio Berlusconi hanno abolito a tranche l'Ici, tagliando così le gambe alla finanza locale pur di accrescere i consensi per i governi di Roma. Se si fosse opposta maggiore resistenza alla facile demagogia non avremmo automaticamente risolto tutti i problemi, ma ci troveremmo nell'applicazione dei nuovi schemi federalisti in una situazione meno complicata. Ora è difficile fare un'inversione a U, eppure nel dibattito politico si sta affermando la consapevolezza che delle entrate Ici, anche solo in parte, non si può fare a meno.

Si discute dunque e si litiga sul federalismo fiscale ma mancano ancora i numeri dei costi standard dei servizi. Quelli sì ad alto potenziale elettrico! Finché non li vedremo conteggiati in euro pro capite non sapremo chi veramente ci perde e chi ci guadagna. E fino ad allora non sapremo quale assetto politico è in grado davvero di condurre in porto la nave federalista.

Dario Di Vico

26 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_26/federalismo-con-piu-tasse-dario-di-vico_41996cc8-2912-11e0-b732-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #50 inserito:: Febbraio 10, 2011, 11:32:10 am »

IL PIANO PER LA CRESCITA

Strada Giusta, Passo Breve

Quando un esecutivo regolarmente in carica elabora una ricetta per far ripartire la crescita va preso sul serio. Tanto più in un Paese-tartaruga quale purtroppo è diventata l'Italia e non per colpa di un solo schieramento politico. Del resto le opposizioni e le forze sociali hanno chiesto ad alta voce da mesi che il governo tornasse a governare e si occupasse dei problemi che angustiano gli operatori economici, le famiglie, i giovani. Ora, almeno a parole, palazzo Chigi ha dato ampie assicurazioni di volerlo fare e non ha senso dunque gridare «al diversivo». Conviene a tutti ragionare nel merito e procedere senza sconti.

E allora la prima considerazione è che la scossa - termine ciclicamente ricorrente nella politica italiana - non sembra sostenuta da un robusto lavoro di ricognizione, prima, ed elaborazione, poi, sui reali nodi della crescita lenta. Manca qualcosa che assomigli a una visione compiuta dello sviluppo italiano, un racconto persuasivo delle cose che si andranno a fare e degli obiettivi che si intendono raggiungere a breve e a medio termine. Per farla breve non pretendiamo che Silvio Berlusconi scimmiotti all'improvviso il suo omologo inglese David Cameron, che organizzi dotte conferenze per sciorinarci ricette sulla Big Society o scomode analisi della società multiculturale, ma a qualcosa di più di un mero elenco di misure abbiamo diritto. Vorremmo, per esempio, sapere che intenzioni ha maturato l'esecutivo sulla riforma fiscale e che timing prefigura per la sua partenza. Proprio su queste pagine domenica 6 febbraio Mario Monti ha mostrato come si possa tentare di costruire per via pragmatica un'agenda dello sviluppo che abbia un preciso asse di politica economica, che punti a liberalizzare i settori compressi dalle chiusure di stampo corporativo e che non tema di pronunciare la parola «riforme».

Del resto chiunque abbia avuto modo di vedere le immagini della conferenza stampa post Consiglio dei ministri ha potuto constatare con una certa meraviglia come il ministro dell'Economia non abbia voluto intestarsi più di tanto il pacchetto di provvedimenti appena varato. Quel ripetuto richiamo di Giulio Tremonti all'Europa come vera sede delle-decisioni-che-contano è parso una sottile presa di distanza dal lavoro fatto dai colleghi. E se così fosse, francamente sarebbe difficile dargli torto perché la gran parte dei dossier approvati ieri pare essere stato assemblato con il metodo del ripescaggio. In sostanza più di un ministro ha tirato fuori dai propri cassetti provvedimenti che per un motivo o per l'altro erano rimasti fermi e li ha (lodevolmente) riproposti. Il piano casa, la banda larga, la semplificazione delle procedure amministrative. Non è mancato nemmeno il rituale riferimento al completamento della moderna tela di Penelope, la Salerno-Reggio Calabria! Meglio così, si dirà, che lasciare quei dossier a prendere polvere nei ministeri ma un confronto più serrato con le rappresentanze dell'impresa avrebbe sicuramente aiutato a definire le priorità e a scegliere con maggiore accuratezza gli strumenti operativi.

Colpisce, infatti, l'adesione tiepida che sia Confindustria sia Rete Imprese Italia hanno riservato agli annunci usciti dal Consiglio dei ministri di ieri. Entrambe le organizzazioni sanno benissimo che quel po' di ripresa che siamo stati capaci di intercettare è dovuta all'export. Le nostre multinazionali del lusso e le nostre medie imprese hanno messo a segno in questi mesi buone performance sia sui mercati emergenti sia su quelli tradizionali e in molti casi l'effetto traino si sta facendo sentire sulle filiere produttive e sui distretti.

Gli osservatori più attenti mettono però in guardia: in Cina e in India esportiamo a fiammate ma mancano i binari per vendere con continuità e conquistare stabili quote di mercato. Il governo, che queste cose sicuramente le sa, continua invece a pasticciare con la riforma dell'Ice (Istituto commercio estero) e quando si riunisce per discutere di crescita dimentica che in primis andrebbero supportate proprio le esportazioni. Tutto da rifare, dunque? No. In tempi di vacche magre le imprese per prime non possono permettersi atteggiamenti alla Bartali. Se, come sostiene palazzo Chigi, ieri si è appena cominciato a parlare di crescita e si andrà avanti in più fasi, la speranza è che non manchino modo, tempo e sedi per vagliare le critiche e rimediare alle lacune più evidenti. Anche la ragione, in Italia, deve imparare a navigare a vista.

P.S. Mi è capitato di chiedere a importanti esponenti della maggioranza perché preferiscono la via lunga della modifica costituzionale dell'art. 41 piuttosto che approvare in tempi (che sarebbero) strettissimi il disegno di legge sullo Statuto d'impresa presentato da Raffaello Vignali, deputato pdl nonché stretto collaboratore del ministro Paolo Romani. Le imprese ne sarebbero felici, perché se ne avvantaggerebbero oggi e non a babbo morto. Non ho avuto risposta e quindi riformulo la domanda.

Dario Di Vico

10 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_febbraio_10
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« Risposta #51 inserito:: Aprile 22, 2011, 05:23:31 pm »

RIVALUTARE IL LAVORO MANUALE

I ragazzi italiani

C'è un nesso tra la rivalutazione del lavoro manuale e l'uscita dalla crisi? Penso di sì e proprio per questo motivo la riapertura di una discussione pubblica sulla (mancata) propensione dei giovani a misurarsi con la manualità ha senso. Di trimestre in trimestre, quando affluiscono i dati sulle esportazioni italiane si ha la netta sensazione che il modello di specializzazione dell'industria italiana abbia retto alla Grande Crisi. Non è poco e l'esito era tutt'altro che scontato, il pensiero corrente sosteneva che il manifatturiero avrebbe pagato alla recessione un tributo decisamente maggiore. Invece riusciamo a reggere e, checché ne dicano le improvvisate analisi dell'Economist, i nostri distretti hanno ripreso a vendere sia sui mercati tradizionali (Europa e Usa) sia su quelli emergenti, Cina in primis.

Ce la stanno facendo un po' tutti, non solo gli straordinari vini delle Langhe, del Roero e del Monferrato ma stanno reagendo anche distretti come quello dei casalinghi di Lumezzane, per i quali era stato già intonato il de profundis. Per dirla con uno slogan le nostre piccole e medie imprese si stanno ri-specializzando, stanno innovando in corsa e per farlo contaminano la cultura manifatturiera con quella dei servizi. Questo processo di modernizzazione richiede tanto lavoro, flessibile e allo stesso tempo creativo. C'è bisogno di sarti, falegnami, maestri vetrai, progettisti, manutentori. E per ciascuna di queste specializzazioni c'è bisogno del contributo di giovani che siano «nativi digitali» e aiutino i loro padri ad allungare le reti di impresa.

Non è vero, dunque, che tutto il lavoro nell'epoca della globalizzazione sia debole, anzi. Il made in Italy richiede una fusione tra vecchie e nuove professionalità ed esalta quindi il potere negoziale del tecnico-artigiano. Chi ha girato Milano in questi giorni del Salone del Mobile non farà fatica a capire di cosa stiamo parlando. La domanda e i dubbi, caso mai, riguardano il sistema formativo. Dai territori periodicamente arrivano notizie contraddittorie: troppi istituti tecnici legati ai distretti industriali soffrono di una crisi di vocazioni e questo avviene a Gallarate per l'aeronautica come a Manzano per la lavorazione del legno. Le scuole tecniche sono alla base del miracolo tedesco e da noi invece sono lasciate a se stesse. Non è un caso che i cinesi spingano per iscriversi in queste stesse scuole perché hanno voglia e fretta di apprendere il meglio della cultura manifatturiera italiana.

Però se vogliamo davvero riorientare le scelte dei nostri ragazzi non possiamo fare della retorica a buon mercato. È giusto che il governo, e più in generale la politica, su una materia come questa parlino chiaro alla società, ma allora si devono impegnare a fondo. Non si può solo deprecare la mancata virtù dei giovani, bisogna persuadere. In primo luogo le famiglie, le stesse che perpetuano una tendenza nociva alla licealizzazione e al successivo conseguimento di lauree deboli. Non è più tempo per poter sbagliare, l'orientamento scolastico deve far parte di un'efficace azione di governo. Poi bisogna parlare ai ragazzi e spiegare loro che una scelta giusta non solo va a vantaggio dell'inserimento nel mondo del lavoro ma contribuisce a rafforzare la loro personalità. Ad evitare quella «corrosione del carattere» dovuta al precariato, magistralmente descritta già dieci anni fa da Richard Sennett.

Per spiegare tutto ciò arruoliamo pure i testimonial più trendy. È un'ottima causa.

Dario Di Vico

19 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_aprile_19/
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« Risposta #52 inserito:: Maggio 09, 2011, 06:33:15 pm »

LE ASSISE DI CONFINDUSTRIA

Il modello Manchester

La buona notizia è che a Bergamo la Confindustria ha cominciato a farsi le domande giuste. Poi che non abbia ancora elaborato risposte compiute è tutto sommato secondario. L'importante, per ora, è che il malessere degli industriali e l'afasia della rappresentanza siano stati diagnosticati con sufficiente perizia e che si sia individuata la strada da percorrere per porvi rimedio. Perché il vero problema con il quale gli industriali devono fare i conti non è tanto e solo «la distrazione del premier», che non ama passare le serate di Arcore consultando gli atlanti di politica industriale, ma il fatto che siamo entrati nell'epoca dello «zero budget», dell'impossibilità dichiarata dell'esecutivo di spendere. È evidente che di fronte a questa discontinuità l'azione di rappresentanza debba essere sostanzialmente ridisegnata. No budget, no lobby. E a Bergamo la Confindustria ha iniziato a farlo con la logica del «piuttosto che aspettare la politica, cominciamo noi». Che altro ragionamento, se non questo, c'è dietro la coraggiosa proposta di prendersi in carico l'Istituto del commercio estero (Ice), uno strumento decisivo per l'affermazione dell'export italiano? Ma una dietro l'altra dal palco sono arrivate diverse altre idee, tutte in linea con la nuova filosofia sussidiaria. Gli industriali si sono candidati a investire per favorire la diffusione della lingua inglese, a organizzare un mall a Berlino per i marchi del made in Italy di fascia media, a finanziare cattedre di mobilità per far rientrare nel Paese i migliori ricercatori. Non sottolineare il cambio di cultura che sta dietro quest'assunzione di responsabilità sarebbe a questo punto un'omissione.

La seconda novità di Bergamo riguarda il modo di operare di Confindustria. Oggi quella presieduta da Emma Marcegaglia si presenta come un'organizzazione a delega eccessivamente lunga, incomprensibile nell'epoca di Facebook e Twitter come si è visto persino dal resoconto pubblico dei lavori di ieri. C'è un centro romano pletorico e molte duplicazioni di strutture, la vita interna si svolge lungo cerimoniali e procedure che non hanno più ragione d'esistere e via via si è formato un ceto di «professionisti della rappresentanza» - come li ha definiti dal palco l'ex direttore generale Stefano Parisi -, continuamente a caccia di una presidenza. Per non parlare dei convegni che animano i borghi di S. Margherita Ligure o Capri e durante i quali gli imprenditori, giovani o attempati che siano, servono solo a misurare gli applausi del politico di turno.

Ridisegnare Confindustria non è un'operazione che si possa chiudere in 24 ore, però a Bergamo è parso chiaro che la riforma passa da un rinnovato protagonismo di territori e categorie. Ascolto è stata la parola chiave dell'Assise, dovrebbe diventarlo anche nella routine della confederazione.Se queste sono state le confortanti primizie emerse nell'adunata di ieri è sulle tendenze del modello capitalistico italiano post-Grande Crisi che ancora non pare sia maturata un'analisi condivisa. Si sentono discorsi diversi. La sottolineatura dell'orgoglio del manifatturiero che fa dire a mo' di battuta al presidente di Assolombarda, Alberto Meomartini, che «noi dovremmo tifare per Manchester più che per Barcellona».

La richiesta ai Piccoli di muoversi, di battere la sindrome dell'appagamento e costruire aziende più grandi che possano competere con maggiori chance sul mercato globale. L'enfasi più che giustificata sui temi della ricerca che in Italia avrebbe bisogno di investimenti per almeno un miliardo di euro. Si dicono cose diverse e non necessariamente in contraddizione tra loro, ma si parla poco di rispecializzazione del modello Italia e altrettanto poco di capitalismo delle reti. Se riprenderemo a crescere molto dipenderà dalla capacità che avremo di creare una nuova catena del valore lungo l'asse fornitura-fabbrica-logistica-distribuzione. Alcuni prodotti tipicamente nostri vanno reinventati, altri vanno portati in tempi certi sugli scaffali giusti di Paesi nuovi. Nella descrizione di questo sforzo si può leggere l'oroscopo dell'industria italiana.

Dario Di Vico

08 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #53 inserito:: Giugno 01, 2011, 06:08:32 pm »

Quello strappo con la Fiat

Maggio in Italia è mese di relazioni e rapporti annuali. E capita che a ognuno di essi venga applicato il «governometro», la misurazione spannometrica delle distanze che intercorrono tra le parole del relatore e le scelte dell'esecutivo in carica. E' accaduto con il presidente dell'Istat Enrico Giovannini e il rito si è ripetuto ieri con Emma Marcegaglia. Eppure la numero uno di Confindustria era stata esplicita: abbiamo buttato a mare un decennio e non solo l'ultima mezza legislatura. A risultare bocciato non è stato solo un governo ma il ciclo politico che va sotto il brand di Seconda Repubblica. Esecutivi che rinviano e non decidono, politica rissosa e invasiva, poteri di veto che sabotano i migliori progetti, municipalizzate che perdono soldi e non se ne curano, la cultura di mercato che continua a essere osteggiata. Se la Seconda Repubblica doveva modernizzare la democrazia italiana e creare nuovo rispetto tra politica ed economia, il rendiconto è negativo. Del resto se gli imprenditori sono costretti ancora a pietire elementari provvedimenti di semplificazione e si è dovuto inventare un ministero ad hoc, che bilancio volete che la Confindustria possa fare di questi anni?

Il giudizio impietoso di Marcegaglia sugli ultimi due lustri e la citazione di Max Weber sul dovere morale di fare testimonianza pubblica «anche fuori dalle nostre imprese» hanno rafforzato le indiscrezioni su un possibile impegno politico della presidente. Un'ipotesi auspicabile perché contribuirebbe alla rifondazione delle élite politiche e a un dialogo più maturo tra mercato e amministrazione ma che rappresenterebbe comunque una scelta individuale. Perché, a costo di formulare l'ovvio, vale la pena ribadire come la rappresentanza debba fare ogni sforzo per rendersi più autonoma dalla politica. Lasciate alle spalle le illusioni di poter finanziare la crescita con la spesa pubblica, le società intermedie sono chiamate a lagnarsi di meno e a responsabilizzarsi di più. A ricercare con convinzione tutte le occasioni per sussidiare la funzione dello Stato, a cominciare dall'internazionalizzazione del nostro sistema produttivo per proseguire con l'organizzazione di esperienze di secondo welfare. Se volete chiamatela pure Big Society ma a patto che il contenuto sia chiaro: la rappresentanza è chiamata a spendere il proprio capitale di credibilità con l'obiettivo di modernizzare il Paese e non certo per celebrare la propria autoreferenzialità. Anzi più le associazioni diverranno snelle più saranno in sintonia con lo spirito del tempo.

L'assemblea di ieri dell'associazione degli industriali sarà ricordata anche per lo strappo consumato con la Fiat davanti a tutti. Non ci sono soci di «serie A» e di «serie B», ha scandito la Marcegaglia ed è un bene che l'abbia fatto. La trasparenza è un valore della modernità. Da tempo sulle relazioni industriali tra Torino e Viale dell'Astronomia sono maturate idee diverse, anche perché obiettivamente i problemi dell'impresa globalizzata non sono quelli della stragrande maggioranza delle piccole, dove per fare comunità con i dipendenti non c'è bisogno di un referendum. In una stagione in cui tutto si specializza e si differenzia, persino le aspirine, non c'è niente da obiettare alla coesistenza di pratiche e modelli diversi: alla fine l'articolazione si potrà e dovrà rivelare una ricchezza e non il mero prodotto di uno scisma.

Dario Di Vico

27 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #54 inserito:: Giugno 01, 2011, 06:16:25 pm »

DRAGHI: MENO SPESE SENZA NUOVE IMPOSTE


Otto proposte per crescere

Mario Draghi più che da Governatore uscente ieri ha dato la sensazione di aver iniziato a parlare da presidente della Banca centrale europea. L'analisi dei mali che affliggono la società italiana è stata impietosa e la denuncia della miopia della politica è risuonata altrettanto netta. Fino a far affiorare la delusione per essere rimasto inascoltato pur avendo indicato a più riprese da Palazzo Koch obiettivi, linee di azione e aree di intervento.

Scelta la franchezza come leit motiv Draghi non ha risparmiato il ministro Giulio Tremonti, con il quale del resto in questi anni ha duellato (intellettualmente) svariate volte. Almeno tre i rilievi: l'analisi della crisi mondiale, i tagli lineari alla spesa e l'indipendenza delle authority. Non stiamo assistendo a un replay del '29, ha scandito, perché allora i danni causati all'economia reale dalla recessione furono assai più vasti, la produzione industriale crollò del 40% e la disoccupazione toccò quota 20%. Niente di paragonabile è successo dal 2008 ad oggi e quindi ogni allarmismo è fuori luogo. Piuttosto il governo avrebbe dovuto continuare l'opera di Tommaso Padoa-Schioppa e portare a compimento la spending review, la radiografia completa della spesa pubblica voce per voce. Avendola snobbata, se il governo dovesse procedere alla cieca, con tagli uniformi, anche nella manovra correttiva prevista per il 2013-2014, sottrarrebbe alla ripresa circa due punti di Pil in tre anni. Invece una politica di tagli intelligenti, unita a recuperi di evasione, potrebbe essere compatibile con la scelta di ridurre le aliquote sui redditi di lavoratori e imprese. Morale: oggi dopo le amministrative il governo invoca la riforma fiscale ma dovrebbe prendersela con se stesso se non sarà nelle condizioni di deliberarla. Tertium, l'indipendenza. Draghi ha ribadito la fiducia nella tradizione di Via Nazionale, «fucina di quadri al servizio della nazione e dell'Europa». Capace di pescare al suo interno il prossimo Governatore.

L'Italia che Draghi ha chiesto anche ieri deve tornare a crescere e la politica dovrebbe capire che «le riforme compiute a tempo, invece di indebolire l'autorità, la rafforzano» (Cavour). La lista del Governatore è fatta di otto proposte e si apre con l'efficienza della giustizia civile, il sistema dell'istruzione, la concorrenza, il mercato del lavoro e gli investimenti nelle infrastrutture. Si tratta di riforme alcune delle quali, da sole, valgono un punto di Pil e che vanno realizzate pensando «a quale Paese lasceremo ai nostri figli».

Severo con i politici, il Governatore non ha fatto sconti agli imprenditori. Le aziende italiane sono troppo piccole e restano fuori dai veri giochi dei mercati internazionali e dell'innovazione. Rinunciano a crescere per la cultura familistica dei proprietari, contrari all'ingresso di esterni. Preso l'abbrivio il Governatore non ha risparmiato la società Autostrade, che pure ha contribuito a privatizzare. I costi medi per chilometro e i tempi di realizzazione (vale anche per la Tav) sono largamente superiori a quelli francesi e spagnoli. E non è tollerabile.

Se le considerazioni finali di ieri segnalano l'anticipato inizio del periodo francofortese di Mario Draghi, un'altra novità va segnalata in materia di crescita e lavoro femminile. È stata forse la prima relazione «rosa» di un Governatore, che ha voluto ricordare come «il tempo di cura della casa e della famiglia a carico delle donne resta in Italia molto maggiore che negli altri Paesi». Un altro ritardo che paghiamo.
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Dario Di Vico

01 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #55 inserito:: Giugno 11, 2011, 05:18:27 pm »

RIFORMA DEL FISCO

Non punire gli onesti

Siamo arrivati al paradosso che un governo teme le manifestazioni indette dai partiti che compongono la sua stessa coalizione.
L'effetto Pontida si spiega così. Per evitare che il popolo leghista faccia prevalere lo spirito identitario e obblighi i propri leader a prendere definitivamente le distanze da Silvio Berlusconi, Palazzo Chigi si è messo ad annunciare provvedimenti. Si tratti dell'apertura di uffici di rappresentanza ministeriale al Nord o della delega sulla riforma fiscale resuscitata ieri, la qualità è diversa ma l'obiettivo è lo stesso. Rabbonire la «piazza verde» e tentare di riconquistare gli elettori delusi. Anche nella Prima Repubblica con i governi a conduzione democristiana accadeva qualcosa di simile ma in quegli anni l'obiettivo era disinnescare l'iniziativa dell'opposizione, nella doppia forma dello sciopero generale dei sindacati e/o del corteo della sinistra.

Quali che siano i rebus politici da risolvere, il premier ha comunque imposto che nell'agenda del governo rientrasse la riforma fiscale e ha assicurato che l'impegno sarà compatibile con gli obblighi europei in materia di correzione dei conti pubblici. È chiaro che entro l'estate il governo varerà tutt'al più la delega e che per arrivare all'approvazione in Consiglio dei ministri di vere misure operative bisognerà attendere almeno la fine dell'anno. Ma il vero nodo da sciogliere sta non tanto nei tempi quanto nel merito della riforma che, come il ministro Giulio Tremonti ha ribadito in decine di interventi pubblici, dovrà essere a gettito invariato. I tecnici, dunque, saranno chiamati ad operare con perizia chirurgica per poter tagliare le aliquote Irpef anche di un solo punto e in ogni caso avranno portato a casa solo il primo tempo dell'operazione. Il secondo prevederà giocoforza l'eliminazione di tutta una serie di detrazioni e deduzioni, la cui scomparsa non è indolore specie se dovessero riguardare le spese mediche o le scuole private.

Un'ipotesi che potrebbe dare maggiore spazio di manovra è quella di «diminuire il prelievo alle persone e spostarlo sulle cose», come recita il noto leit motiv del ministro, ma trovare il consenso su questo trasferimento non è facile. È vero che Emma Marcegaglia ha dichiarato di essere favorevole, però la Confcommercio è schierata nettamente contro, e persino alcune categorie confindustriali, come la Federalimentare, sostengono che un aumento dell'Iva comporterebbe un'ulteriore mazzata sui consumi. Dai freddi numeri alla politica «calda» il passo è breve e può far correre al centrodestra il rischio di varare una riforma troppo simile a una mera razionalizzazione del prelievo e di conseguenza poco utile ai fini di quel recupero di consenso dei ceti medi sul quale puntano Berlusconi e Umberto Bossi.

Che le contraddizioni in materia fiscale siano all'ordine del giorno lo dimostra anche l'allungamento dei tempi della cosiddetta riscossione coattiva. Grazie ad Equitalia il gettito negli ultimi anni è triplicato rispetto a quando il servizio era svolto dalle banche e sono anche aumentati i fermi amministrativi ovvero il ricorso alle ganasce fiscali. Di fronte alle proteste della rappresentanza delle piccole imprese, in difficoltà per i colpi della Grande Crisi, il governo ha deciso di allungare i tempi di riscossione fino a 180 giorni ed è intenzionato anche a trasferire ai Comuni la gestione delle multe. La misura è stata salutata con favore da Rete Imprese Italia che la giudica come un passo nella giusta direzione e un ristoro per i Piccoli. Resta però senza risposta una domanda: i contribuenti che avevano pagato regolarmente, magari a prezzo di enormi sacrifici, non si sentiranno traditi? E così una riforma ambiziosa come quella fiscale inizia con un'ipocrisia.

Dario Di Vico
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10 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #56 inserito:: Giugno 12, 2011, 05:34:44 pm »

ALLEATI E RIFORME

Il derby che paralizza il governo

Lo scontro Berlusconi-Tremonti complica il rapporto con l'elettorato del centrodestra


MILANO - Ci risiamo. Dopo che il governo per bocca di Silvio Berlusconi aveva formalmente annunciato in una conferenza stampa l'avvio della riforma fiscale entro l'estate, a sole 48 ore di distanza è arrivato il colpo di freno. Il ministro Giulio Tremonti ha invitato alla «prudenza» e ha detto che non si possono tagliare le tasse ricorrendo al deficit. Parlava ai Giovani Industriali ma il destinatario era indubitabilmente l'inquilino di Palazzo Chigi. Ed è quindi ormai evidente che il derby Berlusconi-Tremonti paralizza l'azione di governo, produce un continuo cortocircuito comunicativo che non facilita il rapporto tra il centrodestra e il suo elettorato.

IL TAGLIANDO - Come del resto dimostra ampiamente il risultato delle amministrative che ha visto per la prima volta allentarsi il consenso di settori importanti del mondo delle imprese, del lavoro autonomo, del popolo delle partite Iva. Persino la Lega che pure aveva fatto della chiarezza del messaggio politico un punto di forza della sua azione sta smarrendo il bandolo della matassa. Il continuo rimando all'ormai prossimo raduno di Pontida e agli umori della base cela l'indecisione del gruppo dirigente, che in poche settimane ha bruciato anche il successo di immagine legato all'approvazione del federalismo fiscale. Non è un caso che l'edizione di ieri della Padania si aprisse con un'intervista-lenzuolo al senatore Massimo Garavaglia incaricato di «fare il tagliando al governo» ed esplicito nel denunciare «la mancanza di un'azione organica di sostegno al mondo produttivo». E soprattutto è politicamente significativo il contropiede di Roberto Maroni che ieri ha voluto correggere il collega dell'Economia invitando «al coraggio» piuttosto che alla prudenza. (È la prima volta che dal gruppo dirigente del Carroccio arriva un altolà esplicito a SuperGiulio).

IL RIGORE - Il derby Berlusconi-Tremonti rischia di diventare un calderone che attira tutti i motivi di polemica, persino l'uso dei servizi e la gestione della Rai. Il Paese assiste e in qualche misura resta attonito. Sia chiaro: nessuno può volere che l'Italia diventi un Paese a rischio e che la sua salute finanziaria sia assimilata alle difficoltà in cui versano altri due Paesi mediterranei, la Grecia e la Spagna. La stabilità dei conti pubblici è un pre-requisito e di conseguenza l'impegno per comprimere la spesa va continuato nei termini e nei tempi pattuiti con Bruxelles. Laddove ancora esistono sprechi, incoerenze, duplicazioni, accordi collusivi il bisturi deve colpire impietoso senza risparmiare le Province, gli enti territoriali e i costi della politica. Invece continuare sulla strada dei tagli uniformi, come ancora ieri Tremonti ha sostenuto a Santa Margherita Ligure, è un errore che forse non possiamo più permetterci. Perseverare sarebbe diabolico. Proprio da una delle commissioni tecniche istituite per le riforma fiscale, quella guidata da uno studioso del valore di Piero Giarda, possono arrivare se non una spending review quantomeno suggerimenti interessanti per discriminare il grano dal loglio.

LE COMPETENZE - Tenuti fermi, dunque, i vincoli di finanza pubblica dobbiamo sapere però che il sistema delle imprese ha bisogno della riforma fiscale, come con onestà ha ribadito ieri Emma Marcegaglia. È vero che stiamo recuperando con velocità insperata le quote di export lasciate sul campo e che si sono aperti per il made in Italy nuovi mercati nei quali eravamo per lo più assenti ma il grosso delle imprese, specie le medio-piccole, lavora per il mercato interno. Che risposte pensiamo di dar loro se i redditi ristagnano, i consumi languono, i pagamenti latitano e gli investimenti produttivi vengono rinviati sine die? Chi avanza questa domanda non lo fa per demagogia ma solo perché intuisce che il governo non riesce nemmeno a ideare una politica per la crescita. Forse mancano le competenze.

Dario Di Vico

12 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #57 inserito:: Luglio 01, 2011, 06:40:27 pm »

Il commento

Perché l'Esito è Deludente
   
Usando il linguaggio degli economisti si può convenire che per centrare davvero entro il 2014 il pareggio di bilancio l'Italia e gli italiani sono chiamati a un cambio di paradigma. Devono mutare mentalità, cultura del proprio rapporto con lo Stato, persino stili di vita. E devono farlo - speriamo di riuscire a spiegarlo ai nostri lettori - per i propri figli, per consegnare alle nuove generazioni un Paese all'altezza della sua storia, di nuovo culla di civiltà e innovazione.

Peccato però che chi sta chiedendo ai suoi concittadini questo salto, ovvero il governo di Roma attualmente in carica, il cambio di paradigma non riesca proprio a farlo.
Queste ore e questi giorni ricordano i tempi delle finanziarie omnibus, quando dal Consiglio dei ministri uscivano grandi contenitori legislativi zeppi di provvedimenti, i più disparati e in gran parte destinati a diventare vittime delle scorribande parlamentari. Nella conferenza stampa di ieri sera Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti si sono presi un doppio merito, aver conseguito il pareggio di bilancio e aver raggiunto un moderno patto per il lavoro. Ora il primo obiettivo è ben lungi dall'essere incamerato e comunque moltissimo dipenderà dalla perizia del governo che sarà in carica nel biennio 2013-2014 e quanto all'accordo Confindustria-sindacati è stato così lineare e rapido proprio perché il governo se ne è disinteressato. Un gesto, in verità, l'esecutivo lo poteva fare per mettersi in sintonia con i cambiamenti chiesti ai propri elettori: tagliare i costi della politica e iniziare da subito, proprio per comunicare al Paese il senso di un'emergenza e la compartecipazione delle élite politiche. Ma anche simbolicamente la Casta non si è voluta emendare, ha difeso apertamente le sue prerogative, ha preferito rimandare i tagli alla prossima legislatura e, parole (ben scandite) del premier, «fatti salvi i diritti acquisiti»! Tremonti ha annunciato che sarà formata un'apposita commissione che studierà i costi della politica in Europa e ricalibrerà quelli italiani sulla media dei grandi Paesi dell'euro. Niente da dire sulla metodologia, tranne osservare che se c'era un caso in cui i famigerati tagli lineari si potevano applicare senza remore era proprio quello degli stipendi dei politici.

Nei prossimi giorni conosceremo nel dettaglio le voci della manovra e ne daremo un giudizio più ponderato, per ora l'impressione è quella che i risparmi di spesa si siano concentrati laddove era più facile far cassa, aumentando l'età pensionabile o introducendo i ticket sanitari. (E le partite Iva si sono salvate per un pelo!). Ma l'accusa implicita rivolta all'esecutivo dal governatore Mario Draghi di conoscere poco la mappatura della spesa e quindi di procedere pressoché alla cieca resta tutta in piedi. Un cambio di paradigma avrebbe richiesto che agli italiani fossero sottoposte in piena trasparenza le singole misure di contenimento e la loro incidenza. Ad esempio, c'è un motivo tecnico per cui si evita accuratamente di analizzare l'eliminazione delle Province? Siamo in grado di dire agli elettori quanto si risparmierebbe e su quella base decidere oppure no di procedere?

Anche sul versante della crescita c'è la sensazione che al governo manchino in qualche caso le competenze, in altri le coerenze. Siamo proprio sicuri che trasferire d'ufficio l'Ice alle ambasciate e mettere all'ingresso il cartello «Casa Italia» aiuterà le nostre esportazioni? Il capitolo export non avrebbe meritato ben altro approfondimento e la scelta di una strumentazione più ricca? Lo stesso vale per le liberalizzazioni. Il governo dice di volerle favorire (a parole), mai poi nel concreto il Parlamento sta esaminando un disegno di legge firmato da un esponente di punta del Pdl, Maurizio Gasparri, che punta a limitare una delle poche deregulation che aveva funzionato (e creato posti di lavoro), quella delle parafarmacie. Dando un colpo al freno e uno all'acceleratore in genere le vetture sbandano.

Dario Di Vico

01 luglio 2011 08:47© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/economia/11_luglio_01/divico_esito_deludente_a80316a2-a3ac-11e0-831c-4f5919d97524.shtml
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« Risposta #58 inserito:: Luglio 16, 2011, 04:55:32 pm »

L'intervista

«Ma la macchina dei debiti a Parma non l'ho inventata io»

La difesa del sindaco Vignali: «Volevo trasformare la città. A opere finite , sarà un centro di rango europeo»

dal nostro inviato  DARIO DI VICO


PARMA - Il sindaco di Parma, Pietro Vignali, chiede di parlare. Non ci sta a passare come l'inventore della «macchina dei debiti» e vuole replicare numeri alla mano. Il senso di ciò che dice è chiaro: mi sono mosso nel rispetto formale delle leggi e non ho inventato la finanza creativa. Le grandi opere che hanno causato la parte principale dei debiti sono state fatte dalla precedente giunta guidata da Elvio Ubaldi, prima che la grande crisi cambiasse le carte in tavola e «allora ero sì assessore, ma mi occupavo di ambiente».

La domanda sulle dimissioni non gliela faccio nemmeno, tanto la risposta la so. Non si muove da lì. Parliamo dei debiti. A quanto ammontano?
«L'indebitamento del Comune di Parma nel 2006, prima che fossi eletto sindaco, era di 141 milioni di euro, alla fine del 2011 sarà di 161 e alla fine del 2013 scenderà a 133. Il debito pro capite dei parmigiani è di soli 851 euro, il 56esimo in Italia. Città più importanti hanno sforato nella misura di 3 mila euro per cittadino».
Ma ad oggi, luglio 2011, a quanto ammontano i debiti? «A 170 milioni».

Questi sono i debiti del Comune. Ma quelli delle controllate? L'opposizione dice che viaggiano attorno a quota 600 milioni...
«Quella cifra si ottiene tutt'al più sommando, non correttamente, Comune più controllate. Il debito delle società partecipate oggi è di 419 milioni di euro, ma si tratta di società che non sono al 100% di proprietà nostra. Quindi va calcolato il debito quota parte e alla fine la somma dà soli 238 milioni di euro». (Ad onor di cronaca in un documento del Comune di Parma del dicembre 2010 si leggeva che «i debiti delle controllate a carico al Comune a fine 2009 sono di 319,992 milioni», ndr).
Comunque anche i 238 sommati a quelli del Comune danno 408. Questi numeri chi li certifica?
«Organi societari e revisori delle società controllate. Non le bastano?».
Non sarebbe meglio produrre un bilancio consolidato del Comune?
«Nell'ultimo consiglio comunale abbiamo approvato con il concorso dell'opposizione un regolamento che prevede il consolidato. Comunque l'indebitamento è bilanciato da una robusta patrimonializzazione di tutte le controllate pari a 457 milioni».
Di recente la Corte dei conti ha criticato le operazioni infragruppo fatte dal suo Comune. Avete patrimonializzato le società girando loro asset di proprietà comunale. In questo modo le spa irrobustite si sono potute indebitare con le banche. E avreste fatto tutto ciò per aggirare il patto di stabilità interno.
«Non abbiamo infranto nessuna legge. Abbiamo agito per fare di Parma una città di rango europeo. E lo vedrà, quando saranno finite tutte le opere! La scelta di creare le società miste non è stata mia, ma della giunta che mi ha preceduto. Oggi se si vogliono realizzare grandi progetti bisogna muoversi così».
Torno alla Corte dei conti. Sostiene che: a) avete usato i proventi di cessioni del Comune, oltre 47 milioni, per coprire il disavanzo corrente; b) che avete firmato lettere impegnative di fidejussione nei confronti delle partecipate; c) che avete fatto operazioni di leasing immobiliare che non si giustificavano. E mi fermo.
«Sono rilievi per singoli episodi. Ho trasferito proventi da alienazione di cespiti comunali sul bilancio solo per 20 milioni in tre anni, rispettando sempre le norme. Le lettere fidejussorie impegnative sono due per un totale di 16,8 milioni di cui 14 milioni sono stati firmati dall'amministrazione precedente. Quanto al leasing immobiliare lo usano tutti gli enti locali».
Si rende conto che nella grande Milano ci si accapiglia sull'ipotesi che il Comune abbia un disavanzo di 140 milioni mentre nella più piccola Parma siamo comunque da 400 in su?
«Se Milano conteggiasse l'indebitamento di tutte le controllate quella cifra verrebbe ampiamente superata, mi creda».
All'assemblea degli industriali il presidente Borri ha espresso preoccupazione per l'indebitamento del Comune. Le è dispiaciuto?
«Certo, mi è dispiaciuto perché i debiti sono stati accesi per finanziare le opere che l'Unione industriali ritiene utili per lo sviluppo. Non per altro».
Insomma, gli industriali sono degli ingrati?
«Rilevo solo una contraddizione. E comunque Borri non mi ha rivolto solo critiche. Sono stato io il vero argine dell'indebitamento di Parma. Se non avessi detto no alla costosissima metropolitana, allora sì che sarebbero stati guai. L'amministrazione Ubaldi, in un contesto economico diverso da quello attuale, aveva deciso di farla e io, diventato sindaco, mi sono opposto. Oggi avremmo almeno altri 100 milioni di euro di debiti in più».
Ma lei nella giunta Ubaldi è stato assessore ai Lavori pubblici per nove anni!
«Mi occupavo di ambiente e trasporti, non di opere pubbliche. E comunque prima la metro era una scelta ambiziosa, oggi sarebbe insostenibile».
È stato lei ad autorizzare la controllata Stt a finanziare il film di Salemme sui vigili urbani di Parma?
«No. Non mi risulta che la Stt abbia finanziato Salemme. Il regista è venuto da me chiedendo un contributo e so che il presidente della Stt l'ha indirizzato verso imprenditori privati che potevano essere interessati».

Come è andata la vicenda dei 180 mila euro spesi per delle rose che non sono mai apparse sui ponti di Parma?
«È stata responsabilità di un dirigente del Comune, che c'entra il sindaco? Quanti stretti collaboratori di politici hanno problemi con la magistratura, penso a chi ha lavorato vicino a Vendola o a Bersani. Non potevo sapere che combinassero un pasticcio con le rose, io avrei sicuramente speso di meno e le rose sarebbero arrivate a destinazione».

A proposito di magistratura gli arresti di suoi collaboratori le hanno procurato amarezza o paura?
«Amarezza. Ho totale fiducia nella Procura. Le responsabilità penali sono personali e quindi non ne rispondo come sindaco. Per il posto di comandante dei vigili ho assunto un ex carabiniere, che ne potevo sapere che sarebbe andato a vendere informazioni in giro per guadagnare qualche euro? Di dirigenti ne ho 40, non posso controllare tutto quello che fanno».


16 luglio 2011 09:42
da - http://www.corriere.it/cronache/11_luglio_16/divico_macchina_debiti_19ddb1d4-af73-11e0-8215-204269b1beec.shtml
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« Risposta #59 inserito:: Agosto 02, 2011, 11:39:59 am »

UN’AGENDA PER LA CRESCITA -

Giovedì l'incontro tra l'esecutivo e le parti sociali

Se l’impresa è più credibile dello Stato

L'export italiano fa registrare incrementi paragonabili a quello tedesco.

Ora tocca al governo fare la sua parte


Più 17 per cento. Nei primi cinque mesi del 2011 l'export manifatturiero italiano ha fatto segnare un risultato che si può definire «tedesco». Nello stesso periodo, infatti, il poderoso sistema industriale made in Germanyha incrementato le proprie vendite all'estero del 17,7%. Ci battono, dunque, ma per una volta solo al fotofinish. E lo 0,7% a nostro svantaggio nell'export 2011 è una bazzecola rispetto agli oltre 300 punti base di spread che separano l'affidabilità dei Bund tedeschi da quella dei nostri Btp. Duole dirlo, ma le nostre imprese sono nettamente più credibili e competitive del nostro Stato.

Sembra incredibile che in questa travagliata estate del 2011 possano spuntare notizie come questa ma il dato è di ieri e proviene dall'analisi dei settori industriali che Prometeia e IntesaSanpaolo redigono periodicamente con grande professionalità. L'Italia delle imprese, grandi e piccole, si batte dunque giorno per giorno sui mercati esteri nonostante che il governo abbia incredibilmente pasticciato sulla riforma dell'Istituto del commercio estero, diventata poi per strada un'abolizione secca. Le indiscrezioni che arrivano dalle piazze commerciali sono preoccupanti: spazi espositivi alle fiere disdetti all'ultimo momento, funzionari che non hanno potere di firma, progetti in bilico, eppure il made in Italy non si ferma e corre come una Pellegrini.

Parlare della straordinaria vitalità delle imprese italiane serve più di tante parole di circostanza a spiegare il valore dell'iniziativa avviata in questi giorni dalle forze sociali. Guai a valutarla solo adottando un'ottica romana, guai di conseguenza a compilare un miope catalogo delle convenienze. Dietro quel documento più che un elenco di sigle c'è un'Italia che non si arrende e chiede alla politica di fare il suo mestiere. Un'Italia che per buona parte alle ultime politiche ha votato per il centrodestra e oggi si sente delusa. Quando furono resi noti i punti-chiave della manovra di rientro ideata dal governo e furono avanzate le prime critiche per la debolezza delle misure pro-crescita, ministri ed esponenti della maggioranza reagirono nervosamente. Ora lo dichiarano tranquillamente anche i più ligi: sarà per un deficit di competenze, sarà per la difficoltà obiettiva di varare misure immediatamente redditizie, non abbiamo un'agenda - forse neanche un block notes - della crescita. Nei mesi scorsi abbiamo sprecato l'occasione del Pnr, il piano di riforme che Bruxelles da quest'anno chiede ai Paesi membri. Andate a consultare i rispettivi documenti di Italia, Francia e Germania (Corriere, 6 luglio 2011) e vedrete la differenza. Laddove Parigi e Berlino avevano individuato il loro asse di sviluppo, noi abbiamo balbettato.

Bene hanno fatto dunque Marcegaglia, Mussari, Malavasi, Marino, Bonanni, Camusso e gli altri a prendere l'iniziativa. Tutti i leader delle categorie produttive sanno benissimo che siamo entrati in una fase «geneticamente» nuova delle politiche pubbliche e sono coscienti che da oggi in poi non si potrà più produrre crescita tramite incremento della spesa. Non per questo si sono arresi e del resto non potrebbero, gli uni perché devono rendere conto agli imprenditori del «più 17%» e gli altri perché hanno una responsabilità nei confronti dei lavoratori che stanno firmando ovunque accordi aziendali orientati all'aumento di produttività e alla condivisione degli obiettivi. Seppur con qualche ritardo, bene ha fatto anche il governo a prendere sul serio il manifesto delle parti sociali e a organizzare un incontro formale per giovedì 4 a Roma. Ma attenzione, stavolta gli italiani non vogliono vertici ad uso dei fotografi o, peggio, kermesse oratorie. I cittadini che si stanno concedendo una pausa per le meritate ferie e i loro connazionali che quest'anno non avranno i soldi per lasciare la città hanno un'aspettativa in comune: pregano che da quella riunione esca un messaggio chiaro, un'inversione di tendenza, una scossa, una discontinuità. Scegliete la metafora che volete ma governo e parti sociali hanno solo 48 ore per prepararla. Non sprecatele.

Dario Di Vico

02 agosto 2011 09:25© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/economia/11_agosto_02/se-l-impresa-e-piu-credibile-dello-stato-dario-di-vico_969d3620-bcc7-11e0-b530-d2ad6f731cf9.shtml
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