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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 277940 volte)
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« Risposta #240 inserito:: Settembre 24, 2011, 11:53:35 am »


Bussole

Ilvo DIAMANTI


Se i figli trentenni se ne andassero di casa

Ha fatto rumore l'episodio dei genitori di Mestre che si sono rivolti a un'associazione di consumatori per indurre il figlio ad andarsene di casa. Non ce la facevano più ad accudirlo. A garantirgli il tetto, i pasti, la biancheria pulita. Ha fatto rumore perché lui, il figlio, ha 41 anni. Ed è "sistemato". Uno stipendio sicuro, un buon lavoro nella pubblica amministrazione. Ma forse la ragione di tanta eco sui media è diversa. Perché, in fondo, il sedicente giovane non è il solo in questa condizione, alla sua età. Al contrario. Visto che l'età media in cui i figli escono dalla casa materna (e paterna), in Italia, è di 31 anni. E circa un terzo di coloro che hanno 34 anni  vive ancora con i genitori. D'altronde, le ragioni di questa convivenza lunga sono molte e si collegano al differimento continuo dell'uscita dalla giovinezza. Che viene spostata sempre più avanti, sempre più in là. Insieme all'autonomia, che costituisce il "distintivo" dell'età adulta.

Perché il lavoro per i giovani manca. È, comunque, intermittente e precario. Perché gli studi durano a lungo. Dopo i licei: l'università senza fine. Tre più due, più altri periodi trascorsi a frequentare master, stage, corsi di formazione. In giro per l'Italia e, ancor più, all'estero.
Perché c'è una componente ampia di giovani "sospesi". Secondo l'Istat, due milioni che non studiano e non lavorano. Hanno finito gli studi e non trovano lavoro. Oppure, se lo trovano, si accontentano, si debbono accontentare, di lavoretti informali.

Così la giovinezza si allunga  -  e l'età adulta si allontana.  Sempre di più. Insieme alla dipendenza dalla famiglia. Che offre una sponda, un appiglio. Fra un corso e l'altro, fra un lavoro e l'altro, fra un'esperienza e l'altra. La giovinezza, un tempo, era apprendistato. Serviva a imparare il mestiere di adulto. Le logiche e le regole del vivere sociale. (Oltre ai "valori" del sistema.)
Metter su famiglia e casa, fare figli,  lavorare... Non ci sono più "riti di passaggio". Non solo il lavoro, anche i valori, la famiglia, i figli. Non è più come una volta. Oggi è tutto instabile, precario. Così la casa paterna (e materna) diventa un porto, una stazione, in cui rientrare, fermarsi un poco. Per poi ripartire. Fra un passaggio e l'altro della biografia incerta e indefinita che contrassegna la gioventù del nostro tempo.

Certo, il caso del sedicente giovane di Mestre può apparire diverso. Perché ha più di 40 anni, non è un precario, ma lavora.
Ha un impiego sicuro e stabile. Se non se ne va dalla casa dei genitori è per motivi utilitari. Non per necessità. Però, a pensarci bene, anche i giovani più giovani, quelli che studiano sempre più a lungo, quelli che lavorano a intermittenza, quelli che viaggiano per studio e lavoro. Lo fanno per necessità, certo, ma anche per opportunità. Perché, in questo modo, possono "condividere" il rischio e l'instabilità della vita con i genitori. Allungare la propria "giovinezza", cioè, il proprio apprendistato. Alla ricerca  -  e nell'attesa - di un porto e di un posto migliore. In Francia, invece, i giovani escono di casa da giovani, davvero. Cioè, intorno ai 25 anni. Lo stesso, più o meno, negli altri Paesi Centro e Nord europei. Dove, però, lo Stato li sostiene maggiormente. Nonostante la crisi del Welfare.

In Italia, invece, il sostegno pubblico è tutto a favore delle generazioni più anziane. E l'istituzione che si accolla i costi della formazione e dell'apprendistato biografico delle generazioni più giovani è, soprattutto, la famiglia. I genitori, che affrontano l'assistenza dei "nonni", con il ricorso alle badanti. E offrono asilo (è il caso di dirlo) ai figli, sempre più a lungo. Anche quando mettono su famiglia e fanno a loro volta figli. E vanno ad abitare al piano di sotto o nell'appartamento di fronte. Così da poter affidare i figli ai nonni. Per questo nel caso del quarantunenne allontanato di casa dai genitori non stupisce tanto la"resistenza" del figlio-adulto, ma, semmai, la ribellione dei genitori. In questa società senza più confini generazionali, dove il passaggio tra giovinezza - età adulta e anziana  -  vecchiaia avviene in modo fluido e in-definito, i genitori raramente si ribellano. Non tanto perché è difficile - i figli sono sempre figli. Ma perché ai genitori, in fondo, non conviene spezzare il legame con i figli. Anche se li mantengono a lungo, la casa è  un porto  e un posto di passaggio, senza orari e senza programmi. Però, non sono solo i figli ad aver bisogno dei genitori. È vero anche il contrario. Se i figli unici se ne andassero davvero. A trent'anni e anche prima. Se "abbandonassero" i genitori. I genitori che farebbero? Perderebbero il  "controllo" sui figli e sulla loro biografia. Si ritroverebbero soli - o peggio: insieme ai nonni, poco autosufficienti.

Per questo il caso del quarantunenne di Mestre ha suscitato tanto interesse, ma anche tanta preoccupazione. Tra i gli adulti.
Cosa succederebbe se il contagio si propagasse? Se molti altri "giovani" trentenni se ne andassero? Non per costrizione, ma per attrazione. Sedotti dal richiamo del Pifferaio di Hamelin, che li guida verso la Terra dell'Autonomia e dell'Indipendenza. Senza di loro, i genitori si scoprirebbero soli. E vecchi. All'improvviso. Senza più alibi. Aggrediti dalla noia e dalla tristezza.

(23 settembre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2011/09/23/news/figli_casa-22095165/?ref=HREC2-2
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« Risposta #241 inserito:: Settembre 26, 2011, 05:17:12 pm »

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Aspettando le elezioni nel Deserto dei Tartari

di ILVO DIAMANTI


ANCHE IERI si è ripetuto il logoro copione che si recita in Italia, da oltre un anno e forse più. Bersani ha invocato un governo di emergenza. Gli hanno fatto eco Fini e Casini, invocando nuove elezioni. Ma Berlusconi ha ribadito che non ha nessuna intenzione di dimettersi.

Né di anticipare il voto, senza la sfiducia del Parlamento. Anche se ormai la sua parabola è alla fine. O, forse, proprio per questo. Se uscisse di scena, a differenza del passato, stavolta difficilmente riuscirebbe a rientrare in gioco. Parallelamente, nel Pdl, pochi  -  oltre a Pisanu  -  sembrano disposti ad accantonare il proprio leader-padrone. A parte il fatto che nessuno ne avrebbe la forza, tutti si rendono conto che senza Berlusconi il Pdl resterebbe privo di identità e organizzazione. La stessa Lega vive con disagio crescente l'alleanza con Berlusconi. Soprattutto i militanti e la base, sempre più insofferenti. Ma Bossi e suoi fidi esitano a staccare la spina.

Il destino dei due leader è reciprocamente legato. Se Berlusconi cadesse, la posizione di Bossi verrebbe compromessa. Senza il Pdl e senza Berlusconi (per non dire senza Bossi), lontano dal governo: la stessa Lega, rischierebbe la marginalità politica e il declino elettorale. Come avvenne dopo la svolta secessionista del 1996. Una prospettiva insopportabile per un partito che ha da difendere (e da perdere) molti posti di governo  -  e di sottogoverno. Nella pubblica amministrazione e nella finanza. A livello nazionale e locale.

Così
Berlusconi e il centrodestra "resistono" in Parlamento. Dove dispongono ancora di una maggioranza precaria. Sufficiente a garantire la "fiducia" quando è necessario. Mentre tra gli elettori oggi sono una minoranza, largamente "sfiduciata" dai cittadini.

Ciò rende il ricorso a elezioni anticipate assai improbabile. Anche se l'ipotesi echeggia, un giorno sì e l'altro pure. Ma le elezioni non le vuole nessuno. Anzitutto nella maggioranza. Figurarsi. Oggi, per il centrodestra, significherebbe perderle. Anche se Berlusconi dà il meglio di sé in campagna elettorale, quando è dato per spacciato. Ma stavolta è diverso. La sua stagione è finita. I valori e i modelli su cui ha fondato il proprio successo: logori e inattuali. La sua immagine non attrae più. Semmai avviene il contrario. La sua "base sociale" l'ha abbandonato. Gli imprenditori piccoli e grandi: ne chiedono le dimissioni da mesi. Ai loro congressi basta inveire contro il governo e il presidente del Consiglio per sollevare grandi boati di approvazione. La stessa Chiesa appare tiepida. Anche se le gerarchie mantengono un atteggiamento fin troppo prudente di fronte ai modelli e agli stili di vita proposti da chi guida il Paese.

Insomma, si tratta del momento peggiore per andare al voto, dal punto di vista di Berlusconi e del Pdl. Ma anche dal punto di vista della Lega, in evidente difficoltà nel recitare la parte dell'opposizione, dopo aver sostenuto fedelmente Berlusconi, da dieci anni in qua. Bossi lo ha detto esplicitamente a Pontida. È cambiato il "ciclo politico". A favore della Sinistra. E allora, perché votare? Tanto più che neppure a sinistra  -  nonostante il vento favorevole  -  si coglie molta voglia di andare al voto presto. Il Pd non si sente pronto. È diviso sulla questione delle alleanze. L'idea del Nuovo Ulivo, insieme all'Idv e a Sel, a Di Pietro e Vendola, dispiace a una parte del Pd, che preferirebbe la Grande Coalizione con il Terzo Polo. E teme di spingere l'Udc in braccio al centrodestra. A ragione, visto che le sorti della competizione elettorale diverrebbero altamente incerte.

Peraltro, la prospettiva del voto avvicinerebbe le primarie. Su cui nel Pd non c'è armonia di vedute. Quando e come farle? Primarie di partito o di coalizione? Oppure entrambe? Perché le primarie al gruppo del Pd piacciono quando l'esito è scontato. Non se sono davvero "aperte".

Infine, c'è la questione della "legge elettorale". Votare presto costringerebbe a utilizzare il famigerato Porcellum. Proprio mentre l'iniziativa referendaria, promossa da Parisi, volta ad abrogarlo e ristabilire il sistema elettorale precedente, ha ottenuto un massiccio sostegno popolare. Viaggia ben oltre le 500mila firme. Non a caso Alfano, a nome di Berlusconi, nei giorni scorsi, si è detto pronto a riformare l'attuale legge. Presumibilmente, per prendere tempo. E per evitare un nuovo referendum. Rischioso come il precedente, per il centrodestra. Mentre al Terzo Polo non piacciono né il Porcellum né il Mattarellum.

Mi rendo conto che questa ricostruzione, pedante e un po' prolissa, può apparire noiosa e scontata. Persino banale. Tuttavia, mi è parso utile proporla. Non solo a memoria futura  -  e presente. Ma perché dà il senso di quel che sta capitando nel nostro sistema politico. Mentre tutto intorno ci crolla addosso. Mentre le vicende politiche e i mercati globali richiederebbero  -  e, anzi richiedono  -  un governo che governi e un presidente del Consiglio credibile  -  o almeno non squalificato. Sostenuto da una maggioranza che sia tale non solo in Parlamento  -  e spesso neppure lì. Ma anche tra i cittadini e gli elettori.

In Italia, invece, viviamo un tempo di elezioni e dimissioni imminenti. Sempre possibili e da molte parti auspicate. Ma puntualmente scongiurate e rinviate. È come fossimo perennemente in crisi di governo. In campagna elettorale permanente. Quando non è possibile decidere nulla, perché è importante inseguire e conquistare ogni segmento di opinione pubblica. Ogni frammento del mercato elettorale. Un giorno dopo l'altro. Un momento dopo l'altro. Così tutto si agita, nel nostro piccolo mondo. Ma tutto resta uguale. Mentre fuori infuria la bufera (politica, monetaria, economica, finanziaria...).

Verrebbe da evocare la fortezza Bastiani, dove l'ufficiale Giovanni Drogo, insieme alla sua guarnigione, attende l'arrivo del nemico. Che non arriva mai. Nel Deserto dei Tartari narrato da Dino Buzzati. Ma si tratterebbe di una citazione troppo nobile, per il nostro povero Paese. Per il penoso spettacolo offerto dalla nostra scena politica. Che mi rammenta, piuttosto, un tapis roulant. Dove cammini e corri, con continui cambi di velocità e di pendenza. Ma resti sempre fermo. Nello stesso posto. Nella tua stanza. Senza una meta. Senza un orizzonte. Mentre il mondo fuori incombe.

(26 settembre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/09/26/news/aspettando_elezioni_diamanti-22223163/?ref=HREC1-2
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« Risposta #242 inserito:: Ottobre 06, 2011, 04:53:17 pm »

Appunti di un giovane pessimista e "abbastanza felice"

Ilvo DIAMANTI

Mi chiamo Gianluigi e ho 35 anni. Mi sono laureato in Scienze economiche e specializzato in Studi aziendali. In realtà, non sono mai riuscito a fare un lavoro affine ai miei studi. Per la precisione, non ho mai fatto un lavoro vero. Perlomeno, secondo l'idea che ne ha mio padre. Un lavoro stabile, da "laureato", come quand'era giovane lui. Ma ho fatto un po' di tutto, in modo rigorosamente temporaneo.  Sei mesi qui, un anno là, a progetto, a termine, part time. Come mia sorella Martina, d'altronde, che è un po' più giovane di me e si è messa in testa di fare la giornalista. Ha preso la laurea in Scienze della Comunicazione e poi ha fatto Corsi e Scuole  di Giornalismo - dovunque e di qualunque indirizzo. Per le aziende private, per la Pubblica Amministrazione, per i New Media. Mai più di due mesi nello stesso posto - di lavoro. Cioè: non riesce a trovare una soluzione stabile. Un giornale, un'azienda, un ente, un'agenzia che le dia un contratto per un periodo decente. Fortuna che abbiamo un tetto e un punto di riferimento. A casa dei nostri. Che non ce lo fanno pesare, perché, in realtà, a loro non dispiace averci vicino. Di tenerci, comunque, legati a loro. Per il resto, facciamo la nostra vita, abbiamo i nostri amici, le nostre relazioni. (Niente di troppo impegnativo, però. Non ce lo possiamo permettere e comunque non ci interessa.) Ci muoviamo spesso. Si viene e si va. Per motivi di aggiornamento, lavoro, amicizia ma anche per sfuggire al controllo domestico.

Insomma, la precarietà, per me, è la regola. Un po' faticosa, ma mi ci sono adattato. Non so cosa farò in futuro e in realtà non ricordo bene neppure cosa intendessi fare all'inizio. Sono passati troppi anni, troppi corsi, troppe occupazioni. Ma forse un'idea precisa non ce l'avevo neppure allora. Seguivo il vento di quegli anni, quando il mito del Nordest (dove abito) era in ascesa e c'era grande fiducia nel futuro delle imprese e dell'economia locale.

Ora, però, confesso che fatico a essere ottimista sul futuro professionale. Non solo il mio, personale. Anzi, se allargo lo sguardo, il pessimismo cresce. Quel che vedo non mi piace. La politica mi deprime. Uso un eufemismo, perché, per educazione, sono abituato a non esagerare neppure nel linguaggio. Però, il ceto politico, gli uomini di governo non mi ispirano nessuna fiducia. Li reputo incapaci e moralmente discutibili. Responsabili del disastro in cui siamo affondati. Da cui non riusciamo a uscire perché l'economia mondiale e quella del Paese sono in condizioni pessime. E non si vedono spiragli. La speranza è debole. La crisi, questa crisi, è destinata a durare ancora a lungo. Quanto? Chi lo sa. E chissà se il nostro sistema, la nostra economia, il nostro mercato riusciranno a resistere senza collassare. Ne dubito molto. Insomma, non mi attendo nulla di buono, sul piano personale e su quello pubblico.

Ne parlavo ieri sera con i miei amici, al bar. Mentre ci facevamo uno spritz. Come capita la sera. Quando ci ritroviamo insieme. E la tiriamo lunga. Per non rientrare a cena. Ieri, tutti, più o meno, raccontavano vicende e impressioni simili. Alle mie. Capita spesso che ci perdiamo in discorsi come questi Noi, giovani-adulti, d'altronde, abbiamo biografie e sentimenti che si rispecchiano. Poi, a un certo punto, qualcuno - non ricordo di preciso chi - si è detto e ci ha detto:  "Però, nonostante tutto, mi sento felice. Insomma: abbastanza felice. Almeno, nel mio piccolo". E tutti gli altri, tutti noi, abbiamo annuito. Echeggiato. "Sì. È vero, siamo abbastanza felici. Nel nostro piccolo". Anch'io: quando sono a casa mia, insieme a voi, nella mia vita quotidiana. Mi sento abbastanza felice. Tanto più se fuori piove e fa freddo. Il mio piccolo mondo privato mi fa sentire protetto. E se il domani è incerto, beh... meglio attendere. Domani è un altro giorno. Si vedrà. 


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* Il 19% degli italiani intervistati nel corso di un recente sondaggio si dice "molto felice", il 65% "abbastanza". In totale, si tratta dell'84% della popolazione. Le maggiori percentuali riguardano: i più giovani, fra 15 e 24 anni: 98%; i "giovani-adulti", fra 25 e 34 anni: 87%. Le persone con maggiore istruzione e gli studenti: oltre il 90%  (Demos & PI., settembre 2011, campione nazionale di 1.326 casi).

(06 ottobre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2011/10/06/news/bussole_6_ottobre-22775013/
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« Risposta #243 inserito:: Ottobre 06, 2011, 05:11:01 pm »

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La repubblica del presidente

di ILVO DIAMANTI

Giorgio Napolitano non era mai stato così duro nei confronti della Lega Nord, prima. Ne aveva, anzi, sostenuto le rivendicazioni principali. In tema di federalismo ma anche di fisco e burocrazia. La Lega, d'altra parte, aveva offerto al Presidente una sponda utile, nella maggioranza, in occasione dei ricorrenti conflitti con il Premier, alla continua ricerca di vie di fuga dai propri guai giudiziari.

Ieri questo rapporto si è spezzato, in modo difficilmente recuperabile. Perché la condanna di Napolitano ha colpito i miti e i riti dell'identità leghista, proprio nel momento in cui vengono rilanciati. La secessione, ma, soprattutto, il "popolo padano". Liquidato insieme alla manifestazione di Pontida. Un "prato", dove si alzano le grida di "una certa parte di elettori".

Un intervento così esplicito si spiega con il drammatico momento che attraversa il Paese. E con il ruolo assunto da Napolitano, soprattutto nell'ultimo anno. Il garante e il portabandiera  -  tricolore  -  dell'Unità. Nazionale e Politica.

Non molti avrebbero scommesso sul successo delle celebrazioni in occasione del 150enario dell'Unità d'Italia. D'altronde, l'Italia è un Paese di paesi, Regioni, città. Imprese e famiglie. Gli italiani. Orgogliosi del patrimonio artistico, della cucina, del paesaggio, delle tradizioni locali. Molto meno delle istituzioni. Per nulla della politica. La Lega ne aveva approfittato per rilanciare la Padania e la secessione. I miti fondativi. Ma anche per rispondere alla disaffezione degli elettori e dei militanti. Insoddisfatti della "Lega di governo" saldamente insediata a Roma. Delusi dagli esiti della riforma federalista, frustrata dalla pesante perdita di risorse e, quindi, di autonomia dei governi locali.

Tuttavia, le celebrazioni del 150enario hanno reso visibile e, anzi, amplificato il sentimento nazionale. Mentre le minacce leghiste hanno contribuito a rinsaldarlo ulteriormente. Facendo emergere, anzi, significative divisioni nella stessa Lega. Visto che la maggioranza dei suoi elettori si sente "italiana" assai più che "padana". Come, d'altra parte, alcuni importanti dirigenti leghisti del Lombardo-Veneto. Per esempio: il sindaco di Verona, Tosi, e il vice-sindaco di Treviso, Gentilini.

Giorgio Napolitano ha, così, impersonato l'Unità nazionale e ne ha alimentato il sentimento, girando per l'Italia. Ne ha tratto, a sua volta, legittimazione e consenso. Oggi è la figura istituzionale che gode di maggiore fiducia tra gli italiani. Senza paragone, visto che oltre l'80% esprime grande stima nei suoi riguardi. Per questo ha deciso di rompere ogni indugio e ogni prudenza tattica. Proprio oggi. Mentre le celebrazioni del 150enario si avviano alla conclusione. Per delegittimare ogni accenno alla secessione e alla Padania. E sancire il valore con-diviso dell'Unità nazionale, in modo in-discutibile. Tuttavia, l'intervento di Napolitano ha, indubbiamente, anche un significato politico.

In primo luogo, come ha scritto ieri Ezio Mauro, perché costringe la Lega a uscire dall'ambiguità.

Un partito di governo, che occupa ruoli di prioritaria importanza nelle istituzioni nazionali e locali: non può sostenere apertamente la secessione. L'inesistenza della Nazione italiana, in nome di altre Nazioni  -  inesistenti. Per proprie ragioni politiche.
Deve, altrimenti, trarne le conseguenze. "Uscire dalla legalità costituzionale". E anzitutto dal governo.

In secondo luogo, l'intervento di Napolitano riflette la preoccupazione  -  e una certa angoscia  -  nei confronti di questa crisi. Economica, finanziaria, sociale. E, ancora: istituzionale e politica. Una crisi di legittimità e di rappresentanza, che investe la classe politica e soprattutto il governo.

Con pesanti e pericolose conseguenze, sul piano economico e finanziario internazionale. Visto che la sfiducia dei mercati è, in gran parte, prodotta dalla in-credibilità del nostro governo e del suo leader. Con pesanti e pericolose conseguenze anche sul piano interno, nel rapporto con la società civile. Non è un caso che l'intervento di Napolitano venga all'indomani delle aperte critiche espresse dalle associazioni imprenditoriali e dalla Cei. Nello stesso giorno in cui i promotori del referendum contro l'attuale sistema elettorale annunciavano che le firme avevano superato un milione e duecentomila. Ben oltre le previsioni più ottimistiche. Segnale inequivocabile, come ha sottolineato il Presidente, della sfiducia dei cittadini verso questo sistema elettorale, che "produce" un Parlamento e una classe politica "irresponsabili". Senza collegamento con il territorio e con gli elettori. Da ciò l'auspicio a favore di una nuova e diversa legge elettorale, che faciliti "il ritorno della fiducia nelle istituzioni".

Difficile non trarre le implicazioni "politiche" di queste considerazioni "politiche".

Il Presidente, infatti, teme il protrarsi ulteriore di una crisi ormai degenerata, ma che non trova sbocco. A causa di un sistema politico paralizzato e di un governo isolato e diviso. Troppo debole per governare, ma anche per cadere. Di un Parlamento a sua volta troppo debole per far cadere il governo. Di istituzioni delegittimate e sfiduciate dai cittadini. Napolitano. Spinge, da tempo, per una soluzione rapida. Ma teme una consultazione elettorale troppo ravvicinata. Perché avverrebbe in un clima avvelenato, che potrebbe produrre ulteriori lacerazioni nel tessuto civile. Mettere a rischio la stessa democrazia. Perché, inoltre, si svolgerebbe con questa legge elettorale, messa in mora dal referendum. Scomunicata da Napolitano, avversata da molti esponenti politici - di opposizione ma anche di governo. Il Presidente dell'Unità nazionale: vorrebbe un governo di Unità nazionale. Composto da tecnici autorevoli, sostenuta da una larga maggioranza  -  politicamente trasversale  -  del Parlamento. Guidato da una figura di prestigio, sopra le parti. Un governo a termine, per scrivere una nuova legge elettorale. Per restituire credibilità alle istituzioni e all'Italia. Presso i governi e i mercati internazionali. Presso i cittadini.

Giorgio Napolitano, in nome dell'Unità nazionale, agisce come il Capo di una Repubblica presidenziale  -  di fatto. Per evitare il decomporsi di questa Repubblica preterintenzionale. Prima che sia troppo tardi.

(02 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/dal-quotidiano/rubriche/2011/10/02/news/la_repubblica_del_presidente-22547901/?ref=HRER1-1
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« Risposta #244 inserito:: Ottobre 13, 2011, 05:41:04 pm »

Ragazzi, studiate!

Meglio precari oggi che servi per sempre

Ilvo DIAMANTI

La settimana prossima riprenderò a insegnare. A Urbino. Dopo molti mesi di assenza forzata. Insegnare, d'altronde, è un privilegio.
Come leggere e studiare. Molte persone lo fanno "gratuitamente". Per curiosità, interesse. E per piacere. Io vengo stipendiato, per farlo. E ho la fortuna di incontrare i giovani - ogni anno diversi. (Spesso, mi viene in mente il protagonista de "Il Sipario ducale", scritto da Paolo Volponi. Ambientato a Urbino. Un anziano intellettuale anarchico, che, a volte, attendeva l'uscita degli studenti del liceo e si perdeva in mezzo a loro. Per sentirsi giovane. E libero).

Dedicherò il mio corso, come avviene da alcuni anni, al tema dell'opinione pubblica. In particolar modo, al rapporto tra opinione pubblica e democrazia rappresentativa. Mi interrogherò, dunque, sulla coerenza e sulla concorrenza fra i sondaggi e le elezioni. Tra il marketing politico e la partecipazione. Argomenti, mi rendo conto, che non offriranno agli studenti competenze utili, spendibili, sul mercato del lavoro. Non serviranno loro a cercare e a trovare un impiego, domani. Neppure a farsi largo nel mercato politico. Gran parte del ceto politico non è certo stato reclutato in base alla competenza. Né alla conoscenza dei meccanismi e delle regole della democrazia. Eppure, mi sento di dire che studiare queste cose, al pari delle altre che si insegnano all'università e a scuola, è importante. Lo dico echeggiando l'esortazione  -  l'invettiva  -  amara che ho lanciato oltre un mese fa 1.

Cari ragazzi e ragazze, cari giovani: studiate. Soprattutto  -  anche se non solo  -  nella scuola pubblica. Ma anche quando non siete a scuola. Quando siete a casa vostra o in autobus. Seduti in piazza o ai giardini. Studiate. Leggete. Per curiosità, interesse.
E per piacere. Per piacere. Anche se non vi aiuterà a trovare un lavoro. Tanto meno a ottenere un reddito alto. Anche se le conoscenze che apprenderete a scuola vi sembreranno, talora, in-attuali e im-praticabili. In-utili. Nel lavoro e anche fuori, spesso, contano di più altre "conoscenze" e parentele. E i media propagandano altri modelli.  Veline, tronisti, "amici" e "figli-di"...  Studiate. Gli esempi diversi e contrari sono molti. Non c'è bisogno di rammentare le parole di Steve Jobs, che esortava a inseguire i desideri. A essere folli.
Guardatevi intorno. Tanti ce l'hanno fatta. Tanti giovani  -  intermittenti e flessibili  -  sono convinti di farcela. E ce la faranno. Nonostante i giovani  -  e le innovazioni  -  in Italia facciano paura.

Studiate. Soprattutto nella scuola pubblica. Anche se i vostri insegnanti, maestri, professori non godono di grande prestigio sociale.
E guadagnano meno, spesso molto meno, di un artigiano, commerciante, libero professionista... Anche se alcuni di loro non fanno molto per farsi amare e per farvi amare la loro disciplina. E, in generale, l'insegnamento. Anche se la scuola pubblica non ha più risorse per offrire strumenti didattici adeguati e aggiornati. Anzi, semplicemente: non ha più un euro. Ragazzi: studiate. Nella scuola pubblica - che è di tutti, aperta a tutti. Studiate. Anche se nella vita è meglio furbi che colti. Anzi: proprio per questo. Per non arrendersi a chi vi vorrebbe più furbi che colti. Perché la cultura rende liberi, critici e consapevoli. Non rassegnatevi. A chi vi vorrebbe opportunisti e docili. E senza sogni. Studiate. Meglio precari oggi che servi per sempre.

(12 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2011/10/12/news/ragazzi_studiate-23110142/?ref=HREC2-1
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« Risposta #245 inserito:: Ottobre 24, 2011, 05:17:44 pm »

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Italia, un paese sospeso tra indignazione e sfiducia

Il governo tira avanti anche se gli elettori giudicano conclusa la parabola berlusconiana.

La fiducia nel Cavaliere è ai minimi. Il centrosinistra sembra poter vincere ovunque.

La partita delle alleanze del centro. E la frustrazione diventa un impegno collettivo

di ILVO DIAMANTI


QUESTA LEGISLATURA resiste. Malgrado che, da mesi, tutti ne evochino la fine. Invocata dall'opposizione, esorcizzata dalla maggioranza. Malgrado che gran parte degli elettori (oltre il 70%) ritenga la parabola di Berlusconi ormai conclusa. Non credono alla risalita del Cavaliere neppure gli elettori del Pdl (45%), tantomeno i leghisti (20%).

Tuttavia, si prosegue. O meglio, si staziona. Mentre la sfiducia dei cittadini cresce, insieme all'incertezza nel futuro. I dati dell'Atlante Politico di Demos, raccolti attraverso un sondaggio condotto durante la scorsa settimana, descrivono, infatti, uno scenario statico e pressoché stagnante, sul piano elettorale.

I due principali partiti confermano il loro debole primato nella coalizione. Il Pd, in lieve calo, si attesta intorno al 28%. Il Pdl, in lieve crescita, raggiunge il 26%. Insieme superano di poco il 54%. Alle politiche del 2008 erano oltre il 70%. Una conferma di più che la prospettiva bipartitica è ormai illusoria. Ma, soprattutto, un segno di crisi del bipolarismo così come l'abbiamo conosciuto.

D'altronde, gli alleati dei due partiti maggiori - IdV e SEL, a centrosinistra, la Lega, a centrodestra - occupano uno spazio rilevante. Ma non possono svolgere un ruolo aggregante. Non ne hanno la vocazione e tanto meno il peso. La Lega, peraltro, appare in calo sensibile.

Gli scenari elettorali tracciati in base alle possibili coalizioni confermano le tendenze dell'ultimo anno. Il Centrosinistra - impostato sull'alleanza fra PD, IdV e SEL - sembra in grado
di prevalere comunque. Da solo, in una competizione a tre, contro il Centrodestra e il Centro. A maggior ragione, se alleato con il Centro. Ma anche messo di fronte al Centrodestra allargato al Centro. Il quale conferma la sua difficoltà coalizionale. Perché i suoi elettori soffrono ogni spostamento; verso sinistra, ma anche verso destra. Mentre da solo il Terzo Polo allargherebbe i consensi molto al di là della somma del voto attribuito ai partiti che ne fanno parte  -  UdC, API, FLI.

Le stime di voto si riflettono nelle previsioni degli elettori. Quasi il 50% di essi pensa che se si votasse oggi vincerebbe il Centrosinistra, il 37% il Centrodestra, per il quale significa 10 punti in più rispetto a un mese fa. La ripresa del Centrodestra, nella percezione degli elettori è favorita, forse, dal successo alle Regionali in Molise, per quanto stentato. Ma è, soprattutto, un segno che si respira aria di elezioni anticipate. Non a caso si è ridotta la quota di coloro che, al proposito, non esprimono un'opinione. D'altronde, è diminuita sensibilmente anche la "zona grigia" dell'incertezza e dell'astensione elettorale. Oggi non supera il 25%: circa 10 punti percentuali meno di un mese fa.

Eppure, l'orizzonte resta pervaso dall'incertezza. Di fronte alla crisi politica attuale, infatti, gli elettori si dividono in modo eguale fra le tre soluzioni proposte: un governo di emergenza, guidato da una figura autorevole (l'ipotesi preferita, anche se di poco: 34%); nuove elezioni nei prossimi mesi; oppure tirare avanti, con questo governo, fino al 2013. Insomma, come si è detto, questa legislatura sfinita non si decide a finire. Anche se la stanchezza del governo è evidente e riflette, anzitutto, la stanchezza della leadership.

La fiducia nei confronti di Silvio Berlusconi, infatti, è ai minimi (22%, quasi come il mese scorso). Più basso di lui, solo Bossi, il fedele alleato. I due appaiono saldamente legati, nella buona e nella cattiva sorte.
Tuttavia, questa palude di sfiducia rischia di inghiottire tutto e tutti. Non solo i partiti e gli uomini della maggioranza.

Basta guardare gli indici di fiducia nei confronti dei leader politici. Tutti in calo. In testa è tornato Tremonti, con il 37% di consensi. Ma solo perché, nell'ultimo mese, ha perso meno degli altri. Un anno fa, tuttavia, il credito verso il ministro dell'Economia era superiore di 10 punti percentuali. Il leader del PD, Bersani, ottiene la fiducia del 34% degli elettori: 7 punti meno di un anno fa. L'indice di fiducia verso Vendola, rispetto al novembre 2010, è sceso addirittura di 15 punti. Ora è al 33%.

Perfino Beppe Grillo - che, sulla sfiducia verso "tutti" i partiti, ha fondato la propria fortuna - nell'ultimo anno ha perso 8 punti di consenso. Di Pietro, restando fermo al 35% come un anno fa, è quasi in testa alle preferenze. Il fatto è che la fiducia si è rarefatta. Basti pensare che nella graduatoria costruita in base agli indici di fiducia personale, nel novembre del 2010, il leader posizionato al 5° posto, cioè a metà, otteneva il consenso del 39% degli intervistati. Oggi la fiducia verso il leader che occupa la medesima posizione è scesa al 30%.

La sindrome della sfiducia affligge tutti gli attori politici. I partiti per primi: "stimati" (si fa per dire) da meno del 5% dei cittadini. Ma anche le istituzioni. Lo Stato (il cui l'indice di fiducia si è ridotto al 20%), la stessa magistratura (42%: 7 punti meno di un mese fa). L'onda grigia lambisce perfino il presidente della Repubblica, che dispone di un consenso cosmico, rispetto a tutti gli altri. Il 70% dei cittadini esprimono "molta/moltissima" fiducia nei suoi confronti. Il che significa, però, 4 punti in meno di un mese fa.

D'altronde, la sfiducia nel futuro (62%) non è mai stata così alta, negli ultimi dieci anni.

Anche per questo motivo non sorprende che la maggioranza degli italiani esprima sostegno gli "indignati" che hanno manifestato il 15 ottobre a Roma. Nonostante le violenze che ne hanno funestato lo svolgimento  -  le cui responsabilità, tuttavia, sono attribuite prevalentemente ad altri soggetti. Non è solo perché è difficile disconoscere le buone ragioni degli "indignati".

La frustrazione dei giovani, privati del futuro, costretti a un eterno presente, naturalmente precario. Il fatto è che l'indignazione è, ormai, un esercizio collettivo. Tutti si sentono - e sono - indignati. Contro le istituzioni pubbliche, contro lo Stato, gli statali, i partiti, i politici. Contro la Casta. Perfino i politici e la Casta si sentono indignati. Reciprocamente e contro chi si indigna con loro.

Da ciò il rischio. Che l'indignazione smetta presto di essere una virtù rivoluzionaria. E diventi un riflesso condizionato.
Una parola alla moda. L'ultima beffa verso coloro che hanno tutti i motivi per dirsi "Indignati". Non gli hanno rubato solo il Futuro e il presente. Ma perfino l'Indignazione.

(24 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/10/24/news/sfiducia_diamanti-23747393/
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« Risposta #246 inserito:: Ottobre 31, 2011, 05:20:39 pm »

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Chi ha paura del referendum elettorale

di ILVO DIAMANTI

IL REFERENDUM per abolire l'attuale legge elettorale incombe e incute molti timori tra i dirigenti e i parlamentari dei partiti.
In modo trasversale. D'altronde, il cosiddetto Porcellum attribuisce ai gruppi dirigenti un grande potere nella scelta delle candidature. Il che significa: nella scelta degli eletti, visto che attualmente gli elettori non hanno la possibilità di votare per i candidati, ma solo per le liste e per le coalizioni.

Il che spiega la resistenza dei parlamentari nei confronti di un referendum che li costringerebbe a stabilire un rapporto con la società e il territorio, divenuto, quantomeno, accessorio. Per la stessa ragione, tuttavia, questo referendum interessa molto agli elettori.
Lo dimostra, in primo luogo, il numero delle firme raccolte dai promotori: oltre 1 milione e 200 mila. Senza una adeguata visibilità sui media  -  semmai il contrario. E senza che i maggiori partiti mobilitassero, a questo fine, la loro organizzazione  -  semmai il contrario. Ma il consenso per il referendum, oggi, appare molto esteso fra i cittadini, come emerge da un sondaggio condotto da Demos alcuni giorni fa. Quasi metà degli elettori (intervistati) - per la precisione: il 46% - afferma, infatti, di essere d'accordo sull'abrogazione dell'attuale legge elettorale. Intenzionato, al tempo stesso, a votarlo. Un ulteriore 18% ne condivide l'obiettivo, ma è ancora incerto se votarlo. Nel complesso, circa i due terzi degli elettori sono d'accordo con il quesito referendario, mentre quasi la metà appare già
in questa fase disposta a partecipare alla (eventuale) consultazione. Si tratta di un orientamento molto chiaro, indicativo di un sentimento ampiamente condiviso fra i cittadini. Tanto più se si tiene conto che il referendum costituisce ancora una prospettiva, un'ipotesi, per quanto sentita dagli elettori.

D'altronde, la disponibilità dei cittadini a intervenire direttamente su questioni di grande interesse pubblico è già emersa esplicitamente in occasione dei referendum dello scorso giugno. A cui ha partecipato oltre il 57% degli elettori. Sollecitati dai temi della consultazione, che riguardavano aspetti importanti relativi al "bene comune". L'acqua, i servizi locali, la tutela dell'ambiente, il nucleare. Questa partecipazione inattesa, tuttavia, riflette anche l'insoddisfazione verso le forze politiche di governo. E non solo di governo. Ma, soprattutto, rivela una domanda di partecipazione e di impegno diretto nella vita pubblica largamente diffusa nella società. Tuttavia, il consenso verso i due referendum ha confini sociali in parte differenti. Fra coloro che affermano di aver votato al referendum sui "beni comuni" dello scorso giugno, infatti, circa il 63% sostiene che voterà anche per abrogare il Porcellum. Oltre un terzo, dunque, al proposito, esprime dubbi oppure dissenso.

Tuttavia, il 24% di coloro che avevano disertato la consultazione dello scorso giugno afferma che voterà contro l'attuale legge elettorale. Segno che, oltre alla "domanda" di partecipazione, contano le "domande" che la ispirano. Per questo motivo il profilo degli elettori si differenzia, in qualche misura, in base alle questioni e ai quesiti sollevati dai referendum. Rispetto agli elettori che avevano partecipato al referendum dello scorso giugno, quelli favorevoli al referendum elettorale appaiono, infatti, maggiormente concentrati: a) nelle classi di età centrale e matura (30-60 anni), b) tra i liberi professionisti, i dirigenti, i tecnici e i ceti medi intellettuali. Mentre, a giugno, la partecipazione maggiore (rispetto alla media) si era verificata tra i giovani e i giovanissimi e tra gli studenti.
Il sostegno ai referendum elettorali, inoltre, appare maggiormente esteso a centrosinistra e a sinistra. In particolare, fra gli elettori del Movimento 5 Stelle (80%) di Sel (73%) e del Pd (64%). Mentre i referendum di giugno avevano ottenuto un consenso più trasversale.
Tuttavia, lo ripetiamo, quasi i due terzi degli elettori che hanno partecipato ai referendum sui "beni comuni" affermano che voterebbero anche contro l'attuale legge elettorale. Calcolati sull'intero corpo elettorale, questi "referendari" convinti sono circa il 36%.
Oltre un terzo degli elettori. Tra di loro assumono un peso maggiore, rispetto alla media, gli elettori di sinistra e di centrosinistra.
Ma sono presenti in misura significativa anche quelli di centro e di centrodestra. Li accomuna la disponibilità a impegnarsi e a mobilitarsi per "cambiare". Non solo e non tanto una legge, per quanto importante. Ma il sistema politico e le istituzioni. Per questo si sentono molto vicini alle ragioni e alle manifestazioni degli "indignati" (70%). Mentre esprimono grande insoddisfazione nei confronti del governo, ma anche verso l'opposizione di centrosinistra (meno del 30% dei referendari la valuta positivamente). Per questo motivo sono percepiti come un pericolo dai gruppi dirigenti dei partiti principali. In primo luogo, dai leader delle forze politiche di governo. Perché i referendum hanno, spesso, costituito dei punti di svolta critici. Da ultimi: i referendum elettorali del 1991 e del 1993 hanno accelerato il crollo della Prima Repubblica e avviato il passaggio alla Seconda.

È comprensibile che questo nuovo referendum elettorale, spinto da quello dello scorso giugno, susciti grande apprensione tra chi teme una svolta definitiva. Oltre il berlusconismo. Ma anche oltre l'antiberlusconismo. Perché decreterebbe la crisi definitiva della leadership del governo di centrodestra. Ma metterebbe in discussione anche quella dell'opposizione di centrosinistra. In particolare, nel Pd, dove Pippo Civati, una settimana fa, e soprattutto Matteo Renzi, ieri, hanno apertamente contestato le "vecchie burocrazie di partito".
D'altronde, il gruppo dirigente del Pd, verso i referendum di giugno, ha espresso un sostegno tardivo. Quasi fuori tempo massimo.

Mentre verso il Porcellum ha manifestato un orientamento diffidente e reticente. In contrasto con l'atteggiamento convinto dei militanti e degli elettori. Ma c'è da dubitare che il Pd possa battere Berlusconi e il centrodestra conducendo la sua lotta asserragliato nelle aule del Palazzo. Scommettendo sul passaggio da uno schieramento all'altro di parlamentari (sedicenti) "responsabili". Piuttosto che puntare sulla "sfiducia" del Parlamento è meglio investire sulla "fiducia" nella società. E nel movimento "invisibile" che, quando ne ha l'occasione, come in questi referendum, non esita a mobilitarsi. A diventare "visibile".

(31 ottobre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/10/31/news/referendum_elettorale-24171999/
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« Risposta #247 inserito:: Novembre 07, 2011, 11:04:00 pm »

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Anche la democrazia colpita dalla crisi a livello record chi non ha più fiducia

Il 23% la equipara ai sistemi autoritari.

Tra le cause il governo in tilt. Tre anni fa il dato era inferiore di ben sette punti.

Tra giovani, elettori di Pdl e Lega lo scetticismo più marcato

di ILVO DIAMANTI

NEL PAESE si percepisce un diffuso disincanto politico. Investe non solo i partiti e i loro leader, ma anche le istituzioni dello Stato. Ad eccezione del Presidente Napolitano, com'è noto, la sfiducia dei cittadini non risparmia nessun soggetto e nessun attore pubblico.

Non sorprende che questo sentimento stia erodendo il consenso nei confronti delle istituzioni rappresentative. Verso la stessa "democrazia". È ciò che sta capitando, secondo un sondaggio di Demos di alcuni giorni fa. Certo, la gran parte degli intervistati (oltre due terzi) resta convinta che "la democrazia è preferibile a qualsiasi altra forma di governo".

LE TABELLE 1 (le trovi in - http://www.repubblica.it/politica/2011/11/07/news/disincanto_democrazia-24564472/?ref=HREC1-2).

Se ne desume, però, che circa un italiano su tre la pensa diversamente. In particolare, il 23% del campione accetta l'idea che: "autoritario o democratico non c'è differenza". Si tratta del dato più alto registrato negli ultimi dieci anni. Nel 2001 questa posizione era, infatti, condivisa dal 16% degli intervistati. La stessa percentuale rilevata nel 2008.

Il disincanto democratico sembra, dunque, essere cresciuto sensibilmente negli ultimi anni. In particolare, si è diffuso fra i più giovani (18-29 anni). Ma risulta condiviso, soprattutto, nell'elettorato di centrodestra: il 31% tra gli elettori del Pdl, addirittura il 34% tra i leghisti.

Difficile sorprendersi. La democrazia rappresentativa non
sta offrendo grande prova di sé, in questa fase. In Italia, ma non solo.

Basti pensare a come è stata affrontata la crisi economica e finanziaria. L'agenda: dettata dalla Ue, in particolare dalla Bce e dal Fmi. Cioè: da istituzioni finanziarie e monetarie, non elettive. Nell'ambito della Ue, peraltro, le scelte comunitarie - in particolare, le nostre - sono state imposte da due Paesi su tutti: Francia e Germania. Da due leader su tutti: Sarkozy e Merkel. Eletti dai cittadini dei loro Paesi, non dagli europei, nel loro insieme. Tanto meno dagli italiani.

Peraltro, mentre i mercati dettano le regole e i vincoli ai governi, il rapporto tra mercato e democrazia non appare più stretto e automatico come un tempo. Leonardo Morlino, sull'ultimo numero dell'Espresso, mostra come il tasso di crescita del Pil nei regimi autoritari (4,9%) sia decisamente superiore a quello dei Paesi democratici e liberi (2,3%).

Questa tendenza si spiega, in parte, con il basso punto di partenza dei regimi autoritari. Tuttavia, non sorprende troppo, vista l'influenza esercitata sulle economie occidentali da Cina e Russia (sistemi peraltro molto diversi). Visto il peso della Libia (e della famiglia) di Gheddafi nell'economia italiana fino a un anno fa. Prima dell'intervento armato, deciso e guidato da Usa, Gb e, anzitutto, dalla Francia (di nuovo). A nome e per conto della Comunità Internazionale (Italia compresa).

Il disincanto democratico degli italiani, però, è condizionato, in misura rilevante, dalle vicende interne. La sfiducia nel governo eletto nel 2008, in un'altra epoca: oggi solo il 20% degli elettori lo considera adeguato al compito. Stesso giudizio nei confronti dell'opposizione. Ma il consenso verso il governo è crollato in breve tempo.

Il Presidente del Consiglio ottiene, a sua volta, una valutazione sufficiente da due soli elettori su dieci. D'altra parte, un governo e un Presidente del Consiglio che, per sopravvivere, ricorrono alla fiducia una volta alla settimana, non possono che ri-produrre la sfiducia. Tanto più se si assiste a passaggi continui di parlamentari, tra uno schieramento e l'altro. In queste ore, ad esempio, Berlusconi sta contattando, ad uno ad uno, i "dissidenti" del Pdl.

Per ricomporre, una volta di più, la maggioranza, in vista del voto di domani. Allargando ancora, se necessario, il numero dei sottosegretari e dei vice-ministri (se ne è perso il conto, oramai). Difficile riconoscere il marchio della "volontà popolare" a una maggioranza sempre in bilico, tenuta insieme e rattoppata mediante incentivi personali continui. Anche perché non è per "sanare" i problemi giudiziari né i conflitti di interesse di Berlusconi che gli elettori, nel 2008, avevano garantito al Centrodestra una maggioranza parlamentare larga come mai prima, nella Seconda Repubblica.

Le preoccupazioni degli italiani, ormai segnate dalla crisi economica, hanno reso insopportabili i costi della politica. I privilegi di cui godono i parlamentari e gli amministratori pubblici. E hanno alimentato un clima "antipolitico", sostanzialmente diverso da quello dei primi anni Novanta. Perché allora rifletteva la rottura con il "vecchio" sistema politico. Evocava una domanda di cambiamento, proiettata nel futuro. Mentre oggi l'antipolitica riflette la frustrazione suscitata da un sistema politico esausto, prigioniero del presente - e del passato. Anche per questo la "fiducia" nella democrazia, in Italia, appare in declino.

Tanto più fra coloro che diffidano dei partiti. D'altra parte, a fidarsi dei partiti, ormai, è una quota residua: il 5% degli italiani. Non a caso i soggetti che raccolgono maggiore consenso fra i cittadini sono "esterni" ai partiti. Non solo il Presidente, Napolitano. Ma anche imprenditori, finanzieri, leader di organizzazioni economiche, tecnici. Gli stessi ai quali fanno riferimento quanti vedono in un governo di unità nazionale l'unica soluzione a questa crisi - politica ed economica.

Ma Berlusconi e gli altri leader della maggioranza, in caso di sfiducia parlamentare, invocano il ritorno alle urne. Ogni diversa soluzione sarebbe "un golpe", ha denunciato, sabato scorso, il ministro Calderoli. Responsabile della legge elettorale attualmente in vigore, in base alla quale è stato eletto questo Parlamento. Secondo lo stesso Calderoli: una "porcata", che impedisce ogni controllo sugli eletti da parte degli elettori. Contro questa legge elettorale sono state raccolte, in un mese e mezzo, oltre 1 milione e 200 mila firme.

Per promuovere un referendum abrogativo, che riscuote il consenso di gran parte degli elettori (come ha mostrato la "Mappa" della scorsa settimana). Questa legge elettorale - ogni legge elettorale - è, per definizione, principio e fondamento della nostra democrazia rappresentativa. Visto che la "rappresentanza" democratica è realizzata mediante le elezioni. Per questo occorre prendere sul serio il disincanto della società italiana. Perché mina la "legittimità" della nostra democrazia. Alla radice.
 

(07 novembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/11/07/news/disincanto_democrazia-24564472/?ref=HREC1-2
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« Risposta #248 inserito:: Novembre 14, 2011, 07:35:20 pm »

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Così crisi e promesse deluse hanno spazzato via il feuilleton

In tre anni il consenso di Berlusconi precipitato dal 46,4 per cento al 22,4 per cento, Anche la retorica del "fare" ha funzionato nel breve periodo, poi gli si è rivoltata contro e la maggioranza di governo è diventata minoranza nel Paese

di ILVO DIAMANTI

Così crisi e promesse deluse hanno spazzato via il feuilleton Silvio Berlusconi circondato dalla scorta (ansa)
L'EPILOGO del governo Berlusconi è stato celebrato con soddisfazione da quanti lo hanno vissuto come una iattura  -  civile e politica  -  per il Paese. Tuttavia, più che un successo delle opposizioni, va considerato, anzitutto, una sconfitta di Berlusconi e del berlusconismo. Intendendo con questo termine, (ab)usato in modo perlopiù indefinito, l'insieme dei valori e di riferimenti culturali, ma anche il modello di rappresentanza - e di alleanza - politica che egli ha espresso. Le dimissioni di Berlusconi, in altri termini, sono l'esito della delusione sociale e dell'implosione politica prodotte da Berlusconi stesso.

LE TABELLE 1 su  repubblica.it

Il "berlusconismo" come "clima d'opinione" era in declino da tempo. Lo dimostrano i sondaggi (di Demos, pubblicati in queste pagine) che riproducono il calo della fiducia nei suoi confronti, crollato poco sopra il 20%, pur avendo superato il 50% nel maggio del 2009, dopo il terremoto in Abruzzo. Lo sottolinea, soprattutto, la depressione del sentimento sociale che egli aveva interpretato. Berlusconi, infatti, si è affermato perché impersonava l'imprenditore venuto dal nulla. In grado di guardare al futuro con ottimismo irriducibile. Perché, comunque, "noi ce la faremo". Nonostante lo Stato, le regole, il pubblico, il fisco. Oggi questo modello è im-proponibile. La crisi lo ha reso impopolare. Funziona a rovescio anche la sua strategia di immagine, promossa attraverso il marketing e i media. L'ottimismo come ideologia, la vita esagerata, fra residenze private trasformate in sedi pubbliche, e ruoli pubblici usati a fini privati. Fra leader del mondo e ragazzine disponibili. Sotto gli occhi di tutti. Come un feuilleton senza fine. In tempo di crisi, tutto questo è divenuto insopportabile alla "gente comune". Peraltro, egli non è riuscito a "onorare" i "contratti con gli italiani" sottoscritti in tv. I "mercati", gli imprenditori, le categorie economiche, che pure gli avevano concesso un'ampia apertura di credito, lo hanno abbandonato. Sono divenuti suoi aspri oppositori, da amici indulgenti quali erano.

Anche la retorica del "fare", alla fine, gli si è rivoltata contro. La promessa di ripulire le immondizie di Napoli - in due tre settimane. O di ricostruire L'Aquila terremotata. Nel "breve" hanno funzionato, in seguito gli si sono rivoltate contro. Perché le immondizie a Napoli - e altrove - ci sono ancora. E il centro storico di L'Aquila resta sepolto dalle macerie. Così l'Uomo-del-fare si è trasformato nell'Uomo delle-promesse-non-mantenute. Sul piano politico, il berlusconismo coincide con il modello del "partito personale", che dipende dal suo "patrimonio", dalla sua identità, dal suo stesso "corpo". E per questa stessa ragione non sopporta altri leader concorrenti né, tanto meno, oppositori. Il passaggio da Fi al Pdl ha indebolito questo modello. Perché l'integrazione (annessione?) di An ha reso il Pdl meno omogeneo e "governabile" dal punto di vista organizzativo e territoriale. La rottura con Gianfranco Fini e la successiva creazione di Fli è costata molto, al Pdl e a Berlusconi, dal punto di vista elettorale e politico. Ben oltre il peso limitato assunto da Fli. Il Pdl, inoltre, è stato indebolito anche dal crescente spazio conquistato dalla Lega. In grado di condizionare l'agenda di governo, in cambio del sostegno fedele alle uniche questioni rilevanti per Berlusconi. Quelle, appunto, più "personali".

Così la maggioranza di governo è divenuta minoranza nel Paese. Incalzata da movimenti di opposizione in grado di affermare nuove e diverse domande, mobilitando la società

Il Pdl si è ridotto al 25% degli elettori. Il centrodestra e Berlusconi si sono asserragliati in Parlamento. Una fortezza assediata da un'opinione pubblica ostile e dalla crisi economica globale. Dove il governo ha resistito a colpi di "fiducia" che alimentavano, in realtà, la "sfiducia", dentro e fuori il Parlamento. La maggioranza stessa, d'altronde, è divenuta composita e fluida. Ostaggio, come ha lamentato ieri Berlusconi, di tanti "piccoli ricatti".

Da ciò l'implosione. Il berlusconismo ha perduto il consenso sociale. E il centrodestra, minoranza nel Paese, è divenuto tale anche in Parlamento. Berlusconi ne ha preso atto. Tuttavia, questa crisi ha natura, in parte, "extraparlamentare". A costringere Berlusconi alle dimissioni, infatti, non è stata solo l'opposizione di centro e di centrosinistra, ma anche quella dei mercati e dei leader europei. Non è stata - soltanto - la sfiducia dei parlamentari, ma anche quella delle Borse, della Bce e della Ue. Che hanno espresso la loro "opinione" non attraverso il voto e neppure i sondaggi, ma attraverso il crollo delle Borse e dei titoli di Stato - italiani. In più: attraverso il collasso delle azioni di Mediaset. L'azienda del Premier Imprenditore. Senza dimenticare il ruolo svolto da molte voci critiche che si sono espresse nella sfera pubblica e sui media. Da ciò due ulteriori considerazioni, importanti per riflettere sul futuro dell'Italia e della nostra stessa democrazia.

La prima riguarda l'incapacità del nostro sistema politico e istituzionale di auto-riformarsi. La Seconda Repubblica è finita com'era nata: in seguito a un trauma esterno. Era sorta fra il 1991 e il 1993, a causa dell'incalzare di Tangentopoli e, prima ancora, per gli effetti della caduta del muro di Berlino. La Seconda Repubblica (per alcuni prolungamento della Prima, per altri la Terza), fondata "da" e "su" Berlusconi, è chiusa per implosione. E, di nuovo, per un collasso esterno: la crisi globale dei mercati e l'impatto sulle economie più vulnerabili. La nostra in particolare. Per l'incapacità del nostro sistema politico di dare risposte all'emergenza economica, ma anche perché irriformato e irriformabile. Non è un caso che l'Italia si sia trasformata, di fatto, in una "Repubblica presidenziale", guidata, in questa fase, dal presidente Napolitano. La figura istituzionale dotata del maggior grado di fiducia, presso gli elettori ma anche in ambito internazionale (e sui mercati). Ciò gli ha consentito di orientare la crisi. Ha scoraggiato le elezioni anticipate - che avrebbero lasciato per mesi il Paese senza risposte all'emergenza, in preda a conflitti laceranti. Ha, invece, sostenuto (e imposto) un governo tecnico, a largo sostegno parlamentare - esterno ed estraneo alle pressioni politiche e dell'opinione pubblica. In grado, per questo, di redigere e soprattutto realizzare provvedimenti efficaci ma anche impopolari.

La scelta di Mario Monti riflette questa logica ed è stata possibile solo perché orientata da Napolitano. Il quale ha trasferito sull'economista - in precedenza poco noto - la propria dote personale di popolarità e fiducia (come ha rilevato Nando Pagnoncelli a Ballarò, sabato sera).
Da ciò la seconda considerazione - e il secondo problema. Questa crisi (extra-parlamentare) è stata affrontata almeno in parte in condizioni di "eccezione" democratica. Su pressione di poteri "esterni" alla nostra democrazia: la Bce, il Fmi, la Ue. Con la regia del presidente Napolitano, garante della Costituzione, ma eletto dai parlamentari (della precedente legislatura) e non dai cittadini. La formazione del governo è stata affidata a una figura prestigiosa, Monti, alla guida di una compagine di tecnici. Al pari di lui, non eletti, non "politici". Scelti proprio per questo motivo: perché insensibili ed esterni alla "volontà del popolo sovrano". Tutto ciò, naturalmente, avviene in una crisi di sistema, a sua volta riflesso della crisi del berlusconismo e di Berlusconi. In condizioni di emergenza economica e politica. Mentre la stessa fiducia nella democrazia, fra i cittadini, mostra segni preoccupanti di cedimento (come ha mostrato la Mappa della settimana scorsa). Potremmo riprendere, per questo, un paradosso (apparente) avanzato, alcuni anni fa, da un intellettuale francese, Emmanuel Todd. A volte, per difendere la democrazia, occorre difendere la democrazia da se stessa.

(14 novembre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/11/14/news/fine_seconda_repubblica-24969051/?ref=HREC1-1
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« Risposta #249 inserito:: Novembre 19, 2011, 11:25:44 am »



Ilvo DIAMANTI

Questo governo "tecnico", composto di "tecnici". Professori universitari, avvocati, banchieri, finanzieri, prefetti, dirigenti pubblici e di Onlus. Non Professionisti Politici e/o della Politica ma Tecnici. Perlopiù sconosciuti ai più. D'altronde, nel governo Monti l'anonimato è un marchio di qualità. Un segno di discontinuità rispetto al passato. È presumibile  -  auspicabile - che verrà mantenuto e rivendicato a lungo. Immagino  -  nel mio cuore: spero  -  che i nuovi ministri non affolleranno i talk-show televisivi. Immagino  -  e spero  -  di non vederli aggredire e aggrediti - a parole  -  per alzare lo share del salotto o della piazza mediale di cui sono ospiti (fissi). E per conquistarsi, a loro volta, visibilità. Anche per questo motivo essi  -  Monti in testa - sono stati  "ingaggiati" dal Presidente Napolitano. Per "fare" senza "dire" e, per quanto possibile, senza apparire. Per ricostruire - in minima parte, almeno -  la fiducia dei Cittadini verso lo Stato  -  di cui i Politici sono i testimonial. Visto che i Partiti e tutto ciò che evoca, anche lontanamente, la Politica oggi provoca rigetto nella cittadini. Così i Politici e i Partiti hanno accettato di mettersi da parte. Di restare, almeno per un po' e almeno un po', lontani dagli schermi e dalle pagine dei giornali. Anche se li immaginiamo in astinenza. Insofferenti e impazienti di rientrare in pista, sotto i riflettori.

I "tecnici", invece, non sono professionisti della politica. Il loro consenso deriva, quindi, da ragioni antipolitiche, insomma. Berlusconi, d'altronde, ha sostenuto che il governo durerà "finché lo vogliamo noi" (cioè, lui). Ma, prima di staccare la spina, ha lasciato intendere che controllerà i sondaggi. I "tecnici" resisteranno finché disporranno di un consenso ampio. Finché i "politici"  -  e soprattutto lui e il PdL  -  risulteranno  impopolari come adesso. Poi si vedrà. Insomma, Berlusconi valuta il governo tecnico secondo i criteri del marketing politico. Come si trattasse, a pieno titolo, un governo "politico". Non ha tutti i torti. L'esercizio del governo  -  dunque del potere - è l'essenza stessa del "politico". Soprattutto quando sono in gioco materie strategiche per il futuro e per la condizione di un Paese. L'economia, la moneta, il fisco, il lavoro, la previdenza. Il sistema elettorale. Questo governo tecnico: per governare ha bisogno della fiducia del Parlamento, composto dagli stessi politici di prima. E dovrà prendere decisioni difficili, mantenendo il consenso dei cittadini, Per amore o, più probabilmente, per forza. Per necessità. Anche l'impoliticità che ne caratterizza l'immagine, peraltro, è una risorsa comunicativa "politicamente" utile e attraente, presso l'opinione pubblica, nell'era della sfiducia verso la politica e dei politici. Quando per "fare politica" e agire da "politici"  occorre negarlo. In fondo, era avvenuto così anche in passato. Agli inizi degli anni Novanta, quando, in piena crisi di sistema, la guida del governo venne affidata a Carlo Azeglio Ciampi. Quando, la Febbre del Nuovo spingeva gli attori politici in campo a negare ogni affinità con i politici di professione. Per cui si dichiaravano imprenditori, artigiani, volontari impegnati per il bene comune....  Tutto meno che "politici". Al massimo: "prestati alla politica" (per sempre). Berlusconi stesso ha sempre negato di essere un Politico.

Oggi, contro i politici e gli antipolitici, nessuno osa dichiarare l'impegno di riqualificare la politica come missione e come professione (per citare Weber). Così, "squalificati" i Professionisti della  Politica, sono scesi in campo i Professionisti  -  e basta. Fanno politica anch'essi, ma non lo dicono e, forse, non lo sanno. Comunque, non lo ammettono  -  neppure a se stessi.  Sono "politici per caso".

(18 novembre 2011) © Riproduzione riservata

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« Risposta #250 inserito:: Novembre 20, 2011, 11:22:41 am »

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Una fiducia da record per il premier

Otto su dieci promuovono Monti

Pdl al 24%. L'Udc vola al 10%, il Pd oltre il 29%. Il consenso personale del Professore, secondo i dati Demos, raggiunge addirittura l'84 per cento. Ok anche dal 60 per cento degli elettori leghisti. Due su tre considerano il nuovo esecutivo una "eccezione democratica", ma per l'80 per cento deve durare fino a fine legislatura

di ILVO DIAMANTI

Una fiducia da record per il premier Otto su dieci promuovono Monti 
È bastata una settimana perché il clima d'opinione svoltasse dalla depressione all'euforia. Lo dimostra, in modo eloquente, il sondaggio realizzato da Demos mentre le Camere votavano la fiducia al governo "tecnico", guidato da Mario Monti. Con una maggioranza senza precedenti nella storia repubblicana. Ma non molto più larga di quella espressa dalla popolazione. Quasi 8 italiani su 10 (nel campione intervistato di Demos) manifestano un giudizio positivo nei confronti del governo. Ma il consenso "personale" del nuovo presidente del Consiglio è ancora più ampio: 84%. Paragonabile solo al sostegno popolare di cui dispone il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.

Ispiratore e protagonista della formazione del governo Monti. Naturalmente, c'è una relazione stretta fra la "misura" della fiducia parlamentare e popolare. Una maggioranza politica tanto larga e trasversale ha, infatti, favorito il consenso dei cittadini verso il governo, in modo trasversale. Si va, infatti, dal 90% circa fra gli elettori del PD a un po' meno del 60% tra quelli della Lega e del Movimento 5 Stelle. Tuttavia, un'ondata di fiducia politica di queste proporzioni non si spiega solo con il sostegno dei partiti. Anzi, semmai è vero il contrario: la nascita del governo ha, in parte, riconciliato i cittadini con la classe politica. Come dimostra la crescita generalizzata dei giudizi positivi nei confronti dei leader. Tutti, compresi Berlusconi (che risale di alcuni punti: dal 22% al 29%) e Bossi (dal 20% al 24%). Anche se in testa, ovviamente ben al di sotto di Monti, incontriamo Corrado Passera, fino a ieri AD di Intesa Sanpaolo, oggi ministro dello Sviluppo Economico e delle Infrastrutture. (Pur considerando che circa un quarto degli intervistati ancora non lo conosce.)

Questa inversione del clima d'opinione ha, dunque, altre cause.

In primo luogo, l'angoscia generata dalla crisi globale dei mercati, che ha investito, con particolare violenza, il nostro Paese. Ritenuto politicamente "debole", incapace di garantire le misure richieste dalla UE e dalle altre autorità economiche e monetarie internazionali. Il governo guidato da Monti appare ai cittadini una scialuppa di salvataggio nel mare in tempesta.

Questa svolta del clima d'opinione, in secondo luogo, riflette la fine dell'epoca di Berlusconi. Ormai consumata da tempo. Il governo Monti ne ha sancito e sanzionato la fine. L'ha resa possibile e visibile. Solo il 22% degli elettori (poco più di metà rispetto a un anno fa) pensa, infatti, che l'esperienza politica di Berlusconi potrebbe durare ancora a lungo.

È, peraltro, indubbio che il grande consenso per il governo Monti  -  composto da "tecnici" - sia prodotto, in parte, dal sentimento "antipolitico" alimentato dal declino di Berlusconi e dalle difficoltà dell'opposizione. La fiducia nei partiti, infatti, resta ancorata al 5%. E quasi 8 elettori su 10 ritengono giusta "l'esclusione dei politici dalla squadra di Monti". Il governo, d'altronde, secondo i due terzi degli intervistati (o quasi), non è né di destra né di sinistra. E neppure di centro. Non ha colore politico. Un aspetto evidentemente molto apprezzato dai cittadini.

Anche per questo i calcoli "elettorali" di parte passano in secondo piano. D'altronde, se la scadenza delle elezioni si allontana, le questioni di leadership e coalizione diventano meno urgenti. E la polarizzazione risulta meno lacerante. Non è un caso che le stime di voto premino, in misura ridotta il PD (29,4%), ma soprattutto, l'UdC, che supera il 10% (3 punti di crescita in un mese). Nel momento in cui i partiti maggiori si coalizzano, a sostegno del governo, il "Terzo Polo" diviene, infatti, ancor più "centrale". E strategico. Ne risente, in particolare, il PdL (che scende dal 26% al 24%). Penalizzato dal declino del suo leader ma anche dall'attrazione dell'UdC. Anche la Lega (sotto l'8%) e SEL (scesa al 5,2%) sembrano penalizzate dalla posizione distinta o distante rispetto al governo.

L'unica "opposizione" che sembra beneficiare di questo clima è il Movimento 5 Stelle (4,6%), vicino a Grillo. Proprio perché  -  a differenza della Lega e di SeL  -  appare estraneo al sistema partitico.
In poche settimane si è, dunque, verificata una svolta negli atteggiamenti e nelle opinioni degli italiani. Impressa dalla formazione del governo Monti. Accolto dagli elettori di centrosinistra come una liberazione, da quelli di centrodestra come una pausa di sospensione (di fronte alla crisi di Berlusconi). Percepita da tutti (o quasi) i cittadini come una risposta alla crisi economica globale e alla crisi politica nazionale.

Tuttavia, gran parte degli italiani (due su tre) considera questo governo tecnico una "eccezione democratica" necessaria per aiutare  -  se non proprio "salvare"  -  la democrazia, in una fase critica. Non prorogabile all'infinito, ma comunque a lungo. L'80% degli intervistati, infatti, ritiene necessario che il governo Monti resti in carica fino alla fine della legislatura. E tre italiani su quattro pensano che i suoi compiti non possano limitarsi all'emergenza economica e dei mercati. Ma debbano estendersi anche alle riforme istituzionali e alla nuova legge elettorale. D'altronde, questo governo, tanto atteso, appare caricato di tante attese. L'85% degli italiani lo ritiene in grado di "portare l'Italia oltre la crisi". Di guidarci fino alla Terra Promessa (la Crescita, il Pareggio di Bilancio). Come Mosé al di là del Mar Rosso.

Da ciò derivano i rischi, per questo governo e per Monti. Accolti dal più elevato livello di fiducia misurato nell'era dei sondaggi.

1) Perché attese tanto elevate espongono alla delusione e alla frustrazione. Suscitano impazienza. Mentre problemi tanto seri - che hanno radici lontane e aggravati nel corso dei decenni - non si risolvono in tempi brevi. Né possono produrre effetti visibili immediati.

2) Perché problemi tanto seri richiederanno costi sociali elevati. Ed è difficile giustificare costi sociali elevati senza effetti sociali ed economici visibili, nel breve periodo.

3) Perché, quando si parte dall'80%, anche il 70% di fiducia rischia di apparire un "calo" di consensi.

4) Perché questo governo "tecnico" ha compiti profondamente "politici" e dipende dal consenso "politico" di un Parlamento dove operano partiti deboli (anche se in diversa misura).

5) Perché, infine, ci siamo lasciati alle spalle la Seconda Repubblica, ma (per citare Berselli) di fronte c'è una "Repubblica indistinta". Il governo tecnico, guidato da Monti, non può disegnarne il modello istituzionale. Non è suo compito. D'altronde, un'eccezione democratica non può diventare normale. Può, tuttavia, proporre almeno un diverso stile di governo e di comportamento "personale".
Traghettarci oltre la "politica pop". In una Terra dove la competenza e la decenza abbiano cittadinanza.

(20 novembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/11/20/news/una_fiducia_da_record_per_il_premier_otto_su_dieci_promuovono_monti-25296580/
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« Risposta #251 inserito:: Novembre 28, 2011, 08:59:53 am »

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La maggioranza in incognito

di ILVO DIAMANTI


SORPRENDONO non poco le acrobazie dei partiti che sostengono il "governo tecnico" per dissimulare ogni confronto. Così si racconta di incontri notturni tra i segretari di Pd, Pdl e Terzo Polo insieme a Monti. A Palazzo Grazioli, dove i convitati convergerebbero clandestinamente, per vie segrete. Per negare l'evidenza. Che Pd, Pdl e Terzo Polo costituiscono i riferimenti di una "maggioranza" parlamentare. Anche la composizione della "squadra" dei viceministri e dei sottosegretari è ancora in sospeso. Saranno tutti tecnici. Ci mancherebbe. Per ribadire il carattere transitorio e im-politico di questo governo. Difficile non sorridere di fronte a tanta reticenza. Non fosse che si tratta di cose fin troppo serie. Eppure, è difficile negare che questo governo è altamente (lo dico non a caso) "politico".

Come ogni governo che governi, d'altronde.

a) È politico: perché è stato votato dal Parlamento con una maggioranza larghissima, la più ampia nella storia della Repubblica. Sostenuto dai principali partiti presenti e "rappresentati" in Parlamento. In una Repubblica la cui "forma" di governo, almeno dal punto di vista "formale", è ancora "parlamentare".

b) È "politico": perché gli impegni che è chiamato ad affrontare e gestire - con il voto del Parlamento - sono "politici". Dalle pensioni alla patrimoniale, dalla flessibilità del lavoro alle liberalizzazioni, dal fisco alla vendita delle proprietà demaniali.

c) È "politico": perché i ministri, e soprattutto il primo ministro, Mario Monti, hanno compiti di rappresentanza e responsabilità, a livello internazionale, raramente tanto importanti e decisivi, come in questa fase. Perché la "fiducia" internazionale, in tempi di depressione economica e volatilità dei mercati, è una risorsa "politica" determinante. Il governo precedente non era più credibile.
E non a caso è caduto.

d) È "politico": perché non esistono "tecnici" scelti ad assumere ruoli e compiti "pubblici", in enti e organismi di indirizzo, gestione e controllo, a livello nazionale e internazionale, senza legittimazione "politica". E se anche non avessero un'identità politica, dopo l'esperienza direttiva in un organismo "pubblico" la assumerebbero.

D'altra parte, è arduo non attribuire una "connotazione politica" a Mario Monti, per dieci anni commissario europeo, su indicazione di due governi di segno differente (Berlusconi e D'Alema). Mentre fra gli altri ministri vi sono "tecnici" di rango, già eletti in Parlamento. Altri "vicini" a un partito, un'associazione culturale, un centro studi. Altri ancora che hanno svolto funzioni importanti a livello ministeriale e nelle istituzioni dello Stato. Negli enti locali. Difficile definirli tecnici-e-basta.

È, tuttavia, significativa l'enfasi che sottolinea la distinzione fra tecnici e politici. (Ne ho parlato anche in una recente Bussola su Repubblica.it). I "tecnici", oggi più che mai, sono definiti proprio in opposizione ai "politici di professione." Quando Bossi ironizza sul fatto che il presidente Napolitano "ha dato mandato di capo cordata a uno che le montagne le ha viste solo in cartolina", in effetti, tesse l'elogio dei "professionisti politici" opposti ai tecnici-e-basta. In una fase nella quale, però, i "politici professionisti" sono delegittimati. Mentre i "tecnici-che-fanno politica" (senza ammetterlo) sono ritenuti competenti e credibili. Dai cittadini, ma anche dalle autorità e dai poteri che contano, in questa fase. Cioè: i leader internazionali, da un lato, gli organismi e le agenzie che controllano e orientano i mercati, dall'altro.

Naturalmente, i "governi tecnici" costituiscono una anomalia, nelle democrazie occidentali. Ma non i "tecnici al governo". I quali, però, sono espressi dai partiti. Senza problemi e senza reticenze. In Francia, ad esempio, gran parte dei leader politici e delle figure istituzionali provengono dall'Ena e dalle altre Grandes Écoles. Anche in Germania oppure in Inghilterra (per non parlare degli Usa) al governo i "tecnici" non mancano. Ma sono espressi direttamente dai presidenti-premier, cancellieri. E non sono "estranei" ai partiti. Per cui suona strano, altrove, parlare di un "governo tecnico". Tuttavia, come si è detto, anche in Italia, a mio avviso, i "governi tecnici" sono "politici". Ma se non vengono definiti tali è per ragioni "politiche". Basti pensare alle precedenti occasioni in cui sono stati insediati. Da gennaio 1995 a maggio 1996: il governo guidato da Lamberto Dini, dopo la caduta del primo governo Berlusconi (di cui era ministro). Ma, anche se composto in parte da ministri politici, possiamo inserire sicuramente in questa categoria anche il governo guidato da Carlo Azeglio Ciampi (primo presidente del Consiglio nella storia della Repubblica non eletto in Parlamento), da aprile 1993 a maggio 1994.

In entrambi i casi, i presidenti del Consiglio provenivano dai vertici della Banca d'Italia. Vennero chiamati a governare in una fase di crisi economica e politica. Con il sostegno di un ampio arco di partiti, tradizionalmente alternativi. Nel caso di Ciampi: la Dc e il Pds postcomunista. Nel caso di Dini: il centrosinistra e la Lega Nord. Ciò suggerisce che i governi tecnici, in Italia, svolgano i compiti assolti, altrove (tra l'altro: in Germania ma anche in Austria e in Israele), dalle grandi coalizioni. Quando, cioè, l'emergenza costringe le forze politiche più importanti a superare le tradizionali divisioni e a coalizzarsi. In nome del bene comune. Da noi questo non è possibile e neppure pensabile. Perché, per parafrasare il generale Carl von Clausewitz, in Italia la politica è "la prosecuzione della guerra - civile - combattuta con altre armi".

Così, nella Prima Repubblica si è praticato il "consociativismo" - cioè, il compromesso implicito. Mentre nella Seconda si ricorre ai "governi tecnici". I quali, a differenza delle Grandi Coalizioni degli altri Paesi, non sono governi di "collaborazione". Ma di "costrizione". Subìta, in questo caso, dal Pdl e da Berlusconi. Infatti, secondo gli elettori (come emerge dall'Atlante Politico di Demos 1), la nascita del governo Monti avrebbe rafforzato, anzitutto, il Pd (23% degli intervistati) e l'Udc (12%). Mentre avrebbe indebolito soprattutto, il Pdl (41%) e la Lega Nord (16%). Non è un caso che Berlusconi, proprio ieri, abbia ribadito l'intenzione di "raddoppiare l'impegno - pur restando dietro le quinte - a combattere coloro che ieri erano e oggi, nel loro profondo, restano: comunisti". Per questo tanta cautela nel confrontarsi apertamente, come normalmente avviene tra i partner di una maggioranza. Il fatto è che questo governo non segna una fase di "intesa", per quanto transitoria. Ma una "tregua". In attesa di nuove, furibonde, battaglie. Pardon: elezioni

(28 novembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/sondaggi/2011/11/28/news/maggioranza_incognito-25708451/?ref=HREC1-1
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« Risposta #252 inserito:: Dicembre 03, 2011, 11:07:58 am »

La crisi del N-euro

Ilvo DIAMANTI

C'è un che di inquietante, in questa crisi. Al di là delle ragioni finanziarie, monetarie, politiche che l'hanno prodotta e la alimentano. Tanto rilevanti - queste ragioni - da aver prodotto l'impensabile: una maggioranza di unità - o almeno: di non belligeranza - nazionale, dove coabitano, da separati in casa, Centrosinistra e PdL. Un governo di tecnici a far politica al posto dei politici. C'è un che di inquietante, in questa crisi, perché ci fa sentire vulnerabili - noi italiani. Colpiti alla radice della nostra identità nazionale. Noi, abituati a reagire a ogni avversità, a ogni sfida. Ogni rovescio. Noi: abbiamo sempre individuato, alla base dei nostri caratteri specifici, "l'arte di arrangiarsi". La capacità di tradurre i nostri limiti in risorse. Di adattarci a ogni trasformazione e a ogni difficoltà. Senza subirle. Il nostro attaccamento alla famiglia, al territorio e alla realtà locale, al lavoro, insomma il nostro "specifico" antropologico e culturale: ci ha permesso di affrontare gli ostacoli e di superarli. "Nonostante" lo Stato, le istituzioni. "Nonostante" la politica. Il nostro localismo, il nostro dinamismo diffuso ci hanno aiutato. Oggi però questi "caratteri nazionali" non sembrano sufficienti a sfidare la crisi globale. O, almeno, a farvi fronte, a resistere. In una certa misura, al contrario, ci espongono ulteriormente. Penso, ad esempio, alla nostra vocazione al risparmio. (Anch'essa fiaccata dalla crisi. Visto che le famiglie hanno dato fondo ai loro "risparmi" per resistere in questa fase.) Certo: ha garantito maggiore solidità al sistema bancario. Ma ora che le banche appaiono gravate dal peso del debito pubblico e dalla speculazione internazionale, le famiglie appaiono inquiete. E non capiscono che stia succedendo.

Perché non riescono a parlare il linguaggio delle borse e dei mercati. Lo spread, i btp, i bund, il nasdaq, S&P, l'FMI, la BCE e Fitch. Simboli e fonemi ignoti ai più. Per cui gran parte della popolazione non capisce neppure quel che sta succedendo. Non riesce a spiegarsi la crisi. Da dove arriva - e perché. Ed è difficile affrontare quel che non si riesce a spiegare, ma neppure a "dire". A "nominare". Lo ha messo in luce anche il Censis, nel 45° "Rapporto sulla situazione sociale del Paese nel 2011" 1, presentato proprio oggi. La società italiana, sottolinea il Censis, dispone di una "cultura dell'adattamento" che ha origine nel suo "scheletro contadino". Una realtà "in cui vigono il primato dell'economia reale e il primato della lunga durata". Indeboliti e, prima ancora, inibiti da fenomeni e processi fluidi e improvvisi. Im-prevedibili. Bolle che si gonfiano ed esplodono. Non governabili e non intellegibili dalla società, dalle persone. Da qui le ragioni che rendono  questa crisi peggiore, molto peggiore delle altre che abbiamo affrontato nel dopoguerra. Perché non c'è un nemico da combattere, una calamità da cui difenderci, una catastrofe da cui risollevarci "con le nostre mani". E se non è chiaro dove siano i pericoli che ci minacciano - e come sia possibile combatterli - allora gli appelli a "fare presto", ai "sacrifici" diventano difficili da comprendere e quindi da ascoltare. "Fare presto", "sacrifici": perché? Per difendersi da che? Ma soprattutto: per andare dove? È questo il problema: l'invisibilità e l'innominabilità della "minaccia" che incombe, ma anche della "prospettiva" di salvezza a cui si tende. Perché la minaccia non ha volto e non ha nome. Cosa significa e che faccia avrà il  "default"? Quanto alla "prospettiva": com'è possibile evocarla in una società dove i giovani sono una razza in via di estinzione e il futuro si chiama "pensione"? 

Il problema, o almeno, "un" problema, è che - per riprendere le conclusioni del Censis - la "dialettica politica sembra prigioniera del primato, anche lessicale, della regolazione finanziaria di vertice".  Che contamina e deforma anche il sillabario della vita quotidiana. L'euro, ad esempio, oggi si traduce e si pronuncia "neuro"...

(02 dicembre 2011) © Riproduzione riservat
da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2011/12/02/news/crisi_n_euro-25969326/
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« Risposta #253 inserito:: Dicembre 05, 2011, 10:57:25 am »

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Il parlamento padano scende in campo e auspica la secessione in stile cecoslovacco.
Ma il Carroccio, ormai partito d'opposizione, non può più permettersi di fare combattere fuori dal parlamento.
E non è un caso che parli di una via consensuale, non rivoluzionaria, all'indipendenza

di ILVO DIAMANTI


IL SEDICENTE - e intermittente - "parlamento padano", riunito da ieri a Vicenza, non ha detto cose nuove rispetto al passato.
Bossi e Calderoli, in particolare, hanno ribadito i principali punti del tradizionale programma della Lega.

A) La secessione, in primo luogo. Proposta in chiave Ceco-Slovacca. Cioè: in modo consensuale. La Padania (non meglio definita: dove comincia e dove finisce?) e l'Italia, cioè Roma e il Sud (anche in questo caso: dove comincia e dove finisce?), dovrebbero negoziare la reciproca indipendenza.

B) Poi, la lotta (e siamo al punto B) a ogni ipotesi di riforma del sistema pensionistico. Un provvedimento contro il quale la Lega ha annunciato una iniziativa referendaria.

C) Sullo sfondo, la polemica contro l'Europa dell'euro. E quindi contro la natura di questo governo. Non votato dal popolo, ma voluto dalle banche e dai banchieri.

Temi e messaggi che hanno marcato, da sempre, l'identità - e il ruolo - di opposizione della Lega. Anche quando - quasi ininterrottamente, negli ultimi dieci anni - la Lega ha governato. Da ciò la prima novità e diversità, rispetto al passato.

Oggi la Lega è davvero all'opposizione. Unica forza politica presente in Parlamento apertamente contraria al governo Monti. Senza se e senza ma. Il che le permette di rimediare, almeno in parte, alle ambiguità degli
ultimi anni. Durante i quali aveva associato un linguaggio di lotta a una posizione - sempre più centrale - nel governo.

Ora, semmai, la Lega ha il problema di far dimenticare che fino a ieri è stata il perno della maggioranza. E, insieme al governo Berlusconi, ha condiviso, seppur con molte reticenze, il pacchetto di misure - imposte dalla Ue e dalla Bce - che ieri Monti e i suoi ministri cosiddetti "tecnici" hanno (ri)presentato. Tuttavia, anche se sta all'opposizione, la Lega non può fare il "partito di lotta". Non se lo può permettere.

1. Anzitutto, perché sono passati gli anni Novanta, quando la parola d'ordine era che l'indipendenza era necessaria, perché in Europa ci poteva entrare la Padania, ma non l'Italia gravata dai debiti. Oggi, invece, in Europa ci siamo. Ed è proprio il "direttorio europeo" a chiedere all'Italia, Padania compresa, di sanare il debito pubblico e di mettere a posto i conti.

2. Poi, ci sono valutazioni di tipo elettorale. La Lega ha ottenuto i suoi maggiori successi a partire dal 2008. Da quando, cioè, è tornata al governo (romano), comportandosi da "sindacalista del Nord". Per trasferire risorse e benefici a favore delle aree e dei gruppi sociali presenti nel Nord. Per primi, gli imprenditori e gli operai delle aree di piccola impresa.

A queste componenti, però, non interessa un soggetto politico "antagonista", che spinga fuori dall'Europa. Semmai il contrario. Tant'è vero che le associazioni di rappresentanza degli imprenditori e dei lavoratori autonomi hanno espresso apertamente il loro malumore verso la (op) posizione leghista. Era già avvenuto in passato, proprio dopo la marcia secessionista del 1996. Quando la Lega era crollata, dal punto di vista elettorale, sotto il 4%, alle Europee del 1999. Difficile che intenda rischiare ancora.

3. Anche perché, inutile nasconderlo, la "Lega di lotta" non c'è più. Oggi è al governo. Alla guida di 2 Regioni, 16 Province, circa 400 Comuni. I suoi uomini stanno dentro ai consigli di amministrazione e negli organismi direttivi di istituti pubblici, finanziari, bancari. E, ancora, negli organigrammi dei mezzi d'informazione. A livello locale, regionale e nazionale. Da "soli contro tutti", chiusi dentro i confini padani, difficilmente potrebbero mantenere tanto potere.

E poi, non è possibile fare i sindacalisti del Nord e la Lega di governo, almeno a livello territoriale, rifiutando il gioco politico "nazionale". Non a caso Cota e Zaia, dopo aver rifiutato di partecipare all'incontro del governo con le Regioni, per la concomitanza con il parlamento del loro partito, hanno chiesto e ottenuto un confronto. (Anche se si sono dovuti "accontentare" del ministro Giarda, al posto di Monti.) Ma Cota e Zaia governano due Regioni italiane, non padane.

4. La Lega di Opposizione, oggi, non è più Lega di lotta. Perché ambisce di tornare al governo. Non della Padania. Ma dell'Italia. Così lancia proposte e iniziative molto meno laceranti del passato. L'indipendenza padana per via negoziale e consensuale. Non per via rivoluzionaria. Ma neppure referendaria. (Si rischierebbe di scoprire che si tratta di un sentimento marginale...).

Il referendum, semmai, lo annuncia contro una legge dello Stato. Seguendo l'esempio di altri partiti su altri temi (la legge elettorale, il nucleare...). L'opposizione della Lega contro il governo, per molti versi, appare meno accesa di quella di altri soggetti economici e sociali. Per prima: la Cgil.

Quando Bossi annuncia (con parole diverse dalle mie) che Maroni incalzerà Monti, attribuisce al più "istituzionale" dei leader leghisti il ruolo di capo dei gruppi parlamentari. Sposta, dunque, in Parlamento il luogo della "lotta".
D'altronde, in questo momento, alla Lega fa comodo stare all'opposizione. Per sanare le sue divisioni interne. Per ritrovare la "spinta propulsiva". Ma, al contempo, si guarda bene dal riproporre la Lega antagonista.

Usa la Padania come un mito, una bandiera. La "secessione" come una prospettiva in-attuale, da perseguire per via contrattuale. Perché teme di venire spinta fuori dal sistema. Ha preso le distanze da Berlusconi e dal Pdl. Per purificarsi. Ma lavora in vista delle prossime elezioni. Anticipate. Al più presto possibile. Da affrontare insieme al Pdl. Perché la solitudine politica, a volte, serve. Ma alla lunga logora. Anche i padani più duri.

(05 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

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« Risposta #254 inserito:: Dicembre 09, 2011, 10:53:54 pm »

Le sofferenze di un "cuore rosso"

Ilvo DIAMANTI

Ho quasi 50 anni.  Vivo in Val d'Elsa. "Cuore rosso" d'Italia. Sono nato e cresciuto in pieno miracolo economico. Quando questa terra si trasformava a vista d'occhio. Fabbriche e fabbrichette un po' dovunque. Anche se il paesaggio intorno a me era  -  in parte è   -  ancora verde. (Non come in Veneto, dove il cielo quasi non si vede.) Ma il mio cuore era rosso. Senza troppi dubbi. Ero comunista. Iscritto al Pci. Votavo per il Pci. Frequentavo la Casa del Popolo. Ero iscritto all'Arci e alla Cgil. Anche se i miei facevano i commercianti. Gestivano una piccola bottega di alimentari. Ora non c'è più. I miei vecchi sono troppo vecchi per occuparsene ancora. E a noi non interessava. Mio fratello Carlo se n'è andato a Firenze, dopo il matrimonio. È fuggito. Io mi sono laureato in Scienze Politiche e, da vent'anni, insegno al Liceo. A Siena. Vado e vengo. Vengo e vado. In città, ho un appartamento in affitto. Lo uso quando è tempo di scrutini, compiti in classe, ricevimenti. Ma continuo a risiedere in Val d'Elsa, non lontano dai miei genitori. Un po' per assisterli, un po' per pigrizia. Abito per conto mio, da solo. D'altronde, non ho mai retto relazioni troppo impegnative. Con dispiacere dei miei, che avrebbero voluto vedermi sposato e con figli. Però, ogni volta che venivo a casa con qualche ragazza, le facevano la radiografia. Chi sei, cosa fa fai, chi sono e cosa fanno i tuoi? Ma anche: cosa voti, che cosa pensi del governo?  Non avrebbero sopportato, in casa, una democristiana. O una di destra. (Cioè, lo stesso...) Per non dire dei miei nonni. Nonno Mario e nonna Anna, finché sono vissuti, sempre a chiedermi. "Francesco, ma cosa aspetti a trovarti una brava ragazza?". Cioè: seria, laboriosa, che sappia occuparsi della casa, dei figli. E poi: comunista. O almeno: di sinistra. Mio fratello, più giovane di qualche anno, se n'è andato anche per questo. Stanco delle pressioni dei genitori e dei nonni. Stanco di chiedere alle ragazze con cui stringeva una relazione, prima di portarle a casa, da che parte stessero. Politicamente. Stanco di suggerire loro di mentire con i miei, nel caso avessero idee diverse da quelle di famiglia.

Certo, da allora è passata una vita. È cambiato secolo, millennio. È cambiato tutto. Il Pci non c'è più. Quelli che insistono a dirsi Comunisti sono quasi una setta. Non un "partito di popolo", come ai miei tempi. Insieme al muro, sono cadute le bandiere che davano senso alla vita. Alla "mia" vita, almeno. E io, da allora, mi sento confuso. Prima sono diventato Progressista e Pidiessino. Poi Diessino, Ulivista e Democratico. Non è stato facile. Non è facile. Stare insieme ai miei avversari di ieri. I Democristiani. Anche se i peggiori di loro se ne sono andati. Figurarsi: mettersi con i Comunisti. Però un po' di disagio i miei genitori lo provano quando mio fratello viene a trovarli insieme al figlio (Arnaldo). Allora chiedono a loro (e mio) nipote (ventenne) se abbia una ragazza. E timidamente aggiungono... "Com'è?". Cioè, non solo e non tanto di aspetto e carattere. Ma "politicamente". Difficile descrivere il loro disagio, quando mio nipote risponde loro: "Chissenefrega... della politica". D'altronde hanno faticato, molto più di me, ad accettare il cambiamento. Costretti a stare insieme agli "altri". I Democristiani di ieri. A rinunciare alle bandiere. Hanno sofferto. Ho fatto  -  faccio  -  fatica anch'io.

Però ci ha aiutato Berlusconi. A spiegarci che noi esistiamo ancora. A dividere il mondo in due. Lui e i suoi, da una parte. E i Comunisti, dall'altra. Ci ha aiutato molto. Ci ha dato un senso. Mi ha messo d'accordo con la mia biografia. Per questo ora sto male. Ora che Berlusconi è uscito di scena. O almeno, si è spostato nel retroscena. Al momento, ho gioito. Non mi pareva vero. Ma ho sentito subito un vuoto. Non è che ne abbia nostalgia. Ci mancherebbe. Ma mi manca il mio cuore rosso. Mi manca la bandiera. Mi mancano i confini. Stare con i democristiani di sinistra: passi. Almeno sono, erano: di sinistra. Ma stare con Berlusconi e, peggio, con Cicchitto, Gasparri, Sacconi, La Russa. Con i democristiani, i fascisti e i forzisti  di ieri. In Italia e in Val d'Elsa. Quelli che oggi sostengono il governo insieme a noi. Mi disorienta. Mi fa stare male. Monti mi ha liberato da Berlusconi, almeno per ora. Ma mi ha costretto a stare insieme a lui e ai suoi. Al Cavaliere e ai suoi servi. Contestato, per questo dai "compagni" che insistono a dirsi "Comunisti" e perfino dai dipietristi. Mi ha costretto al silenzio, massimo: al mugugno, di fronte alla riforma delle pensioni, senza un accenno di patrimoniale.  Monti. Mi ha liberato  -  e ha liberato i teleschermi - da Berlusconi e dai suoi servi. Ma  poi si è presentato da Vespa, "faccia a faccia", anzi: "porta a porta". A spiegarci il suo "contratto con gli italiani". Come Berlusconi 10 anni fa. Con la differenza, rispetto ad allora, che questo verrà rispettato. Purtroppo. Senza che noi lo si possa impugnare né strappare.

Così oggi me ne sto in mezzo. Come la mia Val d'Elsa. Stretta e costretta fra il Nord forza-leghista e Roma.
Il mio "cuore rosso" ha perduto troppo sangue. Quasi non batte più.
 

(09 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

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