ILVO DIAMANTI -

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Arlecchino:
Pd fermo al 30%, Grillo paga il caso Roma.
Governo a bassa fiducia
Atlante politico. Sondaggio Demos: Renzi difende il suo "gradimento" dopo la sconfitta al referendum. M5s cede l'1,5%. L'esecutivo di Gentiloni al 38%, il livello minimo per uno appena insediato

Di ILVO DIAMANTI
22 dicembre 2016

Sorprende un poco, anzi, non poco (questa, almeno, la mia reazione) il sondaggio dell'Atlante Politico condotto da Demos nei giorni scorsi sugli elettori italiani. Il primo realizzato dopo il referendum, che ha bocciato la riforma costituzionale promossa dal governo e approvata in Parlamento lo scorso aprile. Un voto che ha assunto un significato politico e personale preciso. Visto che il premier, Matteo Renzi, ha tradotto la consultazione in un referendum su se stesso e sulla propria leadership di governo. Renzi, peraltro, ha tratto immediatamente le conseguenze del risultato, dimettendosi subito. (Mi) sorprende un poco, anzi, non poco, questo sondaggio, perché, dai dati delle interviste, non sembra sia cambiato molto, nell'orientamento degli elettori. Verso il governo, verso i partiti, verso lo stesso Renzi. Nonostante le grandi polemiche e le mobilitazioni che, negli ultimi mesi, hanno opposto il "fronte del Sì" e "il fronte del No", le stime di voto non mostrano cambiamenti significativi rispetto alle settimane prima del referendum. Il Pd - malgrado la "sconfitta personale" del leader - risulta stabile, primo partito, appena sopra il 30%. Seguito dal M5S, quasi 2 punti sotto. In calo di poco più di un punto. Nonostante le difficoltà e gli scandali che ostacolano il percorso della giunta romana, guidata da Virginia Raggi. Il confronto elettorale sembra ancora polarizzato nell'alternativa fra Pd e M5S.

Gli altri partiti restano a distanza. Esattamente come prima. La Lega e FI (in lieve crescita) intorno al 13%. Tutto il resto, dal 5% in giù. Il referendum, dunque, non sembra aver cambiato i rapporti di forza tra i partiti. Ma neppure la considerazione nei confronti dei leader. Se Renzi, per primo, ha ammesso la sconfitta "personale", non per questo risulta piegato, marginalizzato, presso gli elettori. Infatti, la fiducia nei suoi confronti si conferma allo stesso livello degli ultimi mesi. Anzi, sembra perfino risalita, seppure di poco. Ora ha raggiunto il 44%, appena sotto Paolo Gentiloni, il nuovo premier, che si attesta al 45%. La fiducia verso Beppe Grillo, portabandiera del No, e vincitore del referendum, risulta, invece, molto più bassa. Circa il 31%.

Tuttavia, il giudizio nei confronti del governo risulta diverso. È, infatti, apprezzato dal 38% degli elettori. Dunque, in declino di fiducia, rispetto all'ultimo mese e al precedente governo: 2 punti in meno. Poco. Ma si tratta, comunque, del grado di stima più basso ottenuto da un governo all'indomani del voto di fiducia delle Camere negli ultimi 5 anni. Mario Monti, in particolare, disponeva di un livello di fiducia quasi doppio (74%). Lo stesso governo Renzi, all'avvio, nel febbraio del 2014, era "stimato" dal 56% degli elettori.

Come spiegare questi orientamenti, in parte contrastanti? La stabilità del voto e della fiducia nei confronti di Renzi, "lo sconfitto", sostanzialmente eguale a quella verso il successore e nuovo premier, Gentiloni? E come valutare il calo, seppure limitato, della valutazione del governo?

La mia idea, da verificare con altre indagini, più approfondite, è che il referendum abbia "congelato" il clima d'opinione. Radicalizzando le posizioni dentro gli schieramenti che si sono confrontati - e scontrati - in modo sempre più aspro, negli ultimi mesi. Nell'ultimo anno. D'altronde, in caso si rivotasse per il referendum, secondo il sondaggio Demos, oggi si ripeterebbe lo stesso risultato. Ciò significa che i pentimenti e i ripensamenti restano limitati. Così, se l'83% degli elettori del M5S voterebbe di nuovo No, gli elettori del Pd farebbero l'esatto contrario. L'84% di essi, infatti, voterebbe ancora Sì. D'altronde, l'89% degli elettori del Pd continua ad esprimere fiducia nei confronti di Renzi. Mentre il consenso verso Gentiloni, nel Pd, è un poco più basso, 82%. Ma, in compenso, è più "largo" e trasversale. In particolare, supera il 70% fra gli elettori di centro. Circa il doppio rispetto a Renzi. E si avvicina al 60% nella base elettorale delle formazioni a sinistra del Pd.

Il referendum, dunque, pare aver consolidato, quasi radicalizzato, gli schieramenti. Il "renzismo" oggi appare un nuovo muro. Come, ieri, il "berlusconismo". Così, nonostante la sconfitta del Sì, sembra essersi rafforzata la fedeltà nei confronti del leader del Pd. Che oggi, più di ieri, evoca il PdR. Il Partito di Renzi. Al quale quasi tutti gli elettori del Pd si dichiarano "fedeli". Mentre Gentiloni è il nuovo premier. A capo di un governo che, secondo quasi due terzi degli elettori, non arriverà alla scadenza naturale della legislatura, nel 2018. Gentiloni: appare, ai più, il premier di transizione di un governo di transizione. In attesa che Renzi, dal suo Aventino, decida quando e come rientrare. (Mi pare difficile che resti a lungo lontano dalla politica. Che accetti il ruolo dello "sconfitto" per troppo tempo.) Questo governo, però, a differenza del precedente, non si presenta come il "governo personale" del Premier. Non è il GdG. Il Governo di Gentiloni. Ma non è detto che sia uno svantaggio. Perché la doppia personalizzazione politica del partito e del governo, alla fine, non ha portato bene a Renzi.

Nota metodologica. Il sondaggio è stato realizzato da Demos&Pi per la Repubblica. La rilevazione è stata condotta nei giorni 12-20 dicembre 2016 da Demetra con metodo mixed mode (Cati-Cami-Caw). Il campione intervistato (N=1.664, rifiuti/sostituzioni: 7.190) è rappresentativo per i caratteri socio-demografici e la distribuzione territoriale della popolazione italiana di età superiore ai 18 anni (margine di errore 2,4%). Documentazione completa su www.sondaggipoliticoelettorali.it.

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22 dicembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/12/22/news/gradimento_politici_dopo_referendum_caso_roma-154629186/?ref=HREC1-1

Arlecchino:
Gli italiani e lo Stato: giù la fiducia nei partiti, ma tra politica e social cresce la partecipazione
Rapporto Demos: si acuisce il distacco cittadini-istituzioni mentre la campagna referendaria ha riacceso l’interesse per le questioni pubbliche

Di ILVO DIAMANTI
07 gennaio 2017

Nell'anno dell'anti-politica, mentre si acuisce il distacco dallo Stato e dai partiti, si assiste a un prepotente ritorno della politica. O meglio: della "partecipazione politica". Attraverso nuovi "media". Ma anche attraverso le forme più tradizionali. Internet e la piazza, insieme. A rinforzarsi a vicenda. Peraltro, all'indomani del referendum che ha bocciato la proposta di riformare la Costituzione, riemerge e si ripropone, ancora ampia, la domanda di riformare la Costituzione. E le istituzioni. Di emendare il bicameralismo. Di ridurre i costi della politica. Sono alcuni paradossi - apparenti - del XIX Rapporto "Gli italiani e lo Stato", curato da Demos per Repubblica.
   
LE TABELLE

D'altronde, la campagna referendaria, per quanto aspra, ha, comunque, ri-educato gli italiani ai temi della Carta costituzionale. E ne ha concentrato l'attenzione intorno alle questioni pubbliche. Non solo, ma ha mobilitato gran parte dei cittadini. Li ha spinti al voto e, prima ancora, al dibattito. Nelle sedi politiche, ma anche nella vita quotidiana, negli ambienti privati. Sono gli effetti imprevisti di tanti mesi di confronto e divisioni. Alla fine hanno realizzato un esito unificante. Sotto altri profili, questo Rapporto riproduce un ritratto coerente con il passato.

In alto, davanti a tutto e a tutti, nella classifica dei soggetti pubblici: Papa Francesco. E le Forze dell'Ordine. Rispondono a una domanda - diffusa e radicata - di certezza etica e, d'altro canto, di sicurezza personale. Mentre le istituzioni dello Stato riscuotono la consueta diffidenza. Al tempo stesso, i cittadini sono insoddisfatti dei servizi pubblici. Provano sfiducia nei confronti delle organizzazioni sindacali e imprenditoriali. Ma, soprattutto, verso i soggetti di rappresentanza politica. I partiti, lo stesso Parlamento. Sono, come sempre, in fondo alla classifica. Evidentemente, è in questione il fondamento della nostra democrazia, visto che i principali attori della rappresentanza, i partiti, non sono solamente sfiduciati, ma vengono ritenuti "corrotti". Quanto e più che ai tempi di Tangentopoli.

Il No al referendum costituzionale, d'altronde, ha avuto - anche - questo significato. Un No al sistema dei partiti. E ai politici che li guidano. In testa: il Premier. La sfiducia diffusa nella società, peraltro, avvolge anche la sfera delle relazioni personali, dei "rapporti con gli altri". Guardati con prudenza da gran parte dei cittadini. Chissà: ci potrebbero fregare... E poi ci sentiamo "invasi". La paura degli immigrati non è mai stata così alta.

Eppure, come sempre quando si tratta dell'Italia e degli italiani, il quadro non è mai così lineare e coerente come potrebbe apparire a prima vista. La considerazione dei servizi pubblici, anzitutto. Gli italiani non ne sono soddisfatti, come detto. Eppure pochi, anzi, pochissimi richiedono davvero "più privato". È l'atteggiamento di prudenza critica, radicato nella nostra società. La democrazia: sarà anche corrotta, ma "un uomo solo al comando" potrebbe essere più pericoloso. Per non parlare della UE e dello stesso Euro. Gli italiani ne pensano il peggio. Però pochi, pochissimi, tra loro, vorrebbero abbandonare l'Euro. E la UE. Perché, anche se non piacciono, non si sa mai... Restarne fuori potrebbe costarci parecchio.

Lo stesso discorso vale per le riforme costituzionali. Non più tardi di un mese fa largamente bocciate. Tuttavia, la necessità di emendare la Costituzione, per renderla più efficiente, è largamente condivisa. E molti che un mese fa avevano votato No, oggi si dicono d'accordo con alcuni dei punti più importanti del referendum. Il superamento del bicameralismo e, soprattutto, la riduzione dei parlamentari.

Il problema è che il referendum, nella percezione generale, assai più della Costituzione, riguardava il sistema politico e di governo. Per primo, Renzi. Oggi quel governo e quel premier non ci sono più. Mentre le riforme possono attendere. Quanto, non si sa. Sicuramente, parecchio.

In questo cielo chiaroscuro c'è una zona di luce interessante e significativa. La partecipazione. Nell'ultimo anno appare cresciuta in modo significativo. In massima misura quella "im-mediata", realizzata attraverso la rete e i social-media. Strumento di "democrazia della sorveglianza". Mentre la partecipazione sociale e il volontariato segnano il passo. Probabilmente, fra queste tendenze c'è una relazione. In quanto le nuove forme di partecipazione hanno, in parte, surrogato e, talora, rimpiazzato la partecipazione sociale e volontaria. Ma si è allargata anche la partecipazione politica "tradizionale", incentivata, nel corso degli ultimi mesi dalla mobilitazione referendaria. In ogni caso, la "critica democratica" ha allargato le basi della "partecipazione democratica". Ha spinto i cittadini a interrogarsi sui valori e sui limiti della Costituzione. Sui rischi che corriamo, nel tentativo di correggerla e ridisegnarla. Ma anche su quanto ci costa la resistenza a ogni innovazione.

Insomma, nel corso dell'ultimo anno, mi pare sia cresciuto, fra i cittadini, il senso civico e critico. Insieme alla domanda di riforme. Che potrebbe essere assecondata meglio evitando di "politicizzarla". O meglio, di piegarla a fini politici contingenti. Ma mi pare sia stato un buon anno per la nostra democrazia. Nonostante tutto. Perché si è allargata la voglia e anzitutto la pratica della partecipazione. Politica e critica. Attraverso vecchie e, soprattutto, nuove vie. La mobilitazione e l'affluenza inattesa, per dimensione, al referendum, ne sono un segnale evidente. Meglio seguirlo con attenzione.

Certo, continuiamo ad essere un popolo di riformisti scettici, animati da un rapporto con lo Stato: critico e disincantato. E da un orientamento politico polemico. Eppure attivo e partecipe. Ci sentiamo europei: nonostante tutto. Siamo italiani. Una nazione con poco Stato. Oppure troppo. Dipende dai punti di vista.

© Riproduzione riservata 07 gennaio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/01/07/news/a_picco_la_fiducia_nei_partiti_ma_tra_politica_e_social_cresce_la_partecipazione-155539074/?ref=HREA-1

Arlecchino:
Chi cerca l'uomo forte non vuole autoritarismo ma autorità
L'Uomo Forte, che ottiene tanti consensi fra gli italiani, non è un nuovo Mussolini. Un Duce. Non manifesta una richiesta di "autoritarismo". Piuttosto: di "autorità

02 febbraio 2017

Ha sollevato dibattito e qualche polemica la Mappa pubblicata, nei giorni scorsi, dove ho segnalato quanto sia diffusa, fra i cittadini, la domanda di un "Uomo Forte". D'altronde, da oltre 10 anni (per la precisione: dal 2004), i sondaggi dell'Osservatorio Demos ricostruiscono la tendenza di questo orientamento. Che è sempre apparso molto ampio. Ma, fino ad oggi, o meglio: fino a ieri (novembre 2016), non aveva mai raggiunto una misura tanto estesa: 8 italiani su 10. Otto su dieci significa, praticamente, (quasi) tutti i cittadini. Come (e forse più che) nelle precedenti occasioni, i dati del sondaggio hanno suscitato reazioni accese. Sono, infatti, stati considerati un segnale inquietante, che richiamerebbe una minaccia "autoritaria". Alcuni hanno evocato perfino Mussolini. In Italia, d'altronde, l'esperienza del ventennio non è così lontana. E pesa ancora nella memoria nazionale. Forse più della resistenza.

Eppure, come (e forse più che) nelle precedenti occasioni, occorre essere chiari. L'Uomo Forte, che ottiene tanti consensi fra gli italiani, non è un nuovo Mussolini. Un Duce. Non manifesta una richiesta di "autoritarismo". Piuttosto: di "autorità". Cioè: di una leadership dotata di legittimità. Questa domanda, nel corso degli anni, si è progressivamente "personalizzata". Indirizzata sulle persone. Perché i partiti e le associazioni di rappresentanza hanno perduto i legami con la società. Mentre le istituzioni di governo - locale, centrale, e ancor più, europee - sono apparse sempre più lontane. "Ai" e "dai" cittadini. Burocrazie anonime. Distanti e indistinte. Così, fra i cittadini è cresciuto il distacco dalla dimensione pubblica. Al "senso civico" è subentrato il "senso cinico". Mentre - per citare Bauman - si è diffusa "la solitudine del cittadino globale".

Così, la prospettiva di "un Uomo Forte al governo" è divenuta tanto "popolare". Che non significa "populista". Ma lo può diventare, se non trova risposta nei partiti. Nelle istituzioni democratiche, nelle organizzazioni di rappresentanza politica e sociale. Se i cittadini restano soli. Davanti agli schermi. E dialogano, interagiscono e reagiscono con il mondo soprattutto attraverso la rete. Mediante i PC, i tablet e, soprattutto, gli smartphone. Basta guardarsi intorno, nei luoghi pubblici, per trovarsi circondati da persone che camminano oppure stanno ferme, ma con gli occhi fissi sullo smartphone. Mentre le dita battono sui tasti. Una "folla solitaria" (per echeggiare il noto saggio di David Riesman, pubblicato nel 1950).

"Affollata" di persone che sono sempre in comunicazione con gli altri, con il mondo. Ma sono sempre sole.

Meglio non stupirsi, allora, se cresce la domanda di un Uomo Forte. "Autorevole" non "autoritario". Un "leader", non un "dittatore". Questa società è allergica ai vincoli e alle regole. Figurarsi se accetterebbe figure troppo "forti". Basta vedere che fine ha fatto Silvio Berlusconi. Le difficoltà che incontra Matteo Renzi. La "forza" del leader sta nella capacità di dare volto e voce ai cittadini. In cerca di valori, ma anche di persone in cui riconoscersi. Per non sentirsi deboli. E disorientati.

© Riproduzione riservata
02 febbraio 2017

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2017/02/02/news/chi_cerca_l_uomo_forte_non_vuole_autoritarismo_ma_autorita_-157403106/?ref=HRER2-1

Arlecchino:
Sondaggio: Pd e M5s ai minimi, il 70% contro il voto-lampo
Atlante politico. Nella rilevazione Demos, conclusa mentre esplodeva il caso polizza-Raggi, l'onda favorevole ai 5Stelle subisce uno stop. Democratici sotto il 30%. In crescita Forza Italia, Lega e FdI. Si rafforza Sinistra italiana-Sel. Un fronte largo vuole una "legge omogenea" per le due Camere prima di andare alle urne

Di ILVO DIAMANTI

IL SONDAGGIO di Demos per l'Atlante Politico si è chiuso giovedì, in tarda serata. Quando le polemiche intorno a Virginia Raggi, per la polizza donata "a sua insaputa" e le nomine di collaboratori discussi (come il fratello di Raffaele Marra) erano già esplose. Ma non con il clamore che stanno assumendo ora. D'altronde, questa è una fase di instabilità e di tensioni politiche accese. Che investono non solo il M5S romano. Ma anche il Pd, nel quale leader storici della sinistra interna hanno minacciato una scissione.
 
In generale, tutte le forze politiche sono entrate in fibrillazione, dopo la decisione della Corte Costituzionale, che ha emendato l'Italicum. Dichiarando inammissibile il ballottaggio. E dopo la bocciatura della riforma costituzionale, al referendum dello scorso 4 dicembre, che ha determinato le dimissioni del(l'ex) premier Matteo Renzi. Così, siamo entrati in una fase politica fluida. Nella quale il dibattito si è spostato sulla prospettiva e sulla data delle prossime elezioni. Il sondaggio riflette questo clima incerto. Anzi (Bauman mi perdonerà), "liquido". Anche se le intenzioni di voto non appaiono in grande movimento. Mostrano, tuttavia, alcuni segnali di mutamento. Significativi. Anzitutto, l'indebolirsi, parallelo, dei due partiti che dominano la scena, ormai da anni. Il Pd, perde poco. Mezzo punto appena. Ma scivola sotto il 30%. E tocca il livello più basso degli ultimi due anni, nelle nostre rilevazioni. Il M5s, a sua volta, perde consensi. Quasi due punti, anche se, nel corso del sondaggio, il "caso Raggi" era appena emerso. Tuttavia, anche il M5s scivola sui valori più bassi, (stimati) dalla primavera del 2016. Parallelamente, risalgono i soggetti politici della Destra e del Centro-Destra. Forza Italia, la Lega e, ancor più, i Fratelli d'Italia guidati da Giorgia Meloni. Come se, come in altri Paesi, fosse in atto un processo di radicalizzazione. Anche i soggetti a sinistra del Pd, d'altronde, risalgono. Seppure in misura limitata. In attesa che l'ipotesi di "scissione", avanzata, fra gli altri, da Massimo D'Alema, divenga maggiormente concreta. Quasi 6 elettori su 10 , peraltro, pensano che il Pd finirà per dividersi. Si tratta di un'opinione cresciuta sensibilmente, negli ultimi mesi: 10 punti in più rispetto allo scorso ottobre. Ma, soprattutto, questa idea risulta condivisa, in misura pressoché identica (57%), dagli stessi elettori del Pd.

LE TABELLE
 
Tuttavia, Massimo D'Alema, autorevole sostenitore del rischio "secessionista" nel Pd, non pare aver tratto beneficio sul piano del consenso, da questa posizione. E resta in coda alla graduatoria dei leader, in base al grado di popolarità (20% di fiducia).
 
In effetti, siamo in una fase politica strana. La definirei "post-renziana", se Matteo Renzi non fosse ancora in pista. Nonostante le dimissioni. Perché è evidente che non ha alcuna intenzione di ritirarsi. Eppure qualcosa è sicuramente cambiato, dopo le sue dimissioni da premier. E dopo la bocciatura del referendum. Il primo, evidente, segno di cambiamento nel clima d'opinione è fornito dal grado di fiducia personale espresso dagli elettori. Nell'ultimo mese, infatti, Renzi è sceso di 8 punti. È il leader che ha subito il calo più sensibile. Insieme a Salvini e Grillo, che, tuttavia, hanno perduto minore credito (4-5 punti in meno). D'altronde, il ritiro - temporaneo di un leader si riflette anche sui principali "antagonisti".
 
Ripeto, si tratta di un momento politico singolare. Il post-renzismo al tempo di Renzi. Nel quale agisce un premier sicuramente vicino a Renzi. Sicuramente diverso da Renzi. Paolo Gentiloni. "Personifica" un governo "impersonale". Perché l'attuale premier non ha lo stile di azione e di comunicazione di Renzi. Né di Berlusconi. È post-renziano e post-berlusconiano. Anche se ha una lunga storia politica personale. Questo stile "impersonale", in tempo di partiti e di leader "personali", però, non sembra nuocergli. Almeno fin qui. Anche se la maggioranza degli elettori, il 53%, ritiene che il suo governo sia destinato a concludersi prima della scadenza naturale del 2018. Tuttavia, un mese fa la quota degli scettici, al proposito, era più elevata di 10 punti percentuali. La fiducia nel governo, inoltre, rispetto al momento in cui si è insediato, è salita di 5 punti. E oggi ha raggiunto il 43%. D'altronde, Gentiloni, per quanto "impopulista", oggi è il più popolare fra i leader. Dichiara di aver fiducia verso di lui il 47% degli elettori. Oltre 10 punti più di Renzi. E poi: 9 più di Giorgia Meloni. E 13-14 di più, rispetto a Di Maio, De Magistris, Pisapia e Salvini. I quali, almeno per ora, non esprimono una possibile alternativa di governo.
 
Probabilmente, lo stile "impersonale" del premier asseconda una stanchezza diffusa del Paese. Nel quale la maggioranza dei cittadini invoca l'avvento di un Uomo Forte. Ma solo perché in giro non se ne vede traccia. D'altronde, molti elettori sono stanchi di miracoli annunciati e di guerre - politiche - praticate.
 
E per quanto credano che il voto incomba, in fondo, lo temono. Perché vorrebbero affrontare le prossime elezioni con regole e soggetti che permettano di immaginare governi e parlamenti stabili. Ma nessuna alleanza, fra i principali partiti, raccoglie il consenso degli elettori. E senza alleanze - parlamentari - nessun governo appare possibile. Visto che non è immaginabile - anche in base ai risultati di questo sondaggio - che un partito, da solo, superi il 40% dei voti validi, come prevede l'attuale legge elettorale, per conquistare da solo la maggioranza dei seggi.
 
Così, 7 elettori su 10, prima di andare al voto, preferiscono attendere. Che si approvi una legge elettorale che garantisca una maggioranza comune alle due Camere. Solo nella base della Lega e del M5s la "voglia" di andare comunque al voto "subito" è più ampia. Ma non
di troppo.
 
Così, è possibile che l'era del post-renzismo al tempo di Renzi possa durare più del previsto. Più di quanto vorrebbe lo stesso Renzi. Alla finestra, ma pronto a rientrare in gioco.
 
© Riproduzione riservata 04 febbraio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/02/04/news/sondaggio_pd_m5s_arretrano-157529834/?ref=HREA-1

Admin:
Scissione Pd, contro il PdR sta nascendo il PD'A
Le mappe. Da due anni il partito si è personalizzato su Matteo Renzi. E la nuova stagione politica vede opporgli come figura più significativa Massimo D'Alema

Di ILVO DIAMANTI
20 febbraio 2017

È difficile definire - e prima ancora: comprendere - cosa sia avvenuto e stia avvenendo nel Partito democratico in questi giorni. Dopo l'assemblea del Pd che si è svolta ieri. Ma è ancora più difficile immaginare il futuro. Del Pd. Dopo la scissione che si è consumata ad opera di alcuni esponenti.

D'altronde, parafrasando Walter Veltroni, "il passato non è il futuro". Anche se, nel nostro tempo, il futuro è sempre più corto. Il futuro: è già passato. Tuttavia, Walter Veltroni conosce bene il Pd. Visto che ha contribuito a "fondarlo". Giusto dieci anni fa, nel 2007. Quando ne divenne il primo segretario. Il Pd costituì l'approdo di un percorso durato oltre un decennio. Durante il quale — per citare Arturo Parisi che ne fu un ispiratore influente — l'Ulivo dei Partiti si tradusse, progressivamente, nel Partito dell'Ulivo. L'Ulivo, com'è noto, è sorto, a metà degli anni Novanta, dall'incontro delle forze politiche di tradizione cattolica democratica con quelle laiche e di sinistra. Di tradizione, prevalentemente, socialista e (post)comunista. L'Ulivo dei partiti: si costruì intorno a Romano Prodi, nel 1996. Che governò per due anni e mezzo. Fino all'ottobre del 1998. Quando venne messo in minoranza, alla Camera, da Rifondazione comunista.

A Prodi successe Massimo D'Alema, primo presidente del Consiglio, in Italia, di "esperienza" comunista. Un passaggio importante per la nostra democrazia. Il Pci, d'altronde, aveva già cambiato nome. Da tempo. Si chiamava, infatti, Pds. Partito democratico di sinistra. E divenne, quindi, Ds. Democratici di sinistra. In seguito alla fusione con altre componenti della sinistra moderata e riformista. Il Pd riassume, dunque, tradizioni e identità diverse. Di certo, sancisce il superamento della frattura storica che aveva accompagnato la Prima Repubblica. La frattura anti-comunista. Ciò avviene, fra le altre ragioni, per l'irruzione di un nuovo attore politico. Silvio Berlusconi. Il quale erige un nuovo muro. Impiantato e fondato su se stesso. Sulla propria figura, sulla propria proposta politica. L'antiberlusconismo, così, si affianca all'anticomunismo. Lo sfida. Lo utilizza come argomento. Come fattore di consenso. E rende difficile, sempre e comunque, la legittimazione dei Ds. Che continuano ad apparire, per molti elettori ex-post-democristiani, gli eredi del Pci. E dunque: comunisti. Basta osservare le difficoltà che hanno incontrato i Ds ad affermarsi in zone e in aree tradizionalmente "bianche". Cioè: democristiane e post-dc. Come nelle province venete e pedemontane del Nord. Il Partito dell'Ulivo e, soprattutto, il Pd permettono di superare, almeno in parte, questo "vizio" originario del sistema politico italiano nella Prima Repubblica. Quando si affrontavano soggetti politici alternativi, ma senza possibilità di alternanza. Così il Pd diventa e si impone come forza di governo. La più forte, sul piano elettorale, dopo la crisi di Silvio Berlusconi. Tanto più oggi, visto che il (non)partito maggiormente in grado di "sfidarlo", in termini di consensi, è il M5S. La cui legittimazione a governare è messa in discussione. A maggior ragione oggi, dopo i primi mesi alla guida di Roma.

Tuttavia, le divisioni emerse nel Pd, nell'ultima fase, hanno riaperto la questione. Anzitutto per il cambiamento avvenuto nella natura e nell'identità del partito. Il Partito dell'Ulivo, il Pd, riassume, infatti, l'esperienza dei principali partiti di massa. Delle principali culture e tradizioni politiche. In Italia. Ma, non solo da oggi, il partito si è personalizzato. Io stesso, da un paio d'anni, l'ho (ri)definito il PdR. Partito di Renzi.

È il marchio con cui l'ha etichettato Pier Luigi Bersani nell'Assemblea nazionale. Polemicamente. Mentre nel mio linguaggio il PdR ha un significato descrittivo, non prescrittivo. Sottolinea come, in una certa misura, sia divenuto un Partito Personale (per usare la definizione di Mauro Calise). Centrato sulla persona del leader. Che gli offre immagine, riconoscimento, identità. Mentre, parallelamente, stanno sfumando le basi sociali, organizzative. I valori e le tradizioni che ne fondavano l'appartenenza.

È con questi argomenti che si sono accentuate le divisioni interne al Pd(R). Che riflettono il disagio di alcuni esponenti, che minacciano di uscire. Oppure lo stanno facendo. Soprattutto, ma non solo, di sinistra. Bersani, come si è detto, ma anche i governatori Enrico Rossi e Michele Emiliano. Oltre ai leader della "sinistra" interna. Per primo, Roberto Speranza. Inoltre, Guglielmo Epifani e Gianni Cuperlo. Mentre altri — Pippo Civati e Stefano Fassina — se ne sono già usciti. Intanto, a sinistra del Pd stanno sorgendo laboratori politici, come il "Campo Progressista" promosso da Giuliano Pisapia. Si tratta di figure ed esperienze non sempre riconducibili alla tradizione del Pci. Tuttavia, è difficile non cogliere in queste tensioni il rischio della divisione (e del "peccato") originale. D'altronde, alla presentazione romana del libro-intervista firmato da Enrico Rossi, sulla "Rinascita Socialista", c'erano molti leader dissidenti e scissionisti. Accompagnati da una coreografia eloquente. Costellata di bandiere rosse. Introdotta da

Ma la figura più significativa di questo passaggio è Massimo D'Alema. Leader Ds e Pds. Stratega accorto. Riferimento possibile anche di questa nuova stagione politica. Che al PdR potrebbe opporre il PD'A.

© Riproduzione riservata
20 febbraio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/02/20/news/scissione_pd_contro_il_pdr_sta_nascendo_il_pd_a-158729015/?ref=fbpr

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