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Autore Discussione: Bacon, libero e «terribile» che amava il cinema italiano  (Letto 2703 volte)
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« inserito:: Marzo 11, 2008, 06:02:37 pm »

Bacon, libero e «terribile» che amava il cinema italiano

Flavia Matitti


«Ho conosciuto Francis Bacon nel novembre 1966 a Parigi. Tornavo da New York, dove ero stata per vedere la mostra di Dubuffet, al quale avevo dedicato una grande monografia uscita l’anno prima presso l’editore De Luca. A Parigi mi ero fermata per la vernice dell’atteso Hommage à Picasso al Grand e Petit Palais. Bacon inaugurava proprio allora una personale alla Maeght. Il direttore della galleria ci presentò. Il pittore mi chiese notizie della terribile alluvione che aveva colpito Firenze. Era sinceramente preoccupato per la sorte di tante opere d’arte, in particolare per la Crocifissione di Cimabue. Il giorno dopo lo incontrai nuovamente nel ristorante Saints Pères e in questa occasione parlammo più a lungo. Ricordo, tra l’altro, che Bacon mi disse di considerare Dubuffet il più innovativo artista francese del dopoguerra e Giacometti il più grande disegnatore del secolo. Ci rivedemmo ancora nell’autunno del 1971 sempre a Parigi per la sua antologica al Grand Palais, ma Bacon rientrò precipitosamente a Londra il giorno stesso della vernice a causa della morte improvvisa del suo amico e modello Georges Dyer».

Così Lorenza Trucchi, decano della critica italiana, autrice fin dagli anni Cinquanta di puntuali recensioni dedicate alle mostre di Francis Bacon, ricorda il suo primo incontro con l’artista, del quale si è appena inaugurata a Milano una antologica curata da Rudy Chiappini della prima mostra postuma dedicata al pittore.

«Non ho ancora visto la mostra di Milano - prosegue Lorenza Trucchi - ma sono sicura che Chiappini abbia fatto un ottimo lavoro, come fece in occasione della retrospettiva di Lugano. Su tutti i giornali, però, ho trovato scritto che Bacon era irlandese. Non è assolutamente vero. Lui era inglese e ci teneva, tanto da affermare di discendere dallo stesso ceppo del famoso filosofo elisabettiano. A Dublino era nato, nel 1909, solo perché suo padre, un militare puritano e autoritario, dopo essersi congedato dall’esercito si era trasferito con la moglie in Irlanda per dedicarsi all’allevamento di cavalli da corsa. Certo, poi Bacon ha lasciato il suo studio alla Galleria d’Arte Moderna di Dublino, che lo ha ricostruito nel museo».

Che aspetto aveva lo studio di Reece Mews, a Londra, nel quale Bacon ha dipinto tutte le sue opere dal 1961 al 1992?
«Lo studio era un caos, gremito all’inverosimile di tele, stracci, vecchie fotografie, tubetti vuoti, spatole e pennelli di ogni tipo. Non ci abitava, ma ci restava spesso a dormire. C’era una grande camera con un cassettone antico e un letto a due piazze coperto da un sontuoso drappo nero che lo rendeva simile ad un catafalco regale. La mattina si alzava abbastanza presto e lavorava tutto il giorno. Innanzitutto si metteva di fronte alla tela che cominciava a “sporcare” col pennello. Non disegnava – mi diceva – perché il quadro nasceva quasi come un’emanazione dalla tela stessa, sulla quale iniziava a tracciare le pennellate. Lo spazio dove lavorava era particolarmente piccolo, al punto che quando dipingeva un trittico non poteva vederlo tutto insieme. Veniva un fotografo della sua galleria, la Marlborough, fotografava il pannello finito e gli lasciava la foto, così lui poteva mettersi a lavorare alla parte successiva. L’effetto che facevano i tre pannelli uno vicino all’altro lo vedeva solo in galleria».

In quale occasione si è occupata per la prima volta di Bacon?
«Me ne sono occupata precocemente, recensendo nel 1958 su La Fiera Letteraria la personale che tenne a Roma presso la Galleria dell’Obelisco di Irene Brin e Gaspero del Corso. La stessa mostra aveva avuto luogo a Torino e a Milano. In Italia però l’artista non era ancora celebre, malgrado la sua presenza alla Biennale del 1954, con 12 opere scelte da David Sylvester e la folgorante apparizione nel 1957 di un suo capolavoro alla prestigiosa Roma-New York Fondation all’Isola Tiberina. Qualche anno più tardi la stessa Irene Brin, ricordando in un articolo l’inaugurazione all’Obelisco, scriveva: “fu incredibilmente deserta: durante l’intero pomeriggio, a parte il postino, non venne nessuno, solo Renato Guttuso”».

Lei è anche l’autrice dell’importante monografia su Bacon uscita nel 1975 contemporaneamente presso Fabbri a Milano, Abrams a New York e Thames and Hudson a Londra.
«Sì, me la chiese Ezio Gribaudo, direttore della collana Le grandi monografie dei Fratelli Fabbri. Erano libri essenzialmente illustrati, di grande formato, ma comunque accompagnati da un testo critico. Per la prima volta il formato consentiva di mostrare i famosi trittici di Bacon, perché la pagina si apriva in tre. Il libro venne presentato a New York in concomitanza con l’inaugurazione della importante mostra di opere recenti di Bacon allestita al Metropolitan Museum».

Nella introduzione al suo libro su Bacon uscito nel 2005 presso l’editore De Luca, che contiene fra l’altro il suo saggio del 1975, ha definito Bacon «l’ultimo erede di Michelangelo». Perché?
«Perché è un nuovo grande manierista che ha dato forma a sentimenti e istinti senza fare della letteratura o cadere nel realismo descrittivo. La sua “terribilità” è profondamente attuale, ci appartiene ed è inconcepibile senza una concezione laica e post-freudiana della vita. Bacon non ha mai creduto nell’originalità assoluta, bensì in un’arte che nasce e si alimenta di continuo dal vivere e dal guardare».

È vero che a Bacon non interessavano gli artisti italiani del suo tempo, ma amava molto il cinema italiano?
«Sì, amava Pasolini e soprattutto Bertolucci. Avrebbe anche voluto per una sua mostra una presentazione scritta da Bertolucci e mi chiese di fare da tramite, ma Bernardo era reticente a scrivere d’arte. Tuttavia in Ultimo tango a Parigi Bertolucci fa scorrere i titoli di testa del film su un’opera di Bacon».

Nel 2009 ricorre il centenario della nascita. Quale eredità ci ha lasciato Bacon?
«Ha contraddetto tutte le previsioni. Quando c’era l’ondata dell’astrazione e dell’informale è venuto fuori questo pittore eccezionale, figurativo. Credo perciò che ci abbia lasciato soprattutto un monito: essere se stessi, essere liberi. I grandi non seguono le mode, le inventano, sono i capofila».


Pubblicato il: 11.03.08
Modificato il: 11.03.08 alle ore 11.56   
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