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« Risposta #15 inserito:: Giugno 14, 2009, 12:12:39 pm » |
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AMBIENTE, EUROPA E WELFARE
La lezione verde di Cohn-Bendit
Come vivono, gli europei, la crisi economica? Ha ancora senso che l’Europa punti allo «sviluppo sostenibile»? Può ancora permettersi questo «lusso »? I risultati delle elezioni europee offrono indicazioni in proposito. Da anni la Ue si è data l’obiettivo dello sviluppo sostenibile: crescita economica, ma accompagnata da conseguenze sociali accettabili e condotta nella tutela dell’ambiente.
Con la crisi, ci si poteva attendere che l’ambiente scendesse di priorità, con perdite per i partiti ecologisti; e che la situazione sociale favorisse le sinistre. E’ avvenuto il contrario. I Verdi — in particolare in Francia, ma anche in Germania e altrove, con l’eccezione dell’Italia — hanno avuto una vistosa affermazione; le sinistre, un pesante insuccesso. Questo risultato è stato oggetto di molte analisi. Ma non se ne è pienamente colta la connessione con il modello di integrazione finora seguito dalla Ue.
La protezione sociale, il welfare, sono funzioni svolte dagli Stati membri. A livello comunitario, viene invece coltivata l’integrazione, fondata sul mercato unico. Questa è essenziale per la crescita e per l’occupazione. Ma i cittadini vedono un’Europa che, mentre impone il rispetto delle regole del mercato, non «offre» il sociale. A farlo, sono gli Stati. L’Europa, se mai, rende difficile questa funzione degli Stati, perché lascia giocare la concorrenza fiscale tra gli stessi Stati, che drena risorse, avvantaggia i capitali, penalizza il lavoro.
Se non si porrà freno a questa tendenza, non deve sorprendere che gli elettori si rivolgano a quei partiti che non spingono per l’integrazione e che vogliono un’Europa che protegga, che non ostacoli troppo gli Stati che proteggono i loro Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004 art. 1, c1, DCB Milano cittadini e le loro imprese, anche all’interno della stessa Ue. Posizioni di questo tipo, oggi, si trovano in larga misura in certi partiti di destra, oltre che in partiti dichiaratamente contrari all’integrazione.
La protezione dell’ambiente, invece, si è diffusa nei Paesi europei in gran parte per impulso della Ue. Varie direttive sull’ambiente, la leadership sul piano internazionale per gli accordi di Kyoto, il pacchetto sull’energia e sul cambiamento climatico adottato in dicembre, sono tutte manifestazioni di una Ue all’avanguardia sul terreno ambientale, mentre essa appare in posizione di retroguardia sul terreno sociale.
Si capisce allora che Daniel Cohn-Bendit possa trascinare un movimento ecologista alla conquista di voti con un programma che mira a rafforzare l’integrazione economica e politica e con una campagna elettorale che, caso raro, ha parlato di Europa, solo di Europa.
E’ necessario riconciliare l’Europa e l’attenzione sociale come già sono in armonia l’Europa e l’attenzione ambientale. E’ anche possibile? Sì, in due modi.
Un primo modo consisterebbe nel consentire, da parte della Ue, che ogni Stato si occupi delle istanze sociali senza riguardo all’apertura rispetto al resto della Ue, anche in violazione delle regole del mercato unico. Forse l’Europa diventerebbe meno impopolare, ma si avvierebbe a una rapida disintegrazione.
Un secondo modo, invece, richiede che l’integrazione prosegua, ma si estenda ad aspetti, come il coordinamento della fiscalità, che permettano agli Stati di dare grande attenzione al sociale pur rispettando il mercato unico. E’ la linea proposta su queste colonne il 10 maggio. I risultati delle elezioni ne mostrano l’opportunità.
Mario Monti 14 giugno 2009
da corriere.it
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« Risposta #16 inserito:: Giugno 28, 2009, 05:21:35 pm » |
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TREMONTI, LA CRISI E LE RIFORME
L’Italia ha bisogno di una scadenza
Nei mesi scorsi ho espresso apprezzamento al governo, in particolare al ministro Giulio Tremonti, per la gestione, accorta e sicura, della difficile crisi finanziaria. Ho invece criticato lo stimolo apportato dallo Stato per contrastare la recessione, a mio giudizio insufficiente pur tenuto conto delle cautele imposte dall'alto debito pubblico, e la pausa nel processo delle riforme strutturali.
I provvedimenti adottati venerdì dal Consiglio dei ministri, come ha osservato ieri Dario Di Vico, vanno nella giusta direzione e rispondono almeno in parte alla prima critica, sia pure con un certo ritardo.
Lo spazio per misure temporanee di rilancio, senza generare reazioni negative sul mercato dei titoli di Stato, potrebbe essere significativamente maggiore se, accogliendo il secondo rilievo, si riavviasse con decisione il cammino delle riforme.
Vi è ampio consenso sulla necessità, richiamata dal Governatore Mario Draghi, di «attuare quelle riforme che, da lungo tempo attese, consentano al nostro sistema produttivo di essere parte attiva della ripresa economica mondiale». È opinione diffusa che tali riforme debbano riguardare in particolare la riduzione strutturale della spesa pubblica corrente, anche attraverso la riforma delle pensioni, la formazione del capitale umano, le infrastrutture, una maggiore concorrenza per aprire i mercati e ridurre le rendite, la liberalizzazione dei servizi e specialmente dei servizi pubblici locali.
In questi campi, qualche passo è stato compiuto. Ma a una marcia più decisa vengono opposte due obiezioni. Siamo sicuri che l'Italia abbia davvero bisogno di riforme? È opportuno chiedere uno sforzo di riforma durante una crisi? Su questo terreno, su queste due obiezioni, dovrebbe secondo me concentrarsi oggi il dibattito, per capire che corso debba prendere il nostro Paese. Un dibattito in buona fede, perché entrambe quelle obiezioni sono rispettabili e potrebbero essere fondate.
Sul primo punto, la mia radicata opinione è che le riforme siano necessarie affinché l'Italia, dopo 15 anni di bassa crescita, conquisti una maggiore competitività, uno sviluppo più elevato e una società più equa. Rimango convinto di ciò pur considerando realistiche e importanti le osservazioni spesso formulate dal ministro Tremonti su alcuni punti di forza della struttura sociale, del sistema produttivo e perfino del sistema finanziario del nostro Paese. Questi punti di forza sono stati a lungo trascurati dagli italiani, forse per qualche complesso di inferiorità; e dagli osservatori internazionali, per la frequente incapacità di leggere realtà complesse con modelli uniformi.
È bene prendere atto che certe peculiarità italiane hanno attutito l'impatto della crisi sul nostro sistema economico e sociale, adoperarsi per mantenerne gli aspetti positivi, non indulgere nella imitazione acritica di modelli altrui. Ma accanto a quelle peculiarità esistono sacche di inefficienze, di rendite, di privilegi. Se opportune riforme aprissero un po' di più al vento del mercato e della concorrenza questi orti chiusi, l'Italia ne trarrebbe vantaggio. Sarebbe assurdo pensare che questo maggiore mercato debba essere respinto solo perché altri mercati, certi mercati finanziari lasciati colpevolmente senza vigilanza, hanno screditato agli occhi di molti il mercato in sé.
Occorre dunque riprendere il cammino delle riforme. Ma è opportuno farlo durante la crisi, quando il Paese è già sottoposto a un pesante stress? Anche questa è un’obiezione apprezzabile. Ma deve essere superata, per due buone ragioni.
Se l’Italia si presenterà alla ripresa dell’economia mondiale appesantita dalla sua scarsa competitività, altri scatteranno più veloci ai blocchi di partenza. Inoltre, se ci si accingesse alle riforme a crisi superata, lo si dovrebbe fare in un contesto politico nazionale verosimilmente meno favorevole di quello odierno, che è caratterizzato da una maggioranza ampia e ragionevolmente compatta e da una legislatura ancora nella fase iniziale, con elezioni politiche tra quattro anni.
A pensarci, è strano che un governo forte come quello attuale non sia ansioso di fare presto molte riforme strutturali. Ha un’occasione unica per lasciare la sua traccia profonda nella storia del Paese. Se fossero riforme persuasive, probabilmente la stessa opposizione non avrebbe interesse a contrastarle.
Forse, ciò che manca perché questo accada è semplicemente lo sguardo al futuro. L’opinione pubblica italiana segue, divertita e sgomenta, un’attualità politica quotidiana che è diseducativa non solo per i suoi contenuti, ma anche perché distoglie ogni attenzione, dei cittadini e del mondo politico, dal futuro. La Francia, la Danimarca, molti altri Paesi hanno in corso riflessioni, promosse dai governi, su quale sarà la loro posizione nel contesto della competizione mondiale tra 10 o 20 anni. I capi di governo dell’Unione europea hanno creato un gruppo per riflettere sull’Europa al 2020-2030.
E l’Italia? Non mi risulta che sia in corso un analogo esercizio d’insieme, promosso dal governo, per capire come sarà il futuro dell’Italia. Quale sarà, ad esempio, la posizione competitiva della nostra economia? Con quali conseguenze sull’occupazione, sulla crescita, sulla società, sui giovani? In che modo la posizione dell’Italia sarà influenzata dalle politiche economiche e sociali che verranno poste in atto? Sono necessarie le riforme per diventare più competitivi e per crescere? Quali riforme? Come distribuirne i costi e i benefici? Che «programma» di medio-lungo termine è necessario? Con quali scadenze?
Nella vita pubblica italiana, le scadenze hanno sempre avuto un grande valore. Concentrano gli sforzi, espongono al rischio di insuccesso, spingono all’azione. È stato così con il «programma 1992», per la preparazione dell’Italia al mercato unico europeo. È stato così per la preparazione all’euro, che richiedeva precisi risultati sul disavanzo pubblico e sull’inflazione entro il 1997. In entrambi i casi, l’Italia ha conseguito l’obiettivo, con un impegno collettivo favorito dalla scadenza.
E oggi? In assenza di una scadenza-chiave dataci dall’Europa, dovrebbe essere la comunità nazionale, guidata dal governo, a darsene una, per farvi convergere gli sforzi pubblici e privati. Ma, se non sbaglio, l’unica data che ricorre, ogni tanto, nel dibattito pubblico italiano è il 2015, la data dell’Expo di Milano. È un evento di un certo rilievo, conquistato da Milano e dall’Italia con un notevole impegno comune, ma che sembra incontrare difficoltà, soprattutto per problemi interni alle forze della maggioranza di governo.
Se non altro, nel caso dell’Expo l’esistenza di una scadenza e l’attento scrutinio internazionale fanno sì che i problemi emergano e, si spera, siano risolti in tempo. Sul tema, incomparabilmente più importante, della posizione dell’Italia nell’economia mondiale, forse dovremmo darci noi, in modo esplicito, degli obiettivi e delle scadenze. Fare riflettere la comunità nazionale sul proprio futuro. Ispirare a quelle riflessioni le decisioni sulle politiche correnti
Mario Monti 28 giugno 2009
da corriere.it
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« Risposta #17 inserito:: Luglio 12, 2009, 12:09:01 pm » |
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UN PROGETTO PER LE RIFORME
L'Aquila e Berlusconi
Con il G8 il presidente del Consiglio ha ottenuto un importante successo, per l'immagine dell'Italia e per la propria leadership. Come lo utilizzerà?
A Berlusconi sono stati rivolti in questi giorni vari consigli: condivida il successo di politica estera con l'opposizione, lo trasformi in un atteggiamento più conciliante in politica interna. E' auspicabile che il premier sia sensibile a tali suggerimenti, anche se le sue prime dichiarazioni non vanno in questa direzione.
Al di là dello stile, quale progetto politico potrebbe dare al governo un colpo d'ala, sullo slancio e nello spirito dell'Aquila? Berlusconi dovrebbe ispirarsi proprio all'aquila: rapace di grande prestanza fisica, ma che ha il suo vero punto di forza nella vista, capace di fissare nitidamente obiettivi lontani. L'obiettivo: l'Italia del 2015-2020. Il progetto: un insieme coerente di riforme per la crescita dell'economia e della società.
Singoli ministri, di fronte alle resistenze che ogni riforma comporta, possono chiedersi se l'Italia, colpita dalla crisi meno di altri Paesi, abbia davvero bisogno di riforme; e se sia opportuno chiedere uno sforzo di riforma durante una crisi. Ma il capo del governo non può non vedere che la sua legacy, l'opinione che in futuro si avrà della sua opera, dipenderà dalla realizzazione o meno di un tale progetto, non da una serie di vittorie contingenti contro gli avversari.
Berlusconi ha saputo costruirsi un consenso vastissimo, tra gli italiani di oggi. Ma per avere quello degli italiani di domani, per essere considerato un giorno colui che avrà reso l'Italia più moderna e più giusta, non colui che avrà sprecato una grande occasione, deve trasformare in riforme il consenso che ha oggi, anche a costo di perderne un po'.
Riduzione strutturale della spesa pubblica corrente, riforma delle pensioni anche per rendere meno precario il lavoro dei giovani, riforme incisive nella scuola e nell'università, introduzione di una maggiore concorrenza per aprire i mercati e ridurre le rendite, liberalizzazione dei servizi e specialmente dei servizi pubblici locali: queste sono — lo ricordavo di recente («L'Italia ha bisogno di una data chiave» Corriere, 28 giugno)—alcune riforme necessarie.
Angelo Panebianco («I veri ostacoli alle riforme» Corriere, 6 luglio) ha osservato che l'assenza di incisive riforme in questi settori «obbliga da decenni l'economia italiana a funzionare a basso regime», ma d'altra parte «assicura al Paese condizioni di stabilità sociale e territoriale». Si chiede lucidamente Panebianco: «Ciò significa che non bisogna fare quegli interventi riformatori? Bisogna farli di sicuro, a meno che non ci si rassegni definitivamente all'idea che la democrazia italiana possa reggere solo se si accettano bassi tassi di crescita (anche a crisi superata) e forse, in prospettiva, un ulteriore impoverimento complessivo. Ma bisogna anche individuare le strategie utili per attutire gli inevitabili contraccolpi».
Questo è il dilemma che Berlusconi, rafforzato dopo l'Aquila sul piano interno e internazionale, ha di fronte a sé. Si propone di gestire l'Italia nello spirito di una buona amministrazione ordinaria? O si sente di dedicare i prossimi quattro anni a un programma straordinario che, con le opportune misure di accompagnamento, introduca radicali riforme affinché l'Italia non debba rassegnarsi e possa avere sia la democrazia sia la crescita?
Mario Monti 12 luglio 2009
da corriere.it
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« Risposta #18 inserito:: Ottobre 19, 2009, 03:43:44 pm » |
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IL PROFILO MIGLIORE PER UN COMPITO STORICO
Quale presidente per l'Europa
Se fosse un posto alla Rai, il dibattito politico e mediatico sarebbe già scatenato. Invece, si tratta «solo » del presidente del Consiglio europeo, la posizione di vertice dell'Unione Europea. Appena il Trattato di Lisbona entrerà in vigore, i capi di Stato o di governo eleggeranno il loro presidente, per due anni e mezzo rinnovabili una volta, ponendo fine alla rotazione semestrale. Se fosse eletto uno di loro, dovrà lasciare la carica nazionale.
Quasi nessuno dei 27 grandi elettori ha finora dichiarato la propria preferenza. Il presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, fa eccezione. Qualche mese fa aveva già espresso il proprio favore per l'ex primo ministro britannico Tony Blair. Il 14 ottobre, con una lettera al «Foglio», l'ha confermato.
Il 6 ottobre in un'intervista al «Corriere» il ministro degli Esteri, Franco Frattini, aveva dichiarato che il governo italiano vorrebbe, quale presidente, «un sincero interprete di una visione europeista». Aveva aggiunto: «Abbiamo espresso apprezzamento per Tony Blair, sapendo che vi è un blocco di Paesi con perplessità su di lui. Viene da un Paese che non adotta l'euro e non è nell' area Schengen. Siamo consapevoli di questi limiti, non li neghiamo».
Altri, sulla stampa internazionale, hanno posto in luce i punti di forza e di debolezza del profilo di Blair. Tra i primi, il notevole carisma personale, la grande notorietà in Europa e nel mondo, le spiccate doti di comunicatore. Tra i secondi, non aver saputo realizzare il suo principale progetto politico, quello di portare il suo Paese «nel cuore» dell'Europa; avere tenacemente spalleggiato - pur «socialista» - la frontale opposizione della City contro un'adeguata regolamentazione e supervisione finanziaria, atteggiamento che ha concorso alla crisi; avere contribuito più di ogni altro a dividere l'Europa sulla guerra in Iraq.
Colpisce che nel dibattito italiano si discuta pochissimo di una scelta così importante. Ho ripreso questi elementi su Blair perché abbiamo appreso che è il «nostro» candidato. Analoghe riflessioni dovrebbero ovviamente essere fatte sui vari candidati di cui si parla in Europa, fermo restando che per quella posizione - benché nulla prescriva il Trattato occorrono personalità che siano state o siano capi di Stato, capi di governo o membri autorevoli di governi.
Ciò che il Trattato invece chiarisce bene, è che il presidente «assicura la preparazione e la continuità dei lavori del Consiglio europeo, in cooperazione con il presidente della Commissione» e «si adopera per facilitare la coesione e il consenso in seno al Consiglio europeo». E' auspicabile che il presidente sia una figura riconoscibile e carismatica, ma ciò che determinerà il suo contributo al successo dell'Europa sarà soprattutto la sua capacità di guidare un lavoro di squadra e di dare nuovo impulso, in piena cooperazione con il presidente della Commissione, al metodo comunitario.
Tutti gli Stati membri hanno interesse a progredire verso un'Europa più forte e coesa, non a regredire verso decisioni intergovernative. L'Italia è un grande Paese, ma non è uno Stato membro forte. E' suo interesse nazionale favorire, anche con la scelta del presidente del Consiglio europeo, un'Europa comunitaria, con una Commissione che sia arbitro autorevole, capace di imporre il rispetto delle regole anche ai più forti.
Mario Monti
18 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #19 inserito:: Novembre 23, 2009, 03:23:55 pm » |
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VAN ROMPUY E LE AMBIZIONI DELL’EUROPA
Un presidente per il consenso
La nomina di Herman Van Rompuy a presidente del Consiglio europeo non ha suscitato entusiasmo. Questo atteggiamento accomuna due campi contrapposti. Eppure, a mio parere, non è ben fondato.
Coloro che non credono molto nella costruzione comunitaria e privilegiano l’Europa degli Stati, hanno visto nella nomina la conferma di un’Unione europea che vola basso. Secondo loro, una personalità di alto profilo mondiale, come Tony Blair, avrebbe permesso all’Europa di essere considerata una potenza mondiale, come gli Stati Uniti o la Cina.
Nel campo opposto, molti sostenitori di un’Europa comunitaria, che però vorrebbero protesa con più forza e rapidità nell’integrazione economica e politica, sono anch’essi delusi dalla nomina di un presidente rispettato, ma di basso profilo.
Gli uni e gli altri dimenticano, a mio parere, che non si trattava di scegliere il presidente di uno Stato che già esista, ma il presidente di un processo di costruzione, se non di uno Stato unitario, di un insieme di Stati più integrati di oggi.
I critici del primo tipo — che preferiscono il concerto intergovernativo — hanno ragione a dolersi della nomina di Van Rompuy e soprattutto della mancata nomina di Blair. Con l’ex primo ministro britannico alla guida del Consiglio europeo, quel tanto di Europa che già esiste avrebbe trovato una buona visibilità esterna. Ma, con loro soddisfazione, una spinta verso una maggiore integrazione comunitaria non ci sarebbe stata. Sia perché nella visione di Blair, al di là degli aspetti strettamente di mercato, l’obiettivo dell’integrazione non è prioritario. Sia perché, pur dotato di una personalità forte, egli non è mai stato molto efficace nell’unire i governi e i popoli europei.
I critici del secondo tipo — i fautori dell’Europa comunitaria — hanno meno ragione di essere delusi della nomina di Van Rompuy. Dovrebbero prestare attenzione a quanto ha scritto nei giorni scorsi il loro «caposcuola » indiscusso, Jacques Delors: «Il presidente permanente dell’Unione sarà davvero utile se renderà più facile il dibattito al massimo livello sul futuro dell’Europa. Non è proprio il caso di nominare un super capo di governo (...) Il Consiglio europeo ha piuttosto bisogno di un presidente mediatore, capace di creare consenso».
Se l’Europa non avanza, è spesso perché il Consiglio non riesce a trovare un accordo sulle proposte della Commissione. Herman Van Rompuy sembra proprio avere la capacità di creare consenso. Nicolas Sarkozy ha sottolineato che «questo fiammingo è un uomo che nel suo passato non ha fatto che mettere d’accordo le persone intorno a lui». E non su soluzioni minimalistiche: da ministro del bilancio del Belgio, prima di diventarne primo ministro, ha condotto con successo una difficile operazione di risanamento della finanza pubblica.
Magari sarebbe stato preferibile una persona con queste caratteristiche e, in più, un profilo di maggiore spicco a livello internazionale. Non è ovvio che ci fosse e che fosse disponibile. Ma sarebbe certamente riduttivo dire, come molti hanno fatto, che i capi di Stato e di governo hanno trovato l’accordo su di lui perché si tratta di una figura che difficilmente li metterà in ombra. Stiamo a vedere. Ma non mi sento affatto di dire che Angela Merkel e Nicolas Sarkozy avrebbero servito meglio l’interesse dell’Europa se avessero fatto il «sacrificio personale » di nominare a loro presidente Tony Blair.
Mario Monti
22 novembre 2009(ultima modifica: 23 novembre 2009)© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #20 inserito:: Gennaio 02, 2010, 11:50:02 am » |
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La bussola del Presidente
Il Presidente della Repubblica non guida la politica del Paese. Ma può, restando nei suoi poteri, esercitare una leadership. Con essa, può offrire orientamento ai cittadini e al mondo politico.
Ascoltando il messaggio di Giorgio Napolitano, sapevo di non potermi attendere l’annuncio di decisioni. Cercavo una cosa più rara e importante, in un momento così confuso: l'orientamento, una visione nella quale riconoscersi, sull'Italia, la crisi, la politica. La visione mi è parsa nitida e forte. Ne ho colti quattro capisaldi.
L'atteggiamento. A fine 2008 il Presidente indicava «l’atteggiamento da tenere dinanzi alla pesante crisi»: dobbiamo considerarla come «grande prova e occasione per aprire al Paese nuove prospettive di sviluppo». Rispetto a questo metro di valutazione, il suo giudizio dopo un anno appare incoraggiante, ma non soddisfatto. Grazie al «serio sforzo» compiuto dalla comunità internazionale e da quella italiana — «Paese» e poteri pubblici — «guardiamo con fiducia, con più fiducia del 31 dicembre scorso, al nuovo anno». Ma sulle politiche per dare all'Italia nuove prospettive di sviluppo, «il discorso resta ancora interamente aperto».
Il Paese. Risiede sul colle più alto, il Presidente, ma è un attento osservatore delle realtà locali. Ed è «guardando a quel che si è mosso nel profondo del nostro Paese» che nutre una fondata fiducia. «Nel tessuto più ampio e profondo della società si è reagito alla crisi con intelligenza, duttilità, senso di responsabilità». Con garbo, Napolitano sembra invitare i protagonisti della politica a posare anch’essi lo sguardo un po’ più in basso: «In realtà, non è vero che il nostro Paese sia diviso su tutto: esso è più unito di quanto appaia se si guarda solo alle tensioni della politica».
La politica. Se il suggerimento verrà colto, si potrà avere «un ritorno di lucidità e di misura nel confronto politico», che gioverebbe alle stesse forze politiche. «Esse— diceva il messaggio di un anno fa— possono guadagnare fiducia solo mostrandosi aperte all’esigenza di un impegno comune, ed esprimendo un nuovo costume». Predica inutile? Non proprio. «Lo so bene— osserva Napolitano (con elegante understatement, se si pensa agli attacchi personali che ha ricevuto da più parti) — abbiamo vissuto mesi molto agitati sul piano politico, ma ciò non deve impedirci di vedere come si sia operato in concreto da parte di tutte le istituzioni, realizzandosi, nonostante i forti contrasti, anche momenti di impegno comune e di positiva convergenza».
Le riforme. L’impegno comune è necessario per le riforme, chieste con vigore dal Presidente: quelle istituzionali e quelle, «da non rinviare», nel campo economico e sociale. «L’economia italiana deve crescere di più e meglio che negli ultimi quindici anni: ecco il nostro obbiettivo fondamentale». Egli registra positivamente le riforme annunciate dal governo sugli ammortizzatori sociali e sul fisco. Invita a presentare «un'analisi e una proposta d'insieme».
Quello di Napolitano non è un discorso di politica economica. Ma i temi sui quali sollecita l’azione — il Mezzogiorno, i giovani, l'equità sociale — sono legati da una stringente logica economica. Senza risultati su questi fronti, l’Italia sarebbe frenata nella crescita.
E non riuscirebbe neppure ad essere un'«economia sociale di mercato», per mancanza di «sociale» e conseguente rigetto del «mercato».
Mario Monti
02 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #21 inserito:: Maggio 23, 2010, 05:18:29 pm » |
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PROPOSTA MONTI E CONSENSO IN EUROPA Il mercato che non fa paura Il rilancio del mercato interno è più necessario che mai, ma anche più impopolare che mai. Così Mario Monti ha sintetizzato su queste colonne il dilemma che l’Unione europea deve oggi fronteggiare. Per far ripartire le nostre economie occorrono più apertura economica e più efficienza. All’opinione pubblica, però, mercato e integrazione fanno paura: sono percepiti come minacce ai vari «modelli sociali» nazionali. I governi e le istituzioni europee si trovano perciò in un circolo vizioso da cui non è facile uscire. Ricostruire il consenso per l’«Europa del mercato» è un’operazione complessa. Se alla radice del problema sta la paura, il punto di partenza è obbligato: occorre fornire rassicurazioni ai cittadini sul fatto che l’integrazione economica non è «nemica» della sicurezza sociale, ma è anzi una sua importante alleata. Nel suo «Rapporto sul rilancio del mercato interno » (commissionato da Barroso) Mario Monti ha formulato raccomandazioni volte non solo a promuovere più concorrenza ma anche a rispondere alle preoccupazioni «sociali» dei cittadini. Fra le proposte in questa seconda direzione, vi sono: misure contro la concorrenza sleale tra fornitori di servizi con base in diversi Paesi (la sindrome dell’«idraulico polacco»); la difesa dei pilastri portanti delle relazioni industriali (compreso il diritto di sciopero); un maggior coordinamento dei regimi fiscali degli Stati. Quest’ultimo punto è importante perché la concorrenza fiscale sregolata non solo destabilizza il welfare, ma può creare effetti economici distorsivi. Le raccomandazioni di Monti sono preziose sul piano tecnico, ma potrebbero non bastare sul piano del consenso. Sarebbe perciò auspicabile inserirle in una cornice più ampia che chiarisca i rapporti fra integrazione economica sovranazionale e sistemi di welfare su base nazionale. Un primo elemento di questa cornice dovrebbe essere la valorizzazione di quell’«Europa sociale» che già esiste ma è poco conosciuta. Pensiamo alla tutela dei diritti fondamentali e di standard sociali inderogabili, alle norme Ue su pari opportunità e non discriminazione, alle politiche di coesione. All’opinione pubblica va ribadito chiaramente che l’Ue non è solo mercato e vincoli di bilancio, ma anche una comunità politica basata su nuovi diritti di cittadinanza per tutti i suoi residenti. Il secondo elemento della cornice è più ambizioso. Si tratterebbe di accompagnare il rilancio del mercato interno con una qualche iniziativa di alto profilo, volta a confermare l’impegno dell’Ue anche sul versante sociale. Pensiamo a un possibile schema europeo di reddito minimo per le famiglie povere con figli piccoli (gli europei di domani). Il Parlamento Ue si è già espresso a favore di tale ipotesi. E, senza por mano ai Trattati, si potrebbe da subito istituire un «Sistema europeo di protezione sociale» per coordinare e incentivare la modernizzazione delle politiche nazionali di welfare. Il messaggio di base di una simile cornice dovrebbe essere molto semplice: mercato e concorrenza sono strumenti per migliorare le condizioni di vita e le opportunità di scelta di tutti noi. Essi sono i migliori servitori del progresso, ma non devono diventarne i padroni. Erano le massime di Lord Beveridge, l’architetto del welfare state moderno ed esponente di una delle più nobili tradizioni del liberalismo europeo. Maurizio Ferrera 19 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_19/ferrera_8b1b485a-6304-11df-8b63-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #22 inserito:: Settembre 05, 2010, 10:00:56 am » |
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Un tema chiave di cui non si parla Il silenzio sulla crescita «L’ Italia è uscita bene dalla crisi finanziaria ma male dalla recessione, con una perdita di prodotto ben maggiore che negli altri Paesi» (Luigi Spaventa, Repubblica, 31 agosto). Dieci anni fa eravamo intorno ai livelli della Germania (o superiori) per prodotto pro capite e produttività del lavoro. Oggi registriamo un arretramento di circa dieci punti sia rispetto alla Germania sia rispetto all’area dell’euro. Il Governatore Draghi ha chiesto che l’Italia segua l’esempio della Germania, con riforme che la rendano più produttiva e competitiva. La politica economica italiana, sotto la regia del ministro Tremonti, ha avuto il grande merito di permettere all’Italia di attraversare la crisi finanziaria con danni molto inferiori a quelli di altri Paesi, pur considerati meno fragili. D’altra parte, i risultati insoddisfacenti dell’economia reale sono anch’essi attribuibili, in parte, a carenze della politica economica. Nel decennio considerato sono state fatte alcune riforme strutturali, ma evidentemente non sufficienti. Dall’inizio della crisi, inoltre, il governo ha optato per una linea di grande cautela finanziaria (limitati interventi anticiclici) e politica (minore priorità alle riforme). Era stato suggerito di effettuare qualche maggiore intervento di sostegno, associato però a un’accelerazione delle riforme per mostrare che l’Italia non intendeva certo tornare alla leggerezza finanziaria. È difficile dire quale strategia sarebbe stata la migliore. Certo, la linea seguita ha valorizzato — se così si può dire — la performance del ministro delle Finanze più che quella del ministro dell’Economia. Ciò accresce i compiti e le responsabilità del ministro dello Sviluppo. Con una punta di paradosso, c’è da chiedersi se la situazione attuale — con il presidente del Consiglio che è anche ministro dello Sviluppo — non sia quella ottimale. Purché, naturalmente, ciò avvenga a titolo definitivo e non più ad interim. Per l’economia e la società italiana la priorità della crescita è tale che un impegno strategico in prima persona del premier sarebbe non meno importante, per il Paese, di quello che egli riserva ad altri temi di cui è costretto a occuparsi, o ha scelto di farlo. Del resto, quando l’assoluta priorità era quella finanziaria, è accaduto che il capo del governo riservasse a sé anche il ministero del Tesoro. Come è noto (o forse ignoto, dato che in Italia non ne parla nessuno), entro fine anno va sottoposto all’Unione europea il piano nazionale di riforme, nell’ambito della «strategia Ue 2020». È l’occasione per guardare al futuro e per mettere in campo politiche concrete per la crescita e la competitività, unica speranza per l’occupazione. Il ministro per le Politiche comunitarie ci sta lavorando. Ma dov’è la visione strategica del governo, dove sono le eventuali visioni alternative dei partiti di opposizione, dov’è un dibattito nel Paese su questa, che è la questione più importante per i nostri figli? Materia, mi pare, per il presidente del Consiglio. E poi, al ministro per lo Sviluppo — coincida o meno con il premier — compete la politica industriale. Il presidente Napolitano ha detto: «Credo sia giunto il momento che l’Italia si dia una seria politica industriale nel quadro europeo, cioè secondo le coordinate dell’integrazione europea e in ossequio ai fondamenti della libera competizione e ai principi dell’economia di mercato». Speriamo che qualcuno se ne occupi, in modo coordinato con il piano nazionale delle riforme. Mario Monti 04 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_04/monti_72d478cc-b7e4-11df-927f-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #23 inserito:: Ottobre 31, 2010, 09:15:48 pm » |
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ULTIME OCCASIONI PER CRESCERE Quanto tempo abbiamo perso Il tragico entertainment quotidiano offerto dai politici, seguito con passione dai cittadini che pure lo disprezzano, consente agli uni e agli altri di distrarsi. Altrimenti, bisognerebbe occuparsi di questioni più noiose. Ad esempio, del fatto che in altri Paesi si sta lavorando per preparare ai propri figli un’economia e una società dinamiche, non un Paese di cui a volte, pur amandolo, ci si vergogna. Si prenda a caso. In Germania, è in corso una forte crescita spinta soprattutto dalle economie emergenti, con le quali l’industria tedesca ha realizzato un’integrazione solidissima ed egemone. In Gran Bretagna, il governo ha annunciato un profondo ridimensionamento del settore pubblico e dei trasferimenti per il welfare. Si noti che la governance più stringente del Patto di stabilità, pur alla luce di alcuni elementi più ampi di valutazione introdotti su proposta italiana, potrà richiedere anche all’Italia qualche severo riesame del bilancio pubblico nei prossimi anni. In Polonia, Paese che cresce velocemente sul piano economico e che ha ormai un peso politico nella Ue spesso superiore a quello dell’Italia, il governo ha promosso un dibattito pubblico su come rafforzare la crescita e migliorare la società da qui al 2030, non solo al 2020 come chiede la Ue ( www.Poland2030.pl). L’Italia ha accumulato molto ritardo, nella preparazione del proprio futuro di economia competitiva appartenente all’Eurozona. La strategia di «programmazione delle riforme», suggerita da queste colonne nel 1997 subito dopo l’ingresso nell’euro, non è stata adottata con continuità né dai governi di centrosinistra (1998-2001 e 2006-2008), né da quelli di centrodestra (2001-2006 e dal 2008). Né nei primi, né nei secondi si è registrata la necessaria coesione culturale sull’obiettivo di far diventare l’Italia una moderna economia di mercato, con poteri pubblici forti e imparziali, capaci di fissare le regole del gioco e di imporne il rispetto. Quando, nel 2005-2006, avanzammo l’ipotesi che, per superare le forti resistenze corporative a difesa di privilegi e rendite e contro la concorrenza, potesse valere la pena di ricercare temporanee e trasparenti convergenze tra energie politiche riformiste presenti nei due schieramenti, l’idea venne giudicata severamente da destra e da sinistra perché avrebbe intralciato lo svilupparsi del bipolarismo, nel quale si riponeva grande fiducia. Negli ultimi due anni, abbiamo richiamato l’esigenza di guardare sistematicamente al futuro, di lavorare su un progetto in modo condiviso, di darsi una scadenza. Abbiamo poi suggerito che la «Strategia Ue 2020» si sarebbe prestata bene a fare da contenitore e da stimolo. In particolare, l’Italia avrebbe dovuto presentare a Bruxelles entro novembre, come gli altri Stati membri, un «Piano nazionale delle riforme »: un’occasione importante — fino ad allora non sottolineata pubblicamente dal governo—per andare oltre un adempimento burocratico, per spingere la società italiana a non chiudere gli occhi di fronte al proprio futuro. In un’ampia intervista (Repubblica, 4 settembre), il ministro Giulio Tremonti ha ripreso il tema del «Piano nazionale delle riforme », sul quale auspica anch’egli il contributo non solo del governo, ma del Parlamento e di tutte le forze sociali, economiche e ideali del Paese. Quell’intervista è importante anche perché mette in luce una diversa, e a mio giudizio più matura, predisposizione intellettuale e politica alle riforme necessarie alla competitività, nonché all’Europa come facilitatore e stimolo per quelle riforme. Esponenti dell’attuale maggioranza avevano ingaggiato anni fa battaglie contro fattori che additavano come responsabili primari delle difficoltà dell’economia italiana. Ricordate l’euro, la Cina, la «burocrazia di Bruxelles»? Quelle battaglie avranno certo procurato consensi politici nel Paese ma sono state dei diversivi, hanno ritardato gli interventi di politica economica a livello nazionale necessari per affrontare le vere cause dei divari negativi della competitività e della crescita dell’Italia. Sulla «burocrazia di Bruxelles », per esempio, è legittimo e utile che si pongano pressioni sulle istituzioni comunitarie contro eccessi di normativa e di controlli. Ciò incoraggerà in particolare la Commissione a moltiplicare gli sforzi già in atto per evitare tali eccessi. Ma quando una campagna di questo tipo viene fatta dal governo italiano, essa genera di solito due interrogativi critici. Perché l’Italia, al tavolo del Consiglio dei ministri della Ue, non si è impegnata di più (come hanno fatto altri) per frenare all’origine la produzione di quegli eccessi? E perché l'Italia non si impegna di più, a casa propria, per semplificare una selva normativa tra le più rigogliose e pesanti d’Europa? E se si è al governo, sia pure con interruzioni, dal 1994, e si annette, giustamente, tanta importanza al tema dell’eccesso di regolazione, perché nel 2010 ci si trova ancora ad invocare, come fa il ministro Tremonti, una «rivoluzione liberale» (quando in materia di liberalizzazioni si è proceduto con minore slancio del precedente governo, forse in coerenza con la presa di distanza intellettuale dal «mercato»)? E se si dice, 16 anni dopo l’assunzione di poteri di governo, che la «rivoluzione liberale» è da introdurre con una modifica della Costituzione, non si fa una fuga in avanti benché tardiva, non si elude il grigio, pragmatico e utile lavoro concreto di semplificazione? Non converrebbe, a questo riguardo, potenziare le autorità indipendenti? Devo dire che, come convinto sostenitore di un’«economia sociale di mercato altamente competitiva », quale è voluta dal Trattato di Lisbona, sarei un po’ preoccupato da un mercato privo, da un lato, di serie regole e di efficaci autorità di enforcement; dall’altro esposto a una più o meno esplicita «superiorità della politica »: terreno ideale, temo, per abusi privati, abusi pubblici e loro varie combinazioni. Concludo. Vi sono ora l’occasione e la scadenza, con il «Piano nazionale di riforme». Si è raggiunta una visione più matura del rapporto con l’Europa, la quale perciò può esserci di aiuto e stimolo. Si è perso molto tempo: prima, perché per anni si sono aggrediti più i falsi obiettivi che le cause profonde dei problemi italiani; poi, perché si è ritenuto, a torto secondo me, che durante la crisi—gestita con accorta e meritoria prudenza — convenisse non muovere sulle riforme. I tempi sono ora brevi. Ci aspettiamo di vedere all’opera, sul «Piano nazionale delle riforme », il ministro dell’Economia, il ministro delle Politiche comunitarie, il tanto atteso ministro dello Sviluppo e il governo nel suo insieme. Naturalmente con l’indirizzo e la guida del presidente del Consiglio, giorno e notte. Mario Monti 31 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_31/monti-quanto-tempo-perso_b76888f2-e4c6-11df-8ccb-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #24 inserito:: Dicembre 02, 2010, 12:17:29 pm » |
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FIDUCIA E DISCIPLINA CON GLI E-BONDS Il commento I titoli europei I mercati sono all'attacco, l'Unione Europea è in difesa. Essa ha vinto alcune battaglie, ma rischia di perdere la guerra. Le decisioni dei governi, riuniti nel Consiglio, non producono durevolmente sui mercati gli effetti sperati. La Banca Centrale Europea si vede costretta a rimediare con interventi a sostegno dei titoli di Stato. Alla lunga, essi riporterebbero alla subordinazione della politica monetaria alla politica di bilancio, con il pericolo dell'inflazione: due mali che l'unione monetaria pensava di avere debellato. È urgente che la Ue riprenda l'iniziativa. Ha a disposizione uno strumento attivabile in tempi brevi, con due grossi vantaggi: aiuterebbe a superare la crisi dell'euro e, al tempo stesso, a sviluppare l'integrazione finanziaria. Si tratta dell'emissione in comune di titoli in euro E-bonds mediante un'Agenzia Europea per il Debito. L'idea che la Ue emetta eurobonds per finanziare investimenti di interesse europeo non è nuova. Venne lanciata da Jacques Delors negli anni Ottanta e ripresa in varie occasioni - tra gli altri, autorevolmente, da Giulio Tremonti - però finora non ha trovato adeguata attuazione. Ma gli E-bonds di cui parlo risponderebbero a una logica diversa. Sarebbero uno strumento non per finanziare nuove spese di investimento, ma per mettere in comune una parte della gestione del debito pubblico dei diversi Stati. Nel rapporto «Una nuova strategia per il mercato unico», presentato al presidente della Commissione Europea José Manuel Barroso nel maggio scorso, proposi di ricorrere all'emissione in comune di E-bonds per ovviare alla frammentazione del mercato obbligazionario europeo. Con emissioni esclusivamente a livello nazionale, il mercato non ha la trasparenza e la liquidità che, data la sua dimensione complessiva, potrebbe avere. Ciò comporta inconvenienti per gli Stati, per i risparmiatori, per le imprese. Per ovviare alla frammentazione, si proponeva di creare un nuovo mercato europeo con una dimensione mondiale. Il rapporto, predisposto nei mesi in cui esplodeva la crisi greca, teneva presenti aspetti che avrebbero poi assunto grande rilievo, in particolare nelle preoccupazioni della Germania. Qualsiasi soluzione deve evitare che i Paesi con una politica di bilancio responsabile siano costretti a salvare, in un modo o nell'altro, gli Stati «indisciplinati». In aggiunta a una vigilanza multilaterale più efficace, imponendo una disciplina di mercato più rigorosa ai governi meno oculati si gestirebbe meglio il moral hazard. L'assunzione di prestiti su vasta scala tramite un organismo europeo e la successiva erogazione di prestiti agli Stati membri possono rappresentare una soluzione equilibrata. I prestiti agli Stati membri non dovrebbero superare una determinata percentuale del Pil del Paese la stessa per tutti gli Stati membri di modo che, per il loro fabbisogno di finanziamento non coperto da questo meccanismo, i governi continuerebbero a emettere il proprio debito nazionale per il quale rimarrebbero individualmente responsabili. Gli Stati membri che, grazie a questo meccanismo, avrebbero accesso a finanziamenti meno onerosi, considererebbero l'organismo europeo un creditore privilegiato rispetto ai detentori del loro debito flottante sul mercato e ciò aumenterebbe la possibilità di un'inadempienza limitata a quest'ultimo debito. A sua volta, questo potrebbe aumentare la pressione di mercato (e il rendimento) sul debito flottante, dando agli Stati membri un maggiore incentivo a ridurre rapidamente tale debito mediante sane politiche di bilancio. In settembre, al convegno Ambrosetti di Cernobbio, Yves Leterme, primo ministro del Belgio, Paese che fino a fine anno esercita la presidenza del Consiglio Ecofin e degli altri Consigli, ha sostenuto questa proposta. Alla luce delle drammatiche vicende successive, si può ritenere che un percorso di uscita dalla crisi che utilizzi agli E-bonds avrebbe chiari vantaggi, rispetto al tortuoso meccanismo delle «clausole di azione collettiva» che, secondo le decisioni dell'Eurogruppo, dovrebbero applicarsi a tutte le emissioni di titoli degli Stati della zona euro che avverranno dal giugno 2013 in poi (chiarimento introdotto per rassicurare un po' i mercati, turbati dalle precedenti dichiarazioni del cancelliere Merkel). Vari studi, in particolare uno predisposto presso Bruegel, il think-tank con sede a Bruxelles, hanno nel frattempo approfondito gli aspetti tecnici e operativi degli E-bonds. Il tema è stato oggetto, nelle ultime settimane, di esame e discussione anche nelle sedi governative di vari Stati membri. Intervenendo al Parlamento europeo nei giorni scorsi, il presidente della Bce Jean-Claude Trichet ha detto di non escludere l'eventualità che i governi della zona euro emettano titoli in comune. Sotto l'impulso della crisi, e per dominarla in una logica di mercato ma senza cedere - come è in parte avvenuto finora - alle pressioni della speculazione, il Consiglio Ecofin e poi il Consiglio europeo del 15 dicembre darebbero un forte segnale se decidessero che, entro la fine del 2012, l'Agenzia per il Debito (che potrebbe operare presso la European Financial Stability Facility recentemente istituita) emetta E-bonds per un totale, ad esempio, del 40% del Pil di ciascun Paese. Ciò potrebbe avvenire annunciando che l'Agenzia finanzierà tutte le nuove emissioni fino a fine 2012, il che le isolerebbe dall'evoluzione del mercato secondario; e che l'Agenzia offrirà swaps nel mercato secondario tra i propri titoli e quelli in circolazione emessi dagli Stati membri, ovviamente mediante asta allo sconto. Ma potrebbe la Germania accettare un tale progetto? Il tema, cruciale, veniva già affrontato nel rapporto di maggio a Barroso. Anche alla luce degli avvenimenti successivi, non dovrebbe essere impossibile convincere le autorità tedesche di due vantaggi specifici per il loro Paese: non perderebbero, né in termini assoluti né in termini relativi, i vantaggi di cui godono oggi nel mercato come Stato più affidabile; e si troverebbero a guidare un processo di grande importanza politica ed economica per l'Europa, orientandolo in funzione del suo desiderio di garantire una disciplina di bilancio più rigorosa nella Ue. Mario Monti 02 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_02/monti-titoli-europei_e962089e-fddd-11df-b89b-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #25 inserito:: Gennaio 02, 2011, 06:49:23 pm » |
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L’ESEMPIO DI GELMINI E MARCHIONNE Meno illusioni per dare speranza Esistono in Italia due illusionismi. Essi sono riconducibili, sia detto senza alcuna ironia, alla dottrina di Karl Marx e alla personalità di Silvio Berlusconi. Marx ha alimentato a lungo un sogno sul futuro: la classe operaia un giorno avrebbe vinto il capitalismo e avrebbe governato come classe egemone in un sistema più equo. Fallito quel sogno, in quasi tutti i Paesi le rappresentanze della classe operaia e delle nuove fasce deboli hanno modificato le loro azioni e rivendicazioni, ispirandole all' esigenza di tutelare al meglio e pragmaticamente tali interessi nel contesto di economie di mercato che devono affermarsi nella competizione internazionale. Solo così possono creare lo spazio per dosi maggiori di socialità (adeguati servizi sociali, sistema fiscale redistributivo, ecc.) che, per essere effettivamente conquistate, richiederanno appunto quelle azioni e rivendicazioni. In Italia, data la maggiore influenza avuta dalla cultura marxista e la quasi assenza di una cultura liberale, si è protratta più a lungo, in una parte dell' opinione pubblica e della classe dirigente, la priorità data alla rivendicazione ideale, su basi di istanze etiche, rispetto alla rivendicazione pragmatica, fondata su ciò che può essere ottenuto, anche con durezza ma in modo sostenibile, cioè nel vincolo della competitività. Questo arcaico stile di rivendicazione, che finisce spesso per fare il danno degli interessi tutelati, è un grosso ostacolo alle riforme. Ma può venire superato. L'abbiamo visto di recente con le due importanti riforme dovute a Mariastella Gelmini e a Sergio Marchionne. Grazie alla loro determinazione, verrà un po' ridotto l'handicap dell'Italia nel formare studenti, nel fare ricerca, nel fabbricare automobili. Ma in molti altri casi, basta pensare alle libere professioni, il potere delle corporazioni ha impedito che le riforme andassero in porto o addirittura venissero intraprese. E lì non si tratta di tenaci fiammelle rivendicative fuori tempo (ma che almeno vorrebbero tutelare fasce deboli della società), bensì di corposi interessi privilegiati che, pur di non lasciar toccare le loro rendite, manovrano un polo contro l'altro: veri beneficiari del bipolarismo italiano! Se Marx ha alimentato un sogno sul futuro, del quale in Italia sopravvivono tracce significative, Berlusconi ha fatto di più. Egli è riuscito ad alimentare, in moltissimi italiani, un sogno sul presente, per il quale la verifica sulla realtà dovrebbe essere più facile. Molti credono che oggi, in Italia, ci sia davvero un pericolo comunista (non solo quell'eredità di cui si è detto sopra, che ostacola le riforme). Molti credono che i governi Berlusconi abbiano davvero portato una rivoluzione liberale (come avevo sperato anch'io, incoraggiandolo da queste colonne ad un «Liberismo disciplinato e rigoroso», 8 maggio 1994). Soprattutto, di fronte al magnetismo comunicativo del premier, molti credono che l'Italia — oltre ad avere, anche per merito del governo, riportato indubbiamente meno danni di altri Paesi dalla crisi finanziaria — davvero non abbia gravi problemi strutturali irrisolti, anche per insufficienze di questo e dei precedenti governi. Ma, come ha detto il presidente Napolitano, «non possiamo consentirci il lusso di discorsi rassicuranti, di rappresentazioni convenzionali del nostro lieto vivere collettivo». L'illusionismo berlusconiano non fa sentire al Paese la necessità delle riforme, che comunque l'illusionismo marxiano e il cinismo delle corporazioni provvedono a rendere più difficili. Eppure, la riforma dell’università e la riforma della contrattazione indicano la strada, mostrano che è possibile percorrerla. Se si procederà così, le gravi tare dell'Italia elencate da Ernesto Galli della Loggia (Corriere, 30 dicembre) potranno essere rimosse in cinque o dieci anni, senza cedere al «disperato qualunquismo». Mario Monti 02 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_02/monti-meno-illusioni-per-dare-speranza-editoriale_07bad636-1648-11e0-9c76-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #26 inserito:: Febbraio 06, 2011, 04:34:12 pm » |
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VERSO IL CONSIGLIO DEI MINISTRI DI MARTEDÌ
Impegni reali non false promesse
Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, con una lettera al Corriere (31 gennaio), ha proposto un «grande piano bipartisan per la crescita». Martedì 8 febbraio il Consiglio dei ministri dovrebbe adottare il piano.
Questa volta, non possiamo lamentarci della lentezza della politica italiana! In otto giorni avremo assistito a un capo del governo che — come folgorato sulla via di Damasco — si converte a una politica economica ben diversa da quella seguita finora; a opposizioni che, ricevuto l’inatteso invito a collaborare, lo rifiutano immediatamente; a un governo che, senza esperire altri tentativi, si precipita a decidere. Decisionismo esemplare? No, piuttosto la somma di una mossa spregiudicata e di una contromossa non meditata.
La mossa di Berlusconi è spregiudicata: senza spiegare perché la nuova linea sia stata abbracciata ora e non nel 1994, nel 2001 o nel 2008, cioè all’inizio dei suoi tre mandati, sembra tesa soprattutto a mostrare un presidente del Consiglio di nuovo concentrato sui problemi reali del Paese e ad addossare alle opposizioni la responsabilità della crescita insufficiente e della dilagante disoccupazione giovanile.
La contromossa delle opposizioni, in particolare del segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, e cioè il secco rifiuto, è perfettamente comprensibile sul piano psicologico e della dignità. Ma non andare al «vedo», non approfondire i termini di un’eventuale collaborazione nel superiore interesse del Paese — subordinandola a condizioni programmatiche precise, a forti sistemi di controllo e, prima di tutto, a un esplicito riconoscimento da parte di Berlusconi delle carenze della politica economica finora seguita dal suo governo—rischia di facilitare quello scarico di responsabilità.
Ma qual era la proposta del presidente del Consiglio? «Portare la crescita oltre il tre-quattro per cento in cinque anni» dando «la più grande frustata al cavallo dell’economia che la storia italiana ricordi», «un’economia finalmente libera ». Il «grande piano» avrebbe avuto come «fulcro la riforma costituzionale dell’articolo 41, annunciata da mesi dal ministro Tremonti » (oltre a misure di collocazione sul mercato di patrimonio pubblico e di defiscalizzazione per imprese e giovani).
È un peccato che questo piano veda la luce così tardi e con una credibilità ridotta. Non mi riferisco alla credibilità personale di Berlusconi, in questa fase per lui complessa, ma alla specifica credibilità di questo suo piano. È infatti inevitabile chiedersi per quali ragioni già nei precedenti governi e poi nei primi due anni e mezzo dell’attuale governo egli non si sia impegnato a fondo nelle liberalizzazioni, nella promozione della concorrenza e nella lotta alle rendite di posizione. Soprattutto questo ci si attendeva da lui — un «liberismo disciplinato e rigoroso» — come aveva confermato presentandosi alle Camere nel 1994.
Né gli erano mancati inviti pressanti, anche da queste colonne, a orientare la sua guida politica del governo — nel metodo e nel merito — proprio nel senso al quale sembra aderire ora, improvvisamente e senza spiegare perché solo ora. Nel metodo, sotto due profili. In primo luogo, la disponibilità a un impegno bipartisan per le riforme al fine di vincere le resistenze corporative («Impegno bipartisan prima del voto», Corriere 3 gennaio 2006; «Berlusconi e le riforme », 28 gennaio 2007; «Un’agenda bipartisan», 3 febbraio 2008).
Questa disponibilità, sempre rifiutata da destra e da sinistra chiunque fosse al governo, viene ora manifestata da Berlusconi. Purtroppo ciò avviene in un momento di particolare tensione tra le parti, alla quale il presidente del Consiglio non ha certo mancato di contribuire (anche se nella lettera al Corriere auspica «un Paese più stabile, meno rissoso, fiducioso e perfino innamorato di sé e del proprio futuro»).
In secondo luogo, l’assunzione di una più visibile responsabilità di guida della politica economica e sociale, ferme restando le funzioni essenziali del ministro dell’Economia e delle Finanze. Senza un coordinamento sotto l’egida del presidente del Consiglio, si è qui sostenuto («Futuro dell’Italia e guida politica», 25 luglio 2010), è difficile che la politica di sviluppo riceva attenzione pari a quella, indispensabile, riservata alla disciplina di bilancio. Con la lettera al Corriere — ma di nuovo, perché solo ora? — Berlusconi sembra diventarne cosciente.
Nel merito, solo ora sembra esserci la presa di coscienza che la crescita in Italia è insoddisfacente, che ciò è legato a carenze nella competitività e richiede riforme strutturali, tra cui varie liberalizzazioni (ma anche, speriamo che non venga dimenticato, il rafforzamento delle autorità indipendenti a presidio del mercato). Finora, come si era rilevato («Il silenzio sulla crescita », 4 settembre 2010), l’accento non era stato messo sulla bassa crescita, anche perché si tendeva a diffondere una visione un po’ troppo «rasserenante»).
Nel complesso, è conseguita da quanto sopra una politica economica solida nella tenuta dei conti pubblici ma viziata da errori nella strategia complessiva («Quanto tempo abbiamo perso», 31 ottobre 2010).
Non potrà esserci, a quanto pare, l’auspicata impostazione bipartisan. Speriamo comunque che il Consiglio dei ministri di martedì, nel varare il «grande piano per la crescita», privilegi gli aspetti concreti e operativi delle misure previste, mostri chiaramente in che modo esse avrebbero impatto su competitività, crescita, occupazione.
È anche auspicabile che il piano non offenda l’intelligenza degli italiani. Se per esempio si intende proporre modifiche all’art. 41 della Costituzione, si argomenti perché lo si ritiene opportuno, eventualmente nel quadro di altre modifiche. Ma non si presenti questa come condizione necessaria, o quasi, per introdurre liberalizzazioni. Altri governi hanno introdotto varie liberalizzazioni pur in vigenza di tale articolo. Del resto, il governo attuale ha denunciato l’art. 41 come ostacolo alle liberalizzazioni solo l’anno scorso, benché il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia e delle Finanze abbiano avuto modo di misurarsi con questa tematica dal 1994.
Per coerenza, ci si deve anche attendere che, nel piano che verrà presentato martedì, il governo annunci che intende revocare la propria proposta, già approvata dal Senato, di reintroduzione dei minimi tariffari per gli avvocati. (Non sarebbe stato più costruttivo se le opposizioni, invece di rifiutare subito il dialogo bipartisan, avessero indicato questa revoca come una delle condizioni preliminari ad un lavoro bipartisan?).
Se si vuole essere seri sulle liberalizzazioni, si rivisiti pure la Costituzione, ma prima ancora si visiti Atene. Il 21 gennaio il governo Papandreou ha adottato una riforma di quelle che i Greci chiamano correttamente le «professioni chiuse» e noi pudicamente le «professioni liberali ». La riforma consiste nell’abolizione, per tutte le professioni, delle tariffe minime, del numero chiuso, delle restrizioni territoriali e del divieto di farsi concorrenza con la pubblicità. È lasciata agli ordini professionali la possibilità di dimostrare, ma avendo su di sé l’onere della prova, che l’una o l’altra di quelle restrizioni sono necessarie per la tutela di interessi pubblici, quali l’integrità nell’esercizio della professione o la tutela dei consumatori.
Mario Monti
06 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali/11_febbraio_06/monti
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« Risposta #27 inserito:: Marzo 28, 2011, 04:41:27 pm » |
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L'EUROPA, LA CRESCITA E L'ITALIA
Il Patto per l'Euro
Le decisioni prese venerdì dal Consiglio Europeo renderanno un po' meglio governabile l'economia europea, in particolare quella della zona euro. La crisi finanziaria che ha colpito vari Paesi potrà essere fronteggiata con interventi più adeguati di quelli messi in campo finora. Il formarsi di nuovi focolai di crisi sarà meno probabile, grazie al rafforzamento della disciplina preventiva. Sarà più difficile per un singolo Paese persistere a lungo in situazioni squilibrate, e capaci di trasmettere gli squilibri agli altri Paesi, perché si è ora accettato un più intenso monitoraggio comune.
Se nel nuovo sistema di governance la stabilità resta indubbiamente l'obiettivo principale, quello della crescita entra in modo più incisivo che nel vecchio patto, il quale solo per omaggio verbale era stato denominato «Patto di stabilità e di crescita». Si è capito che una crescita insufficiente, oltre a creare evidenti problemi economici e sociali, è spesso una delle cause più rilevanti degli stessi squilibri finanziari. Nel nuovo «Patto per l'euro», sottoscritto dai 17 Stati della zona euro ma aperto anche agli altri 10 Stati membri della Ue (6 vi hanno già aderito), si delineano misure, e procedure di monitoraggio, intese ad accrescere la competitività e l'occupazione.
Rimane però un'asimmetria. Gli interventi che ogni Stato farà, e i risultati che otterrà, in tema di stabilità (sostenibilità della finanza pubblica e stabilità finanziaria) saranno sottoposti a controlli e sanzioni più cogenti di quelli applicabili agli interventi e ai risultati in tema di crescita. È perciò probabile che, in termini di effetti concreti, il nuovo patto conduca a rafforzare più la stabilità che la crescita.
Va comunque dato atto al presidente del Consiglio Europeo, Herman Van Rompuy, e a quello della Commissione, José Manuel Barroso, di avere notevolmente migliorato, e reso più accettabile agli altri Stati membri, l'originaria proposta formulata dalla Germania e dalla Francia. Oltre ad essere confuso, quel documento avrebbe avuto una scarsa credibilità. Infatti l'enforcement degli impegni presi sarebbe stato puramente intergovernativo, cioè rimesso al collusivo «scambio di favori» tra Stati membri, senza l'impiego dei poteri della Commissione e della Corte di Giustizia. In più, la proposta veniva proprio dai due Paesi che, dopo essere stati i principali genitori del primo «Patto di stabilità» nel 1997, l'avevano insieme mandato in frantumi nel 2003 quando, trovandosi essi in violazione, avevano esercitato pressioni sufficienti a far sì che il Consiglio Ecofin non seguisse le proposte di ammonimento presentate dalla Commissione. Anche nella versione adottata venerdì, comunque, si pone un problema di credibilità dell'effettivo enforcement, ma meno che nel progetto franco-tedesco. Due elementi a favore della crescita, introdotti nel nuovo patto, meritano di essere segnalati. Si è finalmente riconosciuto che una delle poche leve concrete - e assistite da veri poteri di intervento della Ue sugli Stati membri - per stimolare la competitività, la crescita e l'occupazione è lo sviluppo del mercato unico. I capi di Stato e di governo riuniti nel Consiglio europeo si sono impegnati a sostenere le proposte che la Commissione - sulla base del Rapporto sul mercato unico, presentato al presidente Barroso nel maggio scorso - si appresta a formulare in aprile nel Single Market Act.
Inoltre, nel «Patto per l'euro», il Consiglio europeo ha aderito per la prima volta alla strategia di coordinamento della fiscalità, con l'impostazione pragmatica - e non antagonistica rispetto al desiderio degli Stati membri di conservare la sovranità fiscale (che essi, con qualche illusione, pensano di detenere tuttora) - raccomandata nel Rapporto citato. Si apre così un nuovo cantiere che sarà rilevante per semplificare gli adempimenti fiscali delle imprese, ma anche per porre un argine alla penalizzazione fiscale del lavoro rispetto a fattori di produzione come il capitale che, grazie alla maggiore mobilità, approfittano particolarmente di una concorrenza fiscale incontrollata. Per la crescita, per l'occupazione, per l'equità sociale e, in ultima analisi, per la stessa accettabilità dell'integrazione europea da parte dei cittadini, si aprono prospettive nuove.
Infine, una considerazione sull'Italia. Per il nostro Paese, il nuovo «Patto per l'euro» comporta l'esigenza di un percorso ancora più risoluto verso il riassorbimento dell'eccesso di debito pubblico, sia pure nel quadro di valutazioni che terranno conto di alcuni fattori compensativi, piuttosto favorevoli all'Italia. E possiamo essere certi che l'Ue sorveglierà l'adempimento di questa parte del patto in modo più attento e cogente di quanto farà per gli aspetti pro crescita che pure sono inclusi nel patto. D'altra parte, l'Italia ha bisogno di aumentare la propria crescita più degli altri Paesi, sia perché da molti anni cresce meno, sia perché solo attraverso una maggiore crescita sarà possibile conseguire il plus di disciplina finanziaria che ci viene richiesto, senza che il Paese sprofondi in un ulteriore differenziale negativo di crescita.
Sarà perciò essenziale «aggrapparsi» il più possibile agli orientamenti che ci vengono dalla «Strategia Ue 2020» e ora dal nuovo «Patto per l'euro», radicarli pienamente nella coscienza del Paese, trasformarli in stimolo per accelerare le riforme strutturali necessarie. Speriamo che il «Piano nazionale di riforme», segnalato su queste colonne appena si profilò un anno fa come un riferimento europeo da prendere al volo per indurre il Paese a ragionare sul proprio futuro, venga ora dibattuto largamente e valorizzato pienamente. Manca qualche settimana a fine aprile, scadenza per la presentazione del piano a Bruxelles. Chissà se, con l'impulso del governo e con l'aiuto delle opposizioni, con l'apporto delle parti sociali e dei media, il Paese riuscirà ad alzare per un momento lo sguardo, a discutere del proprio avvenire.
Mario Monti
28 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali/11_marzo_28/
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« Risposta #28 inserito:: Maggio 02, 2011, 03:37:02 pm » |
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LE TENSIONI NELLA MAGGIORANZA
Una strategia della crescita
Il ministro Tremonti fa bene a resistere alle richieste pressanti che gli vengono dall'interno della maggioranza e del governo. Il recente attacco del ministro Galan è stato il più ruvido e diretto, ma ha dato voce a un'insoddisfazione condivisa da diversi ministri. Lo stesso presidente Berlusconi appare sempre più insofferente. Si chiede al ministro dell'Economia di riconoscere la necessità e l'urgenza di una maggiore crescita - esigenza economico-sociale per il Paese, esigenza anche politica per la maggioranza - e di facilitarla allentando un po' il controllo del disavanzo pubblico. Tremonti ha ragione. Non è creando più disavanzo che si genera una crescita solida. E non possiamo permetterci quel disavanzo in più, dato il nostro grande debito pubblico, lo sguardo severo dei mercati, la vigilanza più stretta introdotta dall'Unione Europea.
Ma anche i suoi critici hanno ragione. L'Italia ha davvero bisogno di crescere di più. Tra il 2000 e il 2007 il Pil è aumentato del 7 per cento (meno della metà del decennio precedente), mentre l'area dell'euro è cresciuta circa del doppio. Nel biennio 2008-09 la crisi ha determinato una riduzione del Pil di 6,5 punti percentuali, mentre gli altri Paesi dell'area ne perdevano in media 3,5. Il divario perdura nell'attuale fase di ripresa. Sbagliano, però, a premere su Tremonti perché faccia una politica di crescita con lo strumento, inutile e pericoloso, del disavanzo. E sbagliano anche coloro che, alla ricerca di un revamping della politica economica del governo, suggeriscono «scosse» o «frustate». La crescita sana e durevole si ottiene spiegando ai cittadini e ai mercati la politica economica alla quale il governo intende attenersi, mantenendola nel tempo e rendendola così credibile. E qui si arriva, a mio parere, alla vera carenza dimostrata, sul terreno economico, dalla maggioranza di centrodestra nell'azione di governo condotta inizialmente nel 1994 ma soprattutto dal 2001 in poi, ad eccezione del 2006-08. Una carenza ben visibile in coloro che oggi sono insofferenti nei confronti di Tremonti perché fa seriamente e bene il ministro del Tesoro; ma visibile anche - mi permetto di dire - nello stesso Tremonti, se si guarda alla sua attività di regista della politica economica italiana, un ruolo accentuato dalla sua cultura, dalla continuità nell'incarico e dal relativo distacco mostrato dal Capo del governo.
Nel 1994, dopo decenni di consociativismo, che pure avevano dato anche risultati positivi, l'Italia aveva bisogno di una grande depurazione dalle incrostazioni corporative, destinate a pesare ancor di più nel contesto della competizione globale sempre più dura. All'inedita maggioranza di centrodestra sarebbe stato più facile operare in questa direzione, innovativa per l'Italia, di una moderna economia di mercato, con poteri pubblici meno invasivi che in passato, regole chiare e fatte rispettare da autorità pubbliche, ma indipendenti dalla politica.
Meno barriere all'entrata, meno privilegi e rendite per gli inclusi, più possibilità di ingresso per gli esclusi e per i giovani, più spazio al merito e alla concorrenza: questi gli ingredienti di un'economia più competitiva, di una maggiore crescita, di una società più aperta, più inclusiva, più equa. Purtroppo, questo impegnativo disegno non è stato voluto con continuità; ancor meno è stato realizzato. Questi nodi sono venuti al pettine nel «Programma nazionale di riforma», che il governo sta per presentare alla Ue nell'ambito della «Strategia 2020». Il documento, a firma Berlusconi-Tremonti, contiene analisi tecniche approfondite ma è carente, alquanto confuso, poco ambizioso e con una scarsa articolazione operativa, proprio in quello che doveva essere il suo cuore: la strategia politico-economica delle riforme.
È comunque, questa, un'occasione da cogliere per indurre gli italiani a guardare un po' di più al futuro del Paese, della società, dell'economia. È una riflessione che deve coinvolgere non solo i politici, ma l'intera classe dirigente. Le Commissioni Bilancio del Senato e della Camera, con una serie di audizioni, hanno dato un importante contributo iniziale. La stessa maggioranza, nell'approvare alla Camera il Programma, ha impegnato il governo «a favorire lo svilupparsi di un'ampia discussione pubblica sulle riforme strutturali necessarie ad incrementare la produttività, la competitività, l'occupazione e la crescita». Le mozioni delle opposizioni, pur con accenti molto critici, contengono anch'esse prospettive e proposte interessanti. Il Corriere della Sera, da oggi, darà un proprio contributo a questo impegno collettivo, animando un dibattito sulla Strategia 2020 e sulle riforme necessarie e possibili per rendere più competitiva l'economia e più inclusiva la società del nostro Paese.
Mario Monti
01 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali/11_maggio_01/
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« Risposta #29 inserito:: Luglio 14, 2011, 03:38:12 pm » |
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Più coraggio Quel che serve davvero al Paese: riorientare la politica economica A lungo esorcizzata, la crisi dell'Eurozona ha finito per bussare, con una certa brutalità, anche alla porta dell'Italia. A differenza della Grecia, da diversi anni l'Italia è riuscita a mettere il disavanzo pubblico sotto controllo. Il rigore nei conti pubblici è stata una condizione essenziale per la sostenibilità e la graduale riduzione dell'alto rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo. A differenza dell'Irlanda, l'Italia ha visto le sue banche colpite solo moderatamente dalla crisi, il che ha evitato grossi oneri per salvataggi a carico del bilancio pubblico. A differenza della Spagna, dove la fine del boom edilizio ha causato una profonda recessione e dissesti finanziari, l'Italia non si era caratterizzata per un eccesso di espansione né nelle costruzioni né nell'indebitamento del settore privato. Ma allora perché l'Italia, nelle ultime settimane, è stata colpita da improvvisa sfiducia, espressa con parole dalle agenzie di rating e con fatti dai mercati, in una pericolosa interazione tra i due? La risposta si trova, ritengo, nella combinazione di due fattori. Il primo è la tendenza ad andare alle calende greche, anche se questa si è manifestata, stranamente, più a Bruxelles che ad Atene. Il secondo fattore è stato un certo revival della commedia all'italiana, naturalmente a Roma. Sarebbe ingiusto negare che la risposta dell'Unione Europea alla crisi greca sia stata vigorosa e abbastanza coordinata. Ma la cacofonia delle dichiarazioni dei leader dei principali Stati membri, dell'Eurogruppo e della Banca centrale europea, e la difficoltà di trovare un rapido accordo sulla strategia per risolvere la crisi accrescono nei mercati la voglia di mettere a prova su nuovi fronti la capacità di reazione dell'Ue. Il nuovo fronte avrebbe potuto essere la Spagna. I problemi che essa presenta non sono certo inferiori a quelli dell'Italia. Se per ora il target è stato l'Italia - un target che, per dimensione e anzianità di appartenenza all'Ue, rappresenta un test più severo sulla capacità di resistenza del nucleo centrale dell'eurozona - lo si deve probabilmente alle crescenti fibrillazioni nella maggioranza che fa capo al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Per quanto spiacevoli e forse non pienamente giustificate dai fondamentali, le recenti prese di posizione delle agenzie di rating e dei mercati contro l'Italia hanno destato un immediato senso di urgenza, che ricorda certe crisi degli anni precedenti all'introduzione dell'euro. Ispirata e promossa dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, la reazione è stata pronta e ispirata ad una coesione che non si vedeva da tempo. Dato che la «manovra» del ministro dell'Economia e delle Finanze Giulio Tremonti, pur criticata sotto altri profili, è dai più considerata necessaria per rassicurare l'Unione Europea e i mercati, i partiti di opposizione si sono impegnati a non ritardare la discussione parlamentare in modo che l'approvazione possa intervenire già domani, a velocità record anche sul piano internazionale. A sua volta, la maggioranza dovrebbe accettare alcuni emendamenti proposti dalle opposizioni. È un peccato che ci sia voluto un «forte attacco» da parte di «una cospirazione di speculatori» - così ritengono molti italiani - perché il sistema politico avesse un soprassalto di consapevolezza dell'interesse generale e di senso di responsabilità comune. Ma certo si può dire che la reazione di cui ha dato prova l'Italia è stata davvero notevole. Tanto più in un Paese nel quale pochi avrebbero scommesso di vedere una reazione così mentre molti hanno in effetti «scommesso», muovendo i loro fondi contro l'Italia, che questa reazione non ci sarebbe stata. Porrà questo fine alle pene dell'Italia? Certamente no, anche nel casi in cui la speculazione dovesse mostrarsi meno massiccia per qualche tempo. È necessario un riorientamento fondamentale della politica economica dell'Italia. È essenziale insistere sulla linea della disciplina fiscale, che il ministro Tremonti sta perseguendo con determinazione e se mai assicurarsi che essa venga rafforzata nell'esecuzione. Ma è altrettanto essenziale abbandonare la politica, e perfino la filosofia, seguita dal ministro Tremonti nei tre governi Berlusconi a su un'altra questione decisiva: che è di importanza vitale per l'Italia far aumentare la produttività complessiva dei fattori produttivi, la competitività e la crescita; e ridurre le disuguaglianze sociali. Ciò deve essere conseguito, ovviamente, non allentando la disciplina di bilancio - come esponenti autorevoli del governo e della maggioranza chiedono con insistenza al ministro Tremonti - ma rimuovendo gli ostacoli strutturali alla crescita. Essi sono numerosi e ben radicati in molti settori. Una cosa hanno in comune: derivano dal corporativismo e da insufficiente concorrenza. Questo è dovuto in parte al fatto che l'Autorità garante della concorrenza e del mercato, e altre autorità di regolazione, non hanno sufficienti poteri, indipendenza effettiva e risorse; in parte ad una fitta selva di restrizioni alla concorrenza introdotte negli anni da provvedimenti legislativi e amministrativi. Tale strategia per la crescita - simile del resto a quella necessaria a livello dell'Ue, cioè non allentamento della disciplina di bilancio ma iniziative ambiziose per rendere l'economia europea più competitiva attraverso una maggiore integrazione dei mercati, compresi investimenti nelle interconnessioni per realizzare davvero il mercato unico - non è vista con favore dalle culture politiche tradizionali in Italia, di destra e di sinistra. Ma questa è la prossima grande sfida per l'Italia, come mette in luce anche la Commissione Europea nelle sue recenti raccomandazioni. Dopo tutto, perfino le agenzie di rating, che di solito privilegiano gli aspetti finanziari e di breve periodo, nei loro giudizi preoccupati sull'Italia hanno per la prima volta dato grande peso alla mancanza di adeguate politiche per la crescita, dato che questa è, tra l'altro, essenziale per rendere sostenibili i miglioramenti conseguiti nella finanza pubblica. Questo articolo viene pubblicato anche sul Financial Times Mario Monti 14 luglio 2011 08:23© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_14/monti_quello-che-serve-al-paese_f3079586-addb-11e0-9787-0699da0a075e.shtml
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