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Autore Discussione: Enrico Cerquiglini. Il Sovrano delle Lune Spezzate  (Letto 209 volte)
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« inserito:: Giugno 21, 2025, 06:05:50 pm »

 
Enrico Cerquiglini
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Il Sovrano delle Lune Spezzate

In un tempo che è il nostro, ma finge di non esserlo, governava un uomo noto come il Sovrano delle Lune Spezzate. Il suo nome reale era lungo e impronunciabile, ma lo si pronunciava ovunque. Aveva il volto cereo di chi dorme con le luci accese e gli occhi corrosi dalla luce dei monitor, tanto da non distinguere più l’alba dal tramonto, né la verità dalla sceneggiatura.
Si diceva fosse nato in una notte di eclissi, quando anche le stelle avevano distolto lo sguardo. Parlava con voce lenta, vagamente materna, come si sussurra a un neonato o a una bomba prima di lasciarla cadere.
Ogni frase cominciava con: “Vi proteggerò” — subito dopo seguiva il ronzio dei droni.
I suoi ordini scendevano come neve radioattiva: colpivano scuole, pozzi, ospedali, panifici. I bambini venivano estratti a pezzi dai calcinacci, e lui si presentava in mondovisione, impettito, con le mani giunte come un parroco stanco:
"Ci dispiace. Ma il nostro è un intervento necessario, chirurgico. Abbiamo salvato il mondo da crimini orribili."
Chi mostrava immagini troppo vere veniva accusato di istigare all’odio. Chi piangeva i figli era definito strumentalizzato. Chi gridava “basta” era etichettato disfattista.
Il Sovrano delle Lune Spezzate aveva un alleato. Lo chiamavano l’Uomo Color Rame, per la sua chioma che sembrava un’esplosione di tramonto tossico, e per la pelle densa e gommosa, come certi giocattoli lasciati al sole.
Veniva da una terra che aveva già scolpito il secolo con due funghi nucleari, piantati su città piene di gente in bicicletta, che moriva gridando nomi di bambini. Ma lì lo chiamavano ancora “difensore della pace”.
L’Uomo Color Rame rideva spesso, con denti che parevano finti. Riemergeva dai campi da golf e firmava accordi lucidi, pieni di clausole opache. Forniva al Sovrano armi, satelliti, parole come "libertà", "ordine", "sicurezza".
Erano parole vuote, ma dentro ci si potevano infilare milioni di morti.
"Potreste fare di più" diceva. "La democrazia è un prodotto: bisogna venderla a colpi di fuoco."
Intanto, sotto la cupola trasparente che il Sovrano aveva fatto costruire attorno al suo palazzo – "per proteggere la verità" diceva – la gente non moriva più. Non invecchiava. Ma non rideva, non cantava, non faceva più figli.
Il tempo era stato sospeso come una sanzione. Si viveva guardando il Sovrano mangiare in diretta, mentre intorno la realtà cadeva a pezzi come un vecchio teatro.
La gente cominciò a dimenticare le parole per nominare il dolore. Si diceva evento critico, danno collaterale, fraintendimento strategico. Le madri cullavano bambole finte. Gli anziani raccontavano favole senza finale.
E i bambini giocavano a checkpoint, armati di bastoni e bandiere senza colori.
Fu allora che nel cielo apparvero gli uccelli neri.
Non avevano ali, né piume. Solo occhi umani, profondi, come specchi d’acqua che non riflettono nulla. Sorvolavano le rovine gridando nomi — i nomi dei morti, dei dimenticati, degli scomparsi. Ogni nome era un richiamo.
Ogni volo un’accusa.
Il Sovrano ordinò di abbatterli.
"Sono menzogne alate. Armi psicologiche."
Ma più ne abbattevano, più comparivano. E più gridavano.
La cupola tremò. I vetri si fecero opachi. Il Sovrano parlava da solo, rispondendo a domande mai poste.
"Loro ci odiano. Loro vogliono distruggere la civiltà. Loro sono il vero pericolo."
Eppure, qualcosa cambiava. Una crepa, minuscola, si aprì proprio sopra il trono. Nessuno sapeva da dove fosse venuta: forse un sasso lanciato da un bambino, forse una parola detta nel cuore di una madre che non aveva più nulla da perdere.
Il Sovrano guardò in alto. Vide il cielo. Ma il cielo non lo guardava più.
Per un istante, tutto tacque. Poi, dalle profondità della terra, si udì una risata: non era umana, né animale. Era il rumore del mondo che non vuole più essere spettatore.
La cupola si spezzò.
Il Sovrano non cadde. Né a terra, né fuori dal tempo. Continuò a camminare tra le macerie come un dio mancato, vivo e troppo visibile, scolpito nei marmi delle menzogne. Le sue mani, sempre pulite, ordinavano ancora fuoco.
Ogni giorno una città in meno. Ogni notte una giustificazione in più.
L’Uomo Color Rame non sparì. Tornò a sorridere dai vetri blindati del suo palazzo, mentre firmava nuovi contratti con inchiostro fatto di petrolio e sangue antico. Diceva: “Stiamo difendendo la civiltà”, mentre tracciava con un dito le rotte dei prossimi droni.
I due si scrivevano lettere di fuoco e si scambiavano doni avvelenati. Li chiamavano alleanze.
E i popoli – i loro popoli – cambiarono.
Non morirono tutti. Non fuggirono. Si trasformarono.
Le madri smisero di cantare e cominciarono a scavare. I padri costruirono altari con ossa. I figli impararono a nutrirsi di carne bruciata, senza più distinguere tra vivi e morti. Si muovevano al tramonto, coperti di bandiere che odoravano di formalina. Dicevano preghiere, ma erano slogan. Gridavano “pace”, ma marciavano in guerra. Ogni volta che la fame tornava – e tornava sempre – cominciavano un nuovo conflitto, in nome di qualche dio addomesticato, o di una qualche democrazia mutata in veleno.
I volti non si vedevano più, perché non erano più necessari. Bastava il ruggito. Bastava l’odore del sangue. E il mondo diventò un banchetto.
Ogni città una ferita. Ogni ferita una ragione. Ogni ragione un’arma. Ogni arma una fede.
Il Sovrano delle Lune Spezzate guardava tutto questo dall’alto della sua torre di specchi e mormorava: "Li ho resi forti. Finalmente mi somigliano."
E l’Uomo Color Rame rispondeva, dall’altra parte dell’oceano: "Finalmente siamo infiniti."
Ma non c’era più nessuno a contarli. Solo il vento, che portava via i nomi. Solo il silenzio, che sapeva ancora piangere.

da facebook 19 giugno 2025
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