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Autore Discussione: Né destra né sinistra: verso una politica adulta (e veramente popolare. ggg).  (Letto 4363 volte)
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« inserito:: Febbraio 05, 2024, 02:34:29 pm »

05 febbraio 2024   Versione web
 
Mercoledì scorso il viceministro all’Economia Maurizio Leo, di Fratelli d’Italia, ha creato polemiche nella sua maggioranza: “L’evasione fiscale è come un macigno – ha detto –. Tipo il terrorismo”.
Dalla Lega si sono levate voci contro la “caccia alle streghe”, mentre dal resto del mondo politico – maggioranza e opposizione – nessuno ha pronunciato una parola a sostegno di Leo.
Un’osservazione interessante si è però sentita il giorno dopo, per bocca del direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini: il cosiddetto “magazzino” della riscossione, in sostanza lo stock delle tasse e multe non pagate, vale 1.206 miliardi di euro (al 31 dicembre scorso).
Ora, era 987 miliardi tre anni e mezzo prima.
Dunque, sta crescendo al ritmo medio di 62 miliardi all’anno. Costa succede in Italia? Davvero dei “terroristi” fiscali si aggirano fra noi? (Non esitate a scrivermi: commenti o domande, contestazioni e proposte)


 L'epidemia invisibile: quelle imprese "fallite" con 156 miliardi di debiti verso il fisco
Ho l’impressione che con quella battuta Leo volesse lanciare un messaggio al garante della privacy Pasquale Stanzione (nominato a suo tempo dai 5 Stelle), perché permetta più controlli sui dati personali dei contribuenti. Ma un aumento in pochissimi anni di oltre duecento miliardi dei debiti degli italiani verso lo Stato, riconosciuti ma non pagati, richiede qualche spiegazione di più. Quel “magazzino” in buona parte è come un cimitero delle tasse: si sa già che almeno il 40% delle somme è irrecuperabile, sepolto da qualche parte, anche perché spesso riguarda imprese che non esistono più. E l’aumento impressionante dal 2020 non può essere solo il risultato dell’ingresso trionfale del “magazzino” dei crediti delle amministrazioni autonome della Sicilia. Dev’esserci anche qualcos’altro.
Ho dato un’occhiata all’andamento del “cimitero” fiscale dell’ultimo decennio. E almeno un’anomalia salta fuori. E’ riportata nei numeri allegati all’audizione dell’Agenzia delle Entrate alla commissione Finanze e Tesoro del luglio scorso (tabella 3) e riguarda il sistema produttivo. I crediti fiscali dello Stato verso “soggetti falliti”, cioè imprese in bancarotta, hanno un andamento bizzarro. Fra l’inizio del secolo e il 2010 si erano formati al ritmo di circa tre miliardi l’anno. Poi, fra il 2011 e il 2015 e fra il 2016 e il 2020, la velocità dell’accumulo dei debiti delle imprese fallite verso l’Erario è cresciuta a poco più di cinque miliardi l’anno. E anche qui, soprattutto nel primo quinquennio, tutto sempre abbastanza normale: fra il 2009 e il 2013 il prodotto lordo collassò del 7,6% e in seguito è rimasto quasi stagnante fino al Covid. E’ comprensibile che in quella fase siano stati più numerosi i fallimenti, anche di soggetti che avevano arretrati con il fisco. 
Poi però anche nel 2021 e nel 2022 i crediti fiscali verso lo Stato delle imprese fallite hanno continuato a formarsi sempre allo stesso ritmo. Sempre cinque miliardi l’anno. E questo è molto più strano. Quasi misterioso. Com’è possibile? In quel biennio il prodotto lordo è cresciuto del 10,7% e infatti ci sono stati molti meno fallimenti. Come vedete dal grafico qui sopra (la linea rossa), si viaggia al ritmo di circa duemila fallimenti a trimestre, mentre per gran parte del decennio precedente erano fra tremila e quattromila. Ovvio, anche perché il Fondo pubblico di garanzia per le piccole e medie imprese sta garantendo i debiti di queste ultime per più di 100 miliardi. Ma se ci sono molti meno fallimenti; eppure, questi ultimi generano sempre gli stessi (enormi) insoluti verso lo Stato, può voler dire solo una cosa: le aziende che saltano in questi anni sono molto più cariche di arretrati fiscali e contributivi. Come se stesse diventando di moda concentrare tasse e contributi non pagati dentro veicoli societari ai quali poi si stacca la spina. Vengono fatti fallire ad arte: bancarotta fraudolenta ai danni dei contribuenti onesti.
Oggi il “magazzino” delle imprese fallite presso l’Agenzia delle Entrate vale 156 miliardi e vale invece 168 miliardi quello dei “soggetti deceduti e ditte cessate” (in gran parte, di queste ultime). Impossibile dire quanto di queste somme sia legato a frodi fiscali, ma sicuramente una parte sostanziale. Il danno alla cosa pubblica è enorme, anche perché il Fondo di garanzia dell’Istituto nazionale previdenza sociale (Inps) deve poi intervenire per circa mezzo miliardo all’anno a coprire gli ultimi tre mesi di contributi e la liquidazione dei dipendenti di quelle aziende usate e poi mandate contro gli scogli (qui a pagina 410).
E che le bancarotte siano sempre più spesso concepite per frodare il fisco si nota da alcuni dettagli. A novembre il ministero delle Imprese ha firmato un’intesa con la Procura di Roma per rafforzare la vigilanza contro l’“illegalità” nelle false cooperative. Parlate con qualunque commissario liquidatore nominato dal ministero per gestire i fallimenti, e vi dirà (a registratore spento) che la stragrande maggioranza dei casi risulta palesemente volta all’evasione su larga scala: si caricano di debiti fiscali e contributivi aziende che poi vengono sfasciate, con dentro i lavoratori che si trovano senza lavoro e senza copertura pensionistica.
Lo schema di solito è elaborato da un consulente fiscale dell’azienda-madre. Vengono esternalizzate a un “consorzio” funzioni ad alta intensità di lavoro come la gestione del magazzino, le consegne o le pulizie e il facchinaggio. Il consorzio a sua volta appalta le attività a cooperative o a “società semplificate a responsabilità limitata” (ssrl), che si possono costituire in modo semplice e senza costi. I dipendenti, spesso stranieri, ricevono il netto mensile e l’attestazione della busta-paga, ma i loro contributi e il Tfr in realtà non sono mai versati. Il consorzio scherma la società-madre e l’operazione viene gestita da prestanome prezzolati. Dimostrare le responsabilità e risalire ai veri colpevoli è spesso defatigante, ben aldilà delle forze della Guardia di Finanza e dell’Agenzia delle Entrate. I debiti contributivi e fiscali si accumulano, fin quando la finta cooperativa o ssrl viene lasciata andare al suo destino, con dentro il suo carico umano. E’ semplice: basta che il consorzio non la finanzi più.
Ogni tanto qualche bagliore illumina la cronaca nera: la Procura e il Tribunale di Milano che commissariano una società di logistica dell’aeroporto di Malpensa, dopo il pesante fallimento di una cooperativa; a marzo scorso la Guardia di Finanza di Milano che arresta 22 persone e sequestra 292 milioni di euro, in un’inchiesta fondata sull’accusa di bancarotte pilotate in serie che andavano avanti dall’anno duemila; a Verona un’indagine molto simile nel 2022 individua 24 società “spurie” e porta all’accusa verso 71 persone.
Tutti i coinvolti sono innocenti fino all’ultimo grado di giudizio, doveroso. Ma tutte queste esternalizzazioni, cresciute in anni recenti “esponenzialmente” – secondo lo studio legale milanese Morri Rossetti – non si spiegano se non con l’intento di pagare in qualche modo qualcosa di meno da qualche parte. E' come un'epidemia di illegalità silente e invisibile in una parte del tessuto economico del Paese, una di quelle malattie non diagnosticate o ignorate fin oltre il possibile. Perché questi non sono fenomeni isolati, ma sempre più diffusi in certe parti della società e dei ceti professionali d'Italia. Sono fenomeni epidemici perché, abbattendo i costi, innescano emulazione fra concorrenti. Siamo per questo un popolo di terroristi fiscali? Senz’altro no. Ma fra noi si aggirano insospettabili e ben vestiti terroristi fiscali? Be', vale la pena chiederselo. 

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« Risposta #1 inserito:: Febbraio 21, 2024, 12:50:42 pm »

Né destra né sinistra: verso una politica adulta

Giacomo COSTA

L’appannarsi della contrapposizione tra le categorie di “destra” e “sinistra” nel contesto politico non implica il venir meno delle situazioni conflittuali. Imparare a leggere emozioni e passioni politiche, in un confronto fondato sul dialogo, aiuta a generare una società più armonica.

Fascicolo: gennaio 2016

Tags: dialogo ; ideologia ; opinione pubblica ; partecipazione politica ; partiti politici ; politica italiana ; rappresentanza

Né di destra, né di sinistra: sembra essere questo lo slogan della politica attuale, e non solo in Italia. Se ne sono appropriati nel Regno Unito lo UK Independence Party di Nigel Farage e in Francia il Front National di Marine Le Pen (formazioni tradizionalmente considerate di estrema destra), e in Spagna Podemos (frequentemente avvicinato invece alla sinistra). In Italia è la posizione del M5S fin dalle sue origini, assunta ormai anche da esponenti di partiti assai più tradizionali come il PD, tanto che il sindaco di Firenze Dario Nardella, in occasione dell’apertura della Leopolda 2015, ha affermato che esso «Deve essere un partito capace di parlare a tutti gli italiani, superando i vecchi paradigmi dei partiti del secolo scorso. Lo schema della contrapposizione tra destra e sinistra non è più sufficiente a leggere il nostro tempo. Dobbiamo costruire un’alternativa del tutto nuova» (Corriere della Sera, 11 dicembre 2015). Lo stesso Matteo Renzi, pur consapevole della valenza identitaria del termine “sinistra” per una parte del suo elettorato, ha cercato più volte di smarcarsene, come quando ha dichiarato: «Abbassare le tasse non è di destra né di sinistra. È giusto» (La Stampa, 16 ottobre 2015). Tutto lascia pensare che la questione emergerà con forza crescente con l’avvicinarsi delle prossime scadenze elettorali locali, anche in relazione alla scelta dei candidati sindaci e alla formazione delle relative coalizioni.

Queste posizioni, anche se non mancano di suscitare la reazione di quanti ancora ritengono importante richiamarsi al patrimonio ideale dello scenario ideologico del XX secolo, rispecchiano i numerosi sondaggi dell’opinione pubblica, in particolare giovanile: al disinteresse e alla sfiducia verso la politica si associano il rifiuto di collocarsi sull’asse destra-sinistra e la mancanza di idee chiare in merito al voto. Prevale la logica – o la retorica – della cittadinanza attiva e della partecipazione, dell’importanza di affrontare e risolvere i problemi concreti: almeno in parte, l’antipolitica si configura non come disinteresse, ma come rifiuto a riconoscersi nelle costruzioni tradizionali del mondo della politica, a partire dall’opposizione destra-sinistra, e nel loro modo di fare. Le affermazioni dei leader sopra ricordate sono anche un modo per cercare di catturare il consenso di questa parte dell’elettorato.


Ideologie sfilacciate

La crisi del binomio che sta alla base della vita politica delle democrazie moderne è un fenomeno assai complesso, che interseca una pluralità di livelli, dalle riflessioni filosofiche e politologiche sulla fine delle ideologie alla interpretazione del sentire comune. Soffermarsi sulle sue implicazioni richiede di procedere con una indispensabile cautela: serve uno sforzo deliberato per trattenere giudizi affrettati e cogliere la logica di posizioni diverse dalla propria. Se infatti da un lato è superficiale la posizione post-ideologica che ritiene semplicemente sorpassato quello che per altri rappresenta un patrimonio di identità e valori, dall’altro è banale tacciare affrettatamente di incoerenza chi di volta in volta assume posizioni che tradizionalmente facevano capo a poli ideologici opposti.

Il binomio destra-sinistra ha rappresentato l’asse strutturante dello spazio politico delle democrazie a partire dalla Rivoluzione francese, al cui interno per la prima volta appare: fu agli Stati generali francesi del 1789 e successivamente all’Assemblea nazionale che i conservatori si collocarono nell’emiciclo alla destra del presidente e i progressisti in quello alla sua sinistra. In radice – è la fondamentale lezione di Norberto Bobbio (Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Donzelli, Roma 1994) – la linea di demarcazione è rappresentata dalla posizione assunta rispetto all’egualitarismo e al perseguimento dell’obiettivo della rimozione di tutto ciò che ostacola l’uguaglianza dei cittadini (come afferma anche l’art. 3 della nostra Costituzione); ci sono state però stagioni in cui la contrapposizione è diventata così pervasiva da rappresentare una etichetta di valore associata di fatto a qualunque cosa, dal modo di vestirsi alla musica ascoltata, ai film preferiti.

Con un certo grado di semplificazione, destra e sinistra rappresentavano un quadro di riferimento ideologico al cui interno prendere posizione rispetto a ogni questione, diventando quindi un fattore identitario. Questo valeva soprattutto rispetto alle situazioni conflittuali di cui la politica è sempre intessuta e alle reazioni emotive che suscitano: che si trattasse della rabbia per qualche tipo di sfruttamento o della paura di perdere il proprio benessere, dell’anelito a una maggiore libertà o a una maggiore giustizia, le energie che queste emozioni inevitabilmente scatenano trovavano un vettore in cui collocarsi e trasformarsi in risorse di impegno, di lotta, di cambiamento.

L’esistenza di un quadro di riferimento organico non eliminava certo contraddizioni e incoerenze, spesso nella forma della “doppia morale”: quella alla base dei comportamenti individuali in contraddizione con i principi affermati e quella con cui valutare gli avvenimenti storici. In modo speculare a seconda della collocazione dell’osservatore, le stesse repressioni o violazioni dei diritti umani trovavano giustificazione o suscitavano indignazione a seconda che fossero commesse da regimi di destra (ad esempio in America latina) o di sinistra (ad esempio in Europa orientale). Con forme e gradi diversi, l’assetto del tempo delle ideologie implicava una dipendenza della base dal vertice, nel momento in cui la formulazione delle valutazioni della realtà era affidata ai livelli apicali degli schieramenti. In questo senso destra e sinistra, e le ideologie sottostanti, costituivano anche lo strumento attraverso cui il singolo poteva (o doveva) trascendere il proprio punto di vista per inserirlo in un orizzonte più ampio.

Tali ideologie hanno perso il loro riferimeno strutturante, ma non per questo si elimina il conflitto dalla politica, che continua a emergere e ad essere rappresentato – anche a fini identitari ed elettorali – attraverso opposizioni bipolari: si pensi, per fare alcuni esempi attuali, a europeisti vs euroscettici, accoglienza vs respingimenti, statalismo vs antistatalismo, regole vs mercato, locale vs globale, Nord vs Sud, pubblico vs privato, religione vs laicità, occidentali vs islamici, ecc. Né vengono meno tutte le passioni ed emozioni che i conflitti politici suscitano: paura, ansia, rabbia, entusiasmo, speranza, ecc. Sparisce però il vettore in cui inserirli, anche se con fatica: il fattore alla base dell’assunzione di una posizione pare diventare l’interesse personale. Non tanto e non solo nel senso di tornaconto individualistico, ma di ciò che mi sta a cuore, perché si lega a motivazioni profonde o a una simpatia superficiale. Si perde in capacità di cogliere i legami tra le diverse questioni e aumenta il rischio che le posizioni, apparentemente assunte sulla base di una maggiore autonomia individuale, rispondano in realtà alle logiche riduzionistiche del pensiero unico dell’efficienza di matrice tecnocratica, abilmente diffuse dall’industria dei media e funzionali agli interessi di chi detiene potere e privilegi. Ne nasce una sorta di posizionamento à la carte, in cui non fa difficoltà schierarsi per gli orsi polari o i panda in via di estinzione e, allo stesso tempo, contro le missioni di salvataggio degli immigrati; oppure contro le liste di attesa negli ospedali e a favore di una drastica riduzione delle tasse, e così via.

Tutto ciò, visto da chi – per scelta o per esservi nato – si pone nella prospettiva delle ideologie, appare come il regno dell’incoerenza: non soltanto degli elettori, ma anche dei politici che a loro si rivolgono, facendo appello non a un quadro organico di riferimento, ma direttamente alle emozioni e alle prese di posizione che ne conseguono.

Possiamo però chiederci: c’è un altro modo di leggere questa dinamica, che tra l’altro sembra rappresentare la traduzione politica di un sistema che fa della personalizzazione di beni e servizi e della libertà di scelta la propria bandiera? Una domanda simile può forse investire la diagnosi di deriva populista avanzata nei confronti di molte forze politiche. Non a caso si tratta di un’accusa utilizzata da coloro che sono più legati a un riferimento ideologico nei confronti di quanti, implicitamente o dichiaratamente, ne prescindono. Anche se questo non diminuisce i rischi di manipolazione e leaderismo (la vera minaccia per la democrazia), il rivolgersi a quella che normalmente viene chiamata la “pancia” degli elettori ha un significato diverso se è disponibile o meno un quadro di riferimento ideologico in cui collocare passioni ed emozioni: nel primo caso, il richiamo alle ideologie diventa anche lo strumento per ottenere attenzione e coinvolgimento, nel secondo il discorso politico deve invece essere costruito su altre basi.

Considerazioni analoghe possono riguardare alcune concezioni della rappresentanza oggi diffuse, che nel “mondo delle ideologie” risultano incomprensibili. Se il consenso elettorale viene richiesto come adesione a una prospettiva ideale, anche la delega implicita nella rappresentanza e il divieto di mandato imperativo (sancito dall’art. 67 della Costituzione) trovano il loro senso: su ciascuna questione gli eletti prendono posizione dopo averla collocata all’interno della visione ideale condivisa, a cui fa riferimento anche la disciplina di partito per la gestione dei casi controversi. In assenza di riferimenti a un quadro ideale e ideologico sulla cui base redigere i programmi, questo meccanismo si inceppa e la rappresentanza diventa un mandato senza delega: gli eletti dovranno rendere ragione agli elettori delle singole posizioni assunte, e, soprattutto, preoccuparsi di sintonizzarsi con l’opinione prevalente per tutti quei punti che il programma – non più un progetto di società, ma una lista non necessariamente organica di cose da fare – non prevede esplicitamente. Questa almeno sembra la logica alla base delle procedure di una forza come il M5S, anch’essa non scevra di incoerenze.


Passioni ed emozioni politiche

Il progressivo depotenziamento delle ideologie come orizzonti comprensivi ci obbliga dunque a rifare i conti con la realtà del carico emotivo della politica: basta pensare a quanto facilmente ci si accalora quando se ne parla tra persone di diverso orientamento, esprimendo una passione o una repulsione che non esitiamo a definire viscerale. Ugualmente indifferenza o nausea sono atteggiamenti con una forte base emotiva. Anche nell’epoca della razionalità tecnocratica, dunque, fare politica o riflettere su di essa richiede di avere a che fare con emozioni e passioni: che cosa significa in uno scenario post-ideologico, dove almeno potenzialmente sembra esserci un maggiore spazio per l’autonomia, ma anche un maggiore rischio di dispersione?

Passioni ed emozioni spaventano, perché costituiscono una esperienza di passività (è questa la radice etimologica del termine passione): ci prendono, ci afferrano, sfuggono al nostro controllo. Inoltre recano in sé il marchio della volatilità o volubilità: gli stati emotivi sono mutevoli e un impegno fondato unicamente su di loro fatica a radicarsi e proseguire nel tempo; anzi, lo scontro con la realtà, che ordinariamente smentisce gli slanci fondati sulle passioni, produce frustrazione e disillusione. Un altro pericolo è che emozioni e passioni possono diventare la base della manipolazione ad opera di chi, con pochi scrupoli, sa utilizzarle a proprio vantaggio.

Non per questo vanno represse o ignorate: il loro calore, che può scottarci se non le maneggiamo con cura, è una energia preziosa da volgere in nostro favore attraverso un ascolto intelligente del messaggio di cui sono portatrici, al di là delle apparenze con cui si manifestano. Certo, questo non basta. La creatività politica e sociale deve essere alimentata anche con lo studio, la riflessione e le competenze professionali e tecniche. Ma essere consapevoli che passioni ed emozioni sono risorse individuali e sociali cui attingere, assumendole con intelligenza critica (che non è sinonimo di razionalizzazione) permetterà di non lasciare da parte quello che, in fin dei conti, è il motore della storia. La vera sfida, in politica come in tutte le dimensioni della vita, è quella di non lasciarci dominare dall’emotività, ma di rileggere i vissuti emotivi per comprendere che cosa ci dicono della realtà in cui viviamo e trasformarli in generatori di risorse per il nostro impegno.

Questa attivazione emotiva collettiva ha molteplici facce, che proviamo a mettere in luce. Ad esempio, un sentimento come l’indignazione può fornire una potente spinta motivazionale a un’azione sociale tutt’altro che irrazionale: se mi indigno è perché rifletto su ciò che sta avvenendo e lo riconosco come contrastante con le regole o i valori alla base della vita sociale. Dunque la ragione aiuta l’indignazione nel suo manifestarsi e l’indignazione aiuta la ragione a esprimersi in maniera più incisiva. Allo stesso tempo, a queste emozioni possono intrecciarsi sentimenti come risentimento, rabbia oppure odio: non sono da condannare in sé, ma occorre essere consapevoli delle loro potenziali conseguenze distruttive.

Passioni ed emozioni fanno dunque sorgere molteplici interrogativi. Come difenderci dal rischio che siano manipolate? In che modo l’energia che producono può essere convogliata costruttivamente? Come evitare di cadere nell’assolutizzazione dell’esperienza emotiva, che può portare a fanatismo, intransigenza e anche a tante disillusioni? Come distinguere la passione costruttiva dalle sue proiezioni illusorie legate alla pretesa di possedere la verità, che fanno perdere il contatto con la realtà? Come non smarrire una percezione più realistica e pragmatica dei limiti del nostro agire? Infine, come arrivare a una efficace integrazione tra emozioni e razionalità?

Questi quesiti, in fondo, non riguardano solo la politica: in tutti gli ambiti della nostra vita, infatti, entrano in gioco passioni ed emozioni e il loro rapporto con la razionalità. Questo legittima forse il ricorso a un’immagine: da bambini il problema viene risolto attraverso la dipendenza da figure adulte (genitori, insegnanti, educatori, ecc.), in un processo di progressiva autonomia; l’adolescenza è comunemente considerata il momento di esplosione di emozioni e passioni, con la confusione che ne consegue e la fatica a gestirle, la presa di distanza dalle figure di riferimento dell’infanzia, a cui se ne sostituiscono altre; la maturità dell’età adulta consiste proprio nella capacità di governare le proprie emozioni, assumendone la profondità, valorizzandone la ricchezza e recuperando anche il patrimonio dei periodi precedenti. Si tratta di una suggestione che offriamo, invitando a resistere alla tentazione di una semplicistica applicazione analogica ai fenomeni sociali. Sarebbe banale concludere che per la vita democratica italiana all’infanzia della Prima repubblica ha fatto seguito l’adolescenza della Seconda e siamo in attesa della maturità della Terza. Si tratterebbe di una estensione di una dinamica personale alla sfera sociale, indebita anche solo per il fatto che il soggetto sociale collettivo muta costantemente in funzione della demografia. A livello sociale si tratta di un percorso da rinnovare ogni giorno: l’esempio ce ne indica la direzione, senza che possiamo pensare di compierlo una volta per tutte.


Per orientarsi

Ma come fare? Un primo passo è dare un nome alle emozioni, identificandone l’origine. Leggere le proprie paure, ad esempio, richiede di riconoscerle come tali, di identificare il bene che ci sta a cuore e sentiamo in pericolo e di individuare la minaccia. L’emozione è un segnale da leggere, mettendo a fuoco che cosa indica. Saper distinguere tra indignazione e invidia, tra ira e risentimento, speranza e illusione, partecipazione o manipolazione consente di orientarsi tra azioni politiche e sociali frutto di interessi parziali ed egoistici o, ancor peggio, di ritorsioni puramente ostili e vendicative, e progetti che scaturiscono dal desiderio di dignità e di uguaglianza, ispirati al bene comune e tesi alla conquista delle libertà democratiche. Riconoscere le passioni ci permette di intuire qualcosa sulle motivazioni profonde all’origine dei movimenti collettivi e di distinguere tra pretese illegittime e domande legittime di libertà e di giustizia.

La strada poi può aprirsi progressivamente se ci abituiamo a cogliere il “gusto” profondo della libertà di impegnarsi, di costruire qualcosa insieme, di rispettare veramente se stessi e gli altri, di sentirsi al posto giusto nel momento giusto. Un gusto ben diverso da quello di una iniziativa portata avanti per paura, per escludere altri, per affermare se stessi. Chi non ha mai provato che cosa significa la differenza non può rendersene conto; chi invece l’ha sperimentata dispone di uno strumento potente per orientarsi anche nei casi in cui l’analisi strettamente razionale non arriva a una chiarezza definitiva: difendere i propri interessi, individuali o di gruppo, appare spesso dotato di senso e persino attraente a un calcolo di costi e benefici, ma ha un gusto completamente diverso dall’operare per la promozione del bene comune. La chiave è dunque sviluppare la capacità di cogliere il gusto di ciò che si sta vivendo e soprattutto delle diverse alternative che sempre ci troviamo di fronte. Con un termine antico, tutt’altro che fuor di luogo quando si parla di politica, questa è l’arte del discernimento spirituale, di cui qui non possiamo che limitarci a qualche accenno.

Trattandosi di una dinamica sociale, questo compito di lettura e interpretazione di emozioni e passioni politiche non può che essere svolto insieme, in un confronto fondato sul dialogo. Assunto a livello di metodo in tutta la sua esigenza, il dialogo offre una opportunità irrinunciabile: permette a ciascuno di cogliere la propria parzialità e trascendere il proprio punto di vista e l’assolutezza con cui percepisce le proprie pulsioni emotive, in un percorso di maturazione personale nella direzione dell’autonomia e della responsabilità.

Per questo esercizio servono palestre. Oltre alla famiglia, le più indicate sono quelle realtà in cui i singoli confluiscono e che spesso, in vario modo, già offrono, talvolta istituzionalmente, percorsi e cammini formativi: la scuola e tutto il mondo delle associazioni, in particolare quelle che mirano a una presenza e a un impegno nella società, anche capendo come utilizzare correttamente le risorse offerte dai nuovi media. Per esperienza possiamo dire che si tratta di qualcosa che accade assai più spesso di quanto un certo pessimismo diffuso porterebbe a pensare. A questi ambiti ne vanno aggiunti due, per i quali questo compito assume una rilevanza ancora più strategica. Il primo sono i partiti politici, in particolare a livello della militanza di base: favorire confronto e dialogo sono per loro il modo di costruire una efficace democrazia interna, che oggi è un requisito indispensabile per svolgere legittimamente la funzione di rappresentanza. Il secondo sono le comunità di fede: ogni esperienza religiosa autentica integra al proprio interno passioni ed emozioni profonde, non solo quelle di ordine più squisitamente mistico (il rapporto con Dio), ma anche quelle relative a identità e appartenenza. Per queste comunità, intraprendere la via del confronto e del dialogo, al proprio interno e con quelle di altra confessione, è la via per sfuggire al settarismo e all’integralismo e un valido modo per offrire un contributo prezioso alla società di cui fanno parte.

Non mancano certo i temi sui cui esercitare confronto e dialogo, anche a livello della vita quotidiana: le dinamiche politiche e sociali ci obbligano in continuazione a prendere posizione su opzioni controverse ed emotivamente cariche. Tra le tante, quella che oggi sembra eccitare al massimo le passioni è il rapporto con la differenza culturale, religiosa o etnica: suscita paure profonde e quasi ancestrali, spesso oggetto di manipolazione, ma al tempo stesso interseca il mondo dell’economia (mercato del lavoro e sistema previdenziale), i bisogni a volte drammatici nel campo dell’assistenza e le evoluzioni del desiderio di futuro che soggiacciono alle dinamiche della natalità e della demografia. È un tema con cui dobbiamo costantemente fare i conti, in un modo auspicabilmente sempre più adulto.

Il sogno di una democrazia matura e di una politica adulta è che le scelte non si basino sul fatto che le alternative sono “di destra” o “di sinistra”, né sul conteggio degli infiniti “mi piace” individuali e poco motivati, ma su un percorso che ci permette di scoprire insieme, come con-cittadini, in che misura esse promuovono o non promuovono cammini costruttivi per tutti e per ciascuno.
DA- https://www.aggiornamentisociali.it/articoli/ne-destra-ne-sinistra-verso-una-politica-adulta/
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