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Autore Discussione: Concita DE GREGORIO  (Letto 87131 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Maggio 23, 2010, 10:41:56 pm »


La P2 e il ddl intercettazioni

di Concita De Gregorio

Qualche sera fa, in via Veneto, entrava Edward Luttwak all’hotel Flora, usciva Licio Gelli dall’Excelsior. Il Flora era il quartier generale tedesco negli anni di guerra. L’Excelsior, in anni più recenti, teatro di un’altra guerra, silenziosa e lunga. Una guerra di cospirazione. Le due auto blu si sono incrociate. Gelli, 91 anni compiuti ad aprile, scende a Roma molto più di rado. Non tutti i mercoledì come era solito fare. Ha qualche piccolo problema di salute, spiega uno dei tre intermediari che tra Pistoia, Arezzo e Montecatini occorre interpellare in sequenza per avere notizie dello «zio», così vogliono lo si chiami al telefono, mai nomi al telefono, si sa. Riceve a villa Wanda, si spinge a Roma «solo per questioni delicatissime e urgenti di massimo livello».

Quale possa essere stata la questione delicatissima e urgente di queste settimane, le cronache dominate dalla cricca di Anemone e dall’urgenza che il presidente del Consiglio avverte per una legge bavaglio che ammutolisca giornali e tg, si può chiedere, ma non è lecito sapere. «Che domanda impertinente». La stessa risposta che Licio Gelli mi dette sette anni fa, quando il 28 settembre andai a intervistarlo a villa Wanda. Sente ancora Silvio Berlusconi, lo vede? «Che domanda impertinente». In quella lunga conversazione mi disse cose che a ripensarci oggi - la privacy, il ddl sulle intercettazioni - conservano un loro interesse: il suo Piano di Rinascita democratica diceva che era necessario redigere «una nuova legislazione sulla stampa in senso protettivo della dignità del cittadino, sul modello inglese». La privacy. Disse: «Guardo il Paese, leggo i giornali e penso: ecco qua che tutto si realizza poco a poco, pezzo a pezzo. Forse sì, dovrei avere i diritti d’autore. La giustizia, la tv, l’ordine pubblico. Ho scritto tutto trent’anni fa». Ancora dal Piano di Rinascita della Loggia massonica P2, Silvio Berlusconi aveva la tessera numero 1816. «Qualora le circostanze permettessero di contare sull’ascesa al governo di un uomo politico (o di una equipe) già in sintonia con lo spirito del club è chiaro che i tempi di procedimento riceverebbero una forte accelerazione». Le circostanze lo permettono. Chi ha condiviso quel progetto è oggi alla guida del Paese. Non solo alla guida suprema. È nei gangli vitali delle burocrazie, nelle segreterie felpate, nei ministeri, nelle anticamere. È un club, come lo definiva Gelli, i cui nomi fanno capolino di continuo tra le carte delle inchieste sulla corruzione, nomi a volte anonimi per il grande pubblico ma notissimi, invece, tra chi conta.

Martedì scorso a «Ballarò» Antonio Di Pietro, reduce da Firenze dove era stato sentito dai magistrati come testimone, ha risposto alla domanda «che cosa le hanno chiesto, lei cosa ha detto». «Non posso dire cosa ho detto, ma molte sarebbero le domande da farsi. Per esempio chiediamoci cosa ci fa Bisignani a palazzo Grazioli». Cosa ci fa? Ha domandato il conduttore, Floris. «Eh, cosa ci fa...». Luigi Bisignani, grande esperto della storia della P2.

Dunque i palazzi sono ancora questi, la storia non si capisce se non si riparte da lì. Per dirlo con le parole del Venerabile maestro: «Se le radici sono buone la pianta germoglia». Ha germogliato.

Brevi estratti dal Piano di Rinascita, che magari chi ha meno di trent’anni non lo ricorda o non l’ha letto mai. A proposito di stampa e tv. «Acquisire 2 o 3 giornalisti per ciascun quotidiano o periodico in modo tale che nessuno sappia dell’altro. L’azione dovrà essere condotta a macchia d’olio o meglio a catena da non più di 3 o 4 elementi che conoscano l’ambiente». Le gratifiche economiche adeguate. «Dissolvere la Rai tv», «abolire il monopolio Rai». Fin qui, ha germogliato. Punto centrale: «Controllare la pubblica opinione media nel vivo del paese». La prosa non è delle più felici ma il senso preciso: la pubblica opinione media, la massa dei cittadini. Nel vivo del paese: un controllo capillare. Addomesticare la pubblica opinione attraverso le tv. Procedere di seguito ad «alcuni ritocchi alla Costituzione».

Anche sui ritocchi ci siamo
Lavorare a dividere il sindacato, disarticolare la magistratura: questa è la parte più corposa del piano. Anche quella più meticolosamente perseguita. Sarebbe interessante fermarsi su altri dettagli: la «legislazione che subordini il diritto di residenza alla dimostrazione di possedere un posto di lavoro e un reddito sufficiente», per esempio, di cui Bossi è oggi paladino. Bossi, di cui Gelli dice: «Si è creato la sua fortezza con la Padania, ha portato molti parlamentari, è stato bravo. Ma aveva molti debiti...». La stampa, per finire. «Nuova legislazione sulla stampa in senso protettivo della dignità del cittadino sul modello inglese (oggi diciamo privacy). Obbligo di pubblicare ogni anno bilanci e retribuzioni. Abolire tutte le provvidenze agevolative».

Creare un’Agenzia centrale che controlli le notizie locali. Acquisire alcuni settimanali da battaglia, settimanali popolari. Oggi diremmo rotocalchi. Quelli che vendono migliaia di copie e si trovano nelle sale d’attesa dal dentista, dal pediatra, dal barbiere: quelli che arrivano più lontano dei settimanali d’inchiesta, del resto - con le nuove leggi sulla privacy o dignità del cittadino che dir si voglia - destinati a scomparire. Di Berlusconi, quel giorno di sette anni fa, Gelli mi disse: «Berlusconi è un uomo fuori dal comune. Ricordo bene che già allora, ai tempi dei nostri primi incontri, aveva questa caratteristica: sapeva realizzare i suoi progetti. Un uomo del fare. Di questo c’è bisogno in Italia: non di parole, di azioni». Della corruzione, delle tangenti, degli appalti e delle cricche: «In fondo Mani pulite è stata solo una faccenda di corna. Lei crede che la corruzione sia scomparsa? Non vede che è ovunque, peggio di prima, molto più di prima?».

23 maggio 2010

http://www.unita.it/news/italia/99054/la_p_e_il_ddl_intercettazioni
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« Risposta #46 inserito:: Giugno 02, 2010, 12:06:47 pm »

La più bella che si sia mai vista

di Concita De Gregorio

Louise Bourgeois Regalava agli amici degli specchi, quasi sempre rotondi. «Nella vita ci sono molte realtà, come quelle che restituisce uno specchio.

Bisogna accettare che la gente non vede quello che voi vedete.

Ciascuno vede una cosa diversa, guarda nello specchio e vede se stesso come vuole che sia: fa paura ma bisogna accettarlo».

Alla morte della madre cercò di uccidersi gettandosi in un fiume: «Era intelligente paziente opportuna utile e ragionevole. Era indispensabile, come un ragno». Per molti anni ha scolpito ragni enormi.
I ragni riparano la tela dove si rompe, ricominciano sempre da capo. Come le donne fanno, come lei e sua madre facevano: riparavano arazzi.

Ha sofferto tutta la vita d’insonnia, l’ha dipinta. «Rivendico il diritto di essere infelice. Rompo tutto quello che tocco, sono violenta. Distruggo i miei amici i miei amori i miei figli. Rompo le cose perché ho paura e passo il tempo a ripararle». È stata distrutta dal padre e lo ha distrutto. Ha amato molti uomini, male. Ha scolpito per anni i loro sessi enormi. «La mia bambina, fillette», aveva intitolato il più famoso. «Ci innamoriamo sempre di coloro che temiamo, così provochiamo un cortocircuito alla paura e non la sentiamo più».

L’arte è una garanzia di salute mentale, s’intitola una sua opera: «Terminata la scultura sento che ho eliminato l’ansia. Combattere la paura non è tutto, anche in assenza di paura il pericolo persiste. Quello che mi interessa non è scappare, è restare. La conquista della paura. Confrontarsi, vergognarsi tremare alla fine avere paura della paura stessa. Questo è il mio tema. Questo, credo, è il tema». Louise era minuscola e gentile con un’anima di fil di ferro. Cantava ninne nanne straordinarie con voce roca. Sorrideva con gli occhi, con le rughe del volto. Aveva le mani fredde, i gesti svelti. Non aveva paura, alla fine, più di niente. Era un essere umano straordinario.

Una donna, per giunta. La più bella che si sia vista mai.

31 maggio 2010
http://www.unita.it/news/culture/99422/la_pi_bella_che_si_sia_mai_vista
« Ultima modifica: Giugno 02, 2010, 12:11:26 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #47 inserito:: Giugno 08, 2010, 10:19:12 am »

07/06/2010 22:18

Eugenetica padana

Concita De Gregorio

L'incredibile storia che vi raccontiamo oggi ha il pregio, se è lecito usare la parola pregio in una vicenda che non ne contempla alcuno, di chiarire esattamente in cosa consista, nella pratica, quel mix di egoismo, brutalità, cinismo e disprezzo delle povertà in qualunque forma si manifestino che va sotto il nome di leghismo. Siamo nella Regione Veneto, si parla di trapianti di organi. L'assessore alla Sanità, fieramente padano, scrive le linee guida a cui i medici delle strutture regionali dovranno attenersi. Non si dovranno trapiantare organi, scrive nero su bianco, a quelle persone che abbiano un quoziente intellettivo al di sotto del punteggio 50. Nemmeno a chi abbia di recente tentato il suicidio. Anche in questo caso non ne vale la pena. Perché la comunità dovrebbe dare un fegato a uno che ha cercato di uccidersi? E se lo fa un'altra volta? È uno spreco. Perché bisognerebbe dare un rene a una persona down, a un ragazzino con un deficit dell'intelligenza? Perché lo chiede sua madre? Ma andiamo, su.

Basta con questi buonismi pietosi. Si trapianta qualcuno che valga la pena trapiantare: i malati potenzialmente sani. I malati cronici no. Un demente, un handicappato: che si trapiantano a fare, tanto sani non tornano. L'estensione del criterio a chi ha tentato il suicidio è se possibile persino più aberrante. È come stabilire per legge che non esista la sofferenza dell'anima, il dolore disperato e profondo - emendabile, tuttavia, chi non lo spera? È come stabilire nelle linee guida venete che la speranza non esiste. Chi tenta di uccidersi deve essere un malato di mente. Uno che lo farà certamente di nuovo. Col paradosso, lo spiega nella sua veste di medico Ignazio Marino, che chi tenta il suicidio ingerendo pasticche (da cui spesso discende la necrosi del fegato) non dovrebbe essere operato ma lasciato morire.

Le linee guida sono state scritte un anno fa, nel marzo del 2009. Per un anno, dunque, si suppone che i medici vi si siano attenuti. Solo in questi giorni, dopo che l'American Journal of Transplantation ha pubblicato un articolo incredulo parlando del Veneto alla comunità internazionale, il medesimo assessore ha ritenuto di «rispondere a questo polverone» con una circolare interpretativa che fa parziale marcia indietro. Se nessuno ne avesse scritto - e nessuno, per un tempo lunghissimo, lo ha fatto - tutto a posto, avanti così. Sorgono spontanee alcune domande, pur senza disporre di un quoziente intellettivo straordinario. Per quale ragione i paladini delle crociate antiabortiste non insorgono? Se decidere di non far nascere una creatura destinata è vivere con gravi handicap è omicidio (eugenetica, come sostengono, selezione della razza) non è ben più grave negare le cure ai vivi, nati e divenuti adulti? Bisognerebbe farli nascere e poi morire negando loro le cure? E perchè chi è destinato a morte certa, malato terminale, deve stare attaccato alle macchine contro il volere suo o dei suoi familiari? In che senso far intervenire la scienza per mantenere in vita una persona in coma irreversibile è più utile, giusto, etico che farlo per mantenere viva una persona viva? Dipende dal suo Q.I.? Se è questo il punto riprendiamo pure a parlare di selezione della razza: riprendiamo da qui.

http://concita.blog.unita.it//Eugenetica__padana_1313.shtml
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« Risposta #48 inserito:: Luglio 23, 2010, 11:10:09 am »

Veltroni: «Le stragi volute dall'Antistato ma la verità è vicina»

di Concita De Gregorio

C'è solo da continuare a cercare. Chi cerca la verità non lo fa a vantaggio di qualcuno, è chi depista lo fa per occultare qualcosa, proteggere qualcuno. Le cose stanno come avevamo immaginato in questi anni e anche peggio. Torno da questi tre giorni in Sicilia con la certezza che quei magistrati, se non si impedirà loro di lavorare, potranno dire al Paese la verità che fin qui è stata nascosta».

Si chiude così l’analisi dei fatti che Walter Veltroni fa all'indomani della lunghissima audizione dei magistrati siciliani in commissione Antimafia. Audizione secretata nel merito della quale - dice subito - «non entrerò per rispetto istituzionale ed etico del segreto. Posso però dire che sono stati giorni straordinari, di grande valore storico ed emotivo. Ne esco con la conferma che ciò che abbiamo detto in questi anni è assolutamente vero. È vero ciò che scrissi su questo giornale nella notte delle stragi, quasi vent’anni fa. È vero ciò che ha detto il presidente Pisanu parlando di “convergenza di interessi tra mafia, logge massoniche, pezzi di apparati deviati, settori politici”. Ripeto ciò che ho detto in questi mesi e che ora è da tutti confermato: le stragi del ‘92-’93 sono state stragi dell'Antistato, non solo stragi di mafia. C'è stato un disegno volto al condizionamento della vita politica nazionale e non era certo Totò Riina a guidarlo. Dico Antistato perché non voglio smettere di pensare che lo Stato siano Falcone, Borsellino, Caponnetto, gli uomini delle scorte, coloro che hanno speso la loro vita in difesa della legalità. Non importa quale grado gerarchico, quale posizione nella vita pubblica avesse chi ha complottato contro Falcone e Borsellino: era antistato».

Stiamo alle dichiarazioni pubbliche rese dai magistrati fuori dall'audizione: siamo davvero a un passo dalla verità?
«Sembra emergere, hanno detto alla stampa i magistrati, che l’assassinio di Borsellino è stato spiegato negli anni seguendo un depistaggio spaventoso. Una falsa verità costruita ad arte. Le dichiarazioni di Spatuzza fanno ripensare a quel che anni fa disse Brusca: per via D'Amelio ci sono innocenti in galera. Si sono evidentemente fatti passi avanti nel disvelare una gigantesca menzogna. Ma se Scarantino non è il responsabile dell'assassinio di Paolo Borsellino: perché qualcuno si è accusato di responsabilità che non aveva e per questo ha accettato condanne dure? Su mandato e per coprire chi, che cosa? Se si lasciano lavorare i magistrati, se avranno il sostegno delle istituzioni, se i mezzi di informazione non si lasceranno trascinare in pericolose operazioni di depistaggio (le fughe di notizie sono uno dei modi classici), se chi indaga sarà messo in grado di accedere alle fonti di informazione, ecco, allora davvero la verità sarà a portata di mano. Il sistema politico non deve avere paura della verità. Mi ha davvero colpito che il procuratore Lari abbia detto: il sostegno del capo dello Stato è importante. Sono importanti i segnali politici così come i gesti concreti: i colpi ai vertici della mafia, certo, ma poi sconcertano le contraddizioni. Negare la protezione a Spatuzza è messaggio pericolosissimo: se collabori non sei protetto. Una decisione assurda, mi rivolgo al governo: ci ripensi».

Spatuzza è stato oggetto di una campagna di discredito. Ci si domanda se sia credibile.
«Le parole di chi collabora con la giustizia devono trovare riscontri. Non bisogna delegittimare né credere a prescindere: bisogna verificare quello che dicono. Senza i pentiti né la mafia né il terrorismo sarebbero stati colpiti. Come ci ha detto un procuratore: le parole dei pentiti offrono una panoramica, poi ci sono altri strumenti per lo zoom. Le intercettazioni sono uno di questi. Il ddl sulle intercettazioni è pericoloso perché nega ai magistrati la possibilità di indagare: anche in materia di mafia, poiché come ciascuno sa molti reati di mafia sono emersi a partire da indagini che con la mafia in origine non avevano a che fare. E' questo il nodo della legge in discussione, questa la posta reale».

Ogni volta che si parla di stragi di stato, o di antistato, c'è chi ironizza sui complottisti e i dietrologi. È ora di uscire dalla panoramica ed entrare nel dettaglio: nomi, circostanze, prove, dicono. Dicono anche: come mai solo adesso, 18 anni dopo?
«È maturo il momento. Io non sono complottista né dietrologo. Guardo la realtà per quella che è. Piazza Fontana, Bologna, Piazza della Loggia, Ustica, la precisa composizione del commando che ha rapito Moro: se ancora non si sa con certezza come siano andate le cose non è per caso. Assassini rossi o neri, le mafie che hanno provato a distruggere il tessuto civile di questo paese non hanno mai agito da sole. Mi domando: perché si coprono verità cosi devastanti? Politicamente ci siamo già dati le risposte. I magistrati indagano quando sono in condizioni di farlo. Quando c'è chi collabora, per esempio. Oggi lo stanno facendo con serietà, con scrupolo, rischiando molto».

Un'altra domanda interessante è perché la mafia abbia smesso di fare stragi. È lo snodo del ragionamento di chi sostiene: perché lo scenario politico successivo alle stragi la garantiva.
«È un dato di fatto che le stragi finiscono in coincidenza con l’aprirsi, dopo il governo Ciampi, di una nuova fase politica, ed è altrettanto chiaro che le stragi non sono il linguaggio della mafia. La mafia uccide. Il Velabro, i Georgofili uomini come Riina non sanno neppure cosa siano. Un'altra mano, dal '69 in poi, c'è stata dappertutto. Perché la banda della Magliana compie il depistaggio del lago della Duchessa, perché rapisce Emanuela Orlandi, perché il suo capo è sepolto a Sant'Apollinare? Quando Grasso parla di "entità" non indica la Spectre ma un sistema di interessi che si coagula di volta in volta. Per me non vale solo per la mafia. È stato così per piazza Fontana, nel '78 con Moro. Qualcuno ha eseguito ma ci hanno messo le mani in molti. Nel libro di Flamigni dedicato a via Gradoli c'è una sorta di outlet del terrorismo: sul pianerottolo nell'appartamento di fronte a quello di Moretti e Balzarani il cognome sul campanello era Mokbel. La storia di questi anni è così. Che fine hanno fatto l'agenda rossa di Borsellino? Quella di Ilaria Alpi? Gli appunti di Cassarà, il file del computer di Falcone, la videocassetta di Rostagno? Ecco. Siamo forse oggi in condizione di arrivare a dirsi qualcosa che non si poteva dire prima. D'altronde la storia non è fatta della fretta bulimica dei giorni né dei mesi, è fatta di fasi. È arrivato il momento della verità ed è questo il tempo in cui chi sa ha il dovere di parlare: lo faccia. Il nostro paese ha diritto alla verità sulla sua storia».

A chi si rivolge?
«Ci sono molti testimoni viventi che hanno avuto in quegli anni responsabilità istituzionali e politiche. C'è stata per molto tempo una strategia destabilizzante. Guardiamo agli eventi di quei due anni. La mafia ha colpito prima i suoi referenti politici colpevoli di non aver ammorbidito la sentenza del maxiprocesso. Falcone, a Roma, stava arrivando al cuore del sistema finanziario e politico mafioso, è stato ucciso quando è stato lasciato solo. Poi la trattativa con l'Antistato - lo Stato non può trattare con la mafia. Non va a buon fine o Borsellino si oppone. Poi le stragi del ’93-’94, appena formato il governo Ciampi. Bisognava intervenire sull'esito della vita politica nazionale. L'alternativa è che fosse in corso un'altra trattativa. Oggi sappiamo che anche l'attentato all'Addaura non è andato come hanno voluto far credere. Agostino e Piazza, due agenti, sono stati uccisi in circostanze misteriose. Falcone diceva “menti raffinatissime”, e non penso si riferisse a Riina. Abbiamo avuto il nemico in casa, annidato dentro lo Stato. Siamo vicini, sì, a conoscere la verità ma è importante proprio per questo, proprio adesso il messaggio politico che si manda. La frase su Mangano non può essere dimenticata».

"Un eroe", per Berlusconi e Dell'Utri.
«Un uomo che ne ha sciolto un altro nell'acido, condannato a più ergastoli. Un segnale precisissimo, quella frase. Mi fa piacere che oggi se ne accorgano anche altri ma meglio sarebbe stato forse dirlo prima. Due anni fa per esempio, quando gli italiani andavano a votare: sarebbe stato bello sentirlo dire allora. No, Mangano non è un eroe».

22 luglio 2010
http://www.unita.it/news/italia/101526/veltroni_le_stragi_volute_dallantistato_ma_la_verit_vicina
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« Risposta #49 inserito:: Luglio 25, 2010, 09:24:23 pm »

Giovani a scuola di politica fra caso Vendola e realtà

di Concita De Gregorio

Dice Nichi Vendola, in procinto di partire per Bertinoro dove stasera - alla scuola «Democratica» - parlerà di religione, che «nella grande area del Pd» sente «una forte onda emotiva». Vendola parla così, è anche per questo che piace molto a chi ha meno di trent’anni e poco o pochissimo a chi ne ha parecchi di più. Non è solo un fatto anagrafico, naturalmente. Scarta sempre di lato, o avanti: va su un altro piano. Gli domandi cosa pensi della reazione dei leader del centro sinistra alla sua candidatura alla guida della coalizione - la gamma va da dispetto a ostilità passando per prudenza - e risponde che sente una forte onda emotiva. Non si riferisce ai vertici, evidentemente. Parla delle persone che incontra. Dice che c’è «molta passione» fra i ragazzi. Gli domandi se non sia stata prematura, la sua candidatura, visto che le primarie non sono proprio alle porte e considerato che il risultato ottenuto è stato per ora di farsi attaccare da destra e da sinistra e risponde che «la forza del centrodestra sta nella debolezza del centrosinistra». E’ lì che c’è da fare, a saldare i pezzi della sinistra. D’altra parte «i massacri mediatici organizzati scientificamente dal centrodestra, che mette in campo pool di persone e di giornali che attraverso collaborazionisti sul territorio - fabbricanti di falsi dossier, li sappiamo all’opera - cercano di demolirti, sono momenti di crescita». Momenti di crescita, li definisce: rafforzano.

Esiste un caso-Vendola, a sinistra. Tutti ne parlano. Di Pietro gli ha dato lo stop, certamente pensando alla possibile erosione del suo bacino elettorale e probabilmente alla sua stessa più che probabile candidatura. Con D’Alema è un dialogo per così dire difficile da antica data, le vicende delle primarie pugliesi non hanno aiutato. Bersani è il segretario in carica e si capisce che si irriti se qualcuno si alza e dice: corro anch’io. Del resto non c’è neppure la pista, al momento, e i problemi del paese effettivamente sono altri. Basta sfogliare le cronache. Veltroni lo ha invitato a Bertinoro e allora ecco che subito riparte la ridda dei sospetti: nuove alleanze, nuove strategie per rimescolare le carte a sinistra? Pippo Civati, in campeggio coi giovani democratici in Emilia, lo ha elogiato dopo un incontro alle Fabbriche e ora parla di «generosità in politica»: è stato iscritto d’ufficio tra i neovendoliani. Le cose non stanno così, le cose - fuori dai palazzi romani - non stanno mai come le racconta chi è schiavo dell’antica logica del nemico interno: la logica per la quale è sempre più urgente annientare il presunto rivale domestico anzichè mettere insieme le forze per sconfiggere chi occupa disastrosamente l’altra metà campo. Anche i giornali, con le semplificazioni derbistiche, non aiutano - lamenta Civati.

Proviamo a vedere cosa sta succedendo in questi giorni. Alcune centinaia di giovani appassionati di politica anzichè andare in vacanza hanno deciso di spendere qualche soldo e molto tempo a pensare il futuro. Succede nel Pd. C’è la scuola di Democratica a Bertinoro, di cui Veltroni va fiero, dove centinaia di ragazzi (non tutti Pd, ce ne sono di Sinistra e Libertà, dell’Idv, cattolici e radicali) parlano in queste ore di diritti e religioni.

«I ragazzi si appassionano ai grandi temi del presente, più difficilmente alle correnti di partito. Chiedono unità e visione. Hanno la passione che serve per dare nuove risposte. L’investimento da fare è questo», diceva Veltroni alla vigilia del seminario. Pippo Civati, in campeggio a pochi chilometri da lì con altre centinaia di giovani: «Detesto le logiche di quelli che a tavolino traggono conclusioni tipo ‘due scuole vicine dunque rivali’, non c’è nessuna conflittualità, ce ne dovrebbero essere cento in tutta Italia di iniziative così e decine ce ne sono: in Lombardia, in Sardegna, al Sud. Detesto quelli che se dico che Vendola ci offre una grande occasione di confronto mi additano come il traditore: non abbiamo bisogno di duelli ma di condivisione, la felicità non esiste se non è condivisa, anche la politica funziona così. Il nostro motto qui al campeggio è: alla pari. Non chiediamo la provenienza di nessuno, chiediamo ai ragazzi di mettersi a disposizione. Solo con la generosità potremo sonfiggere il berlusconismo: solo offrendo la proposta di un modello positivo, diverso dalle battaglie di potere, un modello in cui le persone sappiano e vogliano collaborare. Questo chiedono i giovani che vedete qui». Questo dicono anche i venti-trentenni di diverse provenienze che Francesca Fornario ha chiamato a collaborare in un gruppo di lavoro sui temi concreti: la bioetica, i diritti, il lavoro, lo sviluppo sostenibile, le energie, lo studio. Ne abbiamo sentiti alcuni, trovate le loro parole in queste pagine: militano nel Pd e nell’Idv, nel movimento Cinque stelle e in Sinistra e libertà. Si trovano a fare volantinaggio insieme. Lavorano ad iniziative comuni. Non hanno nessun interesse alla battaglia per la leadership per le primarie: certamente non adesso. «Continuare a combattere tra di noi è l’unico modo sicuro per far restare Berlusconi al potere a vita», dice uno di loro. Troppo semplice? Ingenuo? Pensateci. Mettetevi nei panni degli elettori, anche, non è difficile, ciascuno di noi lo è.

La «bella politica», abbiamo sentito nelle scuole e nei campeggi in questi giorni, è quella che sarà capace di fare “Punto e a capo” con le cricche, le P2 e le P3 - giusto ieri il Pd ha chiesto una commissione d’inchiesta, questo giornale vi parla di P2 da mesi, direi da sempre. E’ quella capace di voltare pagina e di superare le logiche di condominio di chi per far dispetto al vicino demolisce le scale di casa.

<CS9.5>Luigi De Magistris, Idv, sta preparando con Vendola un’iniziativa nel Nord Italia che, dice il governatore pugliese, ha bisogno di «essere scaldato». Sono stati insieme a Roma, all’Eliseo, poi a Napoli alla città della Scienza. «Era dai tempi del primo Bassolino che non vedevo una folla così, ma questa di precari, lavoratori, studenti, non solo intellettuali e buona borghesia, non solo quadri di partito». Anche lui neo-vendoliano, in rotta con Di Pietro? «Ma per favore, smettiamola. Smettetela anche voi giornalisti. Va bene, forse la candidatura di Vendola è stata prematura. Forse ha avuto fretta e non ce n’era. Ma proviamo a metterla così: guardiamo ai contenuti, pensiamo alla squadra. La gente ci chiede unità. L’altro ieri ero a un dibattito con esponenti della Fiom, con Marino, con Ferrero. La sala era colma. Mi hanno invitato alla festa dell’Unità di Pesaro, sto partendo. E’ una fase delicata: parliamoci, io parlo ogni giorno col Pd, con Sel, con tutti quelli disposti a lavorare ad un progetto. Non facciamo gli stessi errori di sempre, gli elettori questa volta non ce lo perdonerebbero. Proponiamo nei fatti un modo di fare politica diverso».

Apro il blog di Civati: «Ho chiesto e ripetuto - anche a Bari, Vendola presente - di evitare questo clima da spareggio, che non è utile a nessuno. La candidatura di Vendola fa bene al centrosinistra. Non ho mai escluso che possano essercene altre, però. Né che la ricerca del candidato si esaurisca ora. Mi auguro che il confronto avvenga sull'idea di "Paese" e non sull'idea di "cordata". E che non ci siano "reazioni" da parte di nessuno, ma "azioni" da parte di tutti». Apro quello di Vendola, parla di Fiat: «Siamo di fronte a scelte che mettono in discussione la credibilità del piano industriale della Fiat e del suo management. Tutto questo mentre siamo di fronte alla vera emergenza nazionale dell'Italia: la perdita ogni giorno di migliaia di posti di lavoro, il quotidiano passaggio di migliaia di famiglie da una vita dignitosa alla povertà».

24 luglio 2010
http://www.unita.it/news/italia/101653/giovani_a_scuola_di_politica_fra_caso_vendola_e_realt
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« Risposta #50 inserito:: Luglio 30, 2010, 06:05:06 pm »

29/07/2010 21:55


Le domande semplici

Un giorno o l'altro bisognerà riraccontare tutta questa storia da capo, nella giusta prospettiva, facendo le domande che servono a capire senza lasciarsi distrarre.

Senza lasciarsi distrarre dai professionisti della disinformazione che tendono sempre lo stesso tranello, arrivano al momento giusto con il solo scopo di distogliere l'attenzione dal cuore del problema. Usano armi di distrazione di massa, la sparano il più grossa possibile, mentono senza scrupoli, sanno di poter contare su una soglia di attenzione bassissima: la gente non ne può più, chi sa sa e chi non sa non ha interesse a sapere, resta impressa l'ultima battuta, lo slogan più efficace, l'accusa più greve o maliziosa. Cosa avrà voluto dire? Mah, vai a sapere. Tanto sono tutti uguali, il più pulito ha la rogna. Ecco, questo è quel che si dice il giorno dopo al caffè del mattino, prima di passare alle svago di giornata. La cocaina e le ragazze. Belen. Le coatte di Ostia. Una doccetta. Un calippo.

Così di nuovo, ancora all'infinito. Mentre il Pdl si sfarina in un clima di congiure e di complotti, coi giornali di famiglia del Cavaliere impegnati a cercare nelle vite private dei "nemici" la pagliuzza che faccia dimenticare le travi in casa propria, ecco che anche Denis Verdini, il "toscanaccio simpatico" diventa un martire, vittima di una campagna ostile, ecco che in suo soccorso si schierano i dipendenti e gli amici mettendo sul piatto, se occorre, reputazioni costruite negli anni in difesa di un garantismo a senso unico.
Le domande fondamentali, quelle semplici, le fanno solo alcuni magistrati e pochissimi giornalisti subito oggetto della successiva aggressione, è il caso di Claudia Fusani.
Questa del Credito cooperativo fiorentino, dell'irresistibile ascesa di Verdini, dei suoi rapporti con Carboni è semplicemente una questione di soldi, e di soldi bisognerebbe parlare. Com'è che una piccola banca di provincia diventa cruciale nel sistema di potere che sta al centro della rete di affari e di appalti mossi dalla cricca? Com'è che un politico di quarta fila scala in pochi anni i vertici di un partito fino a diventarne custode delle chiavi e crocevia delle trame? Com'è che Flavio Carboni, faccendiere di lungo corso con base in Sardegna, finanzia di sua tasca un giornale locale toscano di scarsa fortuna, di proprietà del piccolo banchiere oggi grand commis di partito di nome Verdini? Avete mai provato, voi, ad incassare - negoziare, trasferire, compiere una qualsiasi operazione - un assegno firmato da un prestanome di chi versa il denaro ed intestato ad altri da chi lo riceve? - fate la prova nella vostra filiale di fiducia.

Intorno alla piccola banca di Verdini ruota una rete di affari, di relazioni e di ricatti che sono solo parzialmente emersi dalle intercettazioni che ora Berlusconi e i garantisti beneficiari di quei soldi vorrebbero eliminare come strumento d'indagine. È una storia di denaro, dalla quale bisogna distrarre l'attenzione. Così come nessuno si è più chiesto quali fossero i reali rapporti tra Berlusconi ed Elio Letizia, il cui nome riaffiora dalle quindicimila pagine dell'inchiesta sulla P3. Noemi è venuta dopo, anche anagraficamente. Per avere risposte alle domande semplici bisogna prima di tutto farle, poi non avere paura delle aggressioni che seguono se tocchi il nervo scoperto di Cesare.

Che non sono le donne nè la politica ma gli affari, fin dal principio sono i soldi ed il modo più veloce per farli.

http://concita.blog.unita.it//Le_domande_semplici_1453.shtml
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« Risposta #51 inserito:: Agosto 06, 2010, 05:49:53 pm »

Finocchiaro: «Un patto per la Repubblica»

di Concita De Gregorio


Lo stallo. La palude. Anna Finocchiaro vede il rischio di un pantano politico da cui più passa il tempo più sarà difficile uscire, più passa il tempo più grande sarà il senso di scoramento dei cittadini esausti. Da qui parte la rotta che prova a tracciare, e che tocca tutti i nodi sul tappeto. Il voto e il governo tecnico, le alleanze, Fini e Nichi Vendola, il Terzo polo, la sinistra, le primarie. La disillusione degli elettori, prima di tutto.

«Cominciamo da questo. Sento forte il pericolo che anche nel nostro popolo si diffonda lo smarrimento. Vorrei dire con molta chiarezza: non siamo nelle condizioni di nutrire scoramento né smarrimento. Siamo a una svolta che porta buone notizie. Si chiude oggi, più rapidamente del previsto, una fase della vita politica segnata da un attacco senza precedenti alle forme del vivere democratico. Illegalità, furberie, pratiche illecite come sistema: è questo che entra in crisi. Immondizia da spazzare via».

Con il voto? Il Pd è pronto al voto o lo teme?
«Un partito è pronto alle elezioni per definizione. Abbiamo un segretario eletto da poco con milioni di voti, 320 fra deputati e senatori, migliaia e migliaia di quadri e amministratori.
Un popolo che è pronto a mobilitarsi solo che lo si chiami. Sul terreno delle alleanze abbiamo una crisi di abbondanza: siamo il secondo partito del paese, il primo di opposizione. Poi, aggiungo però: vogliamo andare a votare con una legge elettorale che priva i cittadini della possibilità di scegliere gli eletti? Io dico di no. Fare una nuova legge elettorale è una responsabilità da assumersi di fronte al Paese, non una scusa per evitare il voto».

Dunque serve un governo di servizio che faccia la riforma elettorale, lei dice.
«Sarebbe opportuno, sì, ma non è questione che stia nelle nostre mani. La scelta è nelle mani del presidente della Repubblica, sempre che si verifichino alcune condizioni.
Per prima cosa Berlusconi si deve dimettere. Il premier agirà come ha sempre fatto: per il suo interesse. Gli conviene avere un parlamento fatto di signorsì, la democrazia non lo interessa, direi che sovente lo infastidisce. Se dovesse temere un logoramento, visto lo stato, potrebbe rimettere il mandato. A quel punto toccherà al presidente della Repubblica agire con il senso di responsabilità che ha esercitato in questi anni. Certo una delle questioni centrali per sbloccare la perdita di rappresentanza nel rapporto fra elettori ed eletti è proprio la legge elettorale. Se si dovesse andare ad un ‘governo del presidente’, io preferisco chiamarlo così, l'opposizione dovrà decidere se sostenerlo».

Crede davvero che la Lega voglia una nuova legge elettorale? Sono molti coloro ai quali conviene tenere questa.
«Non all'Italia. La Lega vuole un sistema dove i cittadini chiedano conto direttamente agli amministratori. Questo deve valere oltre che a livello locale anche sul piano nazionale, se c'è coerenza. Bossi pure farà quello che gli conviene. Vuole ottenere il federalismo fiscale, ha sopportato nell'attesa l'oltraggio di sostenere il governo degli affari di quella che chiamava la Roma ladrona. Anche i suoi elettori posso perdere la pazienza».

Torniamo al governo del presidente. Si parla di Tremonti. Non crede che se il Pd lo appoggiasse potrebbe alienarsi una quota del suo elettorato?
«La discussione sui nomi è surreale. L'incarico lo dà il presidente della Repubblica. Un governo tecnico ha un mandato circoscritto: non deve governare, deve fare una cosa.
Sarebbe difficile anche per me dal punto di vista simbolico e politico accettare un eventuale governo che non segni discontinuità col passato, ma bisognerebbe per una volta non pensare alle convenienze di partito: dovremmo pensare a quel che serve per voltare pagina. Misurerei le scelte non sulla cabala dei nomi ma sulle esigenze dell'Italia».

Quale legge elettorale, eventualmente? Lei crede che la Triplice, l'alleanza tra Fini Casini e Rutelli, segni la fine del bipolarismo?
«Lo si vedrà col tempo. E', questo, un centro dove Casini sta nel solco della tradizione, Rutelli si approssima all'Udc. Fini è piuttosto l'uomo di quella destra liberale che l'Italia non aveva. Prima di pensare al numero di poli chiederei piuttosto, subito, un'alleanza per la Repubblica. Chiamiamo forte all'appello tutti coloro che sono fedeli ai principi della Costituzione. Prendiamo noi l'iniziativa. Sulla libertà di stampa, sul diritto di sciopero, sulla difesa delle istituzioni e della magistratura: abbiamo scherzato? Se è questo che vogliamo difendere allora vediamo chi è disposto a dire: chiunque vinca questi principi non si toccano».

Potrebbe essere un elenco che va da Fini a Beppe Grillo. Anche Grillo sostiene la necessità di un governo tecnico, ha sentito.
«C'è molta confusione sotto il sole. Proviamo a vedere chi è davvero pronto a sottoscrivere un patto per la Repubblica. Fini sono convinta che lo farebbe, Di Pietro se smette gli abiti del caudillo che attacca il Capo dello stato, Vendola certamente, e i movimenti».

Vendola si è candidato alle primarie. El País oggi scrive che è l'unico in grado di sconfiggere Berlusconi. Anche lei come D'Alema non lo voterebbe?
«Le primarie si fanno se si fa una coalizione. Se si decide, sulla base di un programma, di fare un’alleanza che si presenti al voto allora si parla di primarie. Altrimenti, di nuovo, è un dibattito surreale. Non siamo a questo. Siamo al punto in cui chi davvero sente il dovere di evitare che Berlusconi torni a governare deve trovare la via efficace per ottenerlo.
Il resto è demagogia, un danno che alimentando chiacchiere ci facciamo da soli. Cerchiamo piuttosto di sottrarci al rischio che la difesa dei principi democratici diventi una clausola di stile. Contiamoci su questo: chi sta dalla parte delle regole che servono al Paese. Cominciamo a farlo subito, nei dibattiti in tutta Italia, nelle feste dell'Unità, in ogni luogo».

C'è anche il tema del rinnovamento della classe dirigente, molto sentito dagli elettori.
«Certo, e c'è prima ancora il tema delle prospettive che vogliamo dare ai giovani di questo paese, che siano dirigenti o non lo siano. Per rinnovare non basta mettere cinque quarantenni in lista. Bisogna fare leggi che favoriscano l'accesso al lavoro e alla vita attiva dei ragazzi. Il primo punto del programma sia questo».

06 agosto 2010
http://www.unita.it/news/italia/102129/finocchiaro_un_patto_per_la_repubblica
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« Risposta #52 inserito:: Agosto 27, 2010, 08:55:10 pm »

26/08/2010 22:34

Le primarie nei collegi

Penso, e in questo credo di somigliare a una moltitudine di persone che ancora guardano all'opposizione politica con qualche speranza, che la gara ad azzopparsi reciprocamente dei leader politici che l'opposizione incarnano sia la principale causa di disaffezione, in qualche caso di disgusto, comunque di insofferenza da parte di chi guarda. Credo che sia una delle principali ragioni dell'astensionismo di sinistra: la delusione che nasce quando alla richiesta di unità (ricordate le invocazioni di piazza delle ultime piazze popolate da milioni?) si risponde con la replica di protagonismi rivendicativi che affondano radici in anni remoti, gli anni della giovinezza di coloro che dalla competizione personale e dal desiderio di rivincita non sanno liberarsi, anni in cui molti di noi non erano nati, le torri gemelle erano lì, la cinquecento non era la replica ma l'originale, il vaccino antipolio lasciava il segno sul braccio e in tv davano Sandokan.

Penso che da questo senso di saturazione a volte rabbiosa salga l'invocazione unanime di rinnovamento della classe dirigente - il «tutti a casa» dei commenti che gli elettori lasciano nelle nostre caselle di posta e nei blog, che le persone in carne ed ossa ti dicono stringendoti un braccio per strada, che ingrossa le fila dei popoli viola e dei grillini, che offre il terreno ad una nuova area politica che si nutre e cresce sul disprezzo di una "certa" sedicente sinistra, quella degli accordi sottobanco e dei pizzini rivendicando per sé verginità, purezza di intenti, libertà intellettuale, durezza nello scontro con il Caimano e con il caimanesimo, lo spirito rapace e corrotto di questi anni. Di questo - del rinnovamento - dirò qualcosa tra un attimo, condividendone la necessità: qualcosa che non sia una protesta ma una proposta.

Lasciatemi prima però fare due sole osservazioni. La prima: si vince non sulla base delle alleanze ma su un programma. Molto semplicemente: vorremmo tutti sapere per che cosa si lavorerà un minuto dopo aver, eventualmente, vinto. Lo scriviamo da mesi, da mesi facciamo l'elenco dei bisogni: voglio qui ricordare solo un punto. Non sarà più democratica una società che dia due soldi in più di sussidio a chi ha bisogno, lo sarà quella che abbia una scuola migliore. Una società della conoscenza, sapiente e realmente solidale, dove partiti e sindacati sappiano tutelare con la stessa forza gli occupati e i pensionati che costituiscono il loro corpo elettorale e gli inoccupati, i precari, i disoccupati e i lavoratori flessibili che non sono (più? Ancora?) né loro iscritti né elettori e che si avviano ad essere, se non lo sono già, la maggioranza del paese.

La seconda: non vedo differenze sostanziali tra la proposta di Bersani, quella di Franceschini, di Veltroni, di Zingaretti e di Rosi Bindi. Nei tempi, forse. Nel modo di presentare un progetto. Tutti dicono, mi pare: uniamoci, uniamo tutte le forze di opposizione di centro sinistra. Potrebbe essere sufficiente. Se non lo fosse allora stringiamo alleanze elettorali con chi può garantire la sconfitta del Caimano. Più avanti, questo. Vedremo.

La proposta, infine. C'è davvero bisogno di un rinnovamento della classe dirigente. Davvero questa generazione politica non ha saputo né voluto dare voce ai suoi fratelli minori, ai suoi figli. Li ha soppressi sul nascere, spesso, o li ha usati a fini di propaganda elettorale. Allora. Se andremo a votare con questa legge elettorale - sempre che la paura di votare di Berlusconi lo consenta - poiché è una legge, questa, che dà ai partiti la facoltà di nominare gli eletti (la sottrae agli elettori, certo. E ai partiti, a tutti i partiti, in fondo fa comodo) facciamo le primarie in ogni circoscrizione perché siano i cittadini a dire chi vogliono in lista. Ribaltiamo nei fatti la logica aberrante dell'imposizione dall'alto, antidemocratica. Siate voi, siamo noi a scegliere chi deve essere candidato, si presentino le liste in ordine gerarchico in base ai risultati ottenuti dal voto: risulteranno eletti coloro che sono stati preferiti dalla base elettorale. Se la base vuole il rinnovamento lo avremo.

È possibile, in qualche caso - a livello locale - lo si è fatto. Diciamolo subito: se si va ad elezioni sarete voi a scegliere i candidati. Posso sbagliare, ma sarà un banco di prova: per gli elettori soprattutto. Li chiameremo a decidere, conteremo quelli che davvero vogliono sconfiggere il caimano, isoleremo quelli che agitano le acque contro il nemico presunto nella stessa metà campo senza mai ricordare - in buona o cattiva fede - l'avversario qual è.

http://concita.blog.unita.it//Le_primarie_nei_collegi_1533.shtml
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« Risposta #53 inserito:: Settembre 20, 2010, 09:38:23 am »

18/09/2010 21:58

Le vanita' inessenziali

Alfredo Reichlin, 85 anni, condivide lo stato d'animo dei più giovani e appassionati tra i nostri lettori i quali - una moltitudine - ci hanno scritto negli ultimi due giorni per chiedere, direbbe Benigni in altri termini, "cosa diavolo sta succedendo" e soprattutto perchè. Reichlin si dice "sorpreso, preoccupato, allibito". Chiede "su cosa ci dividiamo? Sulle ambizioni personali?". Quindi ci consegna una lunga riflessione, che trovate integrale nel giornale on line.
 

Inizia così: «Siamo entrati in una fase politica nuova e molto delicata che può riaprire la strada a una svolta democratica, ma può spingere le forze più reazionarie all'avventura. E' in gioco la speranza che l'Italia resti una repubblica unita e una democrazia parlamentare mentre, dal fondo limaccioso del Paese, tornano a emergere tentazioni di tipo peronista. Io non so come andrà a finire. So, però, che è troppo grande lo scarto tra i rischi di disgregazione della compagine italiana e la debolezza della politica... Pesa non poco la vanità e l'inconcludenza di tanta parte delle polemiche che lacerano la sinistra».

La vanità e l'inconcludenza. Nemmeno io so come andrà a finire: se l'Italia resterà una repubblica unita e democratica o se la cricca dei corruttori e la "maggioranza sonnambula" di cui parla oggi Goffredo Fofi la consegnerà a un destino di melmosa tirannica decadenza dalla quale, in altri tempi, solo una guerra avrebbe potuto riscattarla. So però che se questo accadesse - se davvero ancora una volta non trovassimo un antidoto al grande banchetto finale così chiaramente annunciato - gran parte della responsabilità sarebbe di quella vanità e di quell'inconcludenza. Della sinistra, in una parola. Dell'opposizione che di fronte a un momento che la storia - quella scritta sui libri - definirà in forma postuma cruciale e decisivo, non ha saputo far meglio che consumare fino in fondo i suoi privati rancori, i suoi risentimenti. Vengo da due giorni trascorsi in Emilia. Teatri, piazze, persone. Volti e mani di gente che racconta storie di vita: la scuola a pezzi, la distruzione del sapere, il lavoro soggetto a ricatti, miserie e tragedie quotidiane, inciviltà di ritorno persino nei rapporti familiari, fra generazioni e fra generi, fra persone. La soglia di pericolo è tangibile. L'Italia sta cambiando, è cambiata già.

La pazienza è finita, l'esasperazione è cresciuta, la tensione è sul punto di esplodere. Fra chi ancora reagisce, certo. La maggioranza sonnambula è già in sonno da molto: il risultato di un lavoro certosino dei maestri dell'ipnosi. C'è anche però un residuo di speranza. C'è, si sente: si vede negli occhi di chi si avvicina e chiede "che possiamo fare?". E' a queste persone che bisogna rispondere: farlo adesso. Leggete i nostri servizi sulla scuola: i nuovi schiavi pronti a lavorare gratis nelle private pur di avere punteggio, i maestri delle elementari soppresse che fanno lezione a casa. Qual è il punto, nello scontro a sinistra? Davvero le candidature alle prossime politiche, i criteri con cui saranno scelti gli eletti?

E allora vedete quanto la nostra proposta di farli scegliere ai cittadini, i candidati, il nostro suggerimento per le primarie di collegio tocchi il nervo scoperto? Coraggio. Ritrovate la voce. E' questo il momento di dire basta. Non saranno i giornali e nemmeno le tv a cambiare il corso delle cose: se ne sarete capaci, sarete voi.

http://concita.blog.unita.it//Le_vanita__inessenziali_1582.shtml
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« Risposta #54 inserito:: Febbraio 02, 2011, 05:06:29 pm »

Minuscole maiuscole

di Concita De Gregorio


Tra i milioni di giovani italiani senza Papi in paradiso - siano tri bi o monolingua, diplomati o laureati, maschi o femmine, di bella o chirurgicamente migliorabile presenza - uno su tre è senza lavoro. Chi non gode dei favori del generoso leader, il quale se non tocca con mano non eroga denari, è destinato ad un ingiusto avvenire di stenti. Nessuna politica di governo, difatti, si occupa della moltitudine di giovani di bel talento e scarsa fortuna. Il governo si occupa semmai personalmente di aiutare quanti, fra costoro, accedano personalmente in villa: meglio se disponibili a slacciare il reggiseno, terza misura minimo. Una gestione politica figlia di uno stile di vita spacciato come “vincente” nel corso del recente ventennio. Fai carriera se ti scelgono e se sei disponibile, servile, cortigiano. Ne consegue il Paese che abbiamo attorno, del quale ecco di seguito alcuni fotogrammi di giornata in ordine sparso - politica, sesso e mercato, fa lo stesso, son sinonimi. Luca Barbareschi fra la spola fra Berlusconi e Fini i cerca del miglior offerente. Le famiglie italiane si indebitano per fare il seno nuovo alle figlie, se c’è da spendere spendiamo bell’a’papà. La mamma di Noemi Letizia, antenata di tutte le minorenni di Arcore, incassa denaro dal ragionier Spinelli agente pagatore di Silvio B. detto “Spin” dalle ragazze del condominio Olgettina. Spin è anche il presidente della società editrice del Foglio di Ferrara, neoeditorialista di Sallusti che invece dirige in condomino (metaforico, questo) con Daniela Santanchè il Giornale con la G maiuscola, per cui quando esce la notizia poi smentita che il Cav ha dato incarico a Santanchè medesima di armare le piazze e Ferrara commenta che Silvio B. “ha problemi con lo Spin” tutti pensano alla maiuscola, invece è minuscola: spin nel senso di agenda del presidente, ce l’ha con Bonaiuti. Presto sugli schermi un nuovo gioco a premi, “Il contratto”: un’azienda mette in palio un posto di lavoro i concorrenti si sbranano in tv in una gara di sottomissione. In un liceo di Napoli gara di fellatio in classe fra sedicenni ripresa dai compagni fra le risate collettive, per la serie che male c’è, le gare di sesso orale a ricreazione in bagno sono molto in voga come gli affranti insegnanti sanno. Un parlamentare del Pdl sorpreso a cercare puttane sul catalogo nell’Ipad durante il voto di sfiducia a Bondi, è Simeone di Cagno Abbrescia, si giustifica dicendo che “il dibattito non era emozionante”. Aperto un fascicolo su Frattini, che ha chiesto carte a Santa Lucia senza che nessuno (Nessuno, con la maiuscola) glielo avesse chiesto. Aperta indagine anche sulla fuga di notizie dal Csm, che uno penserebbe essere un posto sicuro non fosse che è popolato da persone come Matteo Brigandì. (Solidarietà alla collega del Giornale perquisita, se uno lavora al Giornale del resto sa come funziona, le carte o i nastri arrivano sovente direttamente dall’editore. A rifiutarsi si rischia di finire tra i concorrenti del nuovo reality). Non sappiamo se sia stato Brigandì a passare al Giornale le carte su una vicenda (archiviata) di trent’anni fa che riguarda Ilda Boccassini, che non era e non è presidente del Consiglio: sappiamo che lui, membro laico del Csm, le aveva chieste in visione una settimana prima. Brigandì, il leghista che commentò l’elezione di Scognamiglio al Senato con «È stato meglio di una scopata», da quando è al Csm ha fatto aprire una pratica per incompatibilità ambientale contro due magistrati torinesi che si sono occupati di lui in altrettanti processi (una condanna in primo grado per una storia di assegni familiari e una in appello per diffamazione). In caso di condanna definitiva decadrebbe dal Csm. Forse però. Non è detto. Potrebbe sempre cambiare la legge, minuscola.

da - concita.blog.unita.it
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« Risposta #55 inserito:: Febbraio 06, 2011, 04:41:18 pm »

Le parole e la paura

di Concita De Gregorio


Un soffio costante di vento. Un passaparola tra persone di carne, non il megafono della tv, ha convocato questa gente qui. Una manifestazione di cui nessuno, se non chi l’ha voluta e sostenuta, ha mai parlato. Nessuna televisione, i quotidiani nazionali – gli altri – da ultimo e per forza, giusto ieri una colonna. Eppure a mezzogiorno del primo giorno di sole, ieri, a Milano la metro era colma. Ragazze, moltissime. Famiglie. Coppie. Gente tranquilla, ridente, quieta. Alle due, un’ora prima della manifestazione, il Palasharp era pieno. Diecimila persone sedute. Moltissime altre, arrivate dopo, sono rimaste fuori. Non ho mai visto, in tanti anni di cronaca politica, una riunione così imponente di persone così poco rumorose. Applausi tanti, certo. Ma niente cori, nessuna canzoncina, niente insegne di nessun genere tranne qualche vessillo tricolore. Qualche cartello scritto a penna, portato da casa. Un silenzio, durante gli interventi, unanime e all’unisono. Il silenzio di chi ascolta. Era talmente avvertita, misurata, critica e attenta, la gente in sala, che questa volta l’incredibile comunicato congiunto scandito a memoria dai Cicchitto, Capezzone e varii altri valvassori che urlano sono «fascisti di sinistra, vogliono piazzale Loreto» risulta proprio fuori misura, come un vestito da sera al mare, precotto e non adatto all’occasione.

Hanno preparato una risposta standard per qualcosa che immaginavano fosse come l’avrebbero fatta loro. Invece non era così. Hanno sbagliato, ancora una volta non hanno ascoltato. Se urlano così forte, del resto, vuol dire che hanno paura: questa volta hanno paura. Lo stesso capo in testa ce l’ha: non bisogna dal loro credito, ha detto. E poi ha dato disposizione al suo intermittente spin doctor di scatenare Il Foglio contro la manifestazione del 13. Anche quella si sente crescere e lo innervosisce parecchio. Perciò hanno dato mandato ai loro scriba di far passare la cosa come un’assemblea di moraliste che ce l’hanno con le prostitute. Di nuovo: non hanno ascoltato, non hanno letto, non hanno seguito. Ma non da ieri: da anni.

Potrebbero fare qualche ricerca d’archivio, o anche sfogliare gli editoriali e gli articoli recenti. Se ne guardano bene. Non è il dialogo né il confronto il loro obiettivo. È cercare e trovare lo slogan più efficace per demonizzare l’avversario e fare in modo che non sia ascoltato per principio, a priori e a prescindere. Temono più di ogni altra cosa la parola che porta il pensiero. È questo che li innervosisce. La possibilità che la parola, col tam tam, dilaghi sebbene fuori dal loro controllo. Proprio di questo, che è quel che avevamo scritto ieri qui e abbiamo ripetuto al Palasharp, hanno parlato tutti, ieri pomeriggio, con una misteriosa ed eloquente convergenza di pensiero. Bisogna invece ridare senso e dignità alle parole, ripartire dall’ascolto.

Di questo hanno parlato Eco Saviano e Salvatore Veca, «l’uso sapiente e responsabile delle parole», la capacità di ascoltare e farsi sentire, il ponte con l’altra metà del paese. Sandra Bonsanti, una ragazza di settant’anni, ha dato la parola a Giovanni Farizzo, un ragazzino di 13. Le figlie di Biagi hanno letto parole del padre insieme sul palco.

Milva, indomita, accanto a Irene Grandi, 50 anni di musica in mezzo. Susanna Camusso, sindacalista, ha spiegato che in tutto il paese, non solo ad Arcore, c’è qualche serio problema rispetto alla sessualità. Logiche da bar, da barzelletta al potere, ha concluso idealmente il suo discorso Lorella Zanardo, manager. Saviano ha parlato a braccio, a lungo, come se fosse a casa davanti a pochi amici. Paul Ginsborg da casa a Firenze, si sentiva il sorriso. Scalfaro in video, esortava le donne. Eco a Marcegaglia: io vado a letto tardi, signora, ma è perché leggo Kant. Molta ironia nelle parole serissime di Zagrebelsky, molto vigore in quelle del maestro Pollini così poco abituato all’oratoria pubblica. Ci vediamo il 13, dicevano tutti alla fine. E sì, ci vediamo in piazza il 13: faranno il diavolo a quattro, i servi del padrone, vedrete. È normale. Tranquilli. È solo che hanno paura. Lui ha paura, e loro – che sono utensili – fanno grancassa.

5 febbraio 2011
da unita.it - concita.blog.unita.it/le-parole-e-la-paura
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« Risposta #56 inserito:: Marzo 27, 2011, 06:33:14 pm »


La giusta lezione

di Concita De Gregorio

«La maestra ha detto che ci sono i musei aperti stanotte, bisogna andare a vedere. Ha detto che abbiamo tutti 150 anni, anche io». Erano le undici di sera quando il piccolo di casa, che ci aspettava svegli, ci ha accolti al rientro con queste parole. Aveva messo la giacca e il papillon con l'elastico, pronto per uscire. Si sono rivestiti anche gli altri, siamo usciti tutti. A mezzanotte i fuochi d'artificio sul Tevere, gente sotto la pioggia come fosse mattina. All'una, ai musei Capitolini, coda all'ingresso per andare a vedere il Marco Aurelio. Davanti a noi una comitiva di adolescenti. Famiglie coi figli per mano attorno alla Lupa. Folla per le scale, folla in piazza Venezia, folla al Quirinale. Musica dappertutto, bambini ovunque. Coccarde e tricolori.

L'Italia è un paese incredibile. È un paese che diresti sull'orlo del collasso e poi all'una di notte – in ogni piazza, in ogni città, nonni e nipoti, in massa – esce dalle case e va a festeggiare che abbiamo tutti 150 anni, tutti, ha detto la maestra anche io. È un paese che si rimette a studiare i nomi dei «giovani e giovanissimi protagonisti di quelle imprese audaci», diceva ieri Napolitano, quei ragazzini di vent'anni che un secolo e mezzo fa hanno fatto l'Italia, che si inalbera di orgoglio patrio sotto il temporale, che sta fuori tutta la notte riempie i teatri e i musei, fischia i leghisti che dicono «soldi buttati, questi per le celebrazioni».

E poi fischia La Russa, vendicativo e rancoroso anche nel dispetto. Fischia il Presidente del Consiglio che ormai non può più camminare per strada senza che gli urlino contro e difatti non lo fa, parla sono da Vespa telefona in tv manda videocassette si barrica ad Arcore nel suo bunga bunker, quando proprio gli tocca di passare dal Gianicolo o di visitare una chiesa per obbligo istituzionale gli tocca uscire dal retro, nascondersi, sgattaiolare via da un'uscita secondaria per non farsi notare. Alla folla che lo fischia risponde «non lascio il paese in mano ai comunisti». Patetico, oramai. Fuori luogo ovunque tranne che dove può staccare assegni per la claque.

Fa davvero impressione sentire il ministro Stefania Prestigiacomo dire «è finita, non possiamo mica rischiare le elezioni per il nucleare. Non facciamo cazzate. Bisogna uscirne ma in maniera soft». Fa impressione il momento in cui lo dice: solo ora. Non davanti all'apocalisse giapponese, no. Li sono rimasti tutti composti, «andiamo avanti, non cambiamo il nostro programma nucleare, non ci facciamo coinvolgere dall'onda emotiva». Onda emotiva? L'emozione non è forse uno strumento utile all'intelligenza delle cose? Solo l'utilità e il profitto sono un criterio ragionevole? È questa la verità: più della catastrofe hanno potuto i sondaggi.

Nessuna reazione finché il problema erano 'solo' quelle tre o quattro centrali lontane, alcune decine di migliaia di contaminati. Peggio per loro, andiamo avanti. Ora però ci sono i sondaggi: eccoli sui tavoli. La popolarità del premier è in picchiata, la richiesta di votare cresce, sul nucleare questa volta il quorum c’è.

Perciò, attenzione alle poltrone su cui siamo seduti, colleghi ministri: non facciamo cazzate. Cerchiamo l'uscita soft. Briffiamoci. Prendiamo tempo. Che poi magari ci pensa Gheddafi a scatenare una bella guerra nel Mediterraneo, proprio il diversivo che serve a blindare il governo, nessuno si muova, stai a vedere che ci viene in soccorso il Colonnello.

17 marzo 2011
da - concita.blog.unita.it
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« Risposta #57 inserito:: Giugno 20, 2011, 09:15:54 am »

Buongiorno Italia: c'è un Paese nuovo

di Concita De Gregorio

È solo l’inizio”, abbiamo scritto il prima pagina il 14 febbraio all’indomani della grande manifestazione delle donne, sordi agli insulti e allo scherno che si levava dai giornali della destra, al sarcasmo greve, alle offese personali. Era solo l’inizio ma insieme era l'approdo di un lungo cammino, ostinato e silenzioso, sotterraneo: il cammino che ci ha portati sin qui, 30 milioni di persone alle urne, una vittoria dei cittadini e dell’Italia intera. La vittoria di quelle parole che insieme in questi anni abbiamo rinominato da capo: verità, autenticità, coraggio, dignità, responsabilità, giustizia.

Adesso dette così, tutte in fila, possono sembrare l’ennesimo rosario retorico e astratto ma noi sappiamo bene, invece, che a ciascuna di queste parole corrisponde una battaglia, un episodio, un gesto, un segnale che si è levato dal Paese in questi mesi e che qui abbiamo ascoltato, accolto, amplificato, illustrato. Prendendo quel refolo di vento e provando con le nostre forze - la forza di chi osserva la realtà e la racconta, la forza del giornalismo libero - a farlo crescere con noi. Se scorriamo all’indietro le prime pagine del nostro giornale troveremo tutte le orme, le tappe di quel cammino. Ne abbiamo raccolte alcune, all'interno, per aiutare la memoria breve che è così volatile, per ricordare a tutti che niente accade all’improvviso e per caso, che il futuro era già qui bastava saperlo vedere. È questa cecità, questa sordità il difetto di chi è rimasto cristallizzato in un tempo che stava scivolando via: è questa incapacità di ascolto che ha punito chi ha perso.

Era maggio del 2009 quando dicevamo “La rabbia dei figli”, saranno i giovani a portarci via da qui. “Ribellarsi fa bene” quando era ancora il momento del torpore apparente, bisognava spronare. Era luglio di due anni fa quando abbiamo lanciato la campagna sul nucleare, era ottobre (“La legge è uguale per tutti”) il tempo di quella sul legittimo impedimento, era il 6 novembre 2009 quando abbiamo denunciato - “Le mani sull’acqua” - il tentativo in atto. Poi il risentimento e la rabbia che tanti temevano ci riportasse agli anni Settanta - ricordate? - sono stati cavalcati da alcuni e non da altri. Non ci è mai piaciuta la politica della bava alla bocca, non ci sono piaciute le urla e le minacce, i tentativi di provocare incidenti, le città blindate. “La lezione degli studenti”, dicevamo il giorno dopo la grande manifestazione dei ragazzi che sfilavano con le copertine dei libri appese al collo. La rivolta delle donne, poi l’ironia e la forza del web - “Avanti Pop” e “Avotar” - il vento, infine, finalmente.

Ecco, siamo arrivati fin qui. Il voto di ieri ci consegna un Paese nuovo. Veramente nuovo, profondamente nuovo. Guai a chi si ostinasse a non vederlo, a chi continuasse ad interpretarlo col vecchio lessico e i vecchi schemi. Dopo le amministrative - la “rivoluzione gentile” - il referendum. Proverò a dire quelli che mi sembrano i tratti salienti di questo voto e mi scuso in anticipo coi lettori abituali del nostro giornale che queste parole le hanno già lette molte volte, nei mesi, qui. Scusate se mi ripeto, ma oggi è il giorno: riassumiamo, dopo averne avuta conferma, quello che ci siamo già detti nei giorni.

Oltre. Non (solo) un voto contro Berlusconi ma un voto oltre Berlusconi. La stagione del Sultano è finita. Restano in quattro a ballare la sua musica. Bossi che studia come uscirne, e quando. I servi sciocchi e stipendiati. I comprati, che dalla sua caduta hanno solo da perdere. Non vale la pena occuparsi di loro, adesso. Il Paese non si occupa di loro, è oltre. Dei trenta milioni che hanno votato moltissimi sono elettori di centrodestra, molti altri astenuti che sono tornati a votare perchè chiamati a riprendersi la delega, a esprimersi finalmente su qualcosa di concreto, che li riguarda. A dire: non ci sentiamo rappresentati da questa classe politica, ne vogliamo una nuova che ci somigli e ci tuteli.

I partiti
Continuare a leggere il voto, come sento fare ancora nei salotti tv e nelle direzioni politiche, con la logica del chi ha vinto e chi ha perso, quale alleanza è opportuno adesso fare, destra sinistra centro, come spostare i blocchi di voti secondo convenienze di vertice è miope e sbagliato. Se ce ne fosse ancora bisogno il voto di ieri conferma che è finita l’epoca della politica verticale, quella in cui il leader di partito dà indicazione all'elettorato e quello - obbiediente e acritico - esegue. È orizzontale, questa politica.

È politica, non c'è dubbio che lo sia: non è antipolitica velleitaria e populista. E' politica che nasce dal basso, dai comitati dai cittadini che si organizzano, che passa anche attraverso i partiti ma non solo, che è capace di disubbidire, che esercita in prima persona la responsabilità. Direte: ma la nostra è una democrazia rappresentativa, le forme di democrazia diretta come il referendum sono un'eccezione non sempre salutare. Sì, ma se la democrazia rappresentativa è bloccata da un sistema elettorale che impedisce ai cittadini di scegliere gli eletti, se gli eletti sono nominati dai leader e non rispondono più all'elettorato, se sono deboli perchè dipendono da quella nomina e dunque corruttibili come possono, allora i cittadini, dare un segno? Come possono chiedere di tornare ad essere i protagonisti di un sistema in cui “la sovranità appartiene al popolo” se le forme in cui la esercita sono sclerotizzate e ammalate? Gli elettori hanno imparato a dissentire dalla “linea” dettata dalle segreterie. Raccolgono firme sui tavoli anche quando i loro partiti di riferimento non lo fanno, vanno a votare anche quando i loro leader dicono di no.

La Padania di Bossi è andata alle urne in massa, il Veneto e il Piemonte assai più della Calabria: uno scollamento che deve togliergli il sonno, e che connoterà domenica prossima l'appuntamento di Pontida. Hanno fatto come volevano: a sinistra come a destra, al centro. Inoltre, vedete, torna al voto il partito del non voto: quel 30 per cento di italiani che non si fida e non si identifica più in nessuno – per stanchezza, per disillusione, perchè troppe volte eccetera eccetera – ecco che quando trova spazio per dire la sua in un'area non rappresentata solo dai partiti lo fa. Il tesoro nascosto riemerge. In questa struttura a rete, orizzontale, certo che i partiti hanno una funzione fondamentale: ne sono parte, non ne sono più il vertice.

Possono e devono mettersi al servizio dei cittadini: quando lo hanno fatto, sebbene in ritardo in qualche caso, seppure con qualche prudenza al principio, hanno vinto. Nella battaglia referendaria, per esempio, nata dai Comitati così a lungo dileggiati, sostenuta da principio da Di Pietro e da Sel, poi anche convintamente dal Pd tutti costoro possono dire oggi di aver vinto. Come tutti coloro che hanno sostenuto con lealtà De Magistris e Pisapia hanno vinto. Come le primarie - che ora anche la destra con ridicolo ritardo e nessuna credibilità dice di voler fare – insegnano. L'elettorato ha dimostrato, tutte queste volte, di avere più lungimiranza e più coraggio di chi lo rappresenta in Parlamento. In qualche caso, penso al voto cattolico, persino di essere più a sinistra dei suoi leader. Gli elettori di centrodestra hanno detto invece che possiamo voltare pagina, Berlusconi è passato, adesso torniamo a fare politica.

I giovani
La rivoluzione arriverà quando i nonni si alleeranno coi nipoti, abbiamo scritto tante volte. Quando i ragazzi convinceranno i genitori: a votare, a cambiare, ad uscire dal torpore ipnotico di cui la generazione di mezzo è stata in grande parte vittima, nel trentennio di regime mediatico. I vecchi e i giovani hanno realizzato questo cambiamento. I ragazzi, soprattutto. E principalmente usando mezzi e linguaggio nuovo: il web, l'ironia, il passaparola, i videomessaggi, la satira. Vale più una vignetta che gira in rete di un comizio.

La Rete
Dicevamo qualche giorno fa che il voto delle amministrative decreta la fine dell'era televisiva. L'inizio della fine, certo, perchè ci vorrà tempo. Ma oggi non c'è chi non veda come questo voto non sia stato in alcun modo determinato dalla tv. A parte tre o quattro dibattiti televisivi, sempre gli stessi, del referendum non ha parlato nessuno. Gli otto milioni di Santoro non sono nemmeno un terzo dei trenta che sono andati a votare: davvero è colpa o merito di Annozero presidente? Non penso proprio, fate un giro in rete. La quantità e qualità della mobilitazione ha raggiunto l'eccellenza creativa anche con mezzi rudimentali: vi abbiamo mostrato in copertina, negli ultimi giorni, di cosa fosse fatta questa campagna. Del protagonismo di ciascuno e della sua capacità di “bucare”. Capacità, scrive oggi il blogger Alessandro Capriccioli, direttamente proporzionale all'autenticità del desiderio di esserci, di passione e ragione, di verità. La verità, l'autenticità hanno vinto sulle menzogne sulle censure e sulle prepotenze. Si riconoscono, le une e le altre. Non serve più che il Tg1 oscuri Napolitano che va a votare, come non serve censurare le voci scomode: si leveranno altrove. Vale per tutti, a destra e a sinistra. Del resto: il governo ha provato a boicottare in ogni modo il voto: spostandolo al primo week end dopo la chiusura delle scuole, scrivendo leggine e inoltrando ricorsi. Ma se era inutile, perchè tanta fatica presidente?

Un tempo nuovo
Erano 15 anni che un referendum non raggiungeva il quorum. Ventidue, dal '97, hanno fallito l'obiettivo. Vogliamo continuare a discutere, da domani, come se non fossimo davanti a un'Italia che rinasce? Vogliamo ancora baloccarci con le pensose analisi degli opinionisti tv - tutti uomini, di solito, tutti cinquantenni - o vogliamo andare a sentire anche i ragazzi per strada, i giovani dei comitati, gli amministratori coraggiosi, quelli che non contano niente perchè non hanno l'autista, quelli che lavorano nei circoli e nelle sezioni ma nessuno gli chiede mai altro che obbedienza, magari per fax? Liberiamo le donne e i bambini, ascoltiamo la voce dei figli e dei nonni, riprendiamoci la libertà, la dignità, la bellezza dell'impegno politico. Nei partiti e fuori di lì, dappertutto. Costringiamo chi pensa che il potere sia facoltà di comando a ricordarsi che è obbligo di servizio. Una grande responsabilità, una fatica e una gioia. Tutto il resto verrà, sta già arrivando. Buongiorno, Italia. E grazie.

14 giugno 2011
da - unita.it
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« Risposta #58 inserito:: Luglio 01, 2011, 06:38:01 pm »

Nel segno della chiarezza

Concita De Gregorio

È trascorsa quasi una settimana dal giorno in cui insieme all’editore vi ho annunciato che avrei lasciato la guida dell’Unità e sento il bisogno di non far passare altro tempo per ringraziare tutti coloro che in questi giorni hanno scritto al nostro giornale e a me. Migliaia di persone alle quali non mi sarà possibile, se non in piccola parte, rispondere individualmente come vorrei: un’ondata di affetto che ci ha travolti fatta di messaggi, video, link su youtube, lettere di carta, persino telegrammi come si usava una volta, disegni di bambini, post su Facebook e poesie. Vecchie e nuove generazioni, ciascuna col suo linguaggio, ci hanno dato una testimonianza di calore e di stima per il lavoro di questi tre anni, per il cammino fatto insieme, che da sola giustifica le fatiche e l’impegno collettivo. Insieme alle lodi e all’affetto in molti hanno espresso qualche preoccupazione, domandato un supplemento di spiegazioni.

Come sapete non ho mai tenuto in conto, salvo che in rarissime e gravi eccezioni, gli attacchi scomposti della destra che sempre si qualifica da sola per quel che è con il suo carico di dossier fatti di voci anonime, lettere autoprodotte, falsi plateali spacciati per documenti, sussurri rancorosi assurti a verità e conditi nel caso specifico dell’opportuna dose di misoginia volgare. Anche questa volta non sono mancate le bordate ma d’altra parte lo sapete, viviamo ai tempi in cui Bisignani regna, non un appalto un incarico una quota di pubblicità si danno se non passano da quella regia e noi che ce ne siamo tenuti ben alla larga: anche per questo paghiamo pegno. Per non aver chinato la testa alle eminenze nere e ai signori degli affari. Il nostro giornale non porta quella macchia. Non è ai picchiatori e agli scherani del potere della destra che mi rivolgo dunque, naturalmente, ma a quanti fra i nostri lettori hanno espresso dubbi, chiesto rassicurazioni.

In primo luogo: questo giornale non conosce censure. Sotto la mia guida non ne ha subite da parte di alcuno, non ne ha esercitate. Capisco chi ci sia chi della persecuzione ha fatto la sua professione non avendo altro talento da spendere ma i fatti parlano: si può domandare a Marco Travaglio e a Claudio Fava, a Luigi De Magistris e a Sergio Staino, a don Filippo di Giacomo e a Lidia Ravera, a Francesca Fornario e Francesco Piccolo. Neppure i commenti sul web sono filtrati dalla moderazione: entrano tutti, in automatico. I nomi che ho citato esprimono sensibilità lontane tra loro, come vedete. Chi ha lavorato qui non ha mai subito pressione alcuna. Chi ha deciso di andare lo ha fatto per legittime aspirazioni professionali o economiche, in qualche caso perché ha avanzato richieste che non potevamo esaudire. Chi è arrivato, per contro, da Pippo Del Bono a Margherita Hack, da Michela Murgia ad Ascanio Celestini, da Nicola Piovani a Loretta Napoleoni lo ha fatto per passione, accettando quelle condizioni. Nessuna censura è stata mai esercitata su di noi, d’altro canto. Né da parte dell’editore né da parte del Partito Democratico.

Non sono mancate, lo abbiamo scritto con Renato Soru, critiche a questo o quel numero del giornale da parte di qualche dirigente, come ad ogni latitudine accade. Sono venute da tutte le componenti del partito il che è di per se una garanzia di equilibrio. D’altro canto moltissimi sono stati i riconoscimenti, personali e pubblici, degli esponenti di un partito che in questi tre anni ha cambiato tre volte segretario, ha affrontato le primarie e varie tornate elettorali con le tensioni che ne conseguono: hanno trovato costante spazio qui tutti coloro che hanno voluto esprimere il loro pensiero, dal preziosissimo Alfredo Reichlin che ci aiutato spesso a trovare la rotta ai più giovani dirigenti delle diverse anime del partito: Francesca Puglisi per la scuola e Stefano Fassina con Vincenzo Visco per l’economia, Livia Turco sui temi dell’immigrazione e Vittoria Franco su quelli delle donne, Ivan Scalfarotto e Paola Concia sulle diversità, Enrico Letta sulla politica e i diritti individuali, Sandra Zampa e Matteo Orfini, Sandro Gozi e Pietro Ichino, Pippo Civati e Susanna Cenni, moltissimi altri, tutti coloro che hanno voluto. Luigi Manconi ha portato il suo spirito libero. Goffredo Fofi la sua critica. Angelo Guglielmi i suoi libri. I più giovani, da Andrea Satta a Tobia Zevi ci hanno parlato del tempo in cui viviamo.

Nessuno può dunque credere che questo luogo libero e felice di incontro fosse ai suoi protagonisti sgradito a meno di non andare contro la logica e l’evidenza. Le tesi complottiste si spengono al cospetto dei fatti. I fatti sono che il nostro giornale ha attraversato due anni di stato di crisi, una ristrutturazione aziendale avvenuta all’unisono con quella di tutti gli altri grandi quotidiani, che ci ha costretti a lavorare in grande economia di mezzi e a chiedere alla redazione il sacrificio della cassa integrazione a rotazione per consentire ai più anziani di raggiungere il limite dell’età pensionabile, oltre il quale tutti quelli che lo desideravano sono stati mantenuti al lavoro con contratti di collaborazione. Nessuna delle energie storiche è andata dispersa. Al contempo però, e di questo ho parlato molte volte in pubblico e in privato con Susanna Camusso, la legge che regola le ristrutturazioni aziendali prevede che per prima cosa cessino i contratti flessibili, a tempo indeterminato.

L’Unità non ha mai licenziato nessuno, in questi tre anni: semplicemente, in base alla legge, non ha potuto rinnovare i contratti atipici che come ciascuno sa sono quelli con cui negli ultimi anni sono stati assunti tutti i più giovani. È una normativa che penalizza le generazioni in entrata e tende a creare conflitti generazionali. Nell’anno in cui abbiamo potuto farlo abbiamo firmato contratti a termine a ragazzi che hanno avuto qui una tribuna che li ha portati, in base alle loro capacità e ai loro talenti, ad ottenere in seguito interessanti e prestigiosi incarichi. Moltissimi di loro, anche molti tra i collaboratori, ce ne rendono in questi giorni atto. Alle parole e alle denunce di chi non conosco non posso rispondere.

È falso che abbiamo chiuso le cronache locali, al contrario ho messo le mie dimissioni sul tavolo nel momento difficile della discussione sulle edizioni di Firenze e Bologna, che sono state rilanciate sotto la regia di Pietro Spataro. Così come ho combattuto per le sostituzioni maternità che abbiamo coperto, sempre, tutte.

Ora che il ciclo si è chiuso, al 31 maggio la faticosissima stagione della Cig è finita, il giornale è pronto per un rilancio. A ciascuno la sua stagione. Io credo di aver portato il lavoro sin qui, con l’aiuto di Giovanni Maria Bellu di Luca Landò e della redazione intera, in condizioni di mare in tempesta. Credo anche che l’investimento fortemente voluto dall’editore sul web, che ha quintuplicato il suo traffico – 150 mila amici su Facebook, un luogo che si chiama ComUnità straordinario e vivacissimo, punte di due milioni di utenti unici – sia stato ancora una volta un esempio di quanto l’azienda e la redazione siano state capaci di trasformare le difficoltà in opportunità, guardando lontano.

Io credo che oggi - e le mobilitazioni degli ultimi mesi, i risultati delle amministrative e dei referendum ci danno ragione – sia davvero cambiato il tempo e sia quello il luogo dove ha senso proseguire una battaglia di rinnovamento del Paese. Anche quello. Credo che sia legittimo che io vi dica che le vecchie logiche spesso non offrono più le condizioni di libertà e di autonomia che le nuove generazioni a buon diritto pretendono. Che in questo momento di transizione verso il futuro, insieme alla conservazione di un patrimonio storico – quello che abbiamo traghettato sin qui, insieme al suo archivio centenario, portandolo nel presente – ci sia bisogno che chi ha forze e passione per farlo investa in nuove scommesse, come dico da tempo. Lavorare all’Unità è stato un privilegio, questi anni un investimento che ci ha portati dove voi eravate: proviamo per una volta a non demolire ciò che abbiamo costruito, ad avere rispetto del giornale e di noi stessi, a non farci distrarre dalle grida di chi – debole e ormai alla fine – vorrebbe trascinarci nella polvere con sé. La nostra forza è quella che gli altri non conoscono e non sanno decifrare: la disinteressata passione, la trasparenza di chi non è in vendita, il coraggio di rischiare.

24 giugno 2011
da - http://concita.blog.unita.it/nel-segno-della-chiarezza-1.307367
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« Risposta #59 inserito:: Agosto 15, 2011, 10:18:18 am »

L'INTERVISTA

Le confessioni di Marrazzo "Perché andavo in via Gradoli"


L'ex governatore del Lazio due anni dopo si racconta.
Lo scandalo, le dimissioni, la solitudine. Una confessione: "Ho sbagliato per fragilità, chiedo scusa.
Un uomo pubblico deve controllare le sue debolezze".

E poi: "Non ero drogato né omosessuale. Ma ricattabile sì.

Perché i trans? Sono donne all'ennesima potenza, rassicuranti"

di CONCITA DE GREGORIO


NEL CORSO di questa intervista, iniziata la sera del primo turno delle amministrative di maggio con le proiezioni che continuamente irrompevano dai cellulari e finita ad agosto a Monterano, borgo abbandonato dove è nata una quercia dentro una chiesa disegnata dal Bernini, Piero Marrazzo ha detto ventiquattro volte "perché io sono il figlio di Joe Marrazzo".

L'ultima volta - era il giorno del congedo di Paolo Ruffini dall'azienda - lo ha detto a proposito della Rai: "Perché io sono entrato per la prima volta alla Rai da bambino per mano a mio padre". Nei primi due incontri, segnati dalla sua estrema diffidenza e in definitiva dal tentativo reciproco di capire se saremmo riusciti a parlare della "cosa", ha raccontato solo della sua famiglia.

Del padre, del padre e poi ancora del padre, per ore. Della madre americana, la cui vita è un romanzo. Delle figlie ragazze, i loro studi. Con grandissima prudenza della moglie Roberta, "certo che la amo ancora, come sempre". In ultimo della loro figlia bambina. Il secondo incontro è finito così, con una lunga pausa alla domanda "come ha raccontato quello che è successo a sua figlia di dieci anni?". Dopo un paio di minuti ha risposto: "Le ho detto che papà è andato alla festa sbagliata". Poi due mesi di silenzio, come se quella frase fosse stato tutto quel che c'era da dire.

Al suo ritorno da un viaggio in Armenia - ha ricominciato a girare documentari per la Rai - ci siamo incontrati di nuovo. Grotta romana di Stigliano, il luogo dove i soldati feriti andavano a recuperare le forze e a curarsi. Catacombe da cui si esce risorti. "Magari funziona", sorride. Una settimana prima otto persone, tra cui tre carabinieri, erano state rinviate a giudizio per tentata estorsione ai suoi danni.

Soddisfatto?
"Come potrei essere soddisfatto? Sono due anni che vivo solo, che non parlo di questo con nessuno, che provo a ritrovare il bandolo della vita. Sono il figlio di Joe Marrazzo, ce la farò. Ce l'ho fatta già. Ma la soddisfazione, mi creda, in questa storia non è contemplata".

Un paio d'ore più tardi ne abbiamo parlato. Avrei solo sei o sette domande, gli ho detto. Cos'è successo davvero quella sera, perché, cosa non si perdona, a chi attribuisce le responsabilità, cosa le è successo nella vita politica e privata in quei mesi, come pensa il futuro, se la politica la tenta ancora o se è una storia finita. Va bene? "Va bene. Ma solo perché in cima o in coda a queste domande c'è una sola cosa che sento di dover dire. Pubblicamente, alle persone che si sono fidate di me".

Che cosa?
"Che ho sbagliato. Ho fatto un errore. Di questo errore voglio chiedere scusa. Ho sbagliato, scusatemi. Ecco. Solo questo".

Sono passati più di due anni da quel giorno. L'errore è stato andare in via Gradoli, andarci con l'auto di servizio, assumere droga, fidarsi della persona sbagliata, non aver capito, non averlo detto a chi avrebbe potuto, non aver denunciato il ricatto? Di quale errore parla?
"Un errore più grande di tutti questi. Una mia fragilità di fondo, un bisogno privato e così difficile da spiegare, una mia debolezza. Un uomo che assume un incarico pubblico non può avere debolezze. Le deve controllare. Per questo mi sono dimesso, per quanto fossi vittima di un reato come oggi quei rinvii a giudizio dicono. Vittima, non colpevole. Ma l'aspetto giudiziario è secondario: so di non aver commesso reati, di non aver violato alcuna legge. Umanamente però, nei confronti della mia famiglia, e politicamente, verso i miei elettori e la comunità che governavo, ho sbagliato. Così mi sono dimesso".

È andato a far visita a una persona per motivi privati con l'auto di servizio.
"È vero. È stata in molti anni la prima volta che è successo. Avevo sempre usato la mia macchina. Quel giorno ero confuso, stanco, ho avuto un impulso di andare lì subito. Un impulso, ecco un errore grave. C'erano anche ragioni di sicurezza: non avrei mai dovuto muovermi da solo - secondo le regole - e ogni volta che lo facevo era complicatissimo. Quel giorno non ho avuto l'energia di allestire un meccanismo complicato. Ero stanco, volevo andare lì e dimenticare il resto. Ho fatto parcheggiare lontano, ma certo questo non scusa. È stata la prima volta, e naturalmente l'ultima".

C'era della droga nella stanza.
"Non faccio uso di droghe. Mi sarà successo tre o quattro volte nella vita, a distanza di molti anni. Da ragazzo, un paio. Un paio da adulto. Sono pronto a fare l'analisi del capello per dimostrarlo. So che non è un argomento, ma sono certo che moltissimi "insospettabili", anche tra gli attuali miei censori, non potrebbero dire altrettanto. Quel giorno è successo: anche in questo ho sbagliato. Penso al messaggio devastante che ho mandato, soprattutto ai più giovani".

Vedeva abitualmente quella persona? Era come si è scritto "la sua fidanzata"?
"Assolutamente no. Per anni non ho visto nessuno. Mi era capitato in passato di avere rapporti con prostitute, come a volte agli uomini accade - specie se oberati dal dovere di essere all'altezza delle aspettative, pubbliche e private. Ho fatto un intenso lavoro terapeutico in questi anni per capire. Intendo capire le ragioni del mio comportamento".

Un lavoro di analisi?
"Sì. Ho provato a capire attraverso l'analisi, e la parola e l'ascolto, che cosa mi fosse davvero accaduto. Credo di dovere alla terapia molte delle risposte".

Diceva della fatica di essere all'altezza delle aspettative.
"So che non è bello da sentire e non è facile da dirsi, ma una prostituta è molto rassicurante. È una presenza accogliente che non giudica. I transessuali sono donne all'ennesima potenza, esercitano una capacità di accudimento straordinaria. Mi sono avvicinato per questo a loro. È, tra i rapporti mercenari, la relazione più riposante. Mi scuso per quel che sto dicendo, ne avverto gli aspetti moralmente condannabili, ma è così. Un riposo. Avevo bisogno di suonare a quella porta, ogni tanto, e che quella porta si aprisse".

Non c'entra l'omosessualità? Ricorda la battuta del presidente del Consiglio: almeno a me piacciono le donne? Se fosse, lo direbbe?
"La ricordo. Io non sono omosessuale. Non ne faccio un vanto, ma non lo sono. È così. Ho amato solo donne. Moltissimo, e con frequente reciprocità. Dai transessuali cercavo un sollievo legato alla loro femminilità. Il fatto che abbiano attributi maschili è irrilevante nel rapporto, almeno nel mio caso. Non importa, non c'è scambio su quel piano. È il loro comportamento, non la loro fisicità, quello che le rende desiderabili. Ma temo che ogni parola possa suonare come una giustificazione: non è quello che voglio. Quando sei padre le scelte in questo ambito, giuste o sbagliate che siano, se date in pasto alla pubblica opinione fanno male non a te ma ai tuoi figli. È questo che non mi perdonerò mai".

Lei aveva un appuntamento in via Gradoli quella sera?
"Non esattamente. Sono andato per suonare alla porta. Il desiderio è questo: suoni alla porta, e si apre. Poi riposi".

E se l'appartamento fosse stato occupato da altri?
"Sarei andato via".

Un rischio enorme.
"In effetti".

E come spiega allora la trappola. L'orchestrazione, la cocaina, il video?
"Aspettavano che arrivassi. Era successo altre volte. È un giro così. Ho saputo nei mesi successivi che quei cosiddetti rappresentanti dell'ordine erano coinvolti in molti altri episodi. Un sistema. Avrei dovuto accorgermene ma le difese, come le ho spiegato, in quei momenti sono molto basse. Non dimentichi, comunque, che nel mio caso è scattata l'azione giudiziaria solo perché io ho denunciato i fatti. È il nodo centrale: tutto è avvenuto perché ho denunciato, testimoniato. Se non l'avessi fatto nulla sarebbe emerso".

Quanto le costava tutto questo? Come poteva disporre di tanto denaro?
"Sono stato per molti anni un professionista affermato. Non ho accettato la candidatura per motivi economici, sono abituato a vivere del mio. Quello che ho guadagnato è frutto del mio lavoro, ho speso solo soldi miei".

Due persone sono morte: Brenda e il pusher Cafasso. Si è parlato della mano dei Servizi segreti. Si è detto che gli appartamenti di via Gradoli fossero controllati dai servizi.
"L'idea che mi sono fatto è che la dietrologia non aiuta mai a capire. C'è un'inchiesta in corso, bisogna aspettare. I giornali non sempre hanno aiutato la ricerca e la comprensione dei fatti, in questa vicenda. Ho letto in prima pagina sul Corriere un'intervista sulla morte di Brenda che non avevo mai rilasciato".

Quel video girava da mesi.
"Sì, ma nessuno mi stava ricattando. Io l'ho saputo dopo. Ho ricevuto una sola telefonata, non personalmente tra l'altro, molto ambigua. Non ho dato risposta. Non c'era un tentativo di estorsione in corso: se ci fosse stato, le assicuro, lo avrei denunciato mesi prima. Cosa sarebbe cambiato?".

La sua ricandidatura alla Regione, per esempio.
"Non mi sarei mai ricandidato sapendo di essere sotto ricatto. Difatti non è avvenuto".

Berlusconi l'ha avvertita dell'esistenza del video.
"Sì, era il 19 ottobre del 2009".

Cosa le ha detto? Come mai aveva il video?
"Mi ha detto che lo aveva avuto da uno dei suoi giornali a cui era stato offerto. Si è proposto di aiutarmi".

E lei cos'ha pensato? Che volesse aiutarla o tenerla sotto scacco?
"Ho pensato solo che non potevo restare in una posizione di tanta debolezza. Che comunque quella telefonata segnava uno spartiacque. Che non avrei più potuto fare il mio lavoro con la stessa autonomia, responsabilità, libertà. È stato l'inizio della mia decisione di parlare. C'è voluto un po' di tempo, dovevo prima dirlo in famiglia".

Sua moglie non sapeva niente delle sue abitudini, neppure di quelle remote, precedenti al vostro incontro?
"Lei cosa pensa?".

Immagino sia un no. Non ha mai pensato di parlargliene?
"No. Anche questo è stato un errore, di cui non so più come chiederle scusa. Ma è molto complicato, è qualcosa che riguarda davvero le nostre vite private".

Oggi siete separati.
"Purtroppo sì. Sono stati mesi molto duri per lei. Un giorno è persino uscito un articolo di giornale in cui si diceva che ricevevo una transessuale in Regione. Non era vero, non è vero, non l'ho fatto né l'avrei fatto mai. Questa persona è stata probabilmente indotta a dirlo in un tentativo orchestrato da altri di screditarmi anche sul piano della condotta pubblica. Un piano su cui so di non avere macchie. Quando sono andato in Procura a rendere dichiarazioni spontanee sull'episodio mi hanno detto: non c'è alcuna deposizione in proposito, non può dichiarare sul niente".

Lei dice di non avere macchie sul piano della conduzione della Regione. Nei mesi in cui si immaginava che a qualcuno convenisse tenerla sotto ricatto, però, si è molto parlato di alcune sue indulgenze in materia di sanità. Si diceva che Angelucci venisse in Regione in tuta da ginnastica, come fosse a casa sua la domenica, e che la trattasse da padrone.
"Veniva in tuta, è vero. Era un suo problema, non un mio problema. Lo facevo sedere, lo ascoltavo, e poi gli dicevo di no. Ho detto molti no, parlano gli atti per me. La sfido a trovare una singola carta che dimostri un mio trattamento di favore verso gli Angelucci. Non esiste. Al contrario, vedrà. Ho toccato interessi molto consistenti, e non solo a danno dell'imprenditore che lei nomina. La sanità è un territorio esteso, gli interessi sono trasversali. E poi c'è stata la tutela dell'ambiente nelle zone del basso Lazio, gli appetiti dell'edilizia sui parchi, il racket dei rifiuti. A Fondi ho commissariato il mercato ortofrutticolo inquinato dalla camorra e ho fatto saltare le speculazioni urbanistiche intorno al lago dichiarandolo "monumento naturale". Su questo ci sarebbe molto da dire. Ho scontato un isolamento ed un'ostilità assolute, dopo. Bipartisan, si dice in politica".

Si è sentito isolato anche a sinistra?
"Cambiano i caratteri, le modalità private di relazione fra persone. Alcuni sono stati più cortesi e compassionevoli, anche questo può essere umiliante, altri più sferzanti. In sostanza hanno tutti concordato sulla straordinaria opportunità che offriva la mia uscita di scena. Circolavano sondaggi che mostravano come avrei vinto comunque le elezioni. Non me ne sono curato, sono andato via. Avevo sbagliato. Che io sparissi dalla scena pubblica in quel momento - Polverini era la candidata di Fini, ricorda? - faceva comodo e piacere a molti non solo sul piano locale. In ogni caso avevo davvero altro a cui pensare. Per un mese intero sono stato in un convento".

Era Montecassino, da dove ha scritto la lettera al Papa?
"Non ho scritto al Papa. Dopo qualche giorno a Montecassino, e ancora oggi sono grato al Padre Abate e alla comunità monastica per come mi hanno accolto, ho sentito il bisogno di scrivere al cardinal Bertone per spiegare i motivi che mi avevano spinto a chiedere ospitalità. Non erano giorni facili, sapevo quale disagio potevo causare. Il senso di quella lettera era "la mia vita riparte da qui". Ricordo le parole "non posso che sedermi all'ultimo banco". A Montecassino ho ripreso in mano due libri, le confessioni di Sant'Agostino e l'autobiografia di Simenon. Il primo mi ha aiutato a capire che se hai conosciuto il male non devi più nasconderti, devi continuare a guardarlo in faccia. Nella vita di Simenon mi interessava il tema dei sensi di colpa di un padre. Ecco, sono ripartito da questo".

E oggi, che cosa pensa? Tornerebbe in politica? Se ne parla molto.
"Lo so, lo so. So che molti lo temono, anche fra gli "amici". Ho conservato un rapporto straordinario con le persone, con la gente per strada. Mi chiedono sempre, anche stasera - ha visto? - presidente, quando torna? Le persone comuni capiscono benissimo le vicende della vita, sanno distinguere, sanno giudicare e trarre le conseguenze. Sanno anche perdonare, se la colpa è una debolezza e non una frode ai loro danni. Ne sono sicuro, lo so perché lo vedo. La distanza di questa politica dalla vita reale è diventata il vero problema del paese. Hanno paura - tutti, nelle loro blindate stanze - di tutto ciò che è autentico, anche nell'errore. La popolarità, il consenso di chi non sia manovrabile, ricattabile è per loro un pericolo tremendo. È la misura del loro limite. Quelli che si comportano come se avessero un mandato a vita per rappresentare gli altri sono uno dei problemi della nostra politica. Chi governa deve essere chiamato a farlo dai cittadini ed avere la loro fiducia. Parlare di liste civiche, dei protagonismi di questo o quel personaggio in un momento di crisi come questo mi sembra fuori luogo, miope e presuntuoso insieme. Detto questo: da uomo pubblico non ci si dimette".

In che senso?
"Lasci l'incarico, ma non lasci mai il carico di responsabilità che hai agli occhi degli altri. L'ho capito a mie spese. Un giorno Enrico Mentana, col quale avevo lavorato al Tg2, mi ha detto: Piero, è inutile girarci intorno. Ogni uomo pubblico viene ricordato per un episodio e tu sai che lo scandalo è entrato nella memoria collettiva per sempre. È vero, e ho apprezzato la sua franchezza, ma sentivo che c'era qualcosa di più. C'è la vita di un uomo, la vita prima e la vita dopo. Questo la memoria collettiva, per quanto impietosa, non può cancellarlo".

Lei era ricattabile, mi pare che questo resti il punto.
"Ero ricattabile, sì. Infatti è andata com'è andata. Però vorrei che si ricordasse sempre che mi sono dimesso, che era una debolezza privata, che non ho fatto torto a nessuno se non alla mia famiglia. Che la corruzione era in chi avrebbe dovuto proteggerci e non credo alle "mele marce", non posso credere che nessuno vedesse e sapesse tra chi comandava quel nucleo criminale. Che gli interessi enormi che ho toccato sono ancora tutti lì, che le vicende umane sono state devastanti per molti e letali per alcuni. Ma io sono il figlio di Joe Marrazzo, mio padre lo voleva morto la mafia. Ho sbagliato e chiedo scusa, lo chiederei a lui prima che agli altri se fosse qui. Per il futuro vedremo, nessuno di noi può darselo da solo. Sconto il mio errore come è giusto. La vita è davanti".

(15 agosto 2011) © Riproduzione riservata
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