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« inserito:: Ottobre 15, 2021, 07:57:21 pm » |
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GIACOMO PAPI BLOG - LUNEDÌ 11 OTTOBRE 2021
Andrea Zanzotto e il paesaggio a Nord-Est Nel gennaio 2008 scrissi per Diario un lungo reportage sul Veneto costruito intorno a un’intervista al poeta Andrea Zanzotto che allora aveva 86 anni e che oggi – 10 ottobre 2021 – ne compirebbe cento. Zanzotto parlò di Meneghello e del Ruzante, dello spostamento delle colline del prosecco e della delocalizzazione in Romania, ma anche di un cadavere disteso in un supermercato mentre i clienti continuavano a fare la spesa. Per lui la distruzione del paesaggio era un effetto o una causa della distruzione del linguaggio attuata proprio dal partito che il dialetto veneto diceva di volerlo difendere. Fu una delle sue ultime interviste. Continuo a trovarla illuminante.
La strada scorre verso nord e si allontana dal mare. Oltre i finestrini sfilano ville intonse e meravigliose, canali che sembrano lucidati ogni mattina e, ovunque, una campagna grassa, appena assediata dalla modernità, puntellata di discrete villette a due piani. Intorno a Treviso, niente dà troppo nell’occhio. Perfino i capannoni e i centri commerciali paiono più timidi che altrove. La prima sensazione è quella di una comunità impegnata collettivamente a difendersi e a non fare disordine per non spezzare un incanto costruito su un equilibrio, un po’ artificiale, tra vecchio e nuovo. L’autoradio è sintonizzata su una stazione locale. Il conduttore con due ospiti, un uomo e una donna, dalle voci anzianissime dedicano la trasmissione a Libera nos a Malo di Luigi Meneghello, il romanzo autobiografia che nel 1963, per la prima volta, descrisse il passaggio tra il Veneto agricolo degli anni Trenta e quello del dopoguerra, raccontando l’esistere di un piccolo paese, Malo, nel vicentino, la sua gente e come tutto cambiò. I conduttori scelgono soltanto tra le pagine più antiche, quelle che descrivono l’infanzia del narratore, dandosi il cambio. Raccontano di bambini che tirano giù a sassate da un platano un altro bambino, di povertà e fame, di fiere paesane e olimpiadi di campagna, di un ragazzino, il Moro balau, che muore stritolato dal camion su cui era saltato per farsi trainare, degli ultimi giorni da spettro di sua madre. Eppure, non fanno che ridere, inteneriti dalla possibilità di avere di nuovo davanti agli occhi un tempo perduto e rimpianto. La stessa nostalgia dilaga nelle telefonate degli ascoltatori che hanno tutti la voce e il lessico delle persone anziane. Insistono su quanto autentica fosse la vita quando si era poveri e si scandalizzano che ormai se ne sia persa memoria. Un vecchio al telefono si scaglia contro la mania moderna di andare da cartomanti, maghi ed esorcisti. Il conduttore ci impiega un po’ ad accorgersi che voleva chiamare un’altra trasmissione.
Al lato della strada, un cartello triangolare bordato di rosso come quelli che segnalano l’uscita delle scolaresche o ordinano di dare la precedenza, avvisa: «Attenzione prostitute». Al centro, la sagoma nera di una ragazza con borsetta e tacchi a spillo esibisce tratti apparentemente africani. Non si capisce a chi sia destinato. I passanti normali sono in grado di riconoscerle le prostitute e le signore che aspettano l’autobus poco più in là potrebbero sentirsi offese. Sicuramente è utile ai clienti, che hanno la conferma di essere arrivati nella zona giusta. In realtà, funziona da monito per chi passa di lì. Nel linguaggio, insieme contadino e imprenditoriale, che mette insieme marketing e rudezza, caratteristico degli amministratori locali, significa soltanto: qui si fa sul serio, controlliamo il territorio e non ci sfugge niente. Una versione addolcita della forca posta all’ingresso dei villaggi del far west. Da queste parti degli omosessuali si dice «dai segnai de dio cento passi indrio». Un chilometro più avanti, c’è l’insegna consunta del Lap dance Millelire che nessuno ha ancora pensato di tradurre in euro. Siamo sul Terraglio, lo stradone che congiunge Venezia a Treviso dove nel 1998, è stato calcolato che transitavano 1250 automobili ogni ora. Il paese è Mogliano Veneto, il sindaco si chiama Giovanni Azzolini, è stato eletto nel centrosinistra, sostenuto da tutti i partiti, dalla Margherita a Rifondazione. All’entrata di Preganziol, il paese successivo, un cartello accompagna il simbolo del divieto di sosta da entrambi i lati con la scritta: «Divieto di fermata per contrattare prestazioni sessuali su tutto il territorio comunale». Sono la stessa strada e lo stesso paese in cui nel 2005, per combattere prostituzione e criminalità, il sindaco Franco Zanata, pure di sinistra, ordinò il blocco della circolazione dalle 23 alle 4 di notte. Il coprifuoco, che rimbalzò sulla cronaca nazionale, aveva in realtà anche motivazioni estremamente pragmatiche: l’affollamento di clienti intorno alle prostitute creava un ingorgo costante.
A vent’anni dal miracolo, il Nord Est appare confuso e spaventato. In questa zona d’Italia affacciata a est si annunciano le trasformazioni che, poi, tracimeranno nel resto del Paese. Vengono in mente le politiche sulla sicurezza e verso gli extracomunitari che, dal decreto voluto da Walter Veltroni e Giuliano Amato in seguito all’omicidio di Giovanna Reggiani a Tor di Quinto, sono diventate nazionali e non sono più confinate in una zona geografica o in un’aerea politica. Da queste parti sono iniziate almeno quindici anni fa. L’esempio del sindaco di Treviso, Giancarlo Gentilini, quello che proponeva di vestire gli extracomunitari da leprotti per fare esercitare i cacciatori locali, è imitato a destra come a sinistra. Nel Veneto la rincorsa al modello Gentilini è ormai trasversale, la convinzione generale è che la buona amministrazione coincida con le politiche sulla sicurezza e debba tradursi in trovate sempre più violente e fantasiose. Ma la sicurezza è solo un sintomo, galleggia su un disagio più profondo e sotterraneo. È qui che il lavoro e la ricerca della ricchezza si sono, per la prima volta, sovrapposti alla vita. E qui che, più ancora che in Brianza, l’uomo ha cancellato i confini tra città e campagna. L’acqua si mischia alla terra, la sabbia scivola nel mare e diventa fango; da queste parti tutto appare fluido, mescolato; così in politica, il paesaggio è sottosopra, distinguere buoni e cattivi difficile, come capire dove finisca la politica e inizi la demagogia, quale sia il confine tra la nostalgia e la paura, e in quale punto, precisamente, la terra inizi a diventare liquida.
Il poeta Andrea Zanzotto ha 86 anni. Vive a Pieve di Soligo, un paesone dalle parti di Conegliano che si sdraia in una piana ai piedi delle colline. Da Treviso sono poche decine di chilometri, ma il panorama è diverso, qui la terra non sembra più custodita da solerti amministratori per farne attrazione turistica, ma divelta e usata fino all’ultima zolla per produrre soldi e lavoro, e anche soltanto per il gusto di usarla. Zanzotto abita in una piccola casa a due piani costruita negli anni Sessanta non lontana dalla Pieve al centro del paese. Il gatto Uttino, bianco nero e con la coda mozzata, fa capolino a una finestra facendo sorridere il vecchio poeta. Quando gli descrivo la nostalgia che trasudava dalla trasmissione locale su Meneghello, inizia a parlare: «Libera nos a Malo è una grande ricognizione del passato che tra le righe è anche uno sguardo sul futuro. Non ha compiacimento verso le magnifiche sorti e progressive, perché nel passato che descrive ogni ceto esprimeva una fantasia dell’esistere. Lo strano è che Meneghello è un grande fantasma di qui che fiorì in Inghilterra. Per riuscire a raccontare il Veneto, ha avuto bisogno di prendere una distanza. E non è stato l’unico, recentemente mi è saltato in mano un libro di Elio Chinol, un altro scrittore che nessuno ricorda più, un altro che per parlare del Veneto decise di partire».
Il Nord Est, il suo miracolo e la sua crisi, possono essere raccontati anche attraverso il tema dell’emigrazione e della distanza, dell’identità della casa e della vastità del mondo. «Anni fa c’è stato un momento di flusso verso la Romania di chi aveva già piccole fabbriche», continua Zanzotto, «Ma poi quel sistema si è sparso, la delocalizzazione è diventata mondializzazione. In questa specie di mescolanza grottesca di magnati dal giorno alla notte, iniziata dal franchising di Benetton, si trovano cose come la “scarpa che respira” che fanno pensare alla puzza di piedi o leggi titoli come “il re del Pinguino di Treviso va in Cina”. Però questa trasformazione di operai in padroncini in qualche caso ha prodotto mecenati e, infatti, è tutto un pullulare di iniziative, è come un formicaio».
In questa zona, dove la terra è più terraferma che a est, la devastazione del paesaggio si misura con lo sguardo. La strada che da Conegliano arriva a Pieve di Soligo fa venire in mente città come Enna o Nuoro, anche se qui più che abusivismo c’è condonatismo. Capannoni e fabbriche si affastellano inghiottendo campagna, sul ciglio della strada principale, invasa da camion e automobili, si affacciano scuole bruttissime, appena costruite e già crollate, che la pioggia chiazza come se non avessero intonaco; si aprono cantieri ogni metro, voragini di terra, villette, palestre e una quantità davvero spropositata di supermercati. «In uno di questi qualche tempo fa un caporeparto è morto schiacciato da un muletto», mi spiega Marisa, ex preside e vulcanica moglie di Zanzotto, «la direzione ci ha messo tre ore per decidere la chiusura. Per tutto quel tempo i clienti hanno continuato ad entrare e a fare la spesa a pochi passi dal cadavere ricoperto da un lenzuolo». Si chiamava Claudio De Pellegrin, aveva 40 anni, era il 22 novembre scorso. Il supermercato è il Bennet di Pieve di Soligo. Una scritta cubitale bianca sul cemento, in cima alla collina che porta a Pieve, dichiara: «W Dio e la Lega». La signora Marisa mi porta a visitare la casa natale del marito, un grande edificio dell’Ottocento a quattro piani. Abbarbicato al muro portante qualcuno ha costruito una specie di modernissimo chalet svizzero. La strada è sventrata, ma costellata dal sindaco Giustino Moro di Forza Italia, di improbabili piazzette. Nel resto della cittadina si rincorrono i tributi a Francesco Fabbri, un compagno delle elementari di Zanzotto, che nel 1976 – terzo governo Andreotti – coronò la propria carriera nella Dc da ministro della Marina mercantile.
«La distruzione è collegata alla necessità di aumentare posti di lavoro», continua Zanzotto che esordì nel 1951 con la raccolta. Dietro il paesaggio, «e ormai anche le vittime, pur di non rimanere senza lavoro, accettano che il paesaggio sia devastato. La memoria della miseria è ancora recente e bisogna salvaguardare l’economia. A Pieve c’è un migliaio di appartamenti vuoti e rimasti invenduti, ma si continua a costruire. Spostandosi verso le colline, le cose sono diverse, ma non sono meno brutte. Sono le colline del prosecco, e questi le spostano in modo che siano più esposte al sole. È il tentativo di riplasmare un fantasma di paesaggio che non c’è più». «Quando ci siamo sposati, negli anni Cinquanta», lo interrompe Marisa, «la nebbia c’era solo al di là del Piave, dove sono nata io, ora è ovunque, anche qui». «A me colpisce molto questa cosa del cambiamento di clima», continua il poeta, «quello che oggi può apparire efficienza, domani può apparire inefficienza o almeno miopia nel vedere dove si va a finire. Anche l’America, che ha provocato questo cambiamento, nascondeva a se stessa che dietro l’efficienza c’era la morte». Chiedo come si coniughi la trasformazione violenta che ha attraversato il paesaggio del Nord Est con il mito dell’identità e delle radici che sta alla base dell’ideologia della Lega e come questo mito si sia declinato nella lingua, nell’uso e nella riscoperta del dialetto. Zanzotto risponde: «La Lega aveva anche qualche ragione in anni lontani, ma è stata costruita ed è espressione del ceto che ha prodotto questa distruzione. Vuole tenere per sé ciò che i piccoli industriali riescono ad accumulare. Il dialetto veneto sui loro manifesti è pieno di arcaismi, un risotto. Il passaggio dalla lingua parlata a quella scritta è sempre complicato, ma questi non sanno proprio niente. Non è né Ruzante, né Goldoni, né Noventa». Poi, spronato dalla moglie, declama l’Inno patriottico proprio di Noventa: «Soldi, Soldi, vegna i soldi, / mi vui venderme e comprar,/ comprar tanto vin che basti,/ ‘na nazion a imbriagar».
Il paesaggio non è solo quello che si vede. E non è solo ciò che lo abita. Sono anche le ragioni e gli istinti che lo trasformano. Tra questi istinti, ovunque, ma forse di più in Veneto, ci sono i schei, i soldi, la faticosa riabilitazione che viene dallo scoprire che il boom non se n’è andato e che, dopo una vita di lavoro, non ci si può permettere di godersi la vita. Nel salone affrescato affacciato sul canal Grande in cui attendo di essere ricevuto da Massimo Cacciari, sindaco di Venezia ormai per quindici anni, alcuni funzionari discutono del blocco del traffico deciso dagli operai di Marghera per la trattativa sui salari. Qualche giorno dopo, il motivo del blocco sarebbe stato un altro: la morte di due portuali, Paolo Ferrara e Denis Zanon, asfissiati nella stiva di una nave. Tra l’aericità di Venezia e il mostro industriale di Mestre Marghera che gli guarda e gli alita sulle spalle il contrasto è fortissimo. Massimo Cacciari è molto incazzato, ma sull’economia non è pessimista: «Non è più il Veneto del miracolo che basava il suo modello su fattori che andavano a esaurimento, ma alla soglia non ci sono prospettive realmente drammatiche, l’impresa del Nord Est ha dato segni di vitalità. E questo anche se, quasi mai, i figli sono stati sufficientemente formati per sostenere la sfida della globalizzazione. Lei mi chiede come mai in giro si avverte così tanta paura. È che la situazione è oggettivamente peggiore di una generazione fa. La famiglia tradizionale, uno dei fattori base del miracolo del Veneto, tiene sempre meno. Non c’è stato neppure il tempo di digerirlo, il miracolo, che occorreva rimontarlo. Ed è già stato miracoloso che si sia assorbito il contraccolpo degli anni Novanta e dell’euro. Il problema fa capo alla politica non all’economia».
Domando se la recente radicalizzazione degli amministratori del Veneto sulla sicurezza non possa essere letta anche come una reazione al mutato atteggiamento della sinistra sul problema. Forse è per difendere il copyright di un prodotto a denominazione a origine controllata, che su questi temi negli ultimi mesi i politici veneti hanno fatto a gara in fantasia e aggressività. A Cittadella legano la possibilità di ingresso al reddito dimostrabile, a Chiarano vogliono un tetto per i bambini stranieri nelle scuole, a Treviso inneggiano ai metodi delle Ss. E tutte queste iniziative si diffondono a macchia d’olio. Cacciari risponde che l’insicurezza ha un fondamento oggettivo: «È almeno dagli anni Novanta che il problema della sicurezza è diventato strutturale. Nel Veneto si è avvertito prima perché siamo più esposti. La sinistra non era affatto attrezzata, avevano in mente la contestazione, il romanticismo del ribelle, questi dementi». La svolta veltroniana rappresenta un risveglio, un cambiamento di rotta, o si accoda al continuo abbaiare della destra? «Il problema», risponde Cacciari, «è che la politica dovrebbe razionalizzare queste paure, non enfatizzarle per prendere un voto in più. La protesta incivile non è colpa del cittadino insicuro, ma di una politica stracciona che soffia sul fuoco e fa leva sulla paura, prendendo a modello della destra americana. Quindi, io penso che Veltroni abbia fatto bene, ma che il pacchetto sia un’aspirina, indicava una strada giusta, ma gli investimenti necessari non sono seguiti e le risposte saranno sempre più violente. È una storia antica, questa, ma in Italia la complicità tra suddito e sovrano sulla paura, mi creda, non è mai stata così forte». Chiedo se negli ultimi tempi, in Veneto, la tendenza a soffiare sul fuoco sia diventata più trasversale: «Lo è sempre stata. Sto battendomi per un campo nomadi e ce li ho contro tutti, da An a Rifondazione. È che sul piano della sicurezza repressiva e preventiva, quella seria, ci lasciano in merda. Vede, cercare di fare ragionare la gente, non paga in termini elettorali. A livello subliminale le persone si tranquillizzano, ma poi votano un altro. È lo stesso meccanismo per cui se il medico ti dice che non hai niente e non ti prescrive una medicina, ti senti più sicuro, ma poi cambi medico. Io le cose che dicono i sindaci veneti sulla sicurezza non potrei dirle, non perché non li capisca, ma come non mi metto le dita nel naso, per un fatto di buona educazione».
Quando la paura mangia l’anima, inizia dai luoghi in cui si è obbligati a sedersi di fianco al pericolo. E qui il pericolo è riassunto in un solo personaggio sociale, gli immigrati o gli «extra» come vengono chiamati. Il primo di questi luoghi di convivenza coatta è la scuola. È un tema, anche questo, che nel Nord Est è stato posto prima e in modo più drammatico che nel resto del Paese. Secondo un recente sondaggio del Gazzettino, il 27 per cento dei veneti sarebbe favorevole all’istituzione di classi separate per bambini italiani ed «extra». Voglia di segregazionismo che neppure in Alabama. Eppure, assicura Cacciari, il problema esiste: «Ci arriveremo, se va avanti così. Il grado di integrazione dipende, prima di tutto, dal personale scolastico che per la mia esperienza è straordinario. Io penso che le classi dovrebbero sempre essere miste, ma anche che occorrono insegnanti di sostegno e, invece, il governo ci ha appena tolto i fondi». A leggere i dati del ministero della Pubblica istruzione, la situazione non sembra diversa che altrove. In Veneto gli alunni con cittadinanza non italiana sono il 9 per cento del totale contro il 10,7 dell’Emilia-Romagna, il 10,1 dell’Umbria e il 9,2 della Lombardia. Quanto alle città, la zona di Treviso con l’11 per cento è ancora lontana dal 14 di Mantova o dal 13,5 di Prato. I dati della Regione Veneto, entrando più nel dettaglio, parlano di oltre cento istituti nel Nord Est dove i ragazzi stranieri superano il 20 per cento, di classi dove ci sono punte del 40 e di alcune scuole dell’infanzia, dove si arriva addirittura al 60. La scintilla si è accesa in un piccolo paese al di là del Piave, Chiarano, grazie all’iniziativa di un sindaco leghista piuttosto creativo che, un mesetto fa, ha proposto di istituire per legge un tetto del 30 per cento per i bambini non italiani. L’idea è molto piaciuta, ha fatto discutere e ricevuto consensi fino a riverberarsi a livello nazionale nello scontro tra il ministro dell’Istruzione Beppe Fioroni e il sindaco di Milano Letizia Moratti sull’ordinanza di divieto di iscrizione all’asilo ai figli di persone senza permesso di soggiorno.
Prima di diventare sindaco di Chiarano – quattromila anime, un pugno di ville bellissime e una base Nato dismessa –Gianpaolo Vallardi ha governato per due mandati il vicino paese di Gorgo al Monticano, teatro, nell’agosto scorso, dell’atroce omicidio di Guido Pellicciardi e Lucia Comin, i coniugi massacrati in casa da un gruppo di rapinatori (uno di loro, Artur Lleshi, albanese di 33 anni, si è impiccato il 20 dicembre nel carcere di Padova). In seguito al delitto, i cittadini della zona, guidati da Vallardi, che è anche capogruppo provinciale della Lega Nord, si organizzarono in ronde che conquistarono la ribalta nazionale. A Chiarano, Vallardi organizza corsi di difesa per i cittadini interessati, distribuisce opuscoli intitolati «Ocio a chi bussa» e ha regalato a tutti gli anziani del paese un sistema d’allarme. Ti aspetteresti di incontrare un texano dagli occhi di ghiaccio; invece, ti ritrovi di fronte un quarantacinquenne gentile con cui è interessante parlare. Non è un fanatico (si definisce «un moderato della Lega»), allora come gli è venuta in mente la proposta sulle classi miste? «In classe di mia figlia ci sono due o tre ragazzetti romeni più grandi che fanno i bulli e a me non è mai andata troppo giù. Poi, parlando con altri genitori ho saputo che ci sono classi con una presenza di stranieri insostenibile. Nel momento in cui questi ragazzi vengono catapultati nella scuola italiana, senza sapere spesso nemmeno la lingua, è ovvio che vengano emarginati e diventino violenti. Non hanno un DNA diverso dal nostro, quella è roba di sessant’anni fa che ha fatto tragedie. Se fossi stato mandato in Romania a 13 anni, anch’io probabilmente sarei diventato un delinquente. Ci vogliono classi di inserimento, corsi preparatori a parte».
L’idea di separare bambini italiani e stranieri evoca fantasmi di segregazione e razzismo che non riesci ad applicare allo stile di quest’uomo. Lui spiega la sua visione del mondo: «Occorre riflettere sulla società che vogliamo. Di questo passo, saremo come gli americani. Io preferisco una società di tipo austriaco dove l’integrazione, ammesso che esista, è molto più limitata. E guardi che se qui la gente fa i figli tardi è soprattutto perché non ci sono i soldi… Io non condivido la frase sui “bamboccioni” di Padoa-Schioppa, però vedo che le nuove generazioni, mia figlia che ha dodici anni, vivono l’onda lunga del benessere di dieci anni fa, non conoscono i sacrifici che abbiamo fatto noi e non credo che abbiano assorbito quella cattiveria imprenditoriale che nasce dal bisogno. Inseguono miti di consumo. E riconosco che alcuni ragazzi extracomunitari hanno più voglia di emergere dei nostri. Ed è un fatto che ormai solo gli extracomunitari fanno figli». La preoccupazione per i figli e per la loro inadeguatezza si congiunge a un incubo altrettanto profondo, quello di ritrovarsi a essere, in pochi decenni, una terra di vecchi.
L’attacco agli stranieri sembra figlio di un senso di impotenza, quella che ti fa difendere il frigorifero dalle orde affamate, anche con le armi, se necessario. «Abbiamo costruito troppi capannoni, puntando su lavorazioni con poco valore aggiunto e oggi ci troviamo in competizione con la Romania e la ex Jugoslavia», spiega, «dobbiamo investire in tecnologia, così poi non ci sarà tanto bisogno di extracomunitari. Io sono convinto che gran parte dei nostri problemi venga da un’eccessiva concentrazione di extracomunitari, abbiamo raggiunto la saturazione. Ieri notte hanno svaligiato cinque o sei case, ma è anche capitato che abbiano rubato i polli. Significa che è gente disperata, che ha fame. Dobbiamo aiutarli a casa loro. Il nostro territorio non era preparato ad accogliere questa massa di persone, forse negli anni del boom ci siamo illusi, ma oggi non siamo più in grado». Se gli fai notare che ricondurre tutto alla presenza degli stranieri è riduttivo, se gli chiedi di descrivere un disagio che avverti ovunque, la risposta è quella di un uomo sorpreso da come si sono messe le cose e preoccupato di come potrebbero andare. «Basta guardare i dati della stradale, qui il picco di incidenti è il venerdì pomeriggio, la gente è esausta da una settimana stressante. Sono tutti quanti costantemente incazzati. Negli ultimi vent’anni il nostro territorio è morfologicamente cambiato, la popolazione è raddoppiata ed è raddoppiato il numero di industrie, solo il sistema viario è rimasto lo stesso. Mio padre ci metteva 40 minuti in bicicletta ad andare da Chiarano a Treviso, io ci metto un’ora in macchina, le pare possibile?»
E allora lo vedi che molto si gioca sul confronto con il passato, sul confronto tra il paesaggio di oggi e quello del ricordo, su una specie di nostalgia di quando si era poveri: «Quando ero piccolo c’era una comunità, si andava in stalla ogni sera, il vicino era come un fratello. Oggi, se il tuo amico si fa la BMW ti rodi per mesi e t’indebiti per fartela. E infatti l’indebitamento qui sta diventando un problema grossissimo. Gli extracomunitari hanno aggravato questa situazione perché hanno fatto esplodere il problema della sicurezza. Il miracolo del Nord Est è stato possibile perché qui, per decenni, la gente ha lavorato e basta, dalla mattina alla sera, e questo ha disgregato la nostra società. Quando abbiamo alzato la testa dal lavoro, ci siamo accorti che il nostro mondo era cambiato e non era migliore. Per questo c’è un nuovo bisogno di aggregarci, ci sentiamo in pericolo». I crimini commessi da extracomunitari – che sono reali, per carità – hanno dato un’identità e una forma a un senso di insicurezza molto più profondo, nato dal non riconoscere più, alzando gli occhi dalla fabbrica, il mondo di prima e dal sentire che, nonostante tutta la fatica, non c’è nulla di solido, nulla che non possa sprofondare e scomparire, di nuovo e per sempre, nel fango. Oggi il simbolo di queste paure s’incarnano nei romeni, dieci anni fa si dicevano le stesse cose degli albanesi. «Io la vedo in modo diverso: siamo riusciti ad assorbire gli albanesi, ma per i romeni non abbiamo più spazio». Però è un concetto che negli anni Sessanta valeva per anche per i “terroni”. Il sindaco sobbalza: «No, guardi, per i terroni era tutta un’altra cosa. Molti di loro sono morti qui vicino, sul fronte del Piave».
Fin dai tempi di Franco Rocchetta, il fondatore della Liga veneta che Bossi s’è mangiato, ci siamo così abituati a sentire abbaiare di secessione i leghisti che abbiamo rinunciato a chiederci perché. Riattraversato il Piave verso ovest, si oltrepassa un gigantesco mausoleo bianco sul quale è scritto in lettere grandi come un trauma che non deve acquietarsi: «Il Piave mormora». Poi, si arriva a Treviso, circondata da canali che, come capillari, si divaricano dai fiumi per comunicare con il mare. Al bar dei Signori in piazza dei Signori le ragazze chiacchierano di ragazzi sedute fuori, come se non fosse gennaio, ma già primavera. È il bar dove Pietro Germi nel 1965 girò il suo ultimo film, Signore e signori, e non si può fare a meno di notarlo da tanto le pareti sono tappezzate di manifesti. Tutto intorno, i palazzi del Trecento, alcuni dei quali bombardati nell’aprile 1944, sono tempestati di lapidi che ricordano il glorioso popolo trevigiano che in massa votò l’annessione al Regno d’Italia al plebiscito del 21 ottobre 1866, il prode Mazzini, il grande Cavour e il fantastico Vittorio Emanuele. Ancora oggi, la rubrica delle lettere della Tribuna di Treviso in un giorno qualsiasi offre dotte disquisizioni sul plebiscito. «Solo alcuni giornaletti di fanatici estremisti clericali furono contrari. Quasi tutta la borghesia veneta era per l’unità», scrive Franco De Rossi di Treviso.
È la stessa piazza dove ogni domenica mattina, il vulcanico ormai ottuagenario, Giancarlo Gentilini, oggi prosindaco, appare a dare spettacolo. Gli avrei chiesto di ricordare il mondo di quand’era bambino, ma in città il parcheggio è fitto quanto l’agenda del prosindaco. Treviso è una città ricca, bella e tranquilla. Eppure, anche qui, l’emigrazione non è l’unica fonte di dolore. A Castelfranco Veneto una donna di quarant’anni, Iole Tassitani, è appena stata fatta a pezzi dall’impiegato di un mobilificio di Bassano del Grappa, Michele Fusaro, che voleva sistemarsi. È stato arrestato grazie alla segnalazione del cognato marocchino ed è uno schema, quello degli stranieri che denunciano delitti commessi da italiani, che sta diventando statisticamente rilevante. In città si discute del coro intonato la domenica prima dagli ultras trevigiani contro il Portosummaga: «Michele Fusaro segna per noi». Non è l’unico caso. A Cimadolmo, esattamente un anno fa, sulle rive del Piave era stato ritrovato il corpo di Gabriella Barbiero, 52 anni, massacrata a bastonate dal marito Claudio Baldassin e dai due figli Benjamin e Brian. Il motivo, una cascina del valore di 400 mila euro che la donna non voleva lasciare. Lui era capocantiere nell’impresa edile Setten Genesio S.p.A., cioè del fratello del presidente del Treviso calcio. Una famiglia normale, perbene.
Gerardo Favaretto è uno psichiatra ottimista e di sinistra. Dirige il Dipartimento di salute mentale dell’Ospedale di Treviso ed è il presidente della sezione veneta della Società italiana di psichiatria. La sua vita professionale è trascorsa girando il Nord Est. «Qui c’è qualcosa che continua a reggere», dice, «perfino le amministrazioni leghiste mostrano in genere una forte sensibilità verso il disagio. Il tessuto sociale reagisce, anche in modo dignitoso, come se ci fosse la memoria della società agricola. Raramente le persone fragili, anche gli immigrati, arrivano da noi senza relazioni, sono integrati». Allora come è possibile che in Consiglio comunale un consigliere possa avere detto: «Sarebbe giusto fargli capire come ci si comporta usando gli stessi metodi dei nazisti. Per ogni trevigiano a cui recano danno o disturbo, vengono puniti dieci extracomunitari».? Favaretto alza le spalle: «Ma poi se ricoveriamo un operaio romeno capita che il datore di lavoro gli tenga il posto e si interessi. Ho la sensazione che lo scontro avvenga soltanto su un terreno collettivo: quando le persone si relazionano singolarmente non hanno paura». Definire il disagio di una zona attraverso la lente di un ospedale psichiatrico è una richiesta impossibile, e Favaretto parla tra tutte le cautele possibili: «Le nostre pazienti sono soprattutto donne, si sono verificati casi di infanticidio e gli episodi di depressione post partum sono in aumento. Stiamo facendo uno screening per vedere se è possibile un’analisi preliminare. Altro problema ricorrente riguarda gli anziani. L’impatto della pensione è fortissimo, inizia a essere rilevante. Hanno la nostalgia di una comunità in grado di accoglierli e che oggi non sembra più in grado di farsi carico di loro. Poi ci sono i disturbi della personalità: una volta ci si ammalava di schizofrenia e punto. Oggi si vedono sempre più spesso persone che si isolano, non escono di casa, diventano apatiche».
Si tratta di tendenze comuni in tutto l’Occidente industrializzato, «però», continua Favaretto «qui c’è anche qualcosa di generazionale. Capita che i genitori ci portino i figli soltanto perché hanno un conflitto con loro. Si aspettano che finché sono in casa ubbidiscano e si allineino ai modelli e ai doveri imposti dal padre. Nel caso di un ragazzo di Conegliano, ci siamo accorti che padre e figlio parlavano linguaggi così diversi che l’atteggiamento del primo veniva percepito come patologia, mentre era soltanto allineato ai suoi tempi». Favaretto è convinto che in questo purgatorio tra città e campagna, antico e moderno, che il Veneto è oggi, le strutture di base, sia istituzionali che culturali, continuino a reggere: «Esiste un modello sanitario avanzato in Veneto, il territorio ha già le risposte al disagio psichico, la difficoltà maggiore sta nel comunicarle, nel fare sì che la gente si fidi, ma c’è ancora molto pregiudizio. Il centro della comunità, qui, è ancora il prete e non è raro che sia il parroco a segnalarci situazioni di difficoltà. Il volontarismo cattolico ha due facce: ci sono i gruppi di preghiera, ma c’è anche il lavoro sociale». E infatti i gruppi di preghiera sono centinaia. Per fare un esempio, qui l’associazione Rinnovamento Spirito Santo conta dodici gruppi di preghiera nella sola zona di Treviso. Qualche mese fa la Conferenza episcopale del Triveneto si è riunita a Mestre, mettendo al primo punto nell’ordine del giorno il problema dell’esorcismo, della presenza del diavolo e delle crescenti richieste di aiuto da parte dei fedeli.
La stampa nazionale riprendeva, ora in forma anonima ora con nome e cognome, le dichiarazioni di un vecchio parroco del vicentino secondo il quale non si erano mai registrate tante richieste di esorcismi come negli ultimi mesi. Basta qualche telefonata, per accorgersi che la questione è più sottile e, per questo, più interessante. L’aumento di richieste di esorcismo, che è reale, rappresenta l’ennesima conferma di un disagio generale e culturalmente sradicato, che non sa più a chi rivolgersi per stare un po’ meglio. Che poi, alla base del fenomeno, ci sia il diavolo, Prodi o Berlusconi pare per tutti solo questione di punti di vista. Monsignor Corrado Pizziol, vicario uscente generale della diocesi di Treviso, racconta: «Sì, abbiamo notato un aumento della sofferenza personale e sociale. È che la complessità, la frammentarietà e la confusione di valori favorisce la frantumazione delle persone. Provi pensare alla facilità con cui, oggi, un ragazzo accede attraverso Internet a siti di ogni tipo, non solo porno, ma anche esoterici e magici». Quantificare il fenomeno è un po’ più complicato: «A me personalmente arriva un centinaio di richieste all’anno, si tratta di gente che telefona in Diocesi chiedendo un esorcismo e che, spesso prima di rivolgersi alla chiesa, ha consultato maghi, cartomanti o psichiatri. Anche le sette sono in aumento. Ma queste sono le richieste telefoniche, perché nella nostra Diocesi l’iter normale è un altro. Il primo discernimento è affidato al parroco del paese che, se ravvisa la spiegazione di qualcosa di inspiegabile, invia la persona al vicario generale per un secondo discernimento. Quando giudico che c’è bisogno di una preghiera di esorcismo, allora avviso un sacerdote incaricato dal vescovo perché faccia una preghiera di liberazione».
In tutto il Veneto sarebbero attivi un centinaio di esorcisti, ma nel solo Nord Est le richieste di intervento sono migliaia. È una credenza antica (basti pensare al fatto che a Fanzolo, un paesino vicino a Montebelluna, si festeggia ogni anno la Madonna degli indemoniati.) che presenta, però, anche caratteri moderni, almeno a giudicare dalla disinvoltura sincretica con cui ci si rivolge a un culto o all’altro. La sorpresa più grande è un’altra: chi chiede alla chiesa di essere liberato dal diavolo non presenta caratteristiche culturali o sociali simili. Pizziol continua: «Quello che è certo è che si tratta di persone che soffrono molto, che hanno già provato di tutto, Milingo, santoni, maghi. È gente che fa pena e che ha bisogno di rispetto perché soffre. All’inizio pensavo che ci fossero alcune categorie più colpite. Invece, con mia grande sorpresa, ho rilevato un fenomeno generale che coinvolge uomini e donne, giovani e vecchi, indipendentemente dal reddito e dal titolo di studio. Ho l’impressione che sia in aumento la fragilità delle persone, la sofferenza psicosomatica che comporta gravi depressioni e malattie che coinvolgono l’anima. Ho riscontrato che nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di malattie di carattere psichico a cui la scienza medica a cui la scienza non sa offrire risposte immediate ed efficaci. Questo facilita lo scoramento delle persone che pensano subito al demonio o al malocchio. I casi reali di indemoniati, però, non sono aumentati. Gli stessi esorcisti parlano di casi rarissimi in cui c’è il maligno. Il male produce sempre male. L’odio l’invidia e il disordine affettivo e sessuale producono sempre e solo male. E in questo, secondo la Chiesa, comunque, agisce il maligno». Don Ivan Maffeis, direttore di Vita Trentina, e responsabile dell’ufficio stampa della Curia, al telefono lo spiega con altre parole: «Etimologicamente la parola diavolo è il contrario di dialogo, il diavolo è colui che divide».
Il Nord Est non ha una metropoli. Si stravacca sulla campagna come un’immensa periferia disperatamente alla ricerca di una vera città a cui congiungersi. Il fuoco prospettico, la meta implicita di questa rivoluzione geografica non può che essere Venezia e questo rende la ricerca impossibile, perché Venezia sarà sempre lontana, un punto al di là di un imbuto strettissimo, un’apparizione attorno alla quale si aggrovigliano strade provinciali, autostrade e tangenziali perennemente ingorgate. È la «città diffusa» che non è vera città, ma della città ha tutti i problemi. Scrive Andrea Zanzotto nella magnifica introduzione al libro fotografico Essere Venezia di Fulvio Roiter: «La linea più sconvolgente accoppiata in stridore che esista al mondo, Venezia legata insieme a Mestre-Marghera (qual è il vivente, qual è il cadavere?) di colpo sfida a una sutura di recupero attraverso l’oscenità del reale e del presente […] torna ossessivo il confronto tra ciò che è quasi viziosamente minuto, inciso, lavorato e ciò che è quasi viziosamente informe, incoercibile a struttura, libero di non decidersi mai». Più in prosa, la sensazione è di una regione in cui la gente si sia svegliata dopo decenni di lavoro accorgendosi che tutto era cambiato, che la terra era meno ferma di prima. Che la roba accumulata in decenni di fatica sulla terra scivolosa poteva sprofondare nel fango, essere inghiottita dall’acqua che può sciogliere tutto. È il senso incombente di un’alluvione possibile. È un uomo che si aggrappa alla terra e la riconosce come unica fonte di ricchezza e stabilità solo quando non può più riconoscerla perché è troppo cambiata. E se in una mattina d’inverno quest’uomo guardasse l’unica cosa che resta, Venezia piantata sui pali, Venezia che può sprofondare, e il suo skyline in matita leggera, si rassegnerebbe al fatto che, nella vita, ogni bellezza è fragile e appare irreale.
Questo articolo uscì su Diario il 1° febbraio 2008
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