Enrico FIERRO.

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La rabbia bianca di Castel Volturno «Noi, i discriminati». Ma pochi


Enrico Fierro


«Ma è mai possibile che 'e guardie fermano solo a noi. A mio figlio hanno sequestrato la macchina pe na strunzata, non teneva l'assicurazione. Ma se quello non lavora come sfaccimma la paga l'assicurazione? Ma perché non fermano i negri. Dottò noi non siamo razzisti come dicono Santoro e Ruotolo che ci hanno fatto una chiavica in tv. Scrivetelo: noi siamo per la legalità. I negri se ne devono andare». Voci da Castel Volturno, voci stonate, bocche allargate a vomitare parole di odio. Contro tutto e tutti. Voci da una delle capitali del disagio di un Sud che sta per scoppiare. Un luogo non luogo che si chiama Domiziana. Una strada diventata informe periferia metropolitana in pochi anni. Una interminabile e orrenda teoria di case, palazzoni abusivi, ghetti maleodoranti, concessionarie di auto di lusso, albergacci dai nomi esotici, negozi cinesi, sale giochi, bar che si chiamano tropical e espongono palme di plastica, enormi cumuli di monnezza e masserie dove pascolano nere bufale con i fianchi incrostati di letame.

In questo pezzo d'Africa tra Napoli e Caserta trovi bianchi e neri, gialli e slavi dalla pelle pallida, onesti e malacarne, killer di camorra e boss. Tutti costretti a vivere insieme in un ex paradiso devastato da anni di incuria, di speculazione edilizia, di colpevole abbandono da parte dei governi e della politica.

È qui, a Castel Volturno, che ieri è scesa in piazza la rabbia bianca. Avevano promesso la serrata, ma i negozi erano tutti aperti, un grande corteo, ma c'erano poco più di cento persone. Quelli che c'erano si sono mostrati, hanno tirato fuori tutto quello che hanno in corpo. Il disagio per una vita miserabile in un posto miserabile, diventato presto odio. Contro il vescovo di Capua, monsignor Giulio Schettini, definito su un cartello «un magnaccio» che «ha trasformato Castel Volturno in un ghetto». Contro il governo che ha mandato i militari, contro la polizia che fa i posti di blocco, contro i centri di accoglienza, contro il sindaco. Il leit motiv del corteo sono i controlli. «Li vedete i soldati, stanno pure con la mimetica, questi ci hanno messo lo scuorno (la vergogna, ndr) in faccia. Vengono qui e la loro unica preoccupazione è dare la caccia ai vertici della camorra. Ma non li vedono tutti sti negri, che spacciano droga, che fanno prostituire le loro donne? A questi devono combattere i militari». «Ai posti di blocco fermano solo i bianchi, dicono che cercano i latitanti…». «Santoro è nu strunz…». «Il sindaco se ne deve andare, ha pure pagato i funerali ai sei negri uccisi, ma ai figli di mamma che muoiono chi ci pensa». «Il vero razzismo è quello che fanno contro di noi». Le parole sono queste. Tutti vogliono la legalità, pochi nominano la camorra. E allora, se è troppo semplice e scontato definire questa gente razzista, è davvero difficile non farlo.

Ci sforziamo di capire. Tra i cento o poco più c'è gente che non ce la fa, non arriva a fine mese, che non ha un lavoro, che è stanca di vivere in palazzoni dove sapori, umori, odori, nazionalità e disperazioni si mescolano. Ma ci sono anche volti e gente che vive oltre i margini di quella legalità che vagamente viene invocata. E parenti di qualche camorrista arrestato dopo l'eccidio dei sei immigrati. Il padre di uno di loro riceve strette di mani in segno di solidarietà. Quella negata pochi mesi fa ad un uomo onesto e alla sua famiglia. Si chiamava Domenico Noviello, ucciso dalla camorra perché vent'anni prima aveva denunciato il racket. Ai suoi funerali c'era pochissima gente.

Il ragazzo grassoccio e con la catena d'argento al collo che sta dietro il bancone della pasticceria nella piazza del paese è esplicito: «Io so’ razzista, che ci posso fare, mammà mi ha fatto così». Fuori c'è affisso un manifesto del Pdl. «Anno Zero, trasmissione antistatalista». Altre frasi contro i controlli, le intercettazioni e i centri di accoglienza. «Santoro è un criminale dell'informazione». Lo dice il consigliere del Pdl Sergio Luise. «L'immigrazione qui è un affare per tanti». Sono d'accordo, è un business per chi fa lavorare gli extracomunitari in nero, per chi affitta loro le case, per la camorra che prende percentuali sulla droga spacciata e sulle puttane messe sulla strada. Il consigliere mi guarda: «Il problema è un altro: l'affare lo hanno fatto i professionisti del buonismo, le associazioni tipo Caritas, i centri di accoglienza». Quando arriva il corteo che urla frasi contro il sindaco Francesco Nuzzo («sindaco monnezza dimettiti»), il consigliere d'opposizione del Pdl guarda soddisfatto ma defilato. Lascia fare.

Il sindaco non c'è, è a Brescia dove fa il giudice. Per telefono ci dice che «Castel Volturno è un problema sociale enorme, questa manifestazione è solo l'avvisaglia di un disagio sociale fortissimo che rischia di esplodere».

Pubblicato il: 08.10.08
Modificato il: 08.10.08 alle ore 8.17   
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In 40mila nella terra dei clan.

Ciotti: «Fuori dalla Chiesa i mafiosi»

di Enrico Fierro


Un Paese in guerra. Con eserciti che si combattono, le battaglie vinte e quelle perse, i morti e i feriti, gli eroi e i vigliacchi. Sì, una guerra. Lunga e interminabile.
È questa l'immagine che ti si fissa nella mente qui, a Casal Di Principe, lembo devastato della “Campania ferox”. Monnezza, veleni, guappi, killer, onesti e disonesti, e gli sfregi della devastazione sui paesi, sulle terre, finanche sulla vita della gente. E come in ogni guerra ci sono i sopravvissuti, le vedove, gli orfani, i fratelli e i genitori dei caduti. Per loro ci sono anche le medaglie del capo dello Stato. Alla memoria, quella che da quattordici anni, ormai, “Libera” e don Luigi Ciotti, prete e coscienza critica dell'Italia smemorata e rassegnata, coltivano con ossessione. “Non ne posso più!. Ogni anno la lista dei morti di mafia, camorra e 'ndrangheta si allunga”, dice dal palco ai 40mila che sono venuti in questo pezzo di Sud da tutta Italia. Anche dal Nord. Per non dimenticare, ma anche per urlare che “L'etica libera la bellezza”.

Slogan bellissimo
Slogan bellissimo e ingenuo in queste lande offese da politici che blaterano di legalità senza mai pronunciare la parola camorra, quaquaraquà che prendono voti e ordini dai boss. Ma lo slogan piace ad un vecchio uomo. La sua faccia è di quelle che incontravi nel Sud di una volta. Larga, sincera, con le rughe di un tempo scandito da fatica e sacrifici. E’quella di Gennaro Diana. Suo figlio si chiamava Giuseppe, don Peppino, il prete di Casale che la camorra uccise il 19 marzo di quindici anni fa. Questa giornata è intitolata a lui, il suo giovane volto è una effige stampata su manifesti, magliette, un grande striscione che occupa tutto il palco. Un “Guevara” cattolico per scout, studenti, ragazzini delle medie e bambini delle elementari col cappellino giallo. Il vecchio Gennaro si guarda intorno e sorride. “Hanno ucciso mio figlio, ma da allora è iniziata la loro sconfitta. La camorra non ha vinto”. Accanto ha sua moglie Iolanda, il nero addosso e la medaglietta col volto di Pinuccio al collo, e un altro figlio, Emilio. “La sera prima di essere ucciso Peppino aveva chiesto di comprare le zeppole per la festa di San Giuseppe. Da noi usa così”. La mattina del 19 marzo 1994, erano le sette , quando un commando della camorra casalese entrò nella sagrestia della chiesa del paese. C'erano pochi fedeli a quell'ora, don Peppino era senza protezione.
I killer spararono. Uccisero davanti all'altare e al volto santo del Cristo, come nel Salvador di monsignor Romero.

Dal palco enormi casse diffondono una canzone di Vasco Rossi, “voglio trovare un senso a questa storia”, dicono le parole. Già, qual è il senso di questa storia di guerra che ci racconta la morte di un prete? “E' la forza bestiale della camorra”, risponde Emilio Diana. “I boss, non potevano sopportare che un prete parlasse in chiesa contro di loro, gli intoccabili”. “Per amore del mio popolo non tacerò”, diceva don Peppino, il prete-profeta. Che aveva idee chiarissime sui mali della sua terra. “Il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l'infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La camorra riempie un vuoto dello Stato che nelle amministrazioni è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. Così la camorra diventa uno Stato deviante e parallelo rispetto a quello ufficiale”.

Ieri come oggi
Ieri come oggi. Tutto uguale in queste terre del Sud dove i boss eleggono sindaci e deputati, dove un sottosegretario potente del governo Berlusconi, Nicola Cosentino, è indicato da cinque pentiti come referente dei clan, dove i boss si sono infiltrati nel grande business dei rifiuti e dei centri commerciali, dell'edilizia e dello sfruttamento dei fondi europei. Li chiamano i casalesi. “Casalese non è il nome di un clan, ma quello di un intero popolo”, avverte uno striscione. “Anche mio padre era un casalese”. Parlano i figli di Federico Del Prete. Di mestiere faceva il venditore ambulante, per passione il sindacalista, per rabbia e senso civico denunciò imbrogli e estorsioni.
Lo uccisero il 18 febbraio 2002. “Papà fu lasciato solo, aveva scoperto il racket delle buste di plastica imposte dalla camorra agli ambulanti, un affare da 5 milioni di euro. Aveva denunciato tutto e gli avevano assegnato una scorta saltuaria”. Quando salgono sul palco a prendere la medaglia d'oro concessa dalla Presidenza della Repubblica, i figli di Federico Del Prete si tengono per mano. Con loro i familiari di Domenico Noviello, anche lui faceva l'imprenditore, anche lui aveva denunciato il racket del pizzo.
Anche lui era solo e fu ucciso per il suo coraggio. “E allora basta - urla don Ciotti dal palco – la Chiesa dica con chiarezza che gli uomini e le donne della mafia, i complici e i conniventi sono fuori”. E'una guerra che va combattuta con atti concreti, “lavoro, giustizia sociale, sicurezza”. Perché la mafia più pericolosa è quella delle parole”. “E a parole ci siamo tutti, sempre”, dice con malinconia don Luigi Ciotti.

20 marzo 2009
da unita.it

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I tristi addii di un paese mai abbastanza raccontato

di Enrico Fierro inviato a L'Aquila


Le statistiche dicono tutto, ma non raccontano niente. A giorni sapremo come i morti del terremoto sono divisi paese per paese, per sesso, per età, per condizione sociale, per il timbro impresso sul passaporto. Ma sono calcoli freddi che non si imprimono nella memoria. Maciniamo numeri davanti alla tv. Tanti morti per le stragi del sabato sera, per le guerre, per gli incidenti sul lavoro. Eppure dietro ogni numero c'è una vita. Le ambizioni bruciate dagli anni e dai fallimenti, e i sogni giovani tutti ancora da vivere. Dietro ogni numero di quei 272 morti del terremoto c'è un pezzo d'Italia che abbiamo l'imperdonabile colpa di non raccontare mai. Uomini e donne, giovani e anziani, studenti e manovali, italiani e stranieri: un paese intero, il paese dei morti.
Che parte avrà nella statistica del dopo Rosalba Franco? Strappava la vita a Poggio Picena ed era una lavoratrice precaria al Comune. Ragazza madre con un figlio di dieci anni, dicono in paese. E lo dicono con comprensione, senza mai un accenno di giudizio, perché da queste parti la gente ha imparato ad essere aperta e accogliente. Rosalba è uno dei cinque morti del suo villaggio di mille abitanti. Viveva nel centro storico, la stanza per dormire era al secondo piano, quando l'hanno trovata il letto era al primo. Lei abbracciata al suo piccolo uomo.

E della piccola figlia di Grek Pavel, che di mestiere faceva il muratore? Di lei non sanno ancora il nome preciso. Colpa della burocrazia. Perché la bambina era in Italia da pochi giorni, Grek il padre aveva realizzato finalmente il suo sogno, portare la famiglia dalla Moldavia a Fossa, riabbracciare il suo cucciolo di tre anni. Ricongiungimento, si chiama. Lo facevano i vecchi emigranti abruzzesi quando andavano nella loro America. Una vita di pane e cipolla, la casa e poi il “richiamo” per la famiglia. Per Grek e la sua piccola il sogno dell' America che si chiama Italia si è spezzato nella notte di domenica.

I grandi campi

Sognava i grandi campi. E in un club importante aveva anche giocato, la giovanile della Fiorentina. Un successo, e a soli 14 anni. Poi il fallimento della squadra e il ritorno in Abruzzo, a giocare nel Loreto, a Celano. Sempre con lo stesso impegno. Il “campione” lo chiamavano. Domenica era andato a trovare la sua fidanzata a L'Aquila, in via XX settembre. Alle 3 passate il rombo che annuncia il sisma. La ragazza muore sul colpo, Giuseppe resiste, gli è crollato il soffitto addosso, ma ce l'ha fatta. Muore nella notte tra lunedì e martedì all'ospedale di Teramo. «Con negli occhi il verde del campo da gioco e il ricordo dell'odore dell'erba fresca”, dicono i suoi cari amici.

E quali erano i sogni dei ragazzi di via XX settembre, quelli della Casa dello Studente? Serena Scipione voleva laurearsi in medicina. Le foto la mostrano allegra, bella e solare. Da medico – confidava alle amiche – voleva andare nei paesi dove c'era più bisogno per salvare vite umane. E' morta con la sua amica Federica Moscardelli, 25 anni. Una forza della natura. Studiava a L'Aquila, ma al suo paese era volontaria della Croce Bianca, frequentava la chiesa e cantava nel coro.

Ragazzi

Ragazzi. Un pianeta indefinibile. Ognuno di loro è un mondo, una storia a sé. Fabio De Felice aveva vent'anni e studiava ragioneria. Lavorava. A Natale aveva fatto un po' di soldi spalando la neve. Domenica aveva anche litigato con i suoi che vivono a Onna e hanno una casa nuova. Solida di ferro e cemento. «Io nonna non la lascio dormire da sola. Ha paura del terremoto». Ha preso le sue cose ed è andato nella vecchia casa di pietra e tufi. Lì ha perso la sua lotta col sisma. Povero Davide contro un Golia che ha scaricato sulle fragili case dell'Abruzzo la forza di cinque atomiche.

09 aprile 2009
da unita.it

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