L’INTERVISTA
«Con l’emergenza coronavirus prove tecniche di autonomia. Corretti errori e ritardi di Roma»
Il professor Bertolissi vede negli ultimi provvedimenti una «breccia» nel centralismo: «Partire da Veneto ed Emilia»
Di Marco Bonet
«Se a Roma saranno saggi, e badi ho detto saggi, non intelligenti, una volta usciti dall’emergenza dovranno per forza riprendere in mano il dossier dell’autonomia. Mai come in questi ultimi tre mesi, infatti, si è visto che le Regioni possono svolgere alcuni compiti meglio dello Stato. Non occorre immaginare gravi e profonde revisioni dell’architettura istituzionale del nostro Paese, partiamo dalle cose semplici, concrete, dall’applicazione dell’articolo 116 della Costituzione. Inizierei subito da Veneto ed Emilia Romagna, che hanno dimostrato di saper svolgere benissimo il loro ruolo sia nella fase dell’epidemia che ora nell’uscita dal lockdown».
Professor Mario Bertolissi, in altre Regioni, però, non tutto ha funzionato altrettanto bene, anzi. «Per questo parliamo di regionalismo differenziato, l’autonomia non è per tutti. Sfido chiunque, però, a sostenere che Veneto ed Emilia, due regioni diverse per colore politico ma simili per popolazione e tessuto imprenditoriale, oggi non possono legittimamente aspirare a “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”».
Eppure c’è chi invoca al contrario un rapido «ritorno al centro», a cominciare dalla sanità. «Sì, li ho letti anch’io gli appelli sui giornali, firmati da autorevoli professori e presidenti emeriti della Corte. Tutti accomunati dal medesimo tratto: sono fortissimi sulla teoria, decisamente meno sulla pratica».
Che cosa intende dire? «Traggono i loro principi elucubrando sui massimi sistemi, quando invece a mio avviso li si dovrebbero ricavare dalla realtà. La tragedia che stiamo vivendo ci impone una domanda: qui l’emergenza è stata meglio gestita che altrove? Se la risposta è sì, si agisca di conseguenza».
Lei ha un giudizio molto negativo sull’azione dello Stato, perché? «Perché è stata caratterizzata da colpe e ritardi gravissimi. Partiamo dall’origine, l’esplosione della pandemia. Lasciamo perdere l’Oms, arrivata dopo tutti gli altri, ma ricorda che diceva l’Istituto Superiore di Sanità? Ricorda gli esperti secondo cui i tamponi erano “inutili”? Sono state le Regioni a correggere la rotta dello Stato, evitando il disastro, e l’hanno fatto grazie ad intuizioni straordinarie, come quelle del professor Crisanti, e grazie alla maggior vicinanza ai territori, là dove le cose accadono».
In Lombardia non è andata così. «Lo so. Il Veneto, questo ormai è notorio, ha retto l’urto grazie alla capillarità del suo sistema socio-sanitario, un modello che affonda le radici nel 1978 e nonostante i tagli continuamente imposti alla sanità è stato salvaguardato. Anche qui torna il concetto di base: i servizi funzionano quanto più sono prossimi ai cittadini. Mi pare l’abbiano riconosciuto pure Financial Times e New York Times, no?».
Che ne pensa di chi dice che le Regioni, così, vanno «ognuna per conto suo», alimentando il caos? «Una colossale sciocchezza, smentita dal fatto che perfino lo Stato, nonostante la sua natura unitaria, nell’emergenza ha deciso di affidarsi, o se vuole di “fidarsi”, delle sue articolazioni territoriali: le prefetture, quando si è trattato di far riaprire le prime aziende con i codici Ateco; i presidenti dei tribunali quando si è trattato di mettere ordine nella confusione che andava creandosi nella giustizia. In entrambi i casi le soluzioni non sono state calate d’imperio ma modellate sulle specifiche esigenze dei territori».
Un percorso che ha trovato il suo culmine nelle recenti linee guida per la «Fase 2», scritte dalle Regioni. «Un fatto straordinario, frutto di una “portentosa collaborazione” tra Stato e Regioni, così mi pare l’abbia definita il premier Conte, che è la traduzioni perfetta di quella “leale collaborazione” che ritroviamo all’articolo 120 della Costituzione. Un risultato che dipende anche dai rapporti personali, ovviamente: quelli tra Zaia, Bonaccini, Conte e il ministro Boccia mi sembrano ottimi e questo aiuta. In ogni caso io vedo positivamente anche il dissenso espresso dal presidente della Campania De Luca: è una forma di autonomia».
La litigiosità non è eccessiva? Non è per questo che negli ultimi giorni c’è stata tanta confusione sulle regole da seguire nelle riaperture? «Parlerei piuttosto di un confronto serrato, com’era giusto che fosse, una dialettica franca non è mai un problema se infine si arriva ad una sintesi. È accaduto lo stesso in Germania, tra i governatori dei Lander e la cancelliera Merkel, e negli Usa, tra il presidente Trump e i governatori degli Stati. Il confronto è elemento chiave in tutti i sistemi federali».
Ma alla fine le Regioni hanno preteso solide coperture in tema di responsabilità. Qualcuno direbbe: facile così... «Le Regioni hanno assunto la responsabilità delle riaperture, che difatti passano attraverso la firma delle ordinanze. Trovo giusta la pretesa “a monte” di volersi muovere in un quadro normativo certo».
Lo Stato non viene così confinato in un ruolo residuale? «È il principio di sussidiarietà previsto dalla nostra Costituzione. E non parliamo di un ruolo marginale. Lo Stato può ed anzi deve intervenire d’imperio nel caso in cui la curva dei contagi torni a salire ed è già intervenuto quanto le Regioni sono uscite dal seminato, come è accaduto con la Calabria e la Provincia autonoma di Bolzano».
Insomma, l’emergenza coronavirus ci ha avvicinato un po’ di più al traguardo autonomista inseguito da anni? «Io penso di sì. Trent’anni di battaglie stanno iniziando a fare breccia. Glielo dico io, che sono in prima linea da quando tutto è cominciato».
19 maggio 2020 (modifica il 19 maggio 2020 | 09:07)
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