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Autore Discussione: TUTTO QUELLO CHE SAPETE SUL NEOLIBERISMO È SBAGLIATO  (Letto 4033 volte)
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« inserito:: Aprile 22, 2019, 04:41:32 pm »

TUTTO QUELLO CHE SAPETE SUL NEOLIBERISMO È SBAGLIATO

THOMAS FAZI NOVEMBRE 16, 2017

Diciamo le cose come stanno: nell'odierna economia internazionale, sempre più complessa e interdipendente, la sovranità nazionale è diventata irrilevante. La crescente globalizzazione economica ha reso i singoli Stati sempre più impotenti nei confronti delle forze del mercato. L’internazionalizzazione della finanza e il crescente potere delle multinazionali hanno eroso la capacità dei singoli Stati di perseguire autonomamente politiche sociali ed economiche – in particolare di carattere progressista-redistributivo – e di assicurare la prosperità ai propri popoli. Pertanto, l’unica speranza di conseguire qualsiasi cambiamento significativo è che i paesi “mettano insieme” la loro sovranità e la trasferiscano a istituzioni sovranazionali (come l’Unione europea) che siano abbastanza grandi e potenti da far sentire la loro voce, riconquistando così a livello sovranazionale la sovranità persa a livello nazionale. In altre parole, per preservare la loro sovranità “reale”, gli Stati devono limitare la loro sovranità formale.

Se questi argomenti vi suonano familiari (e persuasivi) è perché li abbiamo ascoltati per decenni. I progressisti spesso sottolineano come il neoliberalismo abbia comportato (e comporti) una “riduzione”, uno “svuotamento” o un “esaurimento” dello Stato, concetto che a sua volta ha alimentato l’idea che oggi lo Stato sia stato “sopraffatto” dal mercato. Questo è comprensibile, considerando che la filosofia politica ed economica di neoliberisti d’avanguardia come Margaret Thatcher e Ronald Reagan sottolineava la riduzione dell’intervento pubblico, il libero mercato e la libertà d’impresa. Tale visione è riassunta bene dalla famosa frase di Reagan:“Il governo non è la soluzione al nostro problema; il governo è il problema”.

Questo, però, non rispecchia la realtà degli ultimi decenni. Un rapido sguardo al tasso di spesa pubblica nei paesi OCSE, ad esempio, dimostra che la riduzione della dimensione dello Stato in percentuale al PIL è stata scarsa o nulla; caso mai, c’è stata una tendenza al suo aumento (l’unica vera eccezione è l’Europa post-2008). Anche presunti governi neo-liberali – come quelli di Thatcher e Reagan – non hanno ridotto la spesa pubblica e anzi sono stati associati a disavanzi relativamente elevati. Come osservato da Miguel Centeno e Joseph Cohen, “i dati disponibili suggeriscono che le politiche e i cambiamenti macroeconomici realizzati nel quadro del regime politico neoliberale siano più complessi di quanto spesso si supponga”. La realtà è che i principali paesi capitalisti non sono stati caratterizzati da una riduzione dello Stato negli ultimi decenni. Nei fatti è vero il contrario. Anche se il neoliberalismo come ideologia promuove la riduzione del ruolo dello Stato, il neoliberalismo come realtà politico-economica ha prodotto apparati statali sempre più vasti, potenti – se non addirittura autoritari – e interventisti.

L’introduzione del regime neoliberale ha comportato un ampio e permanente intervento statale, tra cui: la liberalizzazione dei mercati delle merci e dei capitali; la privatizzazione delle risorse e dei servizi sociali; la deregolamentazione del mercato e dei mercati finanziari in particolare; la riduzione dei diritti dei lavoratori (in primo luogo, il diritto alla contrattazione collettiva) e, più in generale, la repressione dell’attivismo sindacale; la riduzione delle imposte sui patrimoni e sul capitale, a scapito delle classi medie e dei lavoratori; lo smantellamento dei programmi sociali, e così via. Queste politiche sono state sistematicamente perseguite in tutto l’Occidente (e imposte ai paesi in via di sviluppo) con una determinazione senza precedenti e con il sostegno di tutte le principali istituzioni internazionali e di tutti i partiti politici. In questo senso, l’ideologia neoliberale, almeno nella sua veste anti-statuale ufficiale, dovrebbe essere considerata poco più che un comodo alibi per quello che è stato ed è sostanzialmente un progetto politico a trazione statale, diretto a consegnare le leve di comando della politica economica “nelle mani del capitale e soprattutto degli interessi finanziari”, scrive Stephen Gill. Il capitale oggi continua a essere dipendente dallo Stato tanto quanto lo era ai tempi del “keynesismo” – per la repressione delle classi lavoratrici, il salvataggio delle grandi imprese (che altrimenti rischierebbero la bancarotta), l’apertura di mercati esteri, ecc. Nei mesi e negli anni successivi al crash finanziario del 2007-2009, la continua dipendenza dallo Stato da parte del capitale – e del capitalismo – nell'epoca del neoliberalismo è diventata evidente, quando i governi degli Stati Uniti, dell’Europa e di altri paesi hanno salvato le loro rispettive istituzioni finanziarie a colpi di trilioni di euro/dollari. In Europa, poi, a seguito dello scoppio della cosiddetta “crisi dell’euro”, nel 2010, tutto questo si è accompagnato a un attacco su più fronti al modello sociale ed economico europeo (o di ciò che ne è rimasto), finalizzato alla ristrutturazione e alla riorganizzazione delle società e delle economie europee in una direzione ancora più favorevole agli interessi del capitale.

Tuttavia, la nozione (sbagliata) secondo cui il neoliberalismo comporti una riduzione dello Stato continua a essere un’ossessione della sinistra, cui si aggiunge la nozione (altrettanto sbagliata) secondo cui la globalizzazione abbia reso obsoleti gli Stati nazionali. L’opinione diffusa vuole che la globalizzazione e l’internazionalizzazione della finanza abbiano posto fine all’era degli Stati nazionali e alla loro capacità di perseguire politiche non conformi ai diktat del capitale globale. Ma tale idea è suffragata dai fatti? Gli apologeti dell’idea che la fase attuale del capitalismo mini alle fondamenta la sopravvivenza dello Stato-nazione fanno spesso riferimento al famoso trilemma dell’economista di Harvard Dani Rodrik. Alcuni anni fa Rodrik ha proposto il suo “teorema dell’impossibilità”, che afferma che “la democrazia, la sovranità nazionale e l’integrazione economica globale sono reciprocamente incompatibili: possiamo combinare due a scelta delle tre, ma non avere tutte e tre contemporaneamente nella loro pienezza”: in parole semplici, poiché gli Stati-nazione impongono costi di transazione, se si vuole una vera integrazione economica internazionale, bisogna essere pronti a rinunciare alla sovranità nazionale (creando un sistema di federalismo regionale/globale, per far coincidere l’ambito della politica democratica con l’ambito dei mercati globali).

Nel corso degli anni, le forze politiche trasversali all'intero spettro elettorale hanno abilmente utilizzato il trilemma di Rodrik per presentare le politiche neo-liberali – che implicano sia una riduzione della democrazia partecipativa che della sovranità nazionale – come “il prezzo inevitabile da pagare per la globalizzazione”. Anche coloro che a sinistra pretendono di opporsi al neoliberalismo spesso invocano il teorema dell’impossibilità per giustificare la tesi che lo Stato nazionale sia “finito”. Ma questo non è ciò che Rodrik intendeva. Contrariamente all'opinione comune, egli riconosce che l’integrazione economica internazionale è ben lungi dall'essere “completa”; al contrario, essa rimane “notevolmente limitata”. Anche nel nostro presunto mondo globalizzato, nonostante la fioritura delle imprese multinazionali e delle catene di approvvigionamento globali, esiste ancora una significativa incertezza del tasso di cambio; ci sono ancora grandi differenze culturali e linguistiche che escludono la piena mobilità delle risorse attraverso le frontiere nazionali, come dimostra il fatto che i paesi industriali avanzati presentano in genere una forte “preferenza nazionale” (home bias); vi è ancora una forte correlazione tra i tassi di investimento nazionali e i tassi di risparmio nazionali; vi sono ancora serie restrizioni alla mobilità internazionale del lavoro; e i flussi di capitali tra paesi ricchi e poveri risultano notevolmente inferiori rispetto a quelli previsti dai modelli teorici. Gli stessi argomenti rimangono validi ancora oggi (quasi vent’anni dopo la pubblicazione dell’articolo di Rodrik). Pertanto, il trilemma è vero da un punto di vista teorico, ma ha poca attinenza con la realtà, se non come strumento politico o profezia auto-avverante.

Più in generale, la globalizzazione, anche nella sua forma neoliberale, non è (stata) il risultato di una qualche dinamica intrinseca al capitale o all’innovazione tecnologica che inevitabilmente comporta una riduzione del potere statale, come spesso viene affermato. Al contrario, è (stato) un processo che è (stato) attivamente promosso dagli Stati stessi. Tutti gli elementi che siamo soliti associare alla globalizzazione neoliberale – le delocalizzazioni, la deindustrializzazione, la libera circolazione delle merci e del capitale, ecc. – sono (stati), nella maggior parte dei casi, il risultato di scelte fatte dai governi. Più in generale, gli Stati continuano a svolgere un ruolo cruciale nella promozione, nell'attuazione e nel sostegno dell’architettura internazionale neoliberale, nonché nella garanzia delle condizioni domestiche necessarie al processo di accumulazione globale. Allo stesso tempo, non si può negare che per molti aspetti – la capacità di promuovere le industrie locali nei confronti di quelle straniere, di incorrere in disavanzi di bilancio, di gestire l’emissione di moneta, di imporre tasse e dazi, di regolamentare l’importazione e l’esportazione di beni e di capitali, ecc. – la sovranità economica, anche nelle economie capitalistiche avanzate, è oggettivamente sottoposta a maggiori vincoli che in passato.

In larga misura, tuttavia, questo è il risultato di una limitazione scientifica e consapevole dei poteri sovrani degli Stati da parte delle stesse élite nazionali, attraverso un processo conosciuto come de-politicizzazione. In particolare, questo è stato ottenuto: (a) riducendo sensibilmente il potere dei parlamenti rispetto a quello degli esecutivi (per esempio attraverso il passaggio da sistemi proporzionali a sistemi maggioritari) in nome di una non meglio definita governabilità; (b) recidendo il legame tra autorità monetarie e autorità politiche, attraverso l’istituzionalizzazione del principio dell’indipendenza della banca centrale, al fine (neanche troppo nascosto) di asservire gli Stati alla cosiddetta “disciplina dei mercati” (giacché, per dirla brevemente, uno Stato che non controlla la propria banca centrale non è in grado di controllare i tassi di interesse); nel caso dell’Italia, come è noto, questo avvenne col famoso “divorzio” tra Banca d’Italia e Tesoro del 1981; (c) subordinando le politiche economiche a vincoli di ogni tipo: sulla spesa pubblica, sul debito in percentuale del PIL, sulla concorrenza, ecc.; (d) formalizzando il vincolo esterno attraverso la ri-adozione di cambi fissi (in Europa); (e) limitando la capacità dei governi di legiferare nell'interesse pubblico mediante i cosiddetti meccanismi ISDS di risoluzione delle controversie tra investitori e Stati, oggi inclusi nella maggior parte dei trattati di investimento bilaterali e multilaterali; (f) infine, trasferendo sempre maggiori prerogative nazionali a istituzioni e organismi sovranazionali come l’UE.

La ragione per cui i governi hanno scelto di “legarsi le mani” in questo modo è facilmente intuibile: come dimostra il caso europeo, la creazione di “vincoli esterni” auto-imposti ha permesso ai politici nazionali di ridurre i costi politici della transizione neoliberale – che chiaramente ha comportato (e comporta) l’attuazione di politiche impopolari, in primis la compressione salariale e lo smantellamento delle tutele del lavoro – scaricandone le responsabilità su organismi “indipendenti” o internazionali, che a loro volta sono stati presentati come l’inevitabile risultato della dura realtà della globalizzazione, “isolando” così le politiche macroeconomiche dalla contestazione popolare. La guerra alla sovranità è stata in sostanza una guerra alla democrazia. Questo processo ha trovato la sua applicazione più radicale nell'Europa occidentale, dove il Trattato di Maastricht (1992) ha integrato il neoliberismo nel tessuto politico e sociale stesso dell’UE, effettivamente mettendo fuori legge qualunque forma di politica “keynesiana”.

Data la guerra del neoliberalismo alla sovranità e gli effetti nefasti della depoliticizzazione, non sorprende che “la sovranità sia diventata una variabile fondamentale della politica contemporanea”, come nota Paolo Gerbaudo. Allo stesso modo, è naturale che la rivolta contro il neoliberalismo assuma innanzitutto la forma di una richiesta di ripoliticizzazione dei processi decisionali nazionali – vale a dire, di un maggior controllo democratico sulla politica e sull’economia (e soprattutto sui distruttivi flussi globali scatenati dal neoliberalismo), che necessariamente può essere esercitato solo a livello nazionale, in assenza di reali meccanismi di rappresentanza sovranazionali. L’UE non è ovviamente un’eccezione: in realtà, essa è (correttamente) considerata da molti come l’incarnazione del dominio tecnocratico e post-democratico e dell’allontanamento elitario dalle masse, come dimostrato dal voto per la Brexit e dal diffuso euroscetticismo che pervade il continente. In questo senso, la sinistra non dovrebbe vedere la Brexit – e più in generale l’attuale crisi dell’Unione europea e dell’unione monetaria – come un motivo di disperazione, ma piuttosto come un’occasione unica per (ri)abbracciare una visione progressista ed emancipatoria della sovranità nazionale, per respingere la camicia di forza neoliberale dell’UE e per attuare un nuovo socialismo democratico (che sarebbe impossibile all’interno dell’UE, per non parlare all’interno della zona euro). Per far ciò, tuttavia, bisogna prendere atto del fatto che lo Stato, lungi dall’essere impotente di fronte ai “mercati”, offre ancora la possibilità di un controllo democratico sull’economia – che la lotta per la sovranità nazionale è, in definitiva, una lotta per la democrazia. Questo non deve avvenire a scapito della cooperazione europea. Al contrario, consentire ai governi di massimizzare il benessere dei loro cittadini, potrebbe e dovrebbe costituire la base di un rinnovato progetto europeo, basato sulla cooperazione multilaterale tra Stati sovrani.

William Mitchell e Thomas Fazi sono gli autori di Reclaiming the State: A Progressive Vision of Sovereignty for a Post- Neoliberal World (‘Reclamando lo stato: una visione progressista della sovranità per un mondo post-neoliberale’; Pluto Press, 2017).

Pubblicato su Voci dall’Estero il 2/11/2017.

Da - https://www.senso-comune.it/rivista/in-teoria/quello-sapete-sul-neoliberismo-sbagliato/
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