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Autore Discussione: SIMONETTA FIORI Alberto Asor Rosa: "Che errore nel '77 Lama in ateneo"  (Letto 11865 volte)
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« inserito:: Dicembre 09, 2018, 06:32:56 pm »


Alberto Asor Rosa: "Che errore nel '77 Lama in ateneo"
Il critico letterario fu tra gli organizzatori della visita all'università di Roma del segretario generale della Cgil, poi cacciato dai guerriglieri della Sapienza. Era 17 febbraio, una data destinata a diventare storica

Di SIMONETTA FIORI
12 febbraio 2017

Un colossale errore politico, forse il più clamoroso che io abbia commesso in vita mia". Alberto Asor Rosa fu tra gli organizzatori della visita all'università di Roma di Luciano Lama, il segretario generale della Cgil poi cacciato dai guerriglieri della Sapienza. Era 17 febbraio del 1977. Una data destinata a diventare storica, non solo perché rivelatrice d'una lacerazione irreparabile, ma soprattutto perché scintilla d'un incendio di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze.

Come nacque la decisione di aprire le porte dell'università a Lama?
"La situazione dentro la Sapienza non era più sostenibile. Dal primo febbraio l'università era occupata e per accedere al posto di lavoro docenti e non docenti dovevano mostrare i documenti al servizio d'ordine organizzato dagli studenti. Può ben capire il malumore".

Quindi la visita fu progettata per liberare l'università?
"Sì, questa era la finalità più pratica: ripristinare le libertà sindacali e politiche senza dover ricorrere alla polizia".

Chi prese la decisione?
"La Cgil e il Pci ai loro massimi livelli. Io fui coinvolto in qualità di responsabile cittadino dell'università per il partito, ebbi qualche abboccamento con Ugo Pecchioli e poi fui chiamato dal capo della federazione romana".

L'obiettivo politico era allontanare la massa degli studenti dalle frange più violente.
"Sì, il clima era molto pesante. Per i corridoi della facoltà di Lettere passavano gli "eroi" della clandestinità, segnati a dito con ammirazione dagli altri studenti. Nelle assemblee cominciava a comparire il gesto del pollice e dell'indice alzati a simbolo della P38: era il sigillo dell'Autonomia Operaia".

I confini tra contestazione, sovversione e lotta armata erano molto labili.
"Sì, ma attenzione a non schiacciare l'intero movimento studentesco sul terrorismo. I violenti erano soltanto una minoranza. Anche se poi furono queste frange provviste di bastoni e pietre a determinare l'esito drammatico di quella giornata".

Quando ebbe sentore che la visita si sarebbe tradotta in un boomerang?
"All'inizio della mattinata il clima era relativamente tranquillo. Per sostenere il leader sindacale la Cgil aveva reclutato un centinaio di operai soprattutto nelle fabbriche della Tiburtina. Cominciarono ad affluire in piccoli gruppi, alcuni si misero a lavorare al palco di Lama, un piccolo camion sistemato tra la fontana della Minerva e la facoltà di Legge. Mentre loro sistemavano il palco, io vedevo crescere una moltitudine di studenti vocianti. Al principio mi sembrava prevalesse un'intenzione canzonatoria, tra gli slogan degli Uccelli e i canti degli indiani metropolitani sulla melodia di Guantanamera.
Ma poi il rumore di fondo si trasformò in boato. Intuii che le cose si stavano mettendo male".

Cosa accadde quando Luciano Lama salì sul palco?
"Si sentì un gigantesco urlo, poi una pioggia di sassi. E tra operai e studenti esplose una rissa tremenda".

A quel punto ve la siete data a gambe levate.
"Sì, io sono scappato per mio conto verso viale Regina Margherita, mentre Lama veniva portato fuori dal servizio d'ordine della Cgil. Poi girammo intorno all'università per ritrovarci davanti ai cancelli in quello che ora si chiama piazzale Aldo Moro. E ricordo ancora lo scambio di slogan: i contestatori al di qua dei cancelli ci gridavano "via via la nuova polizia", e noialtri sostenitori di Lama - operai, portuali, professori, studenti - rispondevamo "via via la nuova borghesia"".

Una catastrofe da ogni punto di vista: politico e anche sul piano della prova di forza. Loro dentro, voi fuori.
"Un disastro. Si creò un baratro. E fu enfatizzata la possibilità, da parte dei gruppi più estremi, di fare una battaglia violenta contro il sistema".

Sul tema della violenza gli intellettuali si divisero.
"Il ceto colto ne uscì frantumato. C'era chi cavalcava impudentemente la tigre della contestazione. Ma c'era anche chi si poneva "sulla linea di confine", come fu titolato sull'Espresso un articolo di Umberto Eco. Per carità, non dico che Umberto civettasse con i violenti, ma era tra i più disponibili a cercare di capire".

E lei scrisse un articolo dal titolo significativo: "Ma mentre noi parliamo quelli lì fanno bum".
"Mi sentivo stretto tra due fuochi. Da una parte il Pci tendeva a criminalizzare l'intero movimento: non si salvava niente e nessuno. E dall'altra diversi gruppi intellettuali commettevano l'errore opposto: il fenomeno doveva essere accolto come novità positiva. E si tendeva a chiudere gli occhi sulla violenza pura".

Quel 17 febbraio fu importante anche perché fece saltare schemi consolidati a sinistra.
"Per me fu un trauma. Assistetti a una scena inimmaginabile: il più grande leader sindacale e una rappresentanza della classe operaia presi a sassate da studenti ed emarginati. Compresi all'istante che le mie categorie interpretative - classicamente marxiste - erano vecchie, inservibili. E la sera stessa scrissi di getto Le due società, che l'Unità avrebbe pubblicato tre giorni dopo con un titolo che ne nascondeva il senso: "Nuove forme di anticomunismo". Poi a novembre sarebbe uscito il libro da Einaudi".

Quello scontro all'università era la rappresentazione plastica delle "due società".
"Da una parte c'erano i "garantiti", operai, consigli di fabbrica, insegnanti, lavoratori del terziario, insomma la prima società. Dall'altra gli studenti, il precariato intellettuale, l'area degli emarginati, la seconda società dei "non garantiti" che il Pci non era stato in grado di intercettare e rappresentare".

In una condizione storica radicalmente mutata la frattura delle due società non s'è mai ricomposta. Ed è anche alla radice delle campagne populiste contro le élite.
"Sì, certo. E permane il tema dell'uso politico che può essere fatto di questa seconda società. La novità rispetto al passato è che la prima società tende a sfaldarsi nella seconda perché né i partiti né il sindacato sono più in grado di rappresentarla. I voti degli operai a Marine Le Pen ne sono dimostrazione".

Secondo alcuni storici, quella protratta stagione di violenze ci ha impedito di vedere che il mondo stava cambiando: di lì a poco sarebbero cominciati la globalizzazione, i fenomeni migratori, la nostra inversione demografica, ma noi eravamo distratti da altre cose.
"Sono d'accordo. La violenza terroristica di quegli anni fu tremendamente sbagliata sotto il profilo etico - per il sangue ingiustamente versato - e sotto il profilo politico per la catastrofe civile che ne derivò. La successiva storia d'Italia ne è stata pesantemente condizionata. E ancora oggi ne paghiamo le conseguenze".

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2017/02/12/news/alberto_asor_rosa_che_errore_lama_in_ateneo_-158130484/?ref=search
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