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Autore Discussione: Francesco Postorino. IL PROGRESSISTA POSTMODERNO  (Letto 2157 volte)
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« inserito:: Ottobre 10, 2018, 12:09:56 pm »

IL PROGRESSISTA POSTMODERNO

Di Francesco Postorino
   
Norberto Bobbio sostiene che il «liberalismo» è una determinata concezione dello stato limitato sia per quel che riguarda i suoi poteri («stato di diritto») sia rispetto alle sue funzioni («stato minimo»). Nel primo caso, si contrappone alle ambizioni del legibus solutus – si pensi al Leviatano di Hobbes −; nel secondo caso, il liberalismo contrasta la deriva interventista dei poteri pubblici1.

Le dichiarazioni dei diritti nella Virginia del 1776 e nella Francia del 1789 traggono origine dalla lezione di John Locke elaborata un secolo prima. L’individuo, suggerisce il padre del liberalismo moderno, dispone di tre diritti naturali: il diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà, «ai quali, con il passaggio allo stato civile, non può rinunciare, e anzi il governo, istituito con il contratto, ha come principale funzione quella di garantirli»2. Tali diritti spettano al cittadino universale.

Il marxismo nasce nel corso dell’Ottocento anche in esplicita contrapposizione alla figura illuministica del citoyen. Quest’ultimo, come viene detto da Karl Marx nella Questione ebraica, non esiste nella realtà effettuale. Crede di essere titolare di diritti eterni, ma nella terra delle ingiustizie si ritrovano puntualmente sfruttati e sfruttatori: i primi appartengono alla classe dei proletari, gli altri a quella dei borghesi. La libertà dei «moderni», lascia intendere Marx, è una libertà cerimoniale che si condensa nei cieli astratti e non sfiora la vita degli uomini-merce.

L’irruzione della questione sociale, scaturita dalla rivoluzione industriale, ha aggiunto, in effetti, alla dicotomia che intercorre tra la libertà degli «antichi» e quella dei «moderni» − illustrata, com’è noto, da Benjamin Constant all’Ateneo reale di Parigi nel 1819 −, il divario filosofico, storico e politico tra la libertà «negativa» e la libertà «positiva», “messe in luce” da Isaiah Berlin ad Oxford nel 1958.

La libertà negativa, accolta dal liberalismo tradizionale, si fonda sull’assenza di impedimenti esterni (la libertà da); la variante positiva sarà elogiata, seppur ad oltranza, dai movimenti comunisti, collettivisti e democratici (la libertà di).

Il filosofo John Stuart Mill, nel XIX secolo, cerca in proposito un compromesso ideale e si rivela il precursore della corrente liberal grazie al principio del neminem laedere, reimpostato in chiave liberale, e alla sua «indignazione per le condizioni di ingiustizia sociale e di depravazione»3. Mill vuole socializzare il liberalismo senza scivolare nel terreno social-comunistico.

Il liberalismo sociale di Mill influenzerà Leonard Hobhouse e il suo Liberalism del 1911. Quest’opera segnerebbe per certi versi l’inizio ufficiale di una nuova ideologia: un liberalismo che non archivia le libertà tipicamente liberali, anche se parimenti propugna con decisione l’intervento pubblico in economia e nelle formazioni sociali.

Di qui la tensione tra un liberalismo conservatore e una sensibilità liberal-progressista. Il primo, dal respiro «realista», s’intreccia sul piano storico con il patriottismo risorgimentale, con l’anticomunismo, la Destra storica, esprime una preferenza «umanistica» sulla cultura scientifica4 e, in futuro, aderirà a pieno titolo all’economia di mercato.

La seconda, più «utopica», trova un riscontro nelle socialdemocrazie europee e nel liberalsocialismo continentale, oltre che una ripresa significativa, negli Stati Uniti, con la teoria della giustizia come equità esposta da John Rawls nel suo A theory of justice del 1971, che avrebbe ispirato, per alcuni studiosi, le scelte politiche del presidente di centro-sinistra Bill Clinton e in generale della Third Way teorizzata da Anthony Giddens. Su quest’ultimo punto, a dire il vero, pare molto più attendibile la ricostruzione storico-critica di Serge Audier, secondo cui non vi sarebbe stretta compatibilità tra il socialismo liberale europeo (o appunto la corrente egalitaria di matrice rawlsiana) e la tradizione politica del riformismo democratico sbocciato alla fine del secolo precedente5. In ogni modo, Mill, Hobhouse e Rawls pongono in diverse epoche le basi filosofiche della prospettiva liberal.

Marcello Veneziani è dell’avviso che l’approccio liberal si consegna all’ideale, al piano normativo di una legge che s’intrufola per vie arbitrarie nel quotidiano. Il liberal, a suo parere, combina empirismo metodologico e idealismo morale, offre un’opzione laburista e democratica «fino ad accogliere come compagni di strada anche i radical e i comunisti»; si libera inoltre dai legami e punta tutto «sull’emancipazione dell’individuo dai vincoli sociali, territoriali, familiari, tradizionali»6.

All’indomani del Terzo millennio sembra, tuttavia, che sia svanito il sogno liberal intento a raddrizzare il legno storto dell’umanità. Alcuni socialisti riformisti contemporanei, come Monique Canto-Sperber, salutano con viva soddisfazione il consolidamento dell’economia e della cultura liberale in quanto «nous a débarrassés de l’utopie»7.

Kant, il messaggio illuminista e il senso musiliano della possibilità si mostrano impotenti di fronte ad Hegel, Burke e le puntuali repliche della storia.

L’utopista ha ceduto e la realtà ha vinto. Ha vinto l’idea che reputa improponibile non solo il tentativo di affidare a un meccanismo giacobino il compito di far tabula rasa, ma altresì la semplice opportunità di revisionare l’ente e il mondo.

La tensione fra l’ideale e il reale, tra il dover essere e l’immanente sembra, dunque, cancellata, con buona pace per la cultura liberal.

Pio XII denuncia la sfera del cambiamento, dichiarando che i ricchi e i poveri ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Questa «verità» non disturba la coscienza di un neoprogressista che ha trovato asilo in una società inginocchiata alla morte di Dio.

Se Dio muore, anche per la mente liberal, smette di avere senso la dimensione sociale della vita. Il collettivo, l’insieme, il bisogno di offrire narrazioni in favore del prossimo si sgretolano nel vasto oceano della retorica.

Così emerge il politically correct, si galleggia nella superficie delle cose, si riempiono gli spazi televisivi, si veste bene, si possiede lo yacht, si rivendicano cospicue somme di denaro in nome del libero mercato, si inseguono i modelli manovrati dal rito mediatico, si commercializzano beni dal significato morale8. Nel contempo, si fa fatica a incrociare, per dirla con Lévinas, il volto «nudo» dell’altro9, o quello che Habermas chiama «la persona dell’altro (degli altri) nella sua specifica diversità»10.

Il liberal alberga in un confuso pragmatismo che lo rende sempre più vicino ai centri di potere – spesso s’identifica con essi – e distante dalle masse, dagli uomini al plurale, da chi domanda con voce stanca sincere forme di tutela.

Il nuovo liberal non a caso familiarizza politicamente con i governi moderati. Considera superata la scelta di rilanciare la tematica della redistribuzione del reddito e segue le mode, l’agenda liberista. Finge di ascoltare la sofferenza sociale perché rincorre, anche lui, il vecchio modello del self made man.

Con l’annuncio profetico del Gott ist tot, viene meno l’empatia e irrompono il monologo, le solitudini, la giungla della competitività. Si cessa di parlare e si è parlati da strutture e sovrastrutture che celano la triste immagine del postmoderno. Che il liberal, come riferisce Raimondo Cubeddu, non accetti l’autonomia della sfera economica da quella politica ed etica, e le contrapponga «una concezione del mercato come organizzazione finalizzata al conseguimento di obiettivi etico-politici (giustizia sociale)»11, non sembra più attendibile.

«È giusto che vinca il più bravo!», esclama oramai dentro di sé quel progressista che ha scoperto la meritocrazia e l’individualismo. Piero Calamandrei si chiede perché non dovrebbe essere logicamente permesso, senza con questo toccare il sistema della libertà, inserire tra questi diritti di libertà che sono condizioni a priori del regime liberale, l’affermazione di un minimum di benessere economico considerato anch’esso come condizione perché i cittadini possano partecipare liberamente alle lotte politiche12.

Oggi questa pretesa rischia di non avere più senso logico e politico. Dietro l’impulso hobbesiano dell’homo homini lupus, quasi tutto è permesso. La scuola di don Milani si rivela un insulto, un sentiero pericoloso. Il liberal, che sfrutta la mano invisibile del mercato, diffida dell’egualitarismo. La retorica gli suggerisce la difesa formale della scuola pubblica, solo che lui e i suoi figli dovranno educarsi in prestigiose università private, coltivando diverse atmosfere.

La sua concezione cosmopolitica si piega a una lettura improntata all’«io minimo», a quell’«io narcisista» che svuota di senso qualsiasi contenuto, vivendo «giorno per giorno» senza alcun sentimento etico13.

Egli si trova a proprio agio nei luoghi «innocenti» del nulla, ovvero in una società liberale in cui, come scrive il marxista Jean-Claude Michéa, si riconoscono solo le relazioni fondate sullo «scambio commerciale» e sul «contratto giuridico», e dove il principio utilitaristico del do ut des ha cancellato «l’incontro autentico e disinteressato»14.

Spezzando il categorico, l’universale, il «sapere narrativo»15, il progressista postmoderno non riesce a vivificare il particolare: lo mortifica. La crisi istituzionale dell’epistéme16 è sfociata nell’assassinio di Dio, una morte che riflette sia la fine di un punto di riferimento sia l’annientamento della persona e crea uno spazio di libertà pronto a trasformarsi in un vuoto «che gli uomini, privati di una fede che dava senso alle loro vite, non sono ancora capaci di colmare»17.

Il soggetto del liberal, infatti, non è più la «persona», nel senso socratico e kantiano dell’espressione. Non è l’individuo innalzato a valore da Hobhouse o dalla corrente personalistica a cavallo tra le due guerre mondiali, quella che in Francia scopre le tesi di Emmanuel Mounier e in Italia la filosofia liberalsocialista del «lui» promossa da Guido Calogero. Il suo protagonista è, al contrario, il Dasein di Heidegger, l’Übermensch di Nietzsche, o qualunque superuomo che abbia distrutto dentro di sé il tribunale kantiano della raison e, come un «fanciullo innocente» che dondola in una «ruota ruotante da sola»18, riproponga una doxa ambientata nella scuola sofista.

L’opinione non è più il momento di uno scambio guidato dalla «persuasione», perché si è convertita in un «punto di vista» che si somma e si giustappone ad altri in un circuito senza senso, allenato a rimuovere la domanda (senza tempo) di Socrate e del suo allievo Jan Patočka. Così, il rispetto incondizionato per «il diritto degli uomini»19 diviene elemento facoltativo per le attività di governo e si nullifica entro le dinamiche neo-progressiste votate al senso del precario.

Il «punto di vista» si condensa nei labirinti della retorica, del fittizio, litigando con le direttive etiche e, dunque, con quella linea di demarcazione che divide lo spazio umanistico del possibile dal reale così com’è. Il progressista ha bruciato questo confine premiando i processi «fenomenici» della vita. Il noumeno non incanta più.

L’essenza che, ad esempio, Aldo Capitini identifica con l’universo sovrasensibile della «compresenza» viene dal nonviolento inserita nell’«ultimo presente» − quello che si muove al confine delicato tra la finzione del mondano e la severità heideggeriana della morte – al fine di spegnere questa storia e rilanciare il volto kantiano del Sollen, insediando un «nuovo presente».

Il progressista di oggi, per converso, ha spento la narrazione del tu devi in nome del giuoco concorrenziale e delle ipotesi del «nulla». Egli, coerentemente rimproverato dal proletariato, è divenuto «sterile e vuoto», consuma qualunque cosa e «finisce per consumare il consumatore, in una sorta di eccitazione fine a se stessa»20.

Il liberal dovrebbe trovarsi in imbarazzo nel mondo delle ingiustizie, della volontà di potenza, dell’ancien régime di ritorno e, invece, contribuisce a beatificare tutte le sfumature del modo di produzione capitalistico. Parafrasando Gilles Dauvé e Karl Nesic, si potrebbe dire che il vestito borghese del liberal si servirebbe, inoltre, delle istituzioni democratiche allo scopo di impedire la «riappropriazione collettiva delle condizioni di esistenza»21 e rinforzare il divario sociale.

Guido de Ruggiero, un liberale molto liberal, afferma che l’uomo non deve smettere di lottare fin quando permane l’ultimo privilegio. L’involontario seguace della Sorge cosmica ha rinunciato al conflitto e ha «eletto il si a proprio “idolo”»22, assoggettandosi a una «chiacchiera» esposta nel luogo dei consumi.

Non crediamo che i problemi del liberal siano la matrice illuminista, la mancanza di un disegno comunitario o il rifiuto metodologico dello storicismo hegeliano. L’illuminismo non ha ucciso Dio, essiccando «la sorgente di tutti i comandamenti e di tutti i limiti»23. Ha solo eliminato dogmi o valori precedenti. La nuova prospettiva universalistica, emersa nel secolo dei lumi, non funge, cioè, da necessario preludio a esiti nefasti quali la cultura dell’egoismo e del solipsismo.

L’«ospite inquietante»24, profetizzato da Nietzsche, è il nuovo spettacolo del non-senso istituito dall’uomo del disincanto: un individuo che, essendo «innocente», si colloca «al di là del bene e del male»25. Esemplificando con lieve paradosso, si può aggiungere che − nella direzione nichilistica inverata dal liberal odierno − i principi umanistici dell’89 si intrecciano con il teatro di Auschwitz, in quanto il bene e il male costituiscono il profilo intrinseco, e mai discusso, di un ente precario gettato nel nulla.

In assenza di un «giudice», di un ruolo terzo (i luoghi della coscienza) che sancisca senza tergiversare la vittoria del sentimento di giustizia, l’uomo postmoderno si svincola dagli imperativi e si deresponsabilizza nell’incontro con gli altri.

Vi è un Io (rigido) e un Tu (flessibile), mentre è sconfitto a priori il Lui calogeriano. Il Tra, indicato con eloquenza da Martin Buber, si converte in una resistenza inquietante, un ostacolo che preclude l’assoluto dominio sul Tu.

Il pensiero illuminista, restio all’«ospite inquietante», se bagnato nel mare della storia, può riscoprire il dono del rispetto e della dignità umana: le fonti dell’8926. Ciò dipende dalla fede, dal laico ritorno di Dio, del «giudice», di un autentico Tra o, se vogliamo, di tutti quei valori che, in quanto tali, non si lasciano imprigionare dal tempo o risucchiare dalla contingenza.

N. Bobbio, Liberalismo e democrazia, Milano, Simonelli, 2006, p. 37. ↩
N. Matteucci, Lo stato moderno, Bologna, il Mulino, 1997, p. 143. ↩
Egli, infatti, guarda «con molta simpatia al movimento socialista e cartista» e concede «ampio spazio alla critica socialista della proprietà privata nel suo capolavoro di teoria economica, che si iscrive nella linea di David Ricardo e di James Mill, i Principi di economia politica del 1848»: S. Petrucciani, Modelli di filosofia politica, Torino, Einaudi, 2003, p. 143. ↩
M. Veneziani, Comunitari o liberal, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 8. ↩
Cfr. S. Audier, Le socialisme libéral, Parigi, La Découverte, 2014. ↩
M. Veneziani, Comunitari o liberal, cit., pp. 8-9. ↩
M. Canto-Sperber, Le libéralisme et la gauche, Plon, Hachette, 2003, p. 358. ↩
Cfr. M. Sandel, Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato, Milano, Feltrinelli, 2013. ↩
E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Milano, Jaca Book, 2004, p. 218. ↩
J. Habermas, L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, Milano, Feltrinelli, 2013, p. 9. ↩
R. Cubeddu, Atlante del liberalismo, Roma, Ideazione, 1997, p. 94. ↩
P. Calamandrei, Non c’è libertà senza legalità, Roma-Bari, Laterza, 2013, p. 36. ↩
C. Castoriadis, C. Lasch, La cultura dell’egoismo. L’anima umana sotto il capitalismo, postfazione di J.-C. Michéa, Milano, Elèuthera, 2014, p. 10.  ↩
J. C. Michéa, I misteri della sinistra, Vicenza, Neri Pozza, 2015, p. 100. ↩
J. F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Milano, Feltrinelli, 2015. ↩
E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, Milano, Rizzoli, 2015, p. 25. ↩
R. Bodei, Limite, Bologna, il Mulino, 2016, p. 116. ↩
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Milano, Adelphi, 2005, p. 25. ↩
I. Kant, Per la pace perpetua, pref. di S. Veca, Milano, Feltrinelli, 2014, p. 102. ↩
G. Zagrebelsky, Senza adulti, Torino, Einaudi, 2016, p. 30. ↩
G. Dauvé, K. Nesic, Oltre la democrazia, Napoli, Ed. Immanenza, 2016, p. 32. ↩
M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. di A. Marini, Milano, Mondadori, 2015, p. 520. ↩
R. Bodei, Limite, op. cit., p. 116. ↩
U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Milano, Feltrinelli, 2010. ↩
F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Cuneo, Rusconi, 2006. ↩
Cfr. A. Martinelli, M. Salvati, S. Veca, Progetto 89. Tre saggi su libertà, eguaglianza, fraternità, Milano, Il Saggiatore, 2009.  ↩
di Francesco Postorino • categoria: Parole per il Terzo millennio

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