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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 318650 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Dicembre 14, 2008, 10:38:55 pm »

ECONOMIA      IL COMMENTO

Il primato degli annunci all'Italia del Cavaliere

di EUGENIO SCALFARI


LA POLITICA degli annunci è ormai diventata non soltanto una tattica ma la strategia di tutto l'Occidente, dagli Stati Uniti all'Europa. L'Italia ha fatto da apripista e ne conserva il primato. Da questo punto di vista è corretto riconoscerne il merito a Silvio Berlusconi. La giornata di venerdì è indicativa di questo stato di cose. Dopo il rifiuto del Senato americano di soccorrere le compagnie automobilistiche di Detroit con nuove erogazioni di denaro federale, il presidente eletto ma non ancora insediato, Barack Obama, ha esortato Bush ad intervenire scavalcando il voto del Congresso e il presidente scaduto ma ancora governante ha annunciato che troverà il modo di stornare 15 miliardi di dollari dai fondi destinati al sostegno delle banche indirizzando quella cifra verso l'industria dell'auto.

Le Borse che avevano lasciato sul terreno fino a quel momento cifre da capogiro, in pochi minuti hanno invertito la tendenza chiudendo tutte al rialzo. Se e quando all'annuncio seguiranno i fatti si vedrà nei prossimi giorni ma intanto il crollo è stato per ora scongiurato. Nella stessa giornata di venerdì il vertice europeo guidato da Sarkozy e dal presidente della commissione di Bruxelles, José Manuel Barroso, ha approvato all'unanimità due documenti definiti storici: quello sul clima e quello sulle misure economiche che dovrebbero arginare la recessione e rimettere in moto la crescita. Definiti storici, quei due documenti che in realtà sono puri e semplici annunci, generici nella formulazione e privi di ogni sia pur minimo accenno a procedure esecutive, tempistica, sanzioni per eventuali inadempienze dei Paesi membri.

Il documento antirecessione prevede la mobilitazione di un punto e mezzo del Pil europeo pari a 200 miliardi di euro, ma si affretta a chiarire che si tratta di una previsione e lascia liberi i governi dei Paesi membri di agire ciascuno secondo le proprie strategie e le proprie disponibilità. Il documento sul clima si muove sulla stessa linea: l'Europa abbasserà le emissioni di gas inquinanti del 20 per cento entro il 2020, ma i Paesi membri ottengono importanti flessibilità nella vendita dei diritti di emissione nonché sostegno europeo per le imprese manifatturiere in difficoltà congiunturale. L'Europa a sua volta sosterrà questi oneri aggiuntivi utilizzando risorse stanziate per altri obiettivi che perdono in tal modo priorità. Si sveste un altare per vestirne un altro.

L'importante è che Sarkozy, Barroso e l'intera compagnia convitata per l'occasione possano annunciare che i due storici documenti sono stati approvati dai 27 governi i quali a loro volta rivendicano d'aver ottenuto importanti concessioni senza le quali molti di loro avrebbero posto il veto paralizzando sia la lotta all'inquinamento sia quella alla recessione. Per quanto riguarda il clima se ne riparlerà tra dodici anni, ma una tappa intermedia è prevista nel 2010 e farà il punto della situazione. Se le imprese stenteranno a procedere verranno chieste nuove concessioni e nuovi aiuti all'Europa. Per quanto riguarda invece la recessione, sarà l'andamento dell'economia a dirci fino a che punto i singoli governi avranno operato per arginare la catastrofe oppure avranno giocato con le parole anziché realizzare i fatti necessari. Nel qual caso saremo al collasso con conseguenze imprevedibili.

* * *

Ho già detto che nella strategia degli annunci l'Italia berlusconiana detiene un primato di cui il suo inventore va giustamente fiero. Ha annunciato un programma economico anti-recessione di 4 miliardi e mezzo di euro, poi l'hanno aumentato a 6 miliardi; adesso stanno giostrando per trovare ancora qualche spicciolo in più, magari prelevandone una parte dagli stanziamenti per infrastrutture. Si tratta di cifre evidentemente insufficienti; tutte le stime attendibili sostengono la necessità di un intervento non inferiore ad un punto e mezzo di Pil e cioè qualche cosa come 25 miliardi da mobilitare e spendere entro il 2009.

Interventi di quest'ordine di grandezza produrrebbero un aumento del debito pubblico e del deficit, visto che il governo sperperò fin dal suo insediamento sei mesi fa ben 7 miliardi di euro tra Ici e Alitalia e ne perse poi un'altra dozzina a causa d'una preoccupante flessione del gettito tributario. In queste condizioni Tremonti non ha spazio per operare se non sfondando le colonne d'Ercole dei parametri di Maastricht sia per quanto riguarda il deficit e sia per il debito pubblico. Oppure spostando risorse da altri usi come del resto sta già facendo. Sottrarrà altri fondi alle aree sottosviluppate e chiederà all'Ue di autorizzarlo ad usare le risorse europee destinate a infrastrutture per rafforzare gli ammortizzatori sociali destinati a fronteggiare l'onda dei licenziamenti in arrivo tra febbraio e marzo. Anche qui si sveste un altare per vestirne un altro. Così fece il nostro ministro dell'Economia con la finanza creativa, gli swap, i condoni, le cartolarizzazioni, nella legislatura 2001-2005. Lasciò i conti pubblici nel baratro ed ora ripete la stessa manovra con segno invertito. Ne vedremo i risultati al più tardi tra due mesi.

Nessuno più di noi spera di essere smentito dai fatti, ma certo non si combatte questa durissima battaglia invitando i consumatori a largheggiare nei regali natalizi e i risparmiatori a investire i propri denari comprando titoli del Tesoro e azioni Enel e Eni. Questi non sono neppure annunci, ma buffonate.

* * *

Altri annunci roboanti che faranno "flop" e che in buona parte lo hanno già fatto riguardano la riforma delle pensioni e quella delle scuole elementari e secondarie. Sulla prima, il ministro Brunetta si avventura in un'altra crociata inutile, chiedendo un innalzamento a 65 anni dell'età pensionabile delle donne sul quale dissente palesemente mezzo governo. Sulla seconda, la Gelmini ha concordato con Cisl e Uil il rinvio di un anno delle riforme previste per la scuola superiore e ha rimesso alla libera scelta delle famiglie l'orario delle lezioni nelle scuole dell'infanzia nonché la scelta del maestro unico o quella di un "team" di insegnanti. Con tali modifiche la cosiddetta riforma Gelmini si riduce al minimo. Personalmente credo sia un bene. Si trattava infatti, e ancora si tratta per la parte residuale rimasta in piedi, di provvedimenti destinati più alla funzione di spot televisivi e mediatici che a riformare strutturalmente gli istituti scolastici.

Secondo me la Gelmini va lodata per essersi resa conto che il suo approccio era praticamente insostenibile. Ha dimostrato saggezza anche se ora si ostina a sostenere che nulla è cambiato. Allora i sindacati hanno firmato una pagina bianca? Una delle due parti mente. Nei prossimi giorni sapremo quale, ma intanto i rinvii al 2010 sono già stati effettuati e il ministro si è impegnato ad aprire subito un tavolo di concertazione con i lavoratori precari della scuola. Non sono cambiamenti importanti? Che c'è di male, signora ministro, a riconoscere d'avere sbagliato?
* * *
Il federalismo fiscale è nato come annuncio e tale resterà per un bel pezzo. Per ora è stata approvata una legge-quadro dove ricorre molte volte la parola federalismo ma non è indicata alcuna cifra, alcuna procedura, alcuna organizzazione concreta delle future istituzioni. La Lega vorrebbe che la legge-delega fosse approvata entro dicembre costi quel che costi. Forse si contenterebbe di gennaio ma non un mese di più altrimenti minaccia sfracelli.

Sta di fatto che il Parlamento è intasato e il presidente Fini non sembra nel "mood" di strozzarne i dibattiti. Bisogna approvare i decreti sulle banche e quello in arrivo anti-recessione, poi il decreto Alfano sulla giustizia, altre decretazioni del ministero dell'Interno e di quello della Difesa, le leggi sulla scuola, la legge elettorale per le elezioni europee. Sicché il federalismo, per essere infilato in mezzo a questa super- produzione legislativa, dovrà limitarsi ad un'altra genericità rinviando la sostanza ai regolamenti attuativi dove però entra in gioco la conferenza Stato-Regioni con poteri rilevanti.
In sostanza: la politica degli annunci sta facendo "flop". Se continuerà così diventerà assai poco credibile. Lo pensa anche Galli Della Loggia.

* * *

Si dice: la Cgil ha fatto uno sciopero inutile. In una fase che richiede compattezza ha mandato in scena un vetusto rituale antagonista, perciò zero in condotta ad Epifani e ai lavoratori che l'hanno seguito rimettendoci anche una giornata di salario. Va detto che quei lavoratori erano parecchi. Hanno fatto uno sciopero politico senza alcun obiettivo pratico: così affermano i loro critici.

Secondo me questo modo di ragionare è sbagliato per le seguenti ragioni.
1. Lo sciopero generale è politico per definizione. Non ha come obiettivo la firma di un contratto di lavoro ma il rovesciamento di una politica economica che sfavorisce (secondo l'opinione del sindacato) i lavoratori.
2. Nel caso specifico la Cgil si schiera contro una politica che a suo avviso non tutela i lavoratori dagli effetti devastanti della crisi economica.
3. Lo sciopero generale ha un duplice obiettivo: premere sul governo e dare voce ad una protesta sociale che va al di là dei lavoratori rappresentati dal quel sindacato.

Se la Cisl e la Uil sono riuscite a realizzare alcuni risultati importanti per quanto riguarda la scuola ciò è in parte dovuto alla spinta del movimento degli studenti, alla protesta sociale mobilitata dalla Cgil e alla costante pressione dell'opposizione politica e parlamentare. Sta insomma prendendo forma una controffensiva molto articolata dove convergono con modalità e intenti diversi tutti i settori penalizzati, feriti, delusi e offesi della società sotto la spinta d'una tempesta economica che ha già sradicato gli equilibri esistenti fino a pochi mesi fa. A questa convergenza partecipano anche i sindacati "trattativisti" che riescono dal canto loro a tradurre in aggiustamenti parziali ma significativi gli effetti della protesta generale. La massima "marciare separati e colpire uniti" sembrerebbe esser stata fatta propria in questi ultimi giorni dai tre sindacati confederali.

* * *

L'annuncio al quale invece seguiranno i fatti è quello sulla riforma costituzionale della giustizia. Alcuni osservatori sostengono che anch'esso alla fine si rivelerà uno spot tra i tanti e finirà dimenticato in un cassetto, come accadde alla Lega per la sua campagna di tolleranza zero contro i "rom" e contro l'immigrazione clandestina, cadute entrambe nel dimenticatoio dopo i rilievi e le censure formulate dalla Ue.

La riforma costituzionale della giustizia non è dunque uno dei tanti spot dei quali è lastricato il percorso berlusconiano allo scopo di tenere alti i sondaggi con i fuochi d'artificio degli annunci che si susseguono uno all'altro. Berlusconi vuole costruire una Costituzione della maggioranza. In Parlamento i numeri li ha, nella società spera di averli. La Costituzione della maggioranza infatti ha bisogno di un referendum confermativo che Berlusconi non teme ed anzi desidera pensando di trasformarlo in un referendum su se stesso, sul suo decisionismo, sul suo carisma, sul suo costante appello ai fantasmi d'una destra e regoli una volta per tutte i conti con la sinistra "comunista", con la giustizia "corporativa", con il Parlamento "parolaio" e con la "casta" identificata con i partiti di opposizione.

Questo è il suo progetto e questo il suo futuro. Di fronte ci sono tutte le forze che non vogliono il cesarismo plebiscitario, la monarchia che coopta i successori, la fine dello Stato di diritto, il Capo illuminato e populista cui delegare i poteri con una cambiale firmata una volta per tutte.

La contesa è aperta, la prognosi è riservata. Ma al centro del campo c'è il Presidente della Repubblica, l'elemento di massima garanzia che si batterà fino all'ultimo per impedire che possa esistere una Costituzione di maggioranza che abrogherebbe di fatto la Costituzione democratica, lo Stato di diritto, la politica dell'inclusione e non quella dell'esclusione e della prevaricazione.

Si batterà fino all'ultimo, di questo possiamo esser certi, non per spirito di parte ma per preservare i principi fondamentali della Carta costituzionale dai quali discendono quei diritti e doveri di cittadinanza che sono il tessuto civile dell'Europa e del mondo intero.

(14 dicembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #106 inserito:: Dicembre 16, 2008, 11:08:49 am »

LA MORTE DI CARACCIOLO

Mezzo secolo insieme


di EUGENIO SCALFARI


Il nostro è un mestiere crudele e io lo so per diretta esperienza. Oggi tocca a me di scrivere il nostro addio a Carlo Caracciolo, il mio lamento su una persona alla quale mi legano 56 anni di vita comune. Vita professionale e vita privata, successi e insuccessi, amicizie e inimicizie, convinzioni politiche, esperienze, interessi.

Un mestiere crudele che mi obbliga a scriverne mentre Carlo è ancora vivo e riverso senza più conoscenza su un letto d'ospedale. Era malato da molto tempo e aveva attraversato le avversità della malattia con una forza come raramente accade di vedere, quasi indifferente a quanto accadeva nel suo corpo.
Quattro o cinque volte, dopo aver superato momenti di crisi che avrebbero potuto essergli fatali, me ne raccontava gli aspetti che gli sembravano comici e ci ridevamo insieme come ragazzi.

Poco più che ragazzi eravamo quando ci conoscemmo. Fu a Milano, autunno del 1952, nella sua abitazione in via San Damiano sul naviglio di corso Monforte. Lui già faceva l'editore di riviste tecniche, io ero stato da poco licenziato dalla Banca Nazionale del Lavoro a causa di irriverenti articoli pubblicati dal Mondo contro la Federconsorzi. Carlo cercava un direttore per la sua rivista Rivoluzione industriale, pensava che io fossi adatto a quel compito ma io rifiutai. Aveva 27 anni, io ero più vecchio d'un anno e qualche mese.

Di solito, quando debbo ricordare una persona scomparsa, cerco di raccontare quello che so di lei evitando il vezzo diffuso e intollerabile di raccontare se stessi, ma questa volta mi è impossibile seguire la regola che mi sono data: le nostre due esistenze sono state così intrecciate che ricordare uno dei due implica di ricordare anche l'altro sicché in questo caso diventa vero il luogo comune che un pezzo della mia vita se ne va con lui sotto la terra che ricoprirà il suo corpo o le sue ceneri.

***

Nell'ottobre del 1955 L'espresso iniziò le sue pubblicazioni. Proprietario ed editore Adriano Olivetti. Carlo era suo socio con il 10% delle azioni. Arrigo Benedetti lo dirigeva, io ne ero il direttore amministrativo. Ma dopo poco più d'un anno Adriano decise di ritirarsi da quell'impresa che aveva messo in orbita ma non gli corrispondeva. Lasciò il grosso delle sue azioni a Caracciolo e in piccola parte a Benedetti e a me. Fu a quel punto che la nostra amicizia diventò fratellanza.

Eppure eravamo molto diversi per carattere e per estrazione sociale. Io venivo da una famiglia di piccola borghesia, lui era principe, anche se non ha mai ostentato il rango di nobiltà. A tal punto che per molti anni ho pensato che l'avesse cancellato e non gliene fosse mai importato niente, lui giovanissimo partigiano in Val d'Ossola, lui repubblicano, lui laico pur avendo avuto parecchi cardinali in famiglia e un paio di beati.
Invece no, la sua indifferenza al titolo nobiliare era piuttosto una maniera ma non corrispondeva alla sostanza: si sentiva principe e lo era, il suo distacco faceva parte del costume familiare come la sua innata eleganza nei modi e nei pensieri. La sua ironia su se stesso e sugli altri. Il suo cinismo. La fermezza delle convinzioni. Il suo impegno civile.

Fu una curiosa figura di principe, Carlo Caracciolo di Castagneto, conte di Mileto e altri predicati che non ricordo. Ricordo però una visita che facemmo insieme molti anni fa al Comune di Napoli. C'erano ai lati del portone di quell'edificio due lapidi di marmo sulle quali erano incisi i nomi dei patrioti trucidati nel 1799, quando le bande contadine da un lato e la flotta inglese dall'altro rioccuparono la città ribelle e giustiziarono i "giacobini" che avevano governato la breve esistenza della repubblica partenopea.

In quell'elenco c'era il nome dell'ammiraglio Caracciolo, impiccato da Nelson sull'albero di maestra della sua nave, e quello di Marcello Eusebio Scotti, mio antico parente materno. Quella compresenza politica di due avi ci sembrò un segno di destino; la mettemmo sullo scherzo come era nostra abitudine, ma ci toccò profondamente come poi ci confessammo qualche anno dopo.

***

Nel 1976 fondammo la Repubblica. Da tempo avere un quotidiano nazionale che raggiungesse e magari superasse Il Corriere della Sera era il nostro sogno.
Sia Carlo che io abbiamo separatamente raccontato come cominciò quell'avventura, come si sviluppò e come raggiunse l'obiettivo che ci eravamo prefissato, sicché non sto a ripercorrerlo. Debbo dire però che, pur nella diversità dei compiti e delle responsabilità che ciascuno di noi due assunse in tutta la vicenda editoriale e giornalistica di quello che ora è il "Gruppo Espresso-Repubblica", io non avrei potuto intraprendere nulla senza di lui e reciprocamente lui senza di me. Ho già detto che eravamo diversi ma interamente complementari. In certe questioni e in certi momenti lui spingeva e io frenavo, in altre situazioni accadeva il contrario. Ma non è mai avvenuto in mezzo secolo di sodalizio che ci fossero tra noi sentimenti di rivalità, gelosie, invidie. Il progetto era comune e comuni gli sforzi e le responsabilità per realizzarlo.

Abbiamo rievocato pochi giorni fa la giornata in cui firmammo l'atto costitutivo della società editrice di Repubblica con Giorgio Mondadori e Mario Formenton nostri compagni di viaggio imprenditoriale nella bella villa di Giorgio a Sommacampagna.

Quando scegliemmo la linea della fermezza durante i 56 giorni della prigionia di Moro nelle mani delle BR. Quando scoppiò lo scandalo di Tangentopoli affondando la Prima repubblica e con essa la DC, il partito socialista e gli altri minori. Quando Silvio Berlusconi affrontò l'agone politico e cominciò un lungo conflitto tra noi e lui, che dura tuttora: sempre ci trovammo d'accordo e sempre ci prendemmo la comune responsabilità delle scelte.

In questa lunghissima vicenda abbiamo avuto compagni che non furono soltanto preziose presenze professionali ma amici veri e leali. Siamo stati fortunati nei nostri incontri. Voglio dirli i nomi di questi amici, sono sicuro che Carlo vorrebbe che siano ricordati anche se alcuni di loro non ci sono più: Franco Alessandrini, Lio Rubini, Bruno Corbi, Gianni Corbi, Cesare Garboli, Livio Zanetti, Carlo De Benedetti, Marco Benedetto, Gigi Melega, Bernardo Valli, Luigi Zanda, Corrado Passera, Milvia Fiorani, Luigi Bianchi, Ezio Mauro, Daniela Hamaui. I redattori dei nostri giornali, delle radio, dei siti "on-line". Le segretarie dell'azienda. Carlo ne conosceva molti, ma conosceva soprattutto lo spirito d'appartenenza del corpo redazionale e sapeva che era quella la principale risorsa d'un gruppo che dalle quattro stanze di via Po 12, dove la nostra piccola storia è cominciata, conta ormai migliaia di persone e di famiglie in tutta Italia.

***

Carlo ha avuto molti amori e qualche figlio qua e là per il mondo. Infedele in questi suoi privati rapporti, quanto fu invece fedele nei rapporti professionali e fermo nelle convinzioni politiche. Legato tuttavia da profondi affetti familiari. Per la sorella Marella e il fratello Nicola e per Ettore. Per la figlia Jacaranda. Per il nipote Filippo. Per Violante Visconti, sua compagna per trent'anni e sua moglie fino alla morte avvenuta qualche anno fa.

Ebbe anche molti amici al di fuori dell'azienda: Carlo di Robilant, Piero Saint Just, Nicolò Pignatelli, Emanuele De Seta. Ma il racconto della sua vita sarebbe incompleto se omettesse il rapporto che ha avuto con Gianni Agnelli e con i figli e nipoti di Gianni e Marella ai quali è stato legato non solo da vincoli di sangue ma da profonda e quasi paterna amicizia.

Con Gianni c'è stata amicizia di avventure, comune passione per il rischio e una sottile competizione e rivalità. Per molti aspetti si somigliavano: l'eleganza, l'amore per la gara, l'amore per le donne, gli affetti familiari, l'azienda come luogo di appartenenza e progetto di futuro. Infine la bellezza fisica che ambedue avevano. Gianni però è stato perseguitato da una sorta di noia esistenziale che Carlo non ha invece mai conosciuto. La vita l'ha sempre divertito e in questo fu assai diverso dal cognato.

Ci fu tra i due un'altra intima assonanza: Carlo si sentiva principe, Gianni si sentiva re. Tutti e due ebbero una loro piccola corte di scioperati, di bizzarri, di buffoni, che è stata per loro una protesi della nobiltà di sangue.

***

Negli ultimi anni i nostri incontri si erano diradati, le nostre telefonate da pluri-quotidiane avvenivano ormai con cadenza settimanale e alle volte anche più lunga. Ma quando un fatto privato o aziendale o pubblico di rilievo accadeva, ci trovavamo simultaneamente con il telefono in mano per mettere in comune pensieri, giudizi e sentimenti.

Così è sempre stato, ma ora per me non sarà più e questo è il mio lamento. Perché tu - come canta il poeta nel lamento su Ignacio Sánchez - sei morto per sempre.

Questa canzone gli piaceva e più volte l'abbiamo citata tra noi, forse abbiamo pensato, ma senza confessarcelo, che uno di noi due avrebbe dovuto scrivere il suo lamento sull'altro, ma non sapevamo a chi sarebbe toccato.

"Canto la sua eleganza con parole che gemono/ e ricordo una brezza triste negli ulivi".

(16 dicembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #107 inserito:: Dicembre 19, 2008, 12:45:58 am »

Eugenio Scalfari

Gelmini-Brunetta coppia perfetta


I due ministri tolgono con le loro trovate le prime pagine dei giornali a Obama e Berlusconi. Dalle donne in pensione a 65 anni alla nuova paternità per i maschi fino ai regali ai fannulloni  Renato Brunetta e Mariastella GelminiIl ministro Brunetta è un fenomeno. Un 'recordman'. Un Guinness da primati. Si dice che aspiri al premio Nobel e non mi stupirebbe che glielo dessero anche se non riesco a individuare in quale disciplina. È animato da un'intensa passione: a qualunque costo deve farsi vedere. E ci riesce perfettamente. Crollano le Borse di tutto il mondo? I giornali italiani hanno Brunetta in prima pagina. Aumenta la tensione con l'Iran? Brunetta non cede. Supera perfino Tremonti nella grafica dei 'media', quanto a Calderoli, per ottenere una citazione deve parlare di lui. 'Brunetta - scherzetto' ha detto a proposito della pensione delle donne e questo gli è valso un po' d'attenzione.

Però era qualche giorno che Obama da un lato e Berlusconi dall'altro con quella storiaccia della giustizia da riformare, avevano oscurato il nome del nostro ministro della Funzione pubblica e così il piccoletto è passato al contrattacco. Con la pensione delle donne, appunto, da portare a 65 anni come per gli uomini. Titolo di apertura sulla carta stampata e nei telegiornali, 'talk show' televisivi, dibattito tra i partiti e tra i sindacati, insomma una 'revenge' in piena regola. Del resto anche questa mia nota a lui dedicata è la dimostrazione di quanto dico: Brunetta come visibilità non lo batte nessuno.

Il problema che questo caso ha sollevato è serio. In linea di principio è appoggiato da quasi tutti, soprattutto dalle donne lavoratrici, dirette interessate. Avere un posto di lavoro di questi tempi sta diventando un privilegio; poterlo conservare per cinque anni di più in attesa della pensione può essere una mano santa per il bilancio famigliare. Purtroppo i licenziamenti si intensificano col passare dei mesi e le lavoratrici precarie sono in prima fila tra le vittime designate; per loro il prolungamento della pensione non servirebbe a niente. A Tremonti invece può servire, 'fa cassa' nel bilancio dell'Inps cioè dello Stato.

La parità tra uomini e donne è comunque l'obiettivo principale che i movimenti femminili hanno scritto nei loro programmi dal 1968 in poi. La liberazione e l'emancipazione delle donne ha infatti come tappa fondamentale da raggiungere quella della parità, dalla quale siamo ancora molto lontani soprattutto nel campo del lavoro e del 'welfare' sui diritti sociali. Non sono parificati gli stipendi, non è parificato l'accesso al lavoro, non sono parificate le carriere né in termini di diritto né, soprattutto, in termini di fatto.

In queste condizioni prolungare l'età di pensione non alleggerisce il problema anzi lo aggrava. Rende più difficile alle donne conciliare la gestione della casa con il lavoro fuori casa in un paese dove difettano gli asili e il tempo pieno nelle scuole.

Ma Brunetta insiste, per lui queste contraddizioni sono una manna. Insiste sollevando un problema strettamente connesso: quello della paternità.

Questo della paternità è un tema che sta molto a cuore anche alla Gelmini per via del tempo pieno nelle scuole. Sulla Gelmini si possono dire molte cose pro e contro, simpatica e antipatica, bella o bruttina; ma su una cosa siamo tutti d'accordo: anche lei è un asso della visibilità, la sola (a parte Obama e Berlusconi) che può competere con Brunetta. Se poi dovessero addirittura far coppia diventerebbero irresistibili. Megagalattici, come si dice.

Ebbene, sul tema della paternità fanno coppia. Forse il significato di questa parola, che sta entrando di forza nel nuovo 'welfare', è ancora un po' oscuro, perciò cerchiamo di chiarirlo.

Il tema della paternità significa che il marito della donna-lavoratrice deve condividere con lei la funzione e il lavoro casalingo, nella gestione dei figli e più in generale della casa. Se la donna lavora, la condivisione della responsabilità casalinga diventa una necessità. Ma se, come è auspicabile, lavora anche l'uomo, la condivisione non può che significare un minore impegno dell'uomo nella sua carriera.

Brunetta (e Gelmini) parlano di incentivi all'uomo per invogliarlo ad assumere sempre più e meglio la sua parte casalinga senza trascurare troppo il suo lavoro fuori casa e la sua carriera. Insomma in una società ideale doppio lavoro per l'uno e per l'altra. Una coppia moderna. Ha detto Brunetta ai suoi contraddittori: "Volete forse far ritornare la donna all'età delle caverne e del paleolitico?".

È chiaro: Brunetta e Gelmini terranno le prime pagine almeno per altri tre mesi e poi ne inventeranno un'altra per continuare a farsi vedere. Il ministro della Funzione pubblica, lui, sta già preparando il nuovo fuoco d'artificio da lanciare: vuole premiare i 'fannulloni', pagandoli senza che vadano al lavoro, con metà stipendio. Potranno magari cercarsi un secondo lavoro. Fare per esempio i badanti e i casalinghi a mezzo servizio e a prezzi stracciati.

Quest'uomo, questo Brunetta, è formidabile. E pensare che era socialista (come Tremonti) e la sinistra se l'è fatto sfuggire.

(18 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #108 inserito:: Dicembre 21, 2008, 10:46:07 am »

IL COMMENTO

Scelta riformista o cesarismo autoritario


di EUGENIO SCALFARI


I PARTITI non fanno più politica. Hanno degenerato e questa è l'origine dei mali d'Italia. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani, oppure distorcendoli senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello: non sono più organizzazioni che promuovono la maturazione civile e l'iniziativa del popolo, ma piuttosto federazioni di correnti e di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss".
I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le istituzioni a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai, alcuni grandi giornali.

Molti italiani si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato e delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ottenuto vantaggi o sperano di riceverne o temono di non riceverne più.
La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendovi dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, denunciarli e metterli in galera. La questione morale nell'Italia di oggi fa tutt'uno con l'occupazione dello Stato da parte dei partiti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo.

Ecco perché la questione morale è il centro del problema italiano ed ecco perché i partiti possono provare ad esser forze di serio rinnovamento soltanto se affronteranno in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche.

Queste righe che fin qui avete letto non le ho scritte io, non sono farina del mio sacco anche se le condivido parola per parola, e non sono neppure la citazione di qualche discorso di uomini politici di sinistra o di destra pronunciati in questi giorni.

Queste frasi le ha pronunciate Enrico Berlinguer in un'intervista pubblicata su Repubblica il 28 luglio del 1981, cioè ventisette anni fa e undici anni prima dell'inizio di Tangentopoli, ma è tremenda la loro attualità. E' tremenda perché significa che quel vizio non è stato estirpato e neppure scalfito. Permane esattamente come l'allora segretario del Partito comunista italiano l'aveva diagnosticato, con l'aggravante che ora la "diversità" comunista è caduta insieme all'ideologia che ne era in qualche modo il presidio.

Che sia caduta l'ideologia è senza dubbio un bene. La diversità non ha avuto più alcun appiglio ed è caduta anch'essa. La destra in questi giorni festeggia perché la sinistra non potrà più invocarla come un elemento di superiorità. Finalmente, dicono i berlusconiani, siamo tutti eguali.

Ma eguali nel peggio. Non sono le virtù civiche della destra ad essersi elevate dalla ricerca del bene proprio a quella del bene comune ma, semmai, quelle della sinistra ad essersi indebolite.

Quanto agli italiani, è vero che una parte di loro era ed è sotto ricatto come diceva Berlinguer, a causa dei favori ricevuti o attesi, ma la parte maggiore è soltanto schifata, ha perso fiducia, non ha più speranze, travolge nella stessa condanna la politica, i partiti, le istituzioni, la magistratura, le banche, il mercato. Metà degli elettori non vota più. Soltanto il Quirinale è esente da questo crollo di credibilità. E' importante che il presidente della Repubblica riscuota fiducia e rispetto da una quasi unanimità dei cittadini, ma non è sufficiente.

Il centrodestra, malgrado alcuni recenti scricchiolii, ha ancora il compatto sostegno dei suoi elettori, anche se su una base che si va restringendo.

Il centrosinistra, cioè il Partito democratico, ha fatto l'altro ieri la sua prima resa dei conti. C'è stato un ampio dibattito, una seria autocritica, le premesse d'una nuova partenza a poco più d'un anno dall'esordio. L'accoglienza dei "media" è stata nel complesso tiepida.

Come spesso accade, le cronache hanno dato maggior risalto alle polemiche interne che alle diagnosi condivise. Il mestiere crudele del giornalismo reclama soluzioni nette, bianco o nero, chi ha vinto e chi ha perso. Non sempre questo criterio riesce a cogliere la sostanza e meno che mai quando lo si applica alla politica. Perciò mettiamoci occhiali appropriati e guardiamo più a fondo quanto sta accadendo.

* * *

"Disuguaglianza sociale. Il dramma che l'Italia oggi sta vivendo è contenuto in queste due parole. Disuguaglianza sociale. È questa la grande, moderna questione che si pone oggi di fronte a noi. Colpevole non vedere, non rendersene conto. Imperdonabile non sentire bruciante sulla nostra pelle, per le nostre coscienze, il dovere di offrire risposte a questa realtà".
Le cronache dei giornali di ieri non riportano queste parole o ne fanno un cenno distratto, eppure esse aprono la relazione di Veltroni all'assise del Partito democratico e il fatto che non si tratti d'uno slogan ma di una drammatica constatazione è documentato da un lungo elenco di cifre e di situazioni che occupano la prima parte del discorso del segretario del Pd.

Sono cifre e situazioni che conosciamo, che provengono da fonti ufficiali e che non raccontano soltanto quanto avviene in Italia ma in tutto l'Occidente e in tutto il pianeta. La settimana scorsa citammo il pensiero di Joseph Stiglitz, premio Nobel dell'economia che individuava anche lui nella distribuzione malformata della ricchezza la piaga del mondo intero.

Si è scritto e detto che problemi di queste dimensioni non si affrontano soltanto con specifici provvedimenti se alle loro spalle non c'è una scelta culturale. Qual è la cultura della sinistra? Ebbene, è questa la cultura della sinistra: combattere la disuguaglianza sociale con tutti i mezzi che la politica è in grado di mobilitare. Nella relazione del segretario del Pd questi mezzi sono ampiamente elencati. Descritti. Confrontati con le risorse disponibili. Collocati dentro un calendario preciso. Dimostrati compatibili con le regole europee. Calati in un impegno programmatico. Non è questo che tutti gli osservatori e i critici indipendenti suggerivano, chiedevano, reclamavano? Ed ora che la risposta è arrivata ed è stata confortata da un voto quasi unanime, facciamo finta che si tratti solo di parole? Volevate dunque veleni e pugnali? Non siamo proprio noi, osservatori e critici indipendenti, a ricordare che in politica le parole sono pietre?

* * *

L'elenco degli obiettivi concreti, dei mezzi necessari a realizzarli, è lungo ed occupa almeno un terzo di quel documento, ma il punto centrale è questo: bisogna usare la leva del bilancio, la politica monetaria non basta più.

Bisogna cioè mandare il bilancio in deficit per il 2009 che sarà l'anno terribile della recessione. In deficit di un punto di pil, 16 miliardi di euro da aggiungere a quello stentato mezzo punto che Tremonti ha finora stanziato e che è chiaramente insufficiente a far fronte alla tempesta. Si tratta dunque di 22 miliardi complessivi per alleggerire il peso fiscale sul lavoro e sulle famiglie con effetti duraturi, per estendere alla massa di lavoratori precari la cassa integrazione, per istituire un sostegno di disoccupazione che duri almeno due anni. Nello stesso tempo occorre approvare un piano di rientro graduale del deficit nei limiti europei, che ci riporti all'equilibrio nel corso del biennio 2010-2011.

Questa è la proposta nelle sue linee essenziali. Una proposta da sinistra di governo, europea e responsabile, sulla quale raccogliere forza, consenso, alleanze politiche e sociali.

* * *

Ci sono altri punti nel programma di Veltroni: scuola e università, riforma della giustizia, energie alternative al petrolio, regole di mercato a tutela della concorrenza e delle pari opportunità sociali.

Ma i temi sui quali si aspettava al varco il segretario del Pd non erano questi. La mancanza di programmi alimenta la geremiade delle critiche, ma quando quella lacuna viene colmata le teste si voltano subito dall'altra parte perché i programmi annoiano chi è chiamato a dare un giudizio veloce e semplificato. Sicché si aspettava Veltroni al varco sul tema delle alleanze secondo l'adagio "dimmi con chi stai e ti dirò chi sei". Lo aspettavano al varco i "media" ma anche all'interno del Partito democratico.

Follini aveva presentato un ordine del giorno anti-Di Pietro, Enrico Letta e anche Massimo D'Alema guardavano con favore a quella proposta proponendo un'alleanza stabile con l'Udc di Casini. Altri perseguivano invece accordi con la sinistra di Vendola e di Bertinotti. Prospettive astratte sotto l'apparenza della concretezza.

Se il partito di Casini si alleasse stabilmente con il Pd perderebbe a dir poco metà dei suoi elettori che sarebbero risucchiati nell'area berlusconiana. E se il Pd si alleasse stabilmente con la sinistra di Vendola, perderebbe gran parte degli ex Margherita che sarebbero risucchiati da Casini. Proposte di questo genere non sono dunque politicamente apprezzabili.
E vero invece che il Pd è oggettivamente il partito più forte dell'opposizione. Se riuscirà a rilanciare la sua immagine, le altre opposizioni, ciascuna nei suoi modi e nei suoi tempi, troveranno elementi di raccordo per marciare separati e colpire uniti il comune avversario.

Resta il problema Di Pietro che però non è la causa ma l'effetto della crisi del Pd. Di Pietro ha intercettato il "grillismo" che è l'effetto della debolezza dei partiti della sinistra e del riformismo democratico. Se il riformismo non delude, il "grillismo" declina e di Pietro anche. Con lui comunque l'alleanza è rotta da un pezzo. Alleanze locali non fanno testo anche se è meglio limitarle al minimo.

* * *

Veltroni ha fatto molti errori. Ha perso troppo tempo e non ha avuto idee chiare sulla natura del partito da creare. Ha ragione D'Alema di lamentare un'amalgama senza strutture. Ha ragione Chiamparino di reclamare un ascolto finora scarso delle esigenze del Nord. Hanno ragione i molti che reclamano rigore e non tolleranza verso le pastette di molti amministratori meridionali Il dibattito è stato vivace e in certi momenti aspro.

Contributi di valore sono venuti da D'Alema, Reichlin, Ruffolo, Bersani. Bassolino ha parlato anche lui senza neppure una volta nominare Napoli e la Campania. Una reticenza di queste proporzioni non si era mai vista prima da parte di un vecchio dirigente politico. A volte il vino migliora con gli anni ma altre volte svapora e diventa aceto. Il caso Bassolino è uno di questi.

* * *

Non si può eludere la domanda se Veltroni esca rafforzato da questo dibattito e se il Partito democratico possa superare la pessima congiuntura delle ultime settimane. Se è vero che la questione morale e quella della disuguaglianza sociale costituiscono il cuore del problema italiano (e mondiale), aver messo tutte e due al primo posto nell'agenda del Pd dà buone prospettive al rilancio di quel partito. In parte dipende da Veltroni, D'Alema, Bersani, Franceschini, Marini e gli altri dirigenti vecchi e nuovi. In parte dai giovani di seconda e terza fila per i quali è venuta l'ora di farsi avanti. Ma in grandissima parte da tutti quelli che sperano e vogliono un riformismo serio, audace e vorrei dire allegro, impegnato, competitivo, creativo. Il partito deve fornire le infrastrutture affinché il riformismo divenga adulto e sia luogo di rinnovamento di una società spaventata e atterrita.

Se il riformismo pianterà le sue radici anche la destra cambierà. La società italiana cambierà. Al di là delle diverse opinioni, questa dovrebbe essere una speranza comune nella direzione che ogni giorno ci indica Giorgio Napolitano insieme con lui Ciampi e Scalfaro. Per il bene della democrazia e della Repubblica.

* * *

Post Scriptum. Ieri sera Berlusconi ha lanciato l'ennesima provocazione: ha proposto l'elezione diretta del Capo dello Stato, cioè un plebiscito sul suo nome. Ha aggiunto che lo metterà in votazione tra qualche tempo. Si completerebbe così il disegno che da tempo porta avanti di uno stravolgimento costituzionale culminante nel cesarismo. Davanti ad un personaggio di questa natura non si capisce come possa nascere il Partito della libertà, cioè l'unione tra Forza Italia e An con dentro Fini che pochi giorni fa ha condannato il cesarismo mentre Bossi dichiarava: "Non vogliamo monarchie". O sono tutti ipocriti o sono tutti ammattiti.

In queste condizioni il Pd e le altre forze di opposizione sono la sola diga che possa trattenere l'Italia in un quadro democratico europeo impedendo un'avventura con sbocchi autoritari. La grande crisi del 1929 produsse due soluzioni politiche nel mondo occidentale: quella democratica di Roosevelt e quella fascista e nazista. Le condizioni attuali non sono quelle di allora ma la scelta è ancora una volta questa.

Noi italiani abbiamo già dato.

(21 dicembre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #109 inserito:: Dicembre 28, 2008, 11:59:43 am »

La triste storia dell'Italia corrotta


di EUGENIO SCALFARI

L'ITALIA è una nazione corrotta? Da sempre o da quando? E corrotto il popolo, la società nel suo complesso? Oppure è corrotta soltanto la classe dirigente del Paese e il popolo assiste, passivo e stupefatto, a questo devastante fenomeno?

Questo gruppo di domande è di nuovo alla ribalta, il tema è di nuovo di incalzante attualità e si torna a parlare dei mezzi necessari a porvi rimedio; il governo ha messo all'ordine del giorno la riforma della giustizia con il dichiarato obiettivo di affrontare le malformità dell'ordine giudiziario e di stroncare l'immoralità dilagante: un soprassalto degno di nota poiché il capo del governo è uno degli esempi più vistosi dell'immoralità pubblica o almeno così è percepito da una parte rilevante della pubblica opinione.

Appena ieri la questione morale è stata presa di petto da Giuseppe De Rita sul Corriere della Sera e da Guido Crainz su Repubblica.

Quest'ultimo ne ha addirittura fatto la storia citando coloro che se ne sono occupati a partire dal 1970, molto prima della nascita di Tangentopoli che ebbe inizio nel 1992 e che contribuì ad affondare la Prima Repubblica senza tuttavia riuscire ad estirpare la corruzione che continua come e più di prima a devastare la fibra del Paese. Siamo dunque condannati senza scampo a portarci appresso questa piaga purulenta che resiste ad ogni medicina e ad ogni chirurgia?

In realtà il fenomeno è molto più antico, le sue radici affondano non già nel passato prossimo ma in quello remoto. Molto prima dell'ultima guerra e molto prima del fascismo, l'Italia liberale e monarchica era infetta nelle midolla e non mancavano neppure allora intellettuali e artisti che denunciavano con parole di fuoco il trasformismo e la corruzione. Gabriele D'Annunzio apostrofava Nitti con il soprannome di "cagoia", Salvemini prima ancora lanciava contro Giolitti pesantissime accuse.

A monte la questione morale aveva travolto Crispi e lo scandalo della Banca Romana aveva coinvolto addirittura la monarchia.

"I Vicerè", il grande romanzo storico di De Roberto è un documento spietato del malaffare nelle classi dirigenti meridionali. Lo Stato unitario ancora non esisteva ma la corruzione infestava da tempo il regno borbonico e quello papalino. Per non parlare della "romanità": l'impero dei Cesari, anche nella fase gloriosa degli inizi e ancora più indietro risalendo a Pompeo, Catilina, Mario e alla schiera dei proconsoli che depredavano le provincie a beneficio dei propri patrimoni, fu un "combinat" di forza militare e di corruttela pubblica. Nel "De Bello Jugurtino" Sallustio fa dire a Giugurta, re di Numidia, la storica frase: "Roma, venderesti te stessa se trovassi un compratore".

Dunque esiste una vocazione fatale alla corruttela che inchioda da più di due millenni la nazione latina e poi quella italica e italiana a questa peste devastante?

* * *

Mettiamo da parte la Roma dei proconsoli e dei Cesari: depredò i sudditi a vantaggio dell'erario e dei suoi titolari come è stato fatto da tutti gli imperi. Restiamo all'Italia moderna.

Qui da noi lo Stato unitario ha avuto una presenza evanescente, estranea, lontana, vissuto più come sopraffattore che come garante del patto sociale. Più come autore di violenza che tutore di legalità. Il popolo non ha partecipato ma ha soltanto assistito alla nascita dello Stato. Quando esso si costituì il 75 per cento della popolazione era formata da contadini. Fuori dalle istituzioni, fuori dal mercato. Consumavano le poche derrate che producevano, non avevano ospedali, non mandavano i figli a scuola, le sole presenze istituzionali erano i carabinieri e gli agenti delle imposte. E i preti.

Non facevano notizia i contadini. Nascevano, figliavano, morivano.

L'opinione pubblica rappresentava soltanto il 25 per cento. Proprietari fondiari, commercianti, industriali, magistrati, professionisti, maestri e docenti, impiegati.
Da questa fetta sottile della società emergeva la classe dirigente, i capi delle amministrazioni locali e nazionale, gli ufficiali dell'esercito, gli imprenditori.

Insomma la borghesia e la piccola borghesia. I deputati.
Lo Stato galleggiava sulla società la quale a sua volta galleggiava sulla moltitudine dei contadini e sui primi nuclei della classe operaia.

Lo Stato non era un simbolo né lo era la Patria. Per la maggior parte quelle parole erano sconosciute, prive di significato. Per una parte minore erano depositi di potenza legale da occupare a proprio beneficio.
Domenica scorsa ho citato l'intervista del 1981 dove Enrico Berlinguer descrive l'occupazione dello Stato e delle istituzioni da parte dei partiti, ma avrei potuto citare quasi con le stesse parole Salvemini, De Viti De Marco, Maffeo Pantaleoni, Mosca, Pareto, Luigi Einaudi, Giustino Fortunato, di cinquanta e ottanta anni prima del leader del Pci.

La corruzione italiana è un fenomeno che deriva direttamente dall'estraneità dello Stato rispetto al popolo, dall'esistenza d'una classe dirigente barricata a difesa dei suoi privilegi, dall'appropriazione delle risorse pubbliche da parte dei potenti di turno, dal proliferare delle corporazioni con proprie deontologie, propri statuti, propri privilegi; dalla criminalità organizzata e governata da leggi e codici propri. Infine, in assenza di una legalità riconosciuta, dalla necessità di supplire a quell'assenza con la corruzione spicciola, necessaria per mitigare l'arbitrio con la compravendita di indulgenze civili come da sempre ha fatto la Chiesa con le indulgenze religiose.

* * *

Mi domando se la corruzione pubblica sia un fatto solo italiano. L'ovvia risposta è no, non è solo un fatto italiano, s'incontra in tutti i paesi, dove c'è la democrazia e dove c'è la dittatura, con economie mature o sottosviluppate. Dovunque i titolari del potere si appropriano d'una quota in più di quanto gli spetterebbe, dovunque i furbi accalappiano gli allocchi i quali cercano di rivalersi sui più allocchi di loro. Ma in Italia c'è un elemento aggravante in più: la fatiscenza dello Stato, la debolezza delle istituzioni di garanzia, l'evanescenza dello stato di diritto.

Qui la verità storica impone tuttavia un approfondimento dei fatti come si sono sviluppati nel corso del tempo. C'è stato nell'ultimo secolo un graduale aumento di partecipazione del popolo alla vita pubblica, un inizio di radicamento delle istituzioni nella società.

Quest'azione educativa ha avuto come promotori il movimento socialista, il partito comunista italiano, il movimento sindacale. Nell'ultimo cinquantennio vi è stato anche un forte contributo da parte dei cattolici democratici che hanno vinto i "non possumus" emanati per oltre mezzo secolo dal Papato contro lo Stato, con il nefasto effetto di confiscare la libertà politica dei cattolici separandoli dalle istituzioni del loro paese: un fatto tutt'altro che marginale (che registra purtroppo alcuni attuali ritorni all'indietro) senza riscontro nelle democrazie d'Europa e d'America.

* * *

Se c'è stato - e c'è sicuramente stato - un processo di sviluppo democratico, esso è dovuto in larga misura alla sinistra italiana. Tanto maggiore è quindi la preoccupazione più che mai attuale di assistere ad uno scadimento anche nella sinistra per quanto riguarda gli standard di moralità.

Probabilmente lo scadimento è stato ingrandito dall'avventatezza di magistrati che dal canto loro hanno smarrito in alcune circostanze i criteri di prudenza doverosi negli accertamenti di supposti reati. I partiti dal canto loro hanno abbassato la vigilanza consentendo che il malaffare entrasse anche in luoghi politici che finora gli erano stati preclusi.

Ma la vera causa è quella indicata a suo tempo da Berlinguer: le forze politiche non debbono occupare le istituzioni, gli organi di garanzia debbono vigilare e colpire senza riguardo ai colori di bandiera, la magistratura deve funzionare come organo di controllo della legalità, la stampa deve imparare meglio e di più il suo officio di contropotere.

Da questo punto di vista una riforma della giustizia s'impone e dovrà concentrarsi su tre obiettivi:
1. la riforma del processo penale e civile affinché sia resa giustizia in tempi ragionevolmente brevi; questo è un obiettivo essenziale che i cittadini reclamano e senza il quale non si avrà alcuna riforma degna del nome.

2. Il conferimento dell'azione penale nelle mani del capo della Procura, che distribuisca il lavoro ai suoi assistenti con criteri certi e oggettivi.

3. La separazione delle funzioni tra magistrati inquirenti e giudicanti senza tuttavia dividere in due l'ordine giudiziario al quale tutte e due quelle funzioni appartengono.

Ieri il presidente del Consiglio, con una più che mai vistosa capriola rispetto a quanto aveva appena detto, ha modificato l'ordine delle priorità del governo: alla ripresa dei lavori parlamentari ci sarà anzitutto il federalismo fiscale; la riforma della giustizia verrà dopo.

Quanto al presidenzialismo, per ora è uscito dalla tabella delle priorità.

Evidentemente la Lega e Fini hanno prevalso sulla fretta di Berlusconi di stringere i tempi della svolta autoritaria. Anche la libera stampa ha contribuito a questa svolta di saggezza e vi ha contribuito soprattutto la ferma resistenza dell'opposizione a minacce e lusinghe.

Né le une né le altre sono mancate. Il fatto che non abbiano avuto successo dà buone speranze per il futuro

(28 dicembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #110 inserito:: Gennaio 05, 2009, 11:57:14 am »

IL COMMENTO

La guerra e l'etica della morte e della vita

di EUGENIO SCALFARI


LA guerra di Gaza sta drammaticamente aumentando la sua intensità di ora in ora: è iniziato l'attacco di terra, sono state bombardate le moschee, Israele ha richiamato migliaia di riservisti e messo in stato d'allerta il nord del paese in previsione di possibili ostilità anche con Siria e Libano. L'incendio divampa su tutta la "Striscia" con ripercussioni anche in Cisgiordania dove ci sono i primi segnali di una terza "Intifada", nei Paesi Arabi e nella diaspora palestinese in Europa e negli Stati Uniti.

Intanto gli arabi israeliani si sentono sempre meno cittadini di Israele e solidarizzano con manifestazioni di piazza in favore dei "fratelli" palestinesi. Il risultato di queste varie dinamiche è un isolamento di Israele di fronte alla comunità internazionale. In Italia, a Roma e a Milano, i palestinesi immigrati nel nostro paese hanno anche bruciato le bandiere di Israele provocando contestazioni all'interno dello schieramento politico italiano.

Contestazioni certamente valide in punto di diritto internazionale ma poco rilevanti di fronte alla sproporzione evidente della reazione israeliana a Gaza. Il dato di fatto oggettivamente osservabile è l'isolamento del governo di Gerusalemme di fronte all'opinione pubblica europea e araba.

Per rompere questa sorta di accerchiamento politico il solo sbocco possibile è quello del negoziato. L'alternativa è quella d'una lotta senza quartiere, l'invasione di Gaza e lo sterminio di Hamas, non più centinaia ma migliaia di morti civili, la fine di ogni opzione pacifica. Molto dipende dall'Europa, da Obama, da Putin. Con una valutazione dei costi e dei benefici che andrebbe ben oltre lo scacchiere medio-orientale riportando in prima fila l'Onu come unico tavolo di confronto mondiale.

* * *

Le tensioni religiose della guerra di Gaza non sono da sottovalutare. L'influenza del messaggio cristiano è stata finora pressoché nulla. L'interpretazione bellicista del Corano ha fatto altri passi avanti. Quanto a Israele, il Dio biblico non è tanto quello di Abramo e di Salomone quanto il Dio degli eserciti di Saul e di David, il Dio vendicatore e vendicativo. Sotto la spinta di questi fatti la Chiesa di Roma ha compiuto un passo avanti. Poco influente, come abbiamo già detto, sull'atteggiamento dei belligeranti, ma molto importante per quanto riguarda il tema della non violenza e della pace.

Quella della non violenza e del pacifismo è relativamente recente nella Chiesa di Roma, non si risale molto più indietro di Pio XI e di Benedetto XV, ma si trattava ancora di tracce labili. I passi più risoluti si ebbero con papa Roncalli e con il Vaticano II. Wojtyla stabilizzò quella scelta. Papa Ratzinger l'ha recentemente accentuata. L'indisponibilità della vita è ormai - così sembra - una scelta irreversibile della gerarchia ecclesiastica. E tuttavia, come sempre accade, dalla soluzione d'un problema altri ne scaturiscono.

Così sta accadendo che l'indisponibilità della vita abbia rafforzato il principio dell'indisponibilità della morte. Ne deriva un'intransigenza sempre più ferma nel campo della bioetica dove si discutono i temi eticamente sensibili della modernità: la vita e la morte, il dogma e la libertà di coscienza, l'etica e la scienza, la politica e la teologia. La discussione su questi temi si svolge in tutto l'Occidente ma in particolare in Italia, nel giardino del papa cattolico. Perciò noi italiani ne siamo particolarmente coinvolti.

* * *

Proprio in questi giorni il tema è stato riproposto dal caso Englaro e da altri consimili dando luogo all'ennesimo conflitto tra la gerarchia ecclesiastica e il pensiero laico. Il Vaticano, partendo dalla sua scelta sull'indisponibilità della vita, ne ha dedotto una serie di conseguenze estremamente rigide sull'intera gamma della bioetica, con l'intento di restringere i confini della libertà individuale.

I "media" non hanno dato molto spazio alla discussione registrando quasi senza commento le posizioni vaticane. Ha fatto eccezione "Repubblica": in meno di una settimana il nostro giornale ha pubblicato un articolo di Aldo Schiavone, uno dei Cavalli Sforza (padre e figlio), un altro di Marco Politi su un'indagine effettuata sui giovani del Triveneto, uno (di ieri) di Miriam Mafai. Il nostro è un giornale molto attento alle questioni religiose e ai confini tra la gerarchia ecclesiastica, la laicità dello Stato, l'autonomia della coscienza individuale, l'etica privata e l'etica pubblica. Perciò non può meravigliare se il dibattito si svolge intensamente sulle nostre pagine.

Stupisce tuttavia il silenzio pressoché completo della stampa nazionale, quasi che il tema meriti d'esser registrato ma non dibattuto. Questa assenza non può che stimolarci ad offrire spazio e respiro ad un confronto essenziale su temi essenziali. Per quanto mi riguarda prenderò come riferimento l'articolo di Aldo Schiavone del 31 dicembre scorso perché è quello che a mio avviso affronta la questione in tutta la sua complessità.

* * *

Scrive Schiavone che c'è nel nostro tempo una grande richiesta di etica: nella società pubblica e nei comportamenti privati, nella scienza e nella tecnologia, insomma in tutto il vissuto della modernità.
Forse è vero che ve ne sia bisogno, ma che ve ne sia vera richiesta a me non pare. Tutt'al più c'è una richiesta retorica, cioè una simulazione di richiesta che vale soprattutto per gli altri ma quasi mai per se stessi.
Dalla richiesta di etica Schiavone fa discendere la necessità di rivolgersi alla Chiesa che sarebbe "il principale deposito di etica nell'Occidente cristiano".

Qui è necessario distinguere. La predicazione di Gesù di Nazareth, come ci è stata tramandata dai Vangeli (non soltanto i quattro canonici), dalle lettere di Paolo, dagli Atti degli apostoli, contiene certamente un messaggio etico di formidabile e duratura intensità. Questo messaggio la Chiesa l'ha tramandato, sia pure con notevoli aggiustamenti, ma quasi mai praticato. C'è stata, nei suoi duemila anni di storia, un'ala che ha non soltanto predicato ma praticato il messaggio evangelico: un'ala minoritaria, da Benedetto a Francesco, da Antonio a Bernardo, a Saverio, a Ignazio (non parlo dei mistici che sono altra cosa).

Quest'ala è stata tollerata e utilizzata dalla gerarchia che ha però seguito e praticato la strada opposta. Il deposito etico della gerarchia è stato contraddittorio e pressoché nullo, come avviene in tutte le strutture di potere. Le chiese cristiane, e quella cattolica in particolare, sono state e sono tuttora strutture di potere. L'etica può riverberare su di esse una parte dei suoi contenuti e precetti ma esse non ne sono in nessun caso la fonte sorgiva "per la contraddizion che nol consente".

Infine: Schiavone lamenta che la cultura laica, di fronte al fiorire di quella cattolica, sia muta, assente, dispersa e comunque impari al bisogno che ce ne sarebbe. Impari forse. Dispersa può darsi perché i laici non sono una struttura e non hanno un Papa che parli per tutti. Ma muta e assente non direi. I laici hanno molti punti di riferimento, convinzioni radicate e comuni e una comune storia di pensiero evolutivo. All'origine ci sono gli stoici e Socrate e poi via via Epitteto, Epicuro, Montaigne, Descartes, Pascal, Spinoza, Diderot, Voltaire, Kant.

Anche il pensiero laico ha una storia plurimillenaria che arriva fino a noi contemporanei. Non dobbiamo inorgoglircene ma tanto meno dimenticarcene. Qui finiscono alcuni miei dissensi con l'amico Schiavone, con il quale invece consento pienamente sulla diagnosi che riguarda il rapporto tra scienza e tecnica da un lato, libertà e autonomia individuale dall'altro.

* * *

La vita e la morte sono sempre più fenomeni artificiali oltre che naturali a causa del progredire della ricerca scientifica e delle sue applicazioni tecniche. Fenomeni artificiali perché la tecnica è sempre più in grado di supplire alle carenze naturali. Consente la procreazione anche a chi non può ottenerla secondo natura; prolunga la vita e sconfigge la morte prevenendo e vincendo la malattia.

Fenomeni artificiali e perciò culturali che hanno bisogno di normative giuridiche capaci di conciliare i desideri dei singoli con gli interessi della collettività.
Scienza e tecnica continuano e continueranno ad evolversi, a sperimentare, a consentire opzioni sempre migliori, ma non vogliono né possono sostituire la natura. Se non altro per il fatto che l'umanità, la specie e gli individui che ne sono parte, è una delle innumerevoli forme della natura.

Scienza e tecnica sono prodotti mentali dell'uomo e quindi protesi della natura. In questo stadio dell'evoluzione esistono zone grigie dove le protesi consentono risultati al prezzo di sofferenze e/o limitazioni a volte sopportabili, a volte radicali. Di fronte ad esse l'individuo rivendica legittimamente libertà di scelta: se accettare le soluzioni o rifiutarle.

Piena libertà ai depositari di fedi religiose di indicare e raccomandare soluzioni conformi all'etica da essi predicata senza però che quelle soluzioni possano essere imposte a chi (fosse uno soltanto) non condivide quelle raccomandazioni. Questo è il limite di uno Stato laico, pluralista e non teocratico.

Non sembra che la Chiesa la pensi così. Sembra invece che pretenda che le sue indicazioni nel campo della bioetica divengano norme giuridiche imperative. Ebbene, va ripetuto alto e forte che questo passo non potrà mai esser compiuto poiché segnerebbe la scomparsa della laicità a favore d'un fondamentalismo che l'Occidente ha storicamente archiviato da 250 anni. Un salto all'indietro di questa portata, esso sì, segnerebbe il ritorno ad un oscuro Medioevo e la scomparsa dei valori della nostra civiltà, inclusi quelli della predicazione cristiana.

(4 gennaio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #111 inserito:: Gennaio 12, 2009, 01:17:26 am »

IL COMMENTO

I sacchetti di sabbia non fermano l'oceano


di EUGENIO SCALFARI


UN ANNO fa definimmo la società italiana come uno specchio rotto nel quale era diventato impossibile specchiare un'identità collettiva, una visione unitaria del bene comune e l'esistenza operante d'una classe dirigente degna del nome. Ma da allora, quell'immagine, che ebbe una certa fortuna, non è più appropriata. Lo specchio non è soltanto rotto: è ridotto ad una poltiglia, non riflette nessuna immagine per minuscola che sia. Non riflette neppure i nostri personali egoismi perché sono anch'essi diventati poltiglia.

L'egoismo nasce attorno ad un interesse concreto, ad un obiettivo ben determinato da perseguire, da realizzare o da difendere. Ma noi non sappiamo più quale sia quell'interesse che potrebbe darci una felicità sia pure precaria. Oscilliamo come fuscelli al vento, galleggiamo su un terreno di sabbie mobili che ad ogni passo minaccia di inghiottirci.

Quel che è peggio, questa poltiglia ha ricoperto l'intera società internazionale, al punto che perfino il mito e le speranze suscitate da Barack Obama si stanno sbriciolando prima ancora che si sia insediato alla Casa Bianca, i suoi piani di contrasto alla crisi economica oscillano tra spese pubbliche e sgravi fiscali, le cifre cambiano ogni giorno mentre la disoccupazione cresce con velocità esponenziale.

È già arrivata all'8 per cento ed è lo stesso Obama a temere che nei prossimi mesi potrebbe superare il 10 della forza lavoro se non si interverrà subito. Gli economisti parlano di trilioni di dollari, ma neppure l'America può mobilitare cifre di questa dimensione a carico del bilancio pubblico già in disavanzo di 1.200 miliardi.

La guerra di Gaza è un altro evento paradossale dove tutti i protagonisti hanno almeno una buona ragione per continuare a massacrarsi. Una buona ragione, ma nessuno sbocco politico con la conseguenza che la comunità internazionale ha di fatto derubricato quel massacro dalle proprie priorità. I morti hanno superato gli ottocento, i feriti i tremila, metà della popolazione è senza elettricità e senz'acqua se non per un'ora al giorno, negli ospedali senza medicine i medici amputano gli arti colpiti perché non sono in condizioni di curarli. Così si va avanti, tra i razzi lanciati da Hamas e le cannonate e le bombe lanciate da Israele. La ragione e il torto sono poltiglia anch'essi.

Questa situazione di tutti contro tutti è generale. Ci fosse almeno un'ideologia cui aggrapparsi, ma sono state tutte azzerate, i liberisti di ieri sono ormai i fautori più zelanti dello statalismo, i marxisti hanno scoperto con l'entusiasmo acritico dei neofiti le virtù del mercato.

L'Ucraina taglia il gas e Putin ci specula sopra giocando al rialzo sul prezzo del petrolio. La Cina ha dimezzato il ritmo della sua crescita, dal 12 in pochi mesi è scesa al 7 per cento. Il rallentamento colpisce principalmente quei 300 milioni di cinesi che erano emersi dalla marea contadina formando il primo nucleo d'una intraprendente borghesia. La crisi americana ha bloccato le esportazioni, i consumi interni sono ancora ben lontani da costituire una massa critica alternativa.

La crescita vertiginosa della Cina ne ha fatto il principale finanziatore del Tesoro americano. Se Obama vorrà mobilitare due o tre trilioni di dollari per creare tre milioni di nuovi posti di lavoro, gran parte di quello sforzo sarà la Cina a doverlo sostenere; ma la Cina a sua volta dovrà finanziare il mercato interno per compensare la caduta delle sue esportazioni. Qui nasce il dilemma tra due contrastanti alternative ed è un dilemma che coinvolge l'intera economia mondiale.

Intanto la Merkel, liberista ad oltranza, ha dovuto nazionalizzare la Commerzbank e sta per fare altrettanto con la Opel. Il premier inglese stampa moneta e la sterlina registra una svalutazione di quasi il 40 per cento rispetto all'euro. Sarkozy ha brillato di luce propria nel suo semestre di presidente europeo, ma il suo meritorio attivismo ha tenuto la scena senza lasciare tracce durevoli; adesso si è ridotto ad organizzare forum economici avendo Tremonti ed Enrico Letta come ospiti di eccezione.

Così vanno le cose nel mondo. L'Italia sta meglio o meno peggio degli altri, questa è l'opinione sostenuta da Tremonti che sembra molto sicuro di ciò che dice. Finora la gente sembra credergli ed è un bene che sia così. Il giorno che si accorgesse della bugia potrebbero accadere cose molto spiacevoli nel nostro paese. Personalmente non me lo auguro ma purtroppo l'ottimismo di Tremonti poggia anch'esso sulle sabbie mobili e lui ne è perfettamente consapevole. A chi gli domanda che cosa prevede per il 2009 risponde: "Non ho la palla di vetro". Ma non aveva capito fin dal giugno scorso che cosa sarebbe accaduto? Allora la palla di vetro l'aveva, se l'è persa per la strada? Un fatto è certo: finora non ha fatto nulla o quasi nulla per cementare quel pantano.

* * *

Una prima risposta ce la può dare il pasticcio Alitalia; nell'economia italiana è un caso importante anche se confrontato con quanto sta accadendo nel mondo è come una goccia nel mare in tempesta.

Tremonti se ne è tenuto lontano quanto poteva fingendo di dimenticarsi perfino di essere l'azionista di maggioranza della (ormai fallita) compagnia di bandiera. Perciò ne è politicamente e oggettivamente responsabile almeno alla pari col presidente del Consiglio, per il poco che ha fatto e per il molto che non ha fatto.

L'affare Alitalia è cominciato malissimo dieci mesi fa e l'altro ieri si è concluso nella farsa. Cioè in un cumulo di bugie con l'intento di darla da bere agli italiani. Non starò a ripetere nel dettaglio un racconto già fatto mille volte. In sommi capi: il governo Prodi era riuscito a vendere l'Alitalia al gruppo Air France-Klm alle migliori condizioni possibili trattandosi d'una azienda praticamente decotta. Air France si accollava i debiti, il personale di volo e di terra con un esubero di duemila persone, pagava gli azionisti offrendo loro il 7 per cento del proprio capitale e integrava il marchio e la compagnia nel gruppo franco-olandese.

Questa soluzione fu definita "svendita" da Berlusconi, dalla Lega e da tutto lo stato maggiore di centrodestra nonché dai sindacati aziendali che, forti delle loro amicizie in Alleanza nazionale, puntarono non sulla privatizzazione ma sulla nazionalizzazione dell'azienda. Furono ipotizzate e indicate inesistenti cordate tricolori, Berlusconi ci giocò sopra perfino il nome dei propri figli come possibili sottoscrittori. Avrebbe dovuto bastare l'insensatezza di questo "vaudeville" per mettere in sospetto la pubblica opinione, ma la pubblica opinione propriamente detta già non c'era più, affondata nella poltiglia generale.

Dopo dieci mesi, mercoledì prossimo la nuova compagnia Alitalia-Cai darà il via alla sua prima giornata operativa e ai suoi primi voli e noi gli indirizziamo da queste pagine il più sincero augurio di successo, senza però tacere il costo pubblico di questa operazione e i suoi probabili sviluppi.

Il costo pubblico è quantificabile in 5 miliardi di euro calcolando il passivo residuo della vecchia Alitalia dopo che avrà realizzato il poco attivo che le è rimasto e avervi aggiunto il costo degli speciali ammortizzatori riservati ai 7.000 dipendenti rimasti senza lavoro.

Su questa valutazione concordano tutti gli esperti che hanno verificato le cifre e concorda anche la sola compagnia operante in Italia in parziale concorrenza, la "Meridiana" il cui amministratore ha scodellato le cifre in un'intervista a Repubblica di tre giorni fa.

Air France entra nel capitale con il 25 per cento pagato 310 miliardi. Sarà presente nel consiglio d'amministrazione e nel comitato esecutivo. È il solo operatore e vettore aereo in una compagine di azionisti che di questo ramo di attività non sanno nulla ed hanno il cuore e il portafoglio da tutt'altra parte. Tutto fa supporre che tra cinque anni (ma anche prima se vi sarà bisogno di aumenti di capitale e certamente ve ne sarà) Air France diventerà l'azionista di comando. Di fatto lo è già.

Bisognava all'ultimo momento superare il veto della Lega e degli amministratori lombardi (Moratti, Formigoni) in favore di Malpensa, bilanciato dagli amministratori laziali (Alemanno, Marrazzo, Zingaretti) schierati in difesa di Fiumicino. I nordisti hanno tirato per la giacca più che potevano il governo affinché imponesse una scelta politica alla nuova compagnia privata.

Tremonti, taciturno fino a quel momento, si è schierato con i nordisti i quali tuttavia erano divisi tra loro perché il sindaco di Milano proclamava intoccabile l'aeroporto di Linate mentre Formigoni se ne infischiava.

"Malpensa ha tutte le chance per essere l'"hub" (l'aeroporto internazionale) italiano" ha detto il ministro dell'Economia. Per fortuna questa volta la sua parola non ha avuto peso e il premier ha convalidato la scelta privata di Colaninno senza sovrapporgli un'impensabile scelta politica.

Bisognava però a quel punto prendere in giro l'opinione pubblica lombarda e padana. Detto e fatto: la parola magica è stata "liberalizzazione", alla luce della quale Malpensa dovrebbe riacquistare una posizione di primo piano tra i grandi aeroporti internazionali.

Ebbene, quella parola "liberalizzazione" nel caso specifico non ha alcun significato. Non ce l'ha per l'area europea perché i voli in tutti i 27 paesi dell'Unione sono assolutamente liberi. Ma non ce l'ha per il resto del mondo perché i voli sono regolati da trattati e accordi internazionali circa le frequenze, gli orari, gli "slot".

Per arrivare ad un'effettiva liberalizzazione ci vorranno dunque anni, ammesso che ne valga la pena, il che è molto dubbio: un viaggiatore che voglia andare da Venezia o da Bologna o da Genova o da Trieste a New York o a Shanghai o a Cape Town avrà comunque più convenienza a raggiungere Parigi o Francoforte che non Malpensa.

* * *

Se il buongiorno si vede dal mattino, l'imbroglio Alitalia non dà buone speranze sulla politica economica del governo di fronte alla crisi mondiale. Basti dire che il governo non ha ancora fatto nulla salvo l'elemosina della "social card" finanziata in modo assai dubitabile.

Le misure anticrisi contenute nel decreto in corso di esame parlamentare ammontano complessivamente a mezzo punto di Pil, cioè tra i sei e i sette miliardi, dispersi in molti rivoli, bonus, parziali e limitate detassazioni, parziali e limitati incentivi, rifinanziamenti della Cassa integrazione.

Con questi sacchetti di sabbia sembra molto improbabile arginare un mare in tempesta d'una recessione mondiale i cui effetti dureranno almeno un anno se non due. Ma già con queste operazioni il nostro deficit rispetto al Pil si posiziona al 3,5 per cento, sconfinando di mezzo punto oltre la soglia di stabilità. Le cause di fragilità dei nostri conti pubblici stanno in questo caso nell'abolizione dell'Ici e nel costo dell'Alitalia. In totale si tratta di otto miliardi dissipati in una fase in cui gli incassi tributari diminuiscono, il reddito anche, l'evasione torna ad aumentare.

Tremonti queste cose le sapeva. Avrebbe dovuto impedire quella dilapidazione ma non l'ha fatto. Adesso vedremo che cosa si inventerà, nel senso positivo del termine. Sa anche lui che con i sacchetti di sabbia non si ferma l'oceano.

(11 gennaio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #112 inserito:: Gennaio 17, 2009, 03:17:58 pm »

Eugenio Scalfari.


Musica che dà un senso alla vita


Nella messa di requiem di Verdi l'anima si trasfigura nell'anelito verso la salvezza; Mozart invece restituisce l'umanità agli elementi in un giorno apocalittico: 'Dies irae, dies illa'  Tratterò oggi un tema inconsueto per questa pagina: due messe di 'requiem', quella di Giuseppe Verdi eseguita per la prima volta a Milano nel 1874 in memoria di Alessandro Manzoni morto l'anno precedente, e quella di Mozart, K 626, composta nel 1791 nell'imminenza della prematura scomparsa del grande compositore salisburghese.

Il 'requiem' verdiano è stato eseguito pochi giorni fa nell'Auditorium di Roma dall'orchestra e coro di Santa Cecilia diretti dal maestro Pappano. Quella musica così intensa, ricca di armonia e perfino di frasi melodiche inusuali per un testo di musica sacra ha la capacità di suscitare sentimenti altrettanto intensi nell'animo di chi l'ascolta: la morte, la vita, la trascendenza, la profezia, il giudizio, la pietà. La potenza del divino. La miserabilità delle creature.
Proprio l'intensità di questi temi e la loro incombenza esistenziale mi ha spinto a riascoltare la messa di 'requiem' mozartiana, secondo me una delle opere più alte che siano state scritte nella storia della musica. So che questo giudizio non è molto condiviso dalla critica militante, ma io non sono un critico, perciò mi valgo della libertà di esprimere il giudizio di un ascoltatore attento e partecipe.

Secondo me il 'requiem' di Mozart tocca corde e suscita emozioni ancor più profonde di quanto non avvenga con quello di Verdi. Non sto confrontando due testi per stabilire quali dei due sia esteticamente più riuscito dell'altro, operazione impossibile e criticamente assurda. Sto invece confrontando il coinvolgimento emotivo che quei due spartiti provocano nella sensibilità degli ascoltatori o, per esser più esatti, nella mia.
La messa verdiana fu composta a blocchi, in tempi diversi. Una parte Verdi la scrisse in occasione della morte di Rossini, ma non la completò. Una decina d'anni dopo morì Manzoni e fu questa l'occasione che gli fece completare lo spartito.

La storia del K 626 è ancor più complicata: Mozart la scrisse su commissione di un nobile viennese, ne iniziò la composizione nel febbraio del 1791 ma la morte sopraggiunse in dicembre e l'opera rimase incompiuta. Le parti del 'Sanctus', dell''Agnus Dei' e della 'Lux aeterna' mancavano del tutto e il musicista chiamato dalla moglie a completare la partitura utilizzò i temi che Mozart aveva usato nel 'Kyrie' di apertura variandone l'orchestrazione.
La conseguenza di questa operazione è stata a mio avviso positiva: ha dato compattezza alla partitura senza impoverirne la creatività.
Queste due messe da 'requiem' non sono composizioni ascrivibili al genere della musica sacra. Sia per Mozart sia per Verdi sono state occasioni per confrontarsi con la morte e con i temi ad essa connessi.

Verdi è stato il creatore del melodramma romantico. Quella era la sua cifra e quella emerge anche nel 'requiem' con indicibile potenza espressiva: il testo liturgico della messa funebre offre infatti una traccia che tocca i vertici della drammaticità: la fine della vita, l'attesa del confronto col Signore dei cieli, la solitudine dell'anima e il rimorso dei peccati commessi, la tragica prospettiva delle bolge infernali e l'anelito alla beatitudine del Paradiso. Si può avere un libretto d'opera più intenso di questo?
Verdi lo usò profondendovi tutte le sue potenzialità poetiche e melodiche, affidando ai solisti la parte principale e utilizzando il coro come commento alle vicende del testo. Insomma il racconto dell'anima nel momento del trapasso dal mondo all'oltremondo. O al nulla.

Il 'requiem' mozartiano non ha invece alcuna parentela con il melodramma. Infatti è il coro a farla da protagonista mentre i solisti sono utilizzati per sottolineare i titoli del testo liturgico. Il coro cioè l'umanità, la specie più ancora che l'individuo, nel momento del confronto definitivo col creatore mentre risuonano le trombe del giudizio.
I violini e in generale gli archi hanno un ampio ruolo nel testo verdiano mentre in quello mozartiano predominano gli ottoni e i bassi. La scansione è solenne e ritmata laddove Verdi osa addirittura intrecciare la marcia con i tre tempi del valzer e con le melodie della romanza.

Mozart tocca il culmine nel 'Confutatis maledictis' e nel 'Lacrimosa', Verdi raggiunge il diapason nel 'Libera me Domine' e nel finale 'Lux aeterna'.
L'anima verdiana si trasfigura nell'anelito verso la salvezza; il 'requiem' di Mozart restituisce invece l'umanità agli elementi in un giorno apocalittico "Dies irae, dies illa solvet saeclum in favilla...".
Due grandiosi componimenti sulla morte, capaci di dare un senso alla vita.

(16 gennaio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #113 inserito:: Gennaio 18, 2009, 07:38:21 pm »

IL COMMENTO

I tormenti di Tremonti nell'anno terribile

di EUGENIO SCALFARI


Lo dico senza ironia: mi sto sempre più affezionando a Tremonti perché lo vedo profondamente tormentato. Per molto tempo non ho preso sul serio quella sua melanconia, pensavo che facesse parte d'una recita lucidamente messa in scena per ingraziarsi il pubblico e le gazzette e - magari - rafforzare la sua futura candidatura politica a succedere al suo "boss" quando il momento verrà. Ma ora credo d'aver capito le cause di questo suo sentimento.

Tremonti teme che nell'anno terribile che abbiamo appena cominciato a percorrere il Tesoro non riuscirà a raccogliere sul mercato italiano ed europeo i denari necessari a finanziare il fabbisogno necessario per le casse esangui dello Stato. Teme - ed ha ragione di temere - che i titoli italiani non troveranno sottoscrittori, attratti dai titoli emessi dagli altri paesi membri dell'Unione europea e in particolare dalla Germania e dalla Francia.

Ci sarà, in questo 2009, una marea di nuove emissioni per finanziare i deficit dei bilanci europei, tutti in grave disavanzo per arginare con maggiori spese e con sgravi fiscali la recessione ormai in atto. I risparmiatori chiamati a scegliere a quale titolo affidare i loro risparmi preferiranno i "bond" tedeschi e francesi o addirittura i "Treasury bond" del Tesoro americano, a quelli italiani. Non inganni l'andamento delle ultime aste, dove la domanda di Buoni del Tesoro a tre mesi è stata superiore all'offerta. Si trattava di importi relativamente modesti e Germania e Francia dal canto loro non avevano ancora inondato il mercato con emissioni massicce. Ma nel prossimo futuro non sarà più così. L'incubo di Tremonti è questo: fare la fine della Grecia, dell'Irlanda, della Spagna e della stessa Inghilterra.

La Grecia, se non interverrà a tenerla in piedi il Fondo Monetario internazionale, finirà addirittura fuori dall'euro; l'Irlanda corre lo stesso rischio.

L'Italia è ancora lontana da quella soglia, ma il pericolo non è immaginario, esiste ed è concreto.

L'alternativa sarebbe quella di stampare carta moneta, ma questo è un potere che ha trasmigrato da Roma a Francoforte, non è più sotto il controllo della Banca d'Italia ma della Bce. Senza dire delle conseguenze anomale (e quanto anomale) che una politica del genere produrrebbe sul tessuto dell'economia reale e di quella finanziaria.

Questa è la vera ragione della recente "fede" europeista di Tremonti, del suo tentativo di creare un "fondo sovrano" europeo, una Cassa Depositi e Prestiti europea, una Bei (Banca europea degli investimenti) dotata di fondi eccezionali per il finanziamento di opere pubbliche.

Tremonti ha puntato tutto su queste ipotesi, nessuna delle quali è andata però a buon fine. Ora sta puntando su aiuti europei ai vari settori industriali in difficoltà, a cominciare dall'automobile, ma su questa strada non si potrà far molto se non allargare i cordoni della borsa per aiuti nazionali e coordinati alle imprese automobilistiche che lavorino a nuovi tipi di autovetture "verdi", alimentate da energie alternative. Briciole, ipotesi futuribili, che Germania e Francia hanno già superato per evitare fallimenti a catena e disoccupazione dilagante, per non parlare degli aiuti americani agli ex "grandi" di Detroit.

Il nostro ministro dell'Economia aspetta di vedere fino a che punto Obama interverrà nella politica economica Usa e come reagiranno le autorità europee. Non farà nulla senza il consenso dell'Europa e senza la partecipazione finanziaria dell'Europa. Altre alternative non ci sono.

Il suo peccato originale fu di consentire nel giugno scorso l'abolizione dell'Ici, l'operazione Alitalia, lo sperpero d'un paio di miliardi in regalie varie, un totale di otto-dieci miliardi di euro che oggi sarebbero stati preziosi anche se insufficienti.

Peccato di omissione, mancata resistenza alla fuga in avanti del suo "boss". Di qui il suo tormento. Come persona fa tenerezza, come responsabile politico dell'economia si trova in una difficilissima posizione che lo spinge a sottovalutare in pubblico la gravità d'una situazione a lui perfettamente nota.

* * *

I tormenti di Tremonti sono naturalmente una metafora; quello che ci importa sono i mali del paese, cioè di tutti noi. In parte ereditati da vent'anni di dissipazione e di crescenti e non più tollerabili diseguaglianze sociali e territoriali; in parte aggravati da un quindicennio berlusconiano che ha approfondito quelle diseguaglianze e dissestato ulteriormente i conti pubblici.

Veltroni ha detto l'altro giorno una verità nota da sempre agli specialisti ma mai resa esplicita nel dibattito pubblico: ogni volta che Berlusconi è stato al governo la spesa è aumentata di due punti di Pil. Aumentata e dissipata, con diseguaglianze che hanno ora contagiato anche il Nord. C'è un Nord ricco di fronte ad un Sud povero, ma anche un Nord ricco di fronte ad un Nord povero in via di progressivo ulteriore impoverimento.

Tremonti ha certamente un piano per superare l'anno terribile; quale sarà lo si è capito da tempo: trasferire risorse da Regioni e Comuni al Bilancio dello Stato.
Queste risorse serviranno a triplicare il finanziamento della Cassa integrazione, che per far fronte al crollo della produzione dovrà passare da 1,2 miliardi a quattro; ma almeno altri due miliardi gli serviranno per estendere gli ammortizzatori ai licenziati e licenziandi che vengono dal lavoro precario e anche dal lavoro nero. Infine gli sgravi fiscali per sostenere le famiglie e i loro consumi.

Mettendo tutto insieme, solo per far fronte a questo livello minimo di resistenza ci vorranno dieci miliardi in aggiunta ai cinque già previsti dal decreto anticrisi approvato tre giorni fa dalla Camera. Dieci miliardi sottratti a Regioni e Comuni, cioè a servizi e opere pubbliche di immediata fattibilità.

Si parla molto in queste settimane dei guai e delle discordie nel Partito democratico. Sono fatti spiacevoli e grattacapi seri, ma quisquilie se si confrontano con il fallimento d'una politica economica inerme e impotente di fronte alla più grave crisi degli ultimi ottant'anni.

La recessione del Pil del 2 per cento nel 2009 è ormai certificata dalle istituzioni internazionali. "Si ritornerà al Pil del 2005" ha detto il ministro dell'Economia ostentando la massima calma e aggiungendo: "Non è certo un ritorno al Medioevo". Con tutto il rispetto, onorevole ministro, a me paiono parole irresponsabili perché dietro quell'arida cifra del 2 per cento ci sono milioni di famiglie, di volti, di storie in gravi e gravissime difficoltà. Non sta bene insultarli sia pure con l'intento di rassicurarli. Il suo compito, come da molte parti le è stato ricordato, è di dire la verità e di spiegare in che modo lei intenderà procedere.

Questo vorremmo sentire ma questo non abbiamo mai sentito.

Post Scriptum. La clinica convenzionata Città di Udine ha comunicato venerdì scorso che non potrà effettuare l'intervento richiesto dalla famiglia Englaro e autorizzato dalla Cassazione, per porre fine alla vita vegetativa di Eluana a diciotto anni di distanza dal suo inizio. La suddetta clinica era disposta ad eseguire ciò che la famiglia voleva e che la magistratura aveva autorizzato, ma ne è stata impedita dall'intervento del ministro Sacconi il quale ha minacciato di far cessare i rimborsi dovuti alla clinica per le degenze dei suoi clienti, costringendola quindi a sospendere la sua attività.

La decisione d'un ministro ha cioè la forza di impedire che una sentenza abbia corso. Si tratta d'un fatto di estrema gravità politica e costituzionale, di un precedente che mette a rischio la divisione dei poteri e la natura stessa della democrazia. Poiché si invoca da molte parti una riforma della giustizia condivisa con l'opposizione, a nostro giudizio si è ora creata una questione preliminare: non si può procedere ad alcuna riforma condivisa se non viene immediatamente sanata una ferita così profonda. Se la volontà politica di un ministro o anche di un intero governo può impedire l'esecuzione di una sentenza definitiva vuol dire che lo Stato di diritto non esiste più e quindi non esiste più un ordine giudiziario indipendente.
Non c'è altro da aggiungere per commentare una sopraffazione così palese e una violazione così patente dell'ordinamento costituzionale.

(18 gennaio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #114 inserito:: Gennaio 25, 2009, 11:05:54 am »

IL COMMENTO

Federalismo e contratti due scatole vuote

di EUGENIO SCALFARI


SIAMO ormai entrati in piena recessione economica e i nodi stanno venendo al pettine tutti insieme, ma la vera ondata di piena arriverà tra marzo e maggio come tutte le previsioni annunciano. Intanto non cessano e anzi aumentano le turbolenze provenienti dalla crisi finanziaria e bancaria.
Si pensava e si sperava che questo secondo fronte si fosse placato, invece non è così. Dopo la Banca di Scozia la tempesta ha ripreso la sua virulenza sulle "majors" americane: la Bank of America, la JpMorgan-Chase, la Citigroup.
L'industria automobilistica dal canto suo non si regge più sulle sue gambe e interventi pubblici sono dovunque invocati e in molti paesi hanno già avuto attuazione.

In questo quadro recessivo mondiale che ormai comprende anche la Cina e le altre potenze emergenti, si stagliano per quanto riguarda l'Italia alcuni problemi specifici con caratteristiche proprie ai quali il calendario politico ha impresso nei giorni scorsi una forte accelerazione: il federalismo fiscale, la riforma contrattuale, i provvedimenti anticrisi, la ricerca delle risorse necessarie per farvi fronte e gli strumenti più appropriati da usare.
Di questi problemi intendo oggi occuparmi ma non voglio esimermi da un cenno preliminare che riguarda le prime iniziative del nuovo presidente degli Stati Uniti.

Ha preso tempo fino a febbraio per presentare un piano anticrisi di 825 miliardi di dollari cui seguiranno - ha annunciato - altri stanziamenti con l'obiettivo di creare nuovi posti di lavoro e un consistente sostegno dei redditi falcidiati dalla crisi. Nel frattempo ha marcato con provvedimenti immediati una profonda discontinuità rispetto alla politica del suo predecessore.

In politica estera ha messo al primo posto in agenda il tema del Medio Oriente chiamando a raccolta i protagonisti: Israele, Palestinesi, Paesi Arabi, Iran. Ha teso la mano all'Iran. Ha ribadito la lotta al terrorismo e l'importanza del fronte afgano. Ha dato inizio alla procedura per il ritiro delle truppe dall'Iraq.

Fin dal primo giorno ha abolito la tortura praticata in molte carceri speciali gestite dalla Cia. In tema di diritti ha ripreso i finanziamenti per la ricerca sulle cellule staminali ricavate dagli embrioni ed ha riconosciuto alle donne la responsabilità primaria di decidere sul proprio aborto.
Barack Obama è profondamente religioso ma la sua fede non gli ha impedito di iniziare una politica dei diritti profondamente laica. L'uomo di fede si raccoglie spesso in preghiera nella sua chiesa, ma il presidente degli Stati Uniti tutela i diritti fondamentali come prescrive la Costituzione del suo Paese alla quale ha giurato fedeltà.

Ecco un esempio che ci viene da una grande democrazia e che ci auguriamo serva da punto di riferimento per tutti.

La legge sul federalismo fiscale è stata approvata in Senato con il voto compatto del centro-destra, l'astensione del centro-sinistra e il voto contrario dell'Udc di Casini.

Bossi ha dato atto all'opposizione d'aver scelto un atteggiamento di saggezza che ha reso possibile un passo avanti di una riforma che la Lega ritiene essenziale. I commenti dei "media" hanno accolto con favore (e alcuni con moltissimo favore) questa novità parlamentare definendola "storica" e auspicando che possa estendersi ad altri temi sul tappeto a cominciare dalla riforma della giustizia. Si è parlato addirittura di un asse Veltroni-Bossi con ricadute importanti sul quadro politico italiano. E' stata notata una palese irritazione di Berlusconi.
E' questa la realtà di quanto è accaduto? Oppure si tratta di una rappresentazione che contiene alcuni elementi di verità ed altri di falsità? Un elemento di verità riguarda i contatti tra il Partito democratico e la Lega. Sono stati frequenti e hanno dato luogo ad una riscrittura di alcune parti importanti della legge. Sulla valutazione delle differenze esistenti tra regioni povere e regioni ricche in materia di evasione fiscale, di efficienza organizzativa e di tempistica necessaria per rendere omogenei questi parametri.

Sull'istituzione di una Commissione che emetta i pareri richiesti per l'emanazione dei regolamenti attuativi della legge-delega. Sulla necessità di indicare i tributi propri delle Regioni e dei Comuni. Sulla parità dei diritti riconosciuti agli utenti di pubblici servizi (sanità, giustizia, trasporti, assistenza) sulla base di identici standard in tutto il territorio nazionale.

Il "modello lombardo" che inizialmente fu la posizione della Lega e di tutto il centro-destra è stato abbandonato nel corso d'una trattativa durata molti mesi i cui risultati finali sono maturati nel lavoro in commissione parlamentare e infine approvati in aula.
Ma i risultati negativi non mancano e sono tutt'altro che marginali. Il primo riguarda lo squilibrio di fondo tra il Nord e il Sud, che la riforma così come è stata concepita aggraverà. Per limitare quest'aggravamento sarà inevitabile procedere con due diverse velocità. Il Nord potrà attuare la normativa via via che i regolamenti attuativi saranno emanati (con l'indispensabile accordo della conferenza Stato-Regioni); il Sud chiederà più tempo e continuerà a pesare sulla fiscalità generale.

Il secondo elemento negativo riguarda la completa assenza di stime circa il costo immediato della riforma e il costo di quando sarà a regime. Il ministro Tremonti, appositamente convocato in Parlamento per dare delucidazioni in proposito, ha dichiarato che era impossibile indicare cifre: mancano studi e criteri omogenei di valutazione. In queste condizioni nessuno può azzardare un pronostico, sarebbe come giocare alla lotteria specie in una fase terremotata dell'economia mondiale.

Tremonti ha indubbiamente ragione: il costo del federalismo fiscale così come è configurato nella legge-delega che è un manifesto ideologico più che una legge vera e propria, non è prevedibile. In realtà la legge-delega è uno scatolone vuoto, un indirizzo politico, non ci sono misure attuative, non esiste una carta delle autonomie locali che indichi chi fa che cosa; è aperta la questione delle provincie e delle aree metropolitane; è apertissimo il rapporto tra Regioni e Comuni; non è risolto il tema essenziale dei tributi propri.

In realtà questa non doveva essere una legge-delega ma semplicemente una legge di indirizzo alla quale doveva seguire una legge-delega ancorata ad una normativa concreta che sarebbe servita al Parlamento per controllare l'aderenza dei decreti delegati alla normativa indicata. In mancanza di criteri si tratta dunque di una delega in bianco, il classico caso del budino il cui gradimento si può misurare soltanto quando sarà stato mangiato. Si può approvare una riforma di questo tipo? Che di fatto instaura una "secessione fiscale" della Padania dal resto del paese? Senza conoscerne gli effetti sulle finanze dello Stato? Ha scritto Luca Ricolfi sulla "Stampa" che la legge-delega dovrebbe almeno prevedere degli anticorpi, cioè impedire fin d'ora sconfinamenti di deriva macro-economica riportando in capo allo Stato il potere di modificare la legge quando i suoi esiti mettessero a repentaglio i parametri di stabilità nazionali e internazionali. Ricolfi ha ragione, ma questi anticorpi mancano purtroppo del tutto.

Dunque la legge-delega così come è uscita dall'aula del Senato a mio avviso non può essere approvata dal centro - sinistra alla Camera se almeno quegli anticorpi non saranno inseriti. Il voto al Senato ha avuto il pregio di riconoscere i miglioramenti ottenuti e di dimostrare che il federalismo fiscale è obiettivo condiviso. Ma qui dovrebbe finire la condivisione su una delega impropria e non cifrata, priva di clausole di salvaguardia chiare e imperative.

Del resto l'astensione al Senato ha valore di voto contrario. La traduzione letterale sulla base del regolamento della Camera è il voto negativo. I "nordisti" del Pd fanno bene a voler competere con la Lega ma debbono farlo su un terreno appropriato alla vocazione di un partito nazionale quale è e vuole essere il Pd. Lo slogan di trattenere sul posto le entrate e destinarle alle spese di quel posto è il mantello d'Arlecchino e non può essere una visione nazionale del bene comune. Voglio sperare che i piemontesi, i lombardi, i veneti del Partito democratico non dimentichino la storia del nostro paese e il contenuto che i loro avi dettero alla sua unità.

Nella stessa settimana del voto al Senato sul federalismo fiscale il governo aveva convocato le parti sociali e le Regioni per discutere le misure anticrisi.

Questo e solo questo era l'ordine del giorno per il meeting a Palazzo Chigi di venerdì 23 gennaio.

La discussione è durata pochi minuti. Infatti le misure anticrisi ruotavano soprattutto sul finanziamento degli ammortizzatori sociali (cioè sulla Cassa integrazione e altri analoghi istituti) che Tremonti vuole effettuare "senza oneri per il bilancio". Il solo modo per realizzare quell'obiettivo è di cercare i soldi necessari fuori dal bilancio, ma dove? Togliendoli alle Regioni e agli impieghi da esse previsti. Il "tesoretto" desiderato da Tremonti per finanziare gli ammortizzatori ammonta a 8 miliardi di euro da prelevare a carico dei fondi europei erogati alle Regioni per far fronte alla formazione dei lavoratori, che è un'altra forma di sostegno del reddito e di preparazione professionale.

Le Regioni presenti al meeting di venerdì hanno obiettato al ministro dell'Economia che non avrebbero accolto le sue richieste se prima egli non avesse indicato quali erano le risorse che lo Stato metterà sul tavolo da parte sua e tutto è stato rinviato a giovedì prossimo.

A questo punto Epifani si è alzato ritenendo che la riunione fosse terminata ma ha constatato con stupore che tutti gli altri rappresentanti delle parti sociali (sindacati, commercianti, banchieri, cooperative, Confindustria) restavano seduti. Ha chiesto se c'erano altre questioni da esaminare. "Visto che siamo qui tutti" ha risposto Gianni Letta "utilizziamo l'incontro per discutere la riforma contrattuale".

La signora Marcegaglia a quel punto ha distribuito un documento sulla contrattazione privata e il ministro Brunetta ha distribuito un altro documento sulla contrattazione del pubblico impiego. Epifani ha chiesto 24 ore di tempo per l'esame dei due testi, preliminare alla discussione che ne sarebbe seguita.

Silenzio assoluto. "Debbo dedurre che i testi non sono emendabili?", ha domandato il segretario della Cgil. Ancora silenzio. A questo punto Epifani ha preso la via dell'uscio senza che alcuno lo trattenesse.

Mi spiace di non aver letto questo racconto sui giornali di ieri, eppure esso fa parte integrante dello "storico" incontro sulla riforma dei contratti ed è - diciamolo - abbastanza stupefacente.

Ma andiamo al merito di questa riforma che il maggior sindacato italiano non ha firmato.

E' vero che essa diminuisce l'importanza del contratto nazionale e rivaluta il contratto di secondo livello agganciandolo alla produttività. Ed è vero (come ha ricordato Enrico Letta sul "Corriere della Sera" di ieri) che questa rivalutazione é suggerita dalle mutazioni dell'economia post-industriale ed era già stata proposta dal governo Prodi. Quante buone cose aveva avviato il governo Prodi, vengono fuori un po' per volta e una ogni giorno; alla fine i suoi truci nemici di ieri gli faranno costruire un monumento in vita, magari a cavallo della sua bicicletta.
Basta. E' anche vero che la riforma prevede un'inflazione al tasso adottato dalla contabilità dell'Eurostat al netto delle importazioni di beni energetici. Questo punto di riferimento è probabilmente migliore dell'inflazione programmata usata finora nei contratti. Ma qui cessano le virtù della riforma. Vediamone i difetti.

1. Riformare i contratti e agganciarli alla produttività in una fase di recessione, licenziamenti, diminuzione produttiva è come costruire caloriferi all'Equatore e frigoriferi ai Poli. Ma, si obietta, almeno la riforma sarà già pronta quando la crescita riprenderà.

2. L'accordo firmato venerdì non è un vero accordo sindacale e infatti si chiama "linee guida". Documento di indirizzo. Dopo la sua approvazione saranno discusse le linee guida di area e infine si arriverà ai contratti nazionali di categoria veri e propri. Diciamo che la costruzione è alquanto barocca, le linee guida sono più o meno un altro scatolone come la legge delega sul federalismo. Ma da dove viene l'urgenza?

3. L'urgenza viene dal fatto che Confindustria e sindacati (assente la Cgil) avevano stabilito il valore del "punto" retributivo al quale applicare il tasso d'inflazione Eurostat per determinare l'ammontare dei contratti di categoria. Il valore di quel "punto" è inferiore a quello attualmente vigente e sul quale sono stati costruiti i contratti fino a questo momento: inferiore di un 15 per cento nella migliore delle ipotesi. Non so se Enrico Letta fosse al corrente di questo piccolo dettaglio. Forse non guarderebbe con tanto ottimismo all'accordo di venerdì scorso.

In sostanza l'operazione prevede una piattaforma al ribasso dei contratti nazionali, da recuperare nei contratti di secondo livello che saranno stipulati azienda per azienda, con esplicita esclusione di contratti di "filiera" riguardanti aziende di analoga struttura e produzione.

Poiché il 95 per cento delle imprese italiane sono di piccolissime dimensioni, ciò significa che per una moltitudine di lavoratori il contratto di secondo livello non ci sarà mentre il contratto nazionale di base partirà con una decurtazione notevole.

E' così che stanno le cose? Lo domando alla signora Marcegaglia e a Bonanni e Angeletti.

Sarò lieto di essere smentito sulla base di fatti provati, ma se così è, a me sembra scandaloso.



Post Scriptum. Il ministro Maroni, e per quanto riguarda Roma il sindaco Alemanno, dovrebbero fare penitenza. Pagare un pegno. Insomma scusarsi pubblicamente. Hanno impostato le loro campagne elettorali sulla sicurezza e vedete che cosa accade. Da Lampedusa alle metropoli italiane dove si verificano furti, rapine e violenze e stupri con frequenza quotidiana.
Alemanno parla di sciacallaggio contro di lui; in realtà si tratta di notizie. Maroni si vanta dei grandi risultati ottenuti con il pattugliamento dell'Esercito. Ma dove, ma quando, ma come? Per merito dell'Esercito? Ma chi l'ha visto, l'Esercito? La De Filippi in trasmissione. Forse.

(25 gennaio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #115 inserito:: Febbraio 01, 2009, 11:41:29 pm »

Eugenio Scalfari


Riflusso nel privato


Disinteresse per la politica. Ma anche nei confronti della realtà sociale che ci circonda, della solidarietà e del bene comune. Così la democrazia rischia di indebolirsi e di scomparire  Le più recenti analisi sulle preferenze politiche degli italiani confermano un progressivo distacco dai partiti e in misura più marcata da quelli della sinistra e del centrosinistra. La tendenza con il passare dei mesi si è accentuata, l'area dell'impegno si restringe ed aumenta quella dell'indifferenza. Il fenomeno lambisce anche i partiti del centrodestra ma in misura minore. Per conseguenza il divario tra i due schieramenti aumenta in un campo di gara le cui dimensioni si impiccoliscono. Ne beneficia l'area dell'astensione che ha ormai raggiunto il 30 per cento del corpo elettorale.

Metà di questa area ha connotati permanenti e fisiologici in Italia; l'altro 15 per cento è invece composto da una nuova leva di astensionisti. Sono elettori delusi dai partiti o angosciati da nuovi disagi sociali che li hanno coinvolti sequestrando la loro attenzione a scapito dell'impegno politico. Le donne e i giovani sono i più colpiti da questo fenomeno, il Sud più del Nord, tra i ceti economicamente più disagiati più che tra i ceti con redditi medio-alti; nelle periferie più che nei centri storici delle città.

L'aumento di quello che si può chiamare il tasso di indifferenza è per certi aspetti un fenomeno diffuso in tutte le democrazie. Tra di esse l'Italia rappresentava un'eccezione. Giudicata da questo punto di vista l'indifferenza politica potrebbe esser vista come un elemento di normalità. Esso tuttavia si accompagna ad altri fenomeni di indifferenza e di disimpegno. Per esempio la sempre più bassa lettura di libri e di giornali. In generale si manifesta un crescente distacco dalla parola scritta, sostituita dalle immagini e dalla navigazione in rete. Per molti, soprattutto nelle giovani e giovanissime generazioni, il rifiuto della parola scritta in favore della comunicazione per immagini denota un aumento di passività psicologica. Viceversa la navigazione in rete denota il bisogno di interagire utilizzando le nuove tecnologie per uscire dalla solitudine sociale e familiare, ma l'analisi di queste mutazioni è molto complessa, le tendenze in atto sono ancora incerte e potrebbero cambiar
direzione sotto l'urto di realtà esterne anch'esse in rapida evoluzione.

Qualche giorno fa mi è capitato di partecipare ad un seminario universitario di docenti, non di studenti, nel quale si è discusso di vari argomenti, dalla didattica agli sbocchi di lavoro dei laureati, dagli scambi con altre università al rapporto tra studenti e insegnanti. Partecipavano al seminario anche dirigenti di enti e associazioni impegnate in aree connesse alla facoltà di Architettura che ci ospitava, nell'Università di Roma Tre.

Ad un certo punto del dibattito i docenti hanno affrontato un tema insolito, almeno per me: quello della passività studentesca di fronte alla realtà sociale che ci circonda, un ripiegamento su interessi personali e di gruppo, insomma quello che in gergo sociologico si è chiamato riflusso. Riflusso da impegni civili, dalla solidarietà, da una visione politica del bene comune.

Il preside e i docenti della facoltà che ci ospitava erano molto preoccupati di questi sentimenti di riflusso che gli venivano segnalati anche da altre facoltà e da altre università. Si domandavano e ci domandavano con quali strumenti educativi l'università avrebbe potuto correggere la situazione.

Gli fu chiesto se il riflusso avesse anche effetti negativi sull'apprendimento didattico. "Al contrario" ci risposero. "L'andamento degli studi procede in modo abbastanza soddisfacente. Quello che manca o si è fortemente indebolito è lo spirito pubblico, la pubblica partecipazione, la responsabilità della propria appartenenza comunitaria".

Ebbene, è proprio questo il tema già molte volte toccato sulle pagine di questo giornale, la cui attualità sta diventando sempre più incombente di fronte alla crisi mondiale. Si tratta d'una tempesta economica globale, ma sbaglierebbe chi ne restringesse la dimensione alla sola economia.

L'impoverimento e la paura dell'impoverimento che sta dilagando negli strati medio-bassi della piramide sociale costringe famiglie e individui ad abbassare la testa sulla ciotola della propria minestra perdendo di vista i cosiddetti bisogni secondari. Tutto lo sforzo mentale e fisico si concentra sull'appagamento dei bisogni primari. Non resta spazio né tempo da dedicare ai desideri di altra qualità a cominciare dalla politica, dall'informazione, dalla cultura.

Si coltiva la cultura funzionale al proprio lavoro da parte di chi un lavoro ce l'ha, teme di perderlo e vuole consolidare e migliorare la propria carriera. L'intenzione è ottima e l'obiettivo è più che legittimo, ma assorbe interamente la persona. Declinano gli stimoli collettivi, si diffonde la percezione d'una solitudine sociale ed esistenziale, ci si unisce soltanto per protestare ma subito ci si divide quando si tratta di perseguire i propri interessi particolari.

Così la democrazia rischia di indebolirsi e perfino di scomparire.

(30 gennaio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #116 inserito:: Febbraio 02, 2009, 12:39:26 am »

IL COMMENTO

Con l'elmo di Scipio per battere la crisi

di EUGENIO SCALFARI


ANCORA l'economia? Ebbene sì, ancora l'economia e non è colpa nostra se ogni giorno che passa la crisi ci riserva nuove sorprese. Sgradevoli.
Spesso traumatiche anche se prevedibili e in parte previste. Ma, come dice Tremonti, le previsioni sono una cosa e i dati di fatto un'altra. I dati di fatto di questa settimana sono i seguenti in ordine di importanza.

1. Il Pil degli Stati Uniti registra un arretramento del 3,8 sull'anno precedente. Potrebbe anche andar peggio, certo non andrà meglio.

2. La crisi bancaria è tutt'altro che sopita: è una brace che potrebbe ancora stimolare fiammate incendiarie con effetti devastanti sul sistema bancario mondiale.

3. La recessione dell'economia giapponese sta superando il livello di guardia. Il rallentamento di quella cinese non è meno preoccupante e impone un cambio di strategia radicale: dal sostegno alle esportazioni al sostegno dei consumi e delle retribuzioni sul mercato interno.

4. Il protezionismo guadagna terreno nelle politiche nazionali, sia in Usa sia in Oriente. Ne risente anche il mercato europeo.

5. L'industria automobilistica registra in tutto l'Occidente una crisi senza precedenti. Gli aiuti dei governi procedono in ordine sparso dando luogo inevitabilmente ad una sorta di protezionismo indiretto non meno devastante del protezionismo esplicito.

6. I titoli cosiddetti tossici, cioè privi di valore oggettivo, pesano sulla finanza globale. Gli ottimisti valutano il rischio ad una cifra che sfiora i mille miliardi di dollari, i pessimisti la moltiplicano di due volte e mezzo. Per affrontare un rischio di così enormi dimensioni si prospettano due soluzioni: una "bad company" a carico dei contribuenti ed una "società segregata" a carico dei possessori di quei titoli-spazzatura. In entrambi i casi una massa enorme di persone vedrà ulteriormente devastati i suoi redditi e i suoi patrimoni. Questi sono i dati di fatto aggiornati ad oggi.

Nel quadro di queste sciagure la situazione italiana non fa eccezione e l'ottimismo ostentato dal nostro presidente del Consiglio e dal nostro ministro dell'Economia non mi pare che poggi su basi solide.

L'industria automobilistica invoca l'aiuto pubblico che in Usa, in Gran Bretagna, in Germania, in Francia i suoi concorrenti hanno già ottenuto con appropriati interventi in corso di esecuzione. Ma invocano aiuto anche altri importanti settori produttivi: i costruttori che temono di dover chiudere i cantieri con una diminuzione di personale valutata in 250.000 unità; il comparto tessile; la siderurgia; l'editoria che lamenta un calo di entrate pubblicitarie del 40 per cento già nel primo trimestre in corso.

Complessivamente l'ondata dei licenziamenti o della messa in Cassa integrazione si aggira su almeno mezzo milione di unità. Se si calcola l'indotto si rischia un moltiplicatore di almeno il doppio. Si aggiunga a questo crollo di reddito e di occupazione tutta la galassia delle piccole imprese, soprattutto nel settore della meccanica; si aggiunga l'artigianato e si aggiungano le imprese turistiche e alberghiere. Ciascuna di queste categorie produttive cerca un sostegno e lo reclama dal governo come se la tanto disprezzata politica possedesse una bacchetta magica capace di creare dal nulla le risorse necessarie alla sopravvivenza del sistema.

Il governo - di questo bisogna esser consapevoli - la bacchetta magica non ce l'ha. Ma qualche cosa potrebbe e dovrebbe pur fare. L'ha fatto? Lo sta facendo? Lo farà? Quanto, come, quando?
Questa ormai imperiosa domanda gli viene posta ogni giorno dalle categorie interessate, dai sindacati, dall'opposizione, dagli enti locali. Ma una risposta vera e completa non è ancora venuta. Il governo naviga a vista in un mare tempestoso e irto di scogli. Perciò la paura aumenta e con essa cresce la fragilità delle aspettative.

Il ministro Tremonti, poveretto, cerca di arraffare qua e là dove vede ancora un po' di polpa e qualche altare ancora addobbato. Arraffare è forse un verbo un po' crudo, ma di questo si tratta quando manca un piano d'insieme e interlocutori appropriati. Il ministro dell'Economia è solo, sia dentro il governo sia fuori di esso. Non ha un piano e non ha interlocutori.
In realtà potrebbe averli: le parti sociali, l'opposizione, le categorie, gli enti locali. Potrebbe averli se avesse un piano cui associarli, sul quale raccogliere i loro contributi, le loro critiche, la loro collaborazione. Ma quel piano non c'è. Perciò Tremonti resta volutamente in solitudine. Si aggrappa all'Europa perché spera che sia l'Europa a cavargli le castagne dal fuoco. Il guaio è che in quel fuoco non ci sono castagne. Un altro guaio è che l'Europa non può far nulla di concreto poiché, se lo fa per uno, deve farlo per tutti.

L'Europa può soltanto coordinare e, nel caso migliore, contribuire di suo al coordinamento. Ma Sarkozy viaggia per conto proprio e così pure Angela Merkel e Brown e Zapatero.

Caro Tremonti, la realtà è questa e il suo appello all'Europa (assai tardivo in verità) non incanta nessuno. La verità è che lei spera che la nottata passi e che il sistema Italia ne esca vivo. A quel punto lei potrà rivendicare il merito di non aver fatto niente. Un temporeggiatore lungimirante come lo fu il console Fabio Massimo che sfiancò Annibale. Ma la tempesta perfetta che si è abbattuta sul mondo intero non ha niente a che vedere con gli elefanti cartaginesi. Qui il temporeggiatore non serve, ci vorrebbe piuttosto uno Scipione al quale però - mi scusi - lei non somiglia né tanto né poco.

Ci sono due livelli sui quali uno Scipione economico potrebbe agire: un piano per gli investimenti e un piano per il sostegno dei redditi. Gli investimenti possono essere finanziati dalla Cassa Depositi e Prestiti. Del resto Tremonti ci ha già pensato mettendo mano al risparmio postale. Ma non riesce ad aprire i cantieri. Anzi: i cantieri stanno chiudendo uno dopo l'altro come gridano i rappresentanti dei costruttori.
C'è un solo modo di non farli chiudere e aprirne di nuovi: delegare le operazioni alle Regioni e ai Comuni. Per opere e manutenzioni a livello regionale e locale. I cantieri per le grandi opere richiedono mesi e mesi prima di essere operativi. Regioni e Comuni hanno già appaltato molti lotti di opere pubbliche ma sono bloccati per mancanza di fondi.

Dateglieli quei fondi invece di arraffargli quei pochi che gli sono rimasti. Per agire in controtendenza c'è bisogno che i cantieri aprano entro tre mesi al massimo, perciò si muova, caro temporeggiatore. Lei ha scritto un discreto libro, "La paura e la speranza", ma finora non ha fatto che alimentare la paura spegnendo ogni speranza. Immagino che il suo editore le abbia tirato un orecchio.

Per i redditi, una volta tanto dia retta a Veltroni e ad Epifani: sgravi le imposte con uno scalare che dia benefici dai redditi medi fino a quelli minimi e bonus agli incapienti. E rifinanzi gli ammortizzatori sociali. Per questo secondo livello operativo ci vogliono almeno 15 miliardi e ce ne vogliono almeno altri cinque per aiuti diretti ai settori pericolanti. C'è insomma bisogno di una ventina di miliardi che possono esser procurati soltanto attraverso il fisco dato che la politica monetaria non può aiutare in nessun modo.

Questa strategia provocherà inevitabilmente uno sforamento della soglia di stabilità europea; del resto lo sforamento è già avvenuto poiché il rapporto deficit-Pil è già previsto per quest'anno al 3,8 e ancora il governo non ha fatto nulla o quasi. Se il ministro dell'Economia avesse il coraggio di ripristinare l'Ici improvvidamente abolita quel rapporto scenderebbe di parecchi punti base; ma quel coraggio il ministro non ce l'ha.

Dovrebbe seguire il consiglio dell'opposizione: sforare adesso e prendere contemporaneamente provvedimenti di recupero del deficit che entrino in funzione nel secondo semestre del 2010. Nel frattempo dovrebbe trasferire una parte del patrimonio immobiliare pubblico alle Fondazioni e dare così una spallata al debito pubblico per attenuarne la crescita.
Le si chiede insomma, onorevole ministro, di uscire dall'afasia e dal temporeggiamento. Le sembra una richiesta insensata?

Post scriptum. Walter Veltroni ha ricominciato le sue visite pastorali e sembra che abbia successo tra chi continua a puntare sul Partito democratico. Del resto chi vuole costruire un'opposizione che sia in prospettiva un'alternativa alla destra non ha altre scelte. Prima ancora d'una scelta politica questa è un'esigenza democratica al di fuori della quale non resta che rifugiarsi nell'utopia. Oppure coltivare risse intestine con i più vari pretesti.

L'ultimo di quei pretesti è nato sulla riforma della legge elettorale europea. L'argomento è stato discusso a lungo nell'ultima direzione del Pd, dove tutte le componenti e correnti sono rappresentate e nell'ultimo comitato di coordinamento di quel partito. Vi fu approvazione unanime su una soglia di sbarramento del 4 per cento e su liste aperte al voto di preferenza. Si sapeva che Berlusconi voleva una soglia del 5 per cento oppure nessuna soglia. Delle preferenze neppure parlarne. (Ricordo che in tutti gli altri paesi membri dell'Unione europea ci sono soglie che vanno da un minimo del cinque al massimo del nove per cento e le liste sono bloccate senza preferenze). Il negoziato era dunque molto difficile ma alla fine il segretario del Pd ha portato a casa il risultato richiesto all'unanimità. Perciò non si capiscono gli attuali mal di pancia di questo e di quello.

Quanto alla sinistra radicale, il suo sfrizzolamento è avvenuto molto tempo prima, quando ancora era in vita il governo Prodi. Semmai la soglia del 4 per cento può essere un incentivo a concentrarsi, ammesso e non concesso che una sinistra di quel tipo abbia ancora un senso in una moderna democrazia.

Quanto a Di Pietro, si è già "concentrato" con Beppe Grillo e la soglia del 4 la supererà. Personalmente mi auguro non di molto.

Io credo infatti nella ragione, anche se questa mia credenza mi dà talvolta qualche delusione.

(1 febbraio 2009)

da forumista.net
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« Risposta #117 inserito:: Febbraio 14, 2009, 03:18:03 pm »

Eugenio Scalfaro.

La deriva di Sacconi


Maurizio SacconiParla sul 'Corriere della Sera' dell'8 febbraio Maurizio Sacconi, ministro del Lavoro e del Welfare, già socialista nel periodo craxiano, figura centrale del governo Berlusconi specialmente in alcune recenti vicende, da quella dell'Alitalia a quella Englaro tuttora in corso.
Trascrivo alcune sue risposte alle domande di Aldo Cazzullo, il giornalista che l'ha intervistato sul drammatico contrasto esploso venerdì 6 febbraio tra il governo e il presidente della Repubblica.

"Tutte le scelte del governo, dalla mia circolare alle strutture sanitarie al decreto legge, sono state ispirate dalla ragione laica. Una laicità intesa in una dimensione più alta del passato, che non può non includere principi fondamentali cristiani come la centralità della persona. La dicotomia credenti-non credenti che ha segnato la Prima Repubblica è stata superata".

Domanda l'intervistatore: "Lei è credente?" Risposta: "Oggi sì. Ma la mia storia politica è socialista e laica. Laica è la logica in cui ci siamo mossi e che ha unito gli interventi del laicissimo Brunetta e del cattolico Rotondi".
Facciamo su questi pensieri di Sacconi una prima riflessione. Sono pensieri, come dire, alti, così alti da provocare (in lui) una sorta di stato confusionale. Sacconi è credente, lo dice lui e quindi dobbiamo credergli. Ma prima era laico non credente. C'è stata una conversione, ma non ci dice quando. In questi giorni? Nel momento in cui fu nominato ministro? All'inizio della campagna elettorale e della formazione della lista che includeva il suo nome? E come si convertì? Un colpo di fulmine come quello di Paolo sulla via di Damasco? Vide anche lui l'angelo? Oppure arrivò alla fede con ragionamento? Sarebbe importante conoscere queste modalità che possono avere influenzato, anzi hanno certamente influenzato il suo modo di pensare attuale e quindi i provvedimenti da lui adottati nella vicenda Englaro.

Tra i pensieri alti di Sacconi troviamo qui anche quello sulla laicità ai tempi d'oggi, che dice lui non è quello della Prima Repubblica. Oggi, secondo il Nostro, il contrasto tra laici e cattolici, tra credenti e non credenti, è stato superato tanto che "lo stesso spirito lo troviamo nel laicissimo Brunetta e nel cattolico Rotondi".
Francamente non c'eravamo accorti che il ministro Brunetta fosse laicissimo, di lui avevamo apprezzato altre qualità come quelle di perseguitare gli statali fannulloni e di sinistra. Della cattolicità di Rotondi, che guida un partito invisibile soprannominato Democrazia cristiana, siamo invece da tempo consapevoli e ce ne rallegriamo.

Torniamo a Sacconi. Durante la Prima Repubblica il potere fu detenuto dalla Dc (quella vera e non quella di Rotondi). I laici sopravvivevano negli angolini del potere ma esercitavano tuttavia una non disprezzabile funzione culturale. La Dc d'altra parte, quella di De Gasperi e poi di Aldo Moro, non era un docile bastone nelle mani della Chiesa, aveva un suo concetto dell'autonomia politica dei cattolici. Accettò infatti il diritto al divorzio e all'aborto, sostenuto dai laici e condiviso dalla maggioranza degli italiani che si espressero nei referendum.
Dice Sacconi che oggi questi contrasti sono stati superati. Purtroppo non sembra. Non era mai accaduto che la gerarchia cattolica formulasse gravi censure nei confronti del presidente della Repubblica. Un governo animato da spirito laico, quale che fosse il suo diverso parere sulla sorte di Eluana Englaro, avrebbe dovuto elevare una formale protesta nei confronti del Vaticano per le censure rivolte al capo dello Stato. Ci ha pensato, onorevole Sacconi? Perché non l'ha proposto in Consiglio dei ministri? La verità è che voi non siete laici ma atei devoti. Per il Vaticano va bene così.
Torno a citarla, onorevole ministro, da lei c'è sempre da imparare. Domanda l'intervistatore: "Venerdì è stato un giorno di scontro istituzionale senza precedenti, non è vero?". Risposta: "Noi non l'abbiamo visto così e non credo che lo sia stato".

Le ipotesi sono tre: Sacconi mente. Oppure era distratto.

Oppure non c'era. Questa terza ipotesi è smentita dal fatto che era al fianco di Berlusconi durante la conferenza stampa ed anzi ha preso la parola dopo di lui e l'ha tenuta lungamente parlando appunto della vicenda Englaro. Ha ascoltato le parole di Berlusconi sulla lettera del presidente della Repubblica. Rimane perciò la nostra prima ipotesi: negando l'esistenza di uno scontro senza precedenti il ministro Sacconi ha mentito. Del resto non è la prima volta. Accadde ai tempi del caso Alitalia, quando emerse con tutta evidenza il suo pregiudizio contro la Cgil e si è ripetuto pochi giorni fa nel negoziato sulle linee guida della concertazione con i sindacati.
Sacconi mente. Molto spesso. Questo suo difetto pregiudica l'alta stima culturale che dovremmo avere sui suoi pensieri. Tra i quali tuttavia (e torno per la terza volta a citarlo) ce n'è uno che ci ha lasciato perplessi: la sua concezione del nichilismo.
"In Italia in questi quarant'anni abbiamo visto una deriva nichilista cominciata all'inizio degli anni '70, quando il '68 altrove finiva e da noi cominciava. Ma ora la vocazione al nichilismo va diminuendo e si recupera il senso della vita".

Mi permetto di correggerla quanto alle date, onorevole ministro. Il nichilismo fece la sua apparizione in Europa ed anche nella cultura italiana negli anni '70 del secolo XIX, quindi un secolo prima di quanto lei pensi. Lei usa nei confronti del nichilismo parole che ricordano - sarà certo un caso - quelle dette da Mussolini in molte occasioni. Mussolini opponeva la forza al nichilismo. Era su una strada sbagliata, purtroppo per lui e per noi. Anche lei parla di forza, di vitalismo e indica Berlusconi come vera e unica alternativa al pensiero nichilista. Ci stupisce onorevole ministro. Mussolini era ateo e pagano, più o meno come Berlusconi. Ma lei è invece un credente di fresca data.

Dovrebbe mettere un po' d'ordine nella sua testa.

(13 febbraio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #118 inserito:: Febbraio 15, 2009, 02:52:03 pm »

POLITICA

La Chiesa del dogma in conflitto con lo Stato

di EUGENIO SCALFARI


Voglio oggi intervenire ancora una volta sul tema della nostra Costituzione e dei rapporti tra di essa e la Chiesa cattolica. Cioè, per essere ancora più concreti e per delimitare con precisione l'argomento, tra lo Stato repubblicano e costituzionale e la Santa Sede e gli organi gerarchici che da lei dipendono.

Si tratta d'un tema di permanente attualità; infatti ha connotato gran parte della vita pubblica italiana, sia durante la monarchia sia durante la Repubblica, attraverso le varie fasi susseguitesi in centocinquant'anni di storia: il periodo liberale, il regime fascista, il quarantennio democristiano e infine gli ultimi quindici anni a partire dal 1992, la fase di transizione tuttora in corso che ci porterà non sappiamo dove, una terra incognita resa ancora più incerta a causa della profonda crisi economica che sta squilibrando gli assetti sociali del mondo intero.

Altre persone qualificate si sono cimentate su quest'argomento. Ne cito alcune: Gustavo Zagrebelsky anzitutto, ed anche Schiavone, Prosperi, Magris, Rodotà, Mancuso. Il caso Englaro con tutto il carico di drammaticità e di umanità sofferente di cui era pervaso, ha sottolineato l'attualità del tema rendendolo ancora più palpitante e alzando i toni d'un conflitto che sembrava di natura soltanto intellettuale ed accademica e che coinvolge invece sentimenti universali come la sofferenza e la pietà. Il rapporto tra una Costituzione liberal-democratica e la Chiesa chiama in causa quello tra la fede e la ragione, tra l'etica promanante dalla religione e la libertà di ciascuno. Infine tra la verità assoluta e quella relativa. Non c'è posto per l'indifferenza.

Margini per compromessi pragmatici esistono ed è bene che siano esplorati, ma sono esigui perché mettono in gioco principi e valori che non possono essere imposti né con la spada né con la dittatura delle maggioranze. Il tema dunque è di rilievo e non eludibile.

* * *

Quali sono i pilastri che sorreggono l'architettura d'una Costituzione liberal-democratica? si è chiesto nel suo intervento sul nostro giornale Gustavo Zagrebelsky. Ed ha risposto: il diritto di tutte le opinioni a confrontarsi, la garanzia di poter esercitare i diritti di libertà, l'eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge senza alcuna eccezione. Questa è ciò che noi chiamiamo la legalità costituzionale e che lo Stato deve garantire e tutelare.

In questa visione è escluso per definizione che lo Stato possa avere un qualsiasi contenuto etico, cioè la realizzazione di un valore come propria finalità. Salvo uno: il valore cui deve tendere uno Stato liberal - democratico è appunto e soltanto quello di realizzare i principi sopra indicati. Ogni altro valore gli è estraneo; se mette in causa quei principi fondativi gli diventa avversario e al limite nemico.

Si pone a questo punto la questione se gli sia estranea, avversaria o addirittura nemica la Chiesa cattolica. La risposta è il riconoscimento dell'estraneità. Lo Stato liberal-democratico e la Chiesa cattolica sono due entità (come del resto recita lo stesso Concordato) che non si incontrano: operano su piani diversi, si muovono su linee parallele all'infinito che non potranno mai convergere se non su obiettivi specifici e delimitati.

Si può chiedere a questo punto perché io abbia ristretto il tema alla Chiesa cattolica e non consideri alla stessa stregua le altre chiese e le altre religioni. La risposta è semplice: la Chiesa cattolica è la sola che disponga di una struttura di potere e di gerarchia. Nessuna delle altre confessioni cristiane dispone di strutture gerarchiche e centralizzate, nessuna delle altre religioni storiche si è data un assetto politico.

E' accaduto in qualche caso che uno Stato si sia identificato con una religione e per conseguenza che una religione abbia occupato uno Stato dando vita ad un regime teocratico. Quando e laddove questo è accaduto le sembianze e la natura dello Stato hanno inevitabilmente assunto fisionomia integralista, fondamentalista, totalitaria. I cittadini si sono trasformati in fedeli. Anche la religione si è trasformata: da movimento spirituale e partecipato è diventata una struttura di potere. I dissenzienti sono stati considerati non soltanto eretici rispetto all'ortodossia religiosa ma ribelli rispetto allo Stato teocratico.

Queste sono le ragioni per le quali gli spiriti religiosi più consapevoli considerano il potere temporale della Chiesa cattolica come una devianza molto grave con l'effetto inevitabile di allontanare la Chiesa dal messaggio cristiano e dalla predicazione di Gesù trasmessa dai Vangeli: "Il mio regno non è di questo mondo" questa affermazione ricorre con frequenza in tutti i Vangeli, negli Atti, nelle lettere di Paolo alle prime comunità, nella tradizione patristica e in tutto il pensiero cristiano.

Purtroppo la struttura gerarchica della Chiesa di Roma assunse fin dal III secolo la dimensione temporalistica come indispensabile garanzia della propria libertà. Da quel momento la prassi si discostò dall'affermazione di Cristo che puntava sul regno extraterreno disinteressandosi ed anzi rinunciando a qualsiasi tentazione di regno mondano.

Rimase l'altra affermazione di natura però assai diversa: "Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio". Qui l'estraneità delle due sfere è simultanea e lascia quindi ampie zone di reciproca interferenza specie quando lo Stato può riempirsi di contenuti etici e la Chiesa di contenuti temporalistici.

Questa situazione, dove le due parallele si incontrano, è all'origine di conflitti drammatici durati secoli, anzi millenni. Con un aspetto tuttavia positivo che è d'obbligo ricordare: la Chiesa cattolica è stata contaminata (nel senso positivo del termine) dalla modernità così come lo Stato è stato a sua volta contaminato dai principi dell'amore e della solidarietà.

* * *

Il Concilio Vaticano II fu il momento più alto di questa contaminazione.

Dopo di allora ha avuto inizio un movimento di riflusso dapprima quasi impercettibile ed ora sempre più evidente, culminato pochi giorni fa con il rientro del movimento lefebvriano nella Chiesa di Roma. Un particolare, ma con valenze simboliche, liturgiche e dottrinali che non possono esser sottovalutate.

E' vero, questi problemi riguardano soprattutto il clero e il laicato cattolico. Soprattutto, ma non esclusivamente. Il riflusso rispetto al Vaticano II si accompagna al risorgere di una visione temporalistica della Chiesa che non ha più come obiettivo il possesso e il governo d'uno spazio territoriale, di un regno terrestre da affiancare al regno celeste.

Il temporalismo attuale ha l'obiettivo di trasformare ovunque sia possibile (e quindi specialmente in Italia, giardino del Papa per storica definizione) il peccato in delitto, il precetto dottrinale in norma, la legge divina in diritto positivo, l'etica religiosa in etica pubblica, con la conseguenza di imporre ai cittadini comportamenti ed obblighi non condivisi.

Il terreno sul quale questo riflusso temporale pesa con maggior forza è quello della bioetica, della vita e della morte. Qui lo spazio pubblico del quale la Chiesa gode legittimamente si sta trasformando in un'arena di scontro nella quale la gerarchia episcopale e curiale guida i fedeli ad una battaglia che ha addirittura coinvolto il Capo dello Stato.

Chi crede nell'immortalità dell'anima e nella beatitudine suprema che ristora le anime nel regno celeste e bandisce vere e proprie crociate per conservare una persona che non ha più nulla di quella che fu, commette un peccato mortale contro la vita, tanto più quando si tratti di vescovi, di cardinali e perfino del capo della Chiesa di Roma.

* * *

Il laicato cattolico non ha dato fin qui segnali rilevanti di preoccupazione per quanto sta accadendo nella sua Chiesa. Per quel che se ne sa segnali di disagio e di dissenso sono venuti piuttosto da vescovi e cardinali non italiani e da una parte non disprezzabile del clero italiano. Da alcune comunità locali e da alcune località di rilievo nazionale ed internazionale.

Qualche segno di disagio è venuto anche da alcuni settori di cattolici direttamente impegnati in politica. Soprattutto nel Partito democratico, dove sono confluiti un anno fa gran parte degli ex popolari. I giornali hanno dato notevole rilievo ai parlamentari cattolici del Partito democratico che hanno votato in favore del disegno di legge governativo sul caso Englaro.

E' giusto, ma non tanto per il dissenso con il proprio partito quanto per il fatto che quel disegno di legge impone un comportamento e impedisce l'esercizio d'una libera scelta, cosa che un parlamentare democratico dovrebbe rifiutare in forza della propria coerenza politica. Ma il fatto che ha avuto in quella circostanza un'importanza almeno pari se non addirittura maggiore è stato a mio avviso il voto dato da parlamentari cattolici in dissenso con il messaggio tambureggiante lanciato dalla Chiesa.

Il tema comunque si riproporrà tra poco, quando sarà affrontata dal Parlamento la legge sul testamento biologico. è chiaro a tutti che su tali argomenti non può esistere una disciplina di partito, ma è altrettanto chiaro che un partito ha il diritto-dovere di esprimere pubblicamente l'atteggiamento della maggioranza dei propri aderenti.

Il test che avremo sotto gli occhi in questa occasione non riguarda dunque il dissenso dei cattolici politicamente impegnati rispetto ai partiti nei quali hanno deciso di militare, ma il loro eventuale dissenso nei confronti del temporalismo cattolico, del distacco cattolico dal Concilio Vaticano II, della regressione dogmatica della gerarchia.

Questo sarà il test cui saranno chiamati. La risposta che daranno sarà molto importante per l'evoluzione o l'involuzione della democrazia italiana e della Chiesa.

(15 febbraio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #119 inserito:: Febbraio 22, 2009, 10:58:27 am »

Pd, l'Assemblea ha scelto l'orgoglio e la speranza

di EUGENIO SCALFARI


IL GIORNO dopo le sue dimissioni da segretario del Partito democratico tutti i giornali aprirono la prima pagina con il titolo: "Veltroni si dimette e chiede scusa".
Titolo ineccepibile perché nel suo discorso di addio domandò scusa almeno tre volte, all'inizio, alla metà e ancora alla fine.

Chiese scusa e ringraziò. Prese su di sé tutta la responsabilità dell'insuccesso, anzi degli insuccessi. Aggiunse: "Non ce l'ho fatta". E questa è stata l'impressione ricevuta dai lettori, gran parte dei quali si limita a sfogliare leggendo i titoli e scorrendo velocemente i testi.

Ma chi ha letto o ascoltato quel discorso sa che c'era molto di più delle scuse e dei ringraziamenti. Non era affatto l'addio di chi ripiega la bandiera e se ne va. Era un discorso di rilancio del partito, che forniva ai successori la piattaforma politica e programmatica dalla quale ripartire. Quella già indicata al Lingotto dell'ottobre 2007, allora accolta da tutti, dentro e fuori del Pd come una forte discontinuità rispetto al passato ed una suggestiva apertura verso il futuro.

Veltroni ha spiegato dal suo punto di vista perché quell'inizio così promettente è poi andato declinando giorno dopo giorno. Lasciamo pure da parte la guerriglia che si è quasi subito scatenata contro di lui e sulla quale lui stesso ha avuto il buongusto di non insistere. C'è stato un suo errore caratteriale da lui stesso ammesso: la mediazione per tenere insieme a qualunque costo le varie anime del partito. Forse è meglio dire i vari pezzi del partito: laici e cattolici, socialisti e moderati, tolleranti e intransigenti, puri e duri e pragmatici.

Veltroni ha impiegato gran parte del suo tempo a cercare punti di sintesi che erano piuttosto cuciture fatte col filo grosso, con la conseguenza che quei vari pezzi e quelle varie ispirazioni e provenienze sono rimaste in piedi senza dar vita ad una cultura nuova e unitaria. Con un'aggravante: nel Sud le classi dirigenti locali, fatte alcune rare eccezioni, hanno un basso livello etico e politico, non sono gattopardi ma volpi e faine. In tutti i partiti e in tutti i clan. A destra, al centro e a sinistra. Con frequenti mutamenti di casacche secondo le convenienze del momento e del luogo.

Questo è stato l'errore di Veltroni, ammesso da lui stesso. Francamente non saprei trovarne un altro, ma questo è certamente di notevole rilievo. Il programma c'era ed è adeguato alle contingenze attuali. La linea politica c'era e anch'essa è tuttora adeguata. Le critiche politiche e programmatiche formulate da D'Alema nella sua importante intervista rilasciata l'altro giorno al nostro giornale ci sembrano prive di consistenza. Quella che è mancata è stata la leadership. Gli era stata data da tre milioni e mezzo di elettori alle primarie di quell'ottobre, ma lui non l'ha usata.

Le dimissioni sono giunte inaspettate ma hanno avuto un effetto dirompente: hanno coinvolto l'intero gruppo dirigente, quello che dentro e fuori dal Pd è stato battezzato l'oligarchia, cioè il governo di pochi. Dopo aver impiegato sedici mesi per tenerla unita, in un colpo solo le dimissioni del segretario l'hanno delegittimata e spazzata via tutta insieme. Fuori lui e fuori tutti. Il partito c'è ancora, la necessità di una forza politica riformista di sinistra esiste più che mai, ma il gruppo dirigente non c'è più, non ha più legittimazione.

Ci sono singoli individui apprezzabili per la loro onestà intellettuale, il loro coraggio, la loro biografia, utilizzabili in quanto individui. Come personale di governo, se e quando l'eventualità di un governo di centrosinistra si materializzasse. Ma non più come gruppo politico dirigente. Veltroni si è dimesso e ha dimissionato l'oligarchia. Non so se ne sia stato consapevole ma questo è ciò che è accaduto.

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Ci hanno spiegato che il congresso su due piedi tecnicamente è impossibile, si farà ad ottobre come previsto. Ci hanno spiegato che anche le primarie immediate sono, se non impossibili, tecnicamente difficili, i candidati non avrebbero neppure il tempo di presentarsi ai loro elettori come avviene in tutte le primarie serie, specie per i candidati nuovi, cioè non provenienti dal vecchio gruppo dirigente.

Ma c'è soprattutto una ragione politica che ha sconsigliato le primarie immediate. Per almeno un mese il partito avrebbe dovuto ripiegarsi su se stesso e un altro mese sarebbe poi passato per insediare il nuovo segretario. Significa che fino a maggio il partito sarebbe di fatto stato senza una guida e quindi in piena anarchia.

Nel frattempo la vita politica e parlamentare proseguirà, sarà necessario decidere come fronteggiare la crisi economica che proprio tra marzo e maggio raggiungerà il suo culmine, quale sarà l'atteggiamento del Pd sui temi della sicurezza, della riforma della giustizia, del testamento biologico, del referendum; bisognerà designare migliaia di candidati alle elezioni amministrative e formare le liste per le elezioni europee, organizzare la campagna elettorale che culminerà nell'"election day" del 6 giugno.

Un lavoro immane, impossibile da svolgere con un partito privo di fatto di guida politica. Era pensabile una soluzione di questo genere? O si trattava di un "cupio dissolvi" verso il quale il cosiddetto popolo di sinistra poteva precipitare? Bertinotti ha ravvisato un parallelismo tra la crisi che ha già dissolto la sua sinistra e quella che si profilava nella sinistra riformista. La previsione è stata per fortuna scongiurata dai riformisti e la ragione ha prevalso su precarie emotività.

Così è avvenuto con il voto dell'assemblea che a larghissima maggioranza ha scelto la soluzione Franceschini per colmare il vuoto lasciato dalle dimissioni di Veltroni. È una scelta di continuità oppure di rottura rispetto alla fase conclusa l'altro ieri?

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Il nuovo segretario proviene dall'ala cattolica del Pd, è stato fin qui il numero due del partito condividendo con Veltroni la linea politica e la gestione. Tuttavia il suo discorso all'assemblea di ieri non è stato di continuità ma di rottura. Si è impegnato ad azzerare tutti gli incarichi al centro e alla periferia. Ha preso una posizione decisamente laica sul tema scottante del testamento biologico.

Per lui questa scelta non è inconsueta: fu il promotore e il primo firmatario del documento pubblicato un anno fa, sottoscritto dalla quasi unanimità dell'ala cattolica impegnata nel Pd, che rivendicava la piena autonomia delle scelte rispetto alla precettistica della gerarchia ecclesiastica. Una linea che cominciò da De Gasperi e proseguì fino ad Aldo Moro e poi a De Mita. Del resto nessuno meglio di un cattolico democratico può accollarsi la responsabilità di difendere la laicità dello Stato, la libertà dei cittadini e la loro eguaglianza di fronte alla legge anche se sostenendo questi principi ci si discosta dalle posizioni dei Vescovi e del Vaticano.

Vedremo in che modo il nuovo segretario adempirà agli impegni presi di fronte all'assemblea che lo ha eletto. Dovrà servirsi della sua oggettiva debolezza politica per farne una forza. Se ci riuscirà avrà come premio il merito di consegnare al futuro congresso un partito che ha superato una "tempesta perfetta" senza implodere nell'anarchia e nello sconforto. Questo è il suo compito ma per svolgerlo avrà bisogno del sostegno della base, soprattutto dei nuovi dirigenti che dovrebbero emergere durante questi mesi di procellosa navigazione.

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Nel frattempo Casini è uscito dal fortilizio che ha difeso finora con tenace volontà e si è lanciato in una guerra di movimento. La situazione dal suo punto di vista gli è favorevole dopo il successo in Sardegna della sua lista apparentata con Berlusconi. Il Pd è in crisi e una parte dell'ala cattolica propugna da tempo un'alleanza con l'Udc non escludendo una possibile scissione.

Ma tra il dire e il fare ci sono tuttavia molti ostacoli. Il primo sta nel fatto che Casini non ha alcun interesse a stipulare un'alleanza nazionale col Pd, che è pur sempre un partito con un seguito molto più numeroso del suo. Alleanze locali laddove siano vincenti sì, ma un patto di unità d'azione nazionale certamente no.

L'obiettivo di Casini è di fare un grande partito centrista che assembli i moderati del Pd e i liberali del Pdl. Grande rispetto all'attuale Udc che ottiene il 10 per cento nei luoghi in cui si allea con Berlusconi ma ritorna al suo 5-6 quando va da sola. L'obiettivo di Casini dovrebbe portare il suo partito di centro verso un consenso a due cifre, oltre il 10 per cento, in una forchetta da lui auspicata tra il 12 e il 15. Il modello che ha in mente è quello di Kadima, il partito israeliano fondato da Sharon e ora guidato da Tzipi Livni, che ha frantumato il Labour ed ha ottenuto alle recentissime elezioni una discreta affermazione in un quadro che registra un massiccio spostamento verso la destra e l'estrema destra dell'opinione pubblica di quel paese, con alcune punte dichiaratamente razziste.

Il quadro politico italiano non è paragonabile a quello di Israele, tuttavia il riferimento a Kadima lo fanno esplicitamente Casini e Buttiglione. Qualche ragione ci sarà. Lo schema mentale di Casini è quello d'un partito di centro cattolico, moderato e liberale che alimenti il cosiddetto regime dei due forni e cioè tre partiti sulla scacchiera, uno a destra, l'altro a sinistra un terzo al centro e quest'ultimo come ago della bilancia che decida quando e con chi di volta in volta allearsi. Non a caso questo schema, quest'ipotesi di lavoro è sostenuta da gran parte dei "media" che danno voce a interessi forti la cui moneta è rappresentata dallo scambio dei favori e dalla reciproca protezione.

Nei mesi che ci stanno alle spalle abbiamo assistito ad una campagna di delegittimazione sistematica nei confronti di Veltroni e del Pd, rei di non piegarsi a sufficienza alla connivenza con il centro e con la destra. Veltroni ha commesso un errore e l'abbiamo già indicato, ma ha resistito a quella pressione che però ha infine raggiunto l'obiettivo che perseguiva ottenendo il suo ritiro. Non è tuttavia riuscita a far implodere il Partito democratico e personalmente mi auguro che non ci riuscirà.

La politica dei due forni d'altra parte è irrealizzabile per una decisiva ragione. Essa presuppone che i due forni, cioè i due piatti della bilancia, siano solidi e di forza equivalente. Quello di destra è in realtà fortissimo, almeno fino a quando il populismo di Berlusconi farà presa sulla maggioranza degli elettori. Quello di sinistra è fragile, alla ricerca di una identità nuova che superi le storie antiche e ormai inservibili. Senza una sinistra salda non esiste l'ago della bilancia perché non esiste la bilancia. Ci sarebbe soltanto un centro aggregabile alla destra o relegato al margine della scacchiera. La sinistra scomparirebbe in una palude di sabbie mobili lasciando senza rappresentanza politica una massa di ceti sociali privi di poteri di negoziazione e inchiodati ad un rapporto perverso tra padroni e servi. Con una regressione sempre più rapida della Chiesa verso un ruolo lobbistico colluso con un governo di atei devoti.

Con l'elezione del nuovo segretario del Pd comincia l'ultimo atto di un percorso accidentato ma forse più consapevole e più partecipato. È auspicabile per la democrazia italiana che da qui si riparta con nuova lena e intatte speranze.


(22 febbraio 2009)
da repubblica.it
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