EUGENIO SCALFARI.
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POLITICA
Breve lezione sulla felicità
di EUGENIO SCALFARI
Mi permetterete, cari lettori, di uscire oggi dal seminato e di trattare un tema che potrà sembrare non pertinente alla stretta attualità. L'ho già sfiorato più volte ma ora vorrei prenderlo di petto e vedrete che non è poi così lontano dalle tematiche quotidiane così noiosamente ripetitive.
Il mio tema coinvolge tre concetti: il tempo, il senso, la felicità, strettamente connessi tra loro nel nostro agire quotidiano. Ma forse non ce ne accorgiamo, eppure ogni nostro atto, desiderio, comportamento, sono motivati e determinati da quei tre elementi. Ciascuno di noi vuole anzitutto sentirsi felice o meno infelice di quanto non sia; questo suo obiettivo si colloca ad una certa distanza dall'attimo presente e promette una certa durata e qui interviene l'elemento temporale. Il percorso tra la decisione che ci procurerà felicità e il tempo necessario per realizzarla dà senso a quel percorso e poiché la vita altro non è che la ricerca continua di felicità che si ottiene e si perde un attimo dopo averla raggiunta, ecco che il senso viaggia senza soluzione di continuità a cavallo di quei percorsi che ci accompagnano in modi variabili fino al nostro ultimo appuntamento.
Incito i nostri attori, politici professionali economici culturali, a riflettere su queste considerazioni. Ne indico qualcuno, tanto per fornire concreti esempi, precisando che indico in questi casi risultati di felicità connessi a obiettivi di natura pubblica e non privata, che pure ci sono e per la maggior parte delle persone hanno anzi caratteristiche dominanti.
Mi viene in mente, tanto per dire, Luca Montezemolo. Quando la Ferrari vince una gara è felice e lo si vede. Così pure quando la Fiat di cui è presidente realizza risultati positivi. E ancora quando la Confindustria centra un suo obiettivo di politica economica. Queste sue attività plurime gli costano (anche questo si vede) molta fatica, ma è fatica appagante e dà senso alla sua vita fino a quando riuscirà a ghermire qualche brandello di felicità.
Me ne vengono in mente moltissimi altri. Per esempio Silvio Berlusconi. Che sia felice ogni volta che si trova in un bagno di folla plaudente è un fatto evidente. Traspira gioia da tutti i pori. Bacia volti di bambini, stringe centinaia di mani. Lancia battute eccitanti, divertenti, esalta entusiasmi. Non c'è niente di falso né di studiato in tutto questo.
Prima d'entrare in politica la sua felicità dipendeva dai bilanci delle sue aziende, dai contratti pubblicitari che riusciva ad ottenere dagli inserzionisti. Era una felicità di qualità minore rispetto al bagno di folla. Perciò sarà un triste giorno per lui quando dovrà rinunciarvi. Farà di tutto perché arrivi il più tardi possibile, di questo si può star certi.
Ma prendete anche (scelgo a casaccio dal mazzo dell'attualità) il giudice Clementina Forleo. Fa un mestiere difficile e anche avaro di felicità: chi giudica tra parti in causa e si asside come arbitro neutrale in mezzo a loro ricava felicità solo dal fatto di garantire un'applicazione appropriata della legge. Ha fatto il suo dovere e tanto dovrebbe bastarle. Ma i suoi provvedimenti passano poi al vaglio di successivi gradi di giurisdizione, possono essere confermati o cancellati. Ammetterete che la felicità arriva col contagocce. A meno che il giudice non si sporga e non sprema la spugna fino all'ultima goccia.
E' ciò che ha fatto nel caso delle intercettazioni telefoniche su alcuni membri del Parlamento. Non entro nel merito della sua ordinanza perché non ne ho né titolo né voglia. Ma l'irruenza del giudizio che ha anticipato un'incriminazione prima ancora che la Procura della Repubblica la formulasse, non ha altra motivazione che una ricerca maggiore di felicità. Come il bagno di folla di Berlusconi. Il nostro presidente della Repubblica - ben prima che l'attualità facesse esplodere il caso Forleo - aveva indicato tra i malanni della giustizia anche quelli d'una eccessiva ricerca di visibilità. Ma parole sagge non riescono quasi mai a frenare una natura.
Mi ha stupito invece la posizione di Borrelli, che fu procuratore a Milano all'epoca di Tangentopoli. Ha detto che il "sovrappiù" della Forleo è un elemento marginale rispetto al merito del problema che riguarda la possibilità di indagare presunti colpevoli. Ha ragione e torto nello stesso tempo. I sospettati siano al più presto indagati, ma chi si occuperà del "sovrappiù" di Clementina? Potrà ancora fare l'arbitro d'un procedimento nel corso del quale è scesa tra i giocatori calciando impropriamente la palla? Borrelli è stato anche procuratore della Federcalcio e ha sospeso fior di arbitri. Dovrebbe dunque avere ben presente quell'esperienza.
Tanti altri esempi potrei addurre per spiegar bene quanto pesi nelle azioni umane la ricerca di felicità. Ma spero d'aver chiarito a sufficienza e proseguo nel ragionamento.
* * *
La durata delle singole felicità ha un tempo breve. Ma esistono anche felicità collettive e la loro durata è più lunga. A volte molto più lunga.
Quando dico felicità collettiva penso a soggetti collettivi, comunità locali, comunità nazionali, comunità internazionali che si vivano anche come veri e propri soggetti e come tali siano vissuti dai popoli che ne fanno parte.
I percorsi necessari per dare durata e stabilità alla felicità che abbia soggetti collettivi come destinatari sono notevolmente lunghi. Di solito operano di rimbalzo, come le biglie del biliardo che spesso debbono fare il giro delle sponde per realizzare l'obiettivo di ottenere punti e lasciare l'avversario in posizione incomoda.
Anche qui qualche esempio, dal mazzo dell'attualità. La sinistra radicale si sente a disagio; ha la sensazione che Prodi stia privilegiando la linea riformista e che questo spostamento la penalizzi. Perciò promette battaglia. E' chiaro il perché: il soggetto che si riconosce nei partiti della sinistra radicale pensa che la felicità propria, dei movimenti che vorrebbe rappresentare, della classe operaia della quale rivendica la rappresentanza politica, si realizzi spostando a sinistra la politica del governo. Questo è il dichiarato obiettivo dei suoi leader. I quali tuttavia sanno (e lo dicono) che una crisi del governo penalizzerebbe fortemente i loro veri e presunti rappresentati.
I leader dei partiti di quella sinistra sostengono di costituire un terzo della coalizione, ed è vero. Perciò pongono la domanda: si può governare contro un terzo della maggioranza? A questa domanda i leader del centrosinistra oppongono la contro-domanda: si può governare contro i due terzi?
Rifarsi al programma è un puro alibi: un programma di 280 pagine è interpretabile e ognuno lo fa a suo modo. Sicché non c'è che affidarsi al capo del governo e della coalizione, Romano Prodi. Altro metodo non c'è. Ma i leader della sinistra radicale dovrebbero anche sapere che i loro continui strappi, che poi finiscono (finora) con il rientrare, provocano reazioni crescenti nei due terzi riformisti e disincanto ulteriore nel corpo elettorale.
Questa ricerca sussultoria di due felicità che si contrappongono configura una scomodissima situazione. Il solo risultato finora conseguito è stato quello - ottenuto principalmente dalla stessa sinistra radicale - di autoproporsi come capro espiatorio di tutto ciò che non va nella gestione della cosa pubblica. Debbo dire: non è un gran risultato.
* * *
La classe dirigente di uno Stato deve proporsi come obiettivo quello di procurare felicità agli abitanti e assicurarla per quanto possibile ai loro figli e nipoti. Diciamo tre generazioni. Andare al di là mi sembra azzardato; starne al di qua denota corta vista ed è ciò che di solito caratterizza regimi populisti e demagogici. La classe dirigente di uno Stato deve dunque avere una visione del paese dinanzi a sé e deve anche - anzi come primario obiettivo - attuare in corsa la riforma delle inefficienze dello Stato.
Si moltiplicano gli allarmi su questo punto, che viene chiamato di volta in volta questione settentrionale o questione meridionale, ma che più appropriatamente dovrebbe essere chiamata questione dello Stato.
La classe dirigente deve necessariamente darsi carico di tutto ciò. In una recente intervista al nostro giornale Giuliano Amato, per spiegare il suo punto di vista su alcuni temi d'attualità, ha avuto la cortesia di riprendere un'immagine da me usata un anno fa, quella dello specchio rotto. A terra sono rimasti i frammenti di quello specchio che non riflettono più l'intera realtà ma soltanto alcuni suoi parziali aspetti.
Bisogna dunque che la classe dirigente si dia carico di recuperare uno specchio capace di riflettere l'intera realtà nazionale e operi avendo di mira la felicità dei padri, dei figli e dei nipoti. Una felicità duratura, che dia sollievo subito ad alcuni bisogni impellenti ma nel contempo ponga le condizioni affinché speranze e attese che si proiettano nel futuro siano salvaguardate anche a prezzo di alcune rinunce oggi necessarie.
Una classe dirigente che sia capace di questo trova in questa visione e nel realizzarla, anche la propria felicità e il senso del proprio percorso e della propria funzione.
Post Scriptum. Rientro nel seminato (dal quale peraltro ho potuto allontanarmi assai poco) per spendere due parole sulla legge elettorale e sul referendum parzialmente abrogativo.
Stefano Rodotà segnala che la legge che dovesse uscire dal referendum sarebbe un mozzicone di legge, un dispositivo assai imperfetto che lascerebbe in piedi le liste bloccate senza preferenze e inciterebbe partiti e partitini a far blocco per intascare il premio di maggioranza.
Personalmente non do gran valore al sistema delle preferenze. Ricordo il trionfo del referendum Segni che restrinse le preferenze da quattro ad una soltanto e passò a furor di popolo.
Concordo invece con Giovanni Sartori che sul Corriere della Sera indica tra le soluzioni "buone" oltre al doppio turno alla francese anche la legge vigente in Germania. Purché sia conservata nel modello attuale e non ricucinata in salsa italiana, osserva Sartori. Anche su questo punto sono d'accordo con lui come pure sul gonfiarsi e sgonfiarsi dei partiti di centro, dovuto alla pressione moderata o esorbitante dei partiti estremi.
In materia pensiamo e scriviamo le stesse cose, caro Sartori, sperando con scarsa fiducia di essere ascoltati.
(29 luglio 2007)
da repubblica.it
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POLITICA
Ahi Costantin di quanto mal fu madre
di EUGENIO SCALFARI
Tra le tante questioni che affliggono il nostro paese, insolute da molti anni e alcune risalenti addirittura alla fondazione dello Stato unitario, c'è anche quella cattolica. Probabilmente la più difficile da risolvere.
Personalmente penso anzi che resterà per lungo tempo aperta, almeno per l'arco di anni che riguardano le tre o quattro generazioni a venire. Roma e l'Italia sono luoghi di residenza millenaria della Sede apostolica e perciò si trovano in una situazione anomala rispetto a tutte le altre democrazie occidentali. Se guardiamo agli spazi mediatici che la Santa Sede, il Papa, la Conferenza episcopale hanno nelle televisioni e nei giornali ci rendiamo conto a prima vista che niente di simile accade in Francia, in Germania, in Gran Bretagna, in Olanda, in Scandinavia e neppure nelle cattolicissime Spagna e Portogallo per non parlare degli Usa, del Canada e dell'America Latina dove pure la popolazione cattolica ha raggiunto il livello di maggiore densità.
Da noi le reti ammiraglie di Rai e di Mediaset trasmettono sistematicamente ogni intervento del Papa e dei Vescovi. L'"Angelus" è un appuntamento fisso. Le iniziative e le dichiarazioni dei cattolici politicamente impegnati ingombrano i giornali, il presidente della Repubblica, appena nominato, sente il bisogno di inviare un messaggio di "presentazione" al Pontefice, cui segue a breve distanza la visita ufficiale.
Tutto ciò va evidentemente al di là d'una normale regola di rispetto e dipende dal fatto che in Italia il Vaticano è una potenza politica oltre che religiosa. Ciò spiega anche la dimensione dei finanziamenti e dei privilegi fiscali dei quali gode il Vaticano, la Santa Sede e gli enti ecclesiastici; anche questi senza riscontro alcuno negli altri paesi.
Infine il rapporto di magistero che la gerarchia ecclesiastica esercita sulle istituzioni ovunque vi sia una rappresentanza di cattolici militanti e la funzione di guida politica che di fatto orienta i partiti di ispirazione cattolica e quindi cospicui settori del Parlamento.
La questione cattolica è dunque quella che spiega più d'ogni altra la diversità italiana. Spiega perché noi non saremo mai un "paese normale". Perché una parte rilevante dell'opinione pubblica, della classe politica, dei mezzi di comunicazione, delle stesse istituzioni rappresentative, sono etero-diretti, fanno capo cioè e sono profondamente influenzati da un potere "altro". Quello è il vero potere forte che perdura anche in tempi in cui la secolarizzazione dei costumi ha ridotto i cattolici praticanti ad una minoranza.
"Ahi Costantin, di quanto mal fu madre...".
La questione cattolica ha attraversato varie fasi che non è questa la sede per ripercorrere. Basti dire che si sono alternate fasi di latenza durante le quali sembrava sopita, e di vivace ed aspra riacutizzazione.
Il mezzo secolo della Prima Repubblica, politicamente dominato dalla Democrazia cristiana, fu paradossalmente una fase di latenza. La maggioranza era etero-diretta dal Vaticano e dagli Stati Uniti, il Pci era etero-diretto dall'Unione Sovietica. Entrambi i protagonisti accettavano questo stato di cose, insultandosi sulle piazze e dai pulpiti, ma assicurando, ciascuno per la sua parte, un sostanziale equilibrio. Quando qualcuno sgarrava, veniva prontamente corretto.
Ma la fase attuale non è affatto tranquilla, la questione cattolica si è riacutizzata per varie ragioni, la prima delle quali è l'emergere sulla scena politica dei temi bioetici con tutto ciò che comportano.
La seconda ragione deriva dalla linea assunta da Benedetto XVI che ritiene di spingere il più avanti possibile le forme di protettorato politico-religioso che il Vaticano esercita in Italia, per farne la base di una "reconquista" in altri paesi a cominciare dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Baviera, dall'Austria e da alcuni paesi cattolici dell'America meridionale. Le capacità finanziarie dell'episcopato italiano forniscono munizioni non trascurabili per sostenere questo disegno che ha come obiettivo l'esportazione del modello italiano laddove ne esistano le condizioni di partenza.
A fronte di quest'offensiva le "difese laiche" appaiono deboli e soprattutto scoordinate. Si va da forme d'intransigenza che sfiorano l'anticlericalismo ad aperture dialoganti ma a volte eccessivamente permissive verso i diritti accampati dalla "gerarchia". Infine permane il sostanziale disinteresse della sinistra radicale, che conserva verso il laicismo l'antica diffidenza di togliattiana memoria.
Si direbbe che il solo dato positivo, dal punto di vista laico, sia una più acuta sensibilità autonomistica che ha conquistato una parte dei cattolici impegnati nel centrosinistra. Ma si tratta di autonomia a corrente variabile, oggi rimesso in discussione dalla nascita del Partito democratico e dai vari posizionamenti che essa comporta per i cattolici che ne fanno parte. Con un'avvertenza di non trascurabile peso: secondo recenti sondaggi nell'ultimo decennio i cattolici schierati nel centrosinistra sarebbero discesi dal 42 al 26 per cento. Fenomeno spiegabile poiché gran parte dell'elettorato ex Dc si trasferì fin dal 1994 su Forza Italia; ma che certamente negli ultimi tempi ha accelerato la sua tendenza.
* * *
Un fenomeno degno di interesse è quello del recente associazionismo delle famiglie. Non nuovo, ma fortemente rilanciato e unificato dal "forum" che scelse come organizzatore politico e portavoce Savino Pezzotta, da poco reduce dalla lunga leadership della Cisl e riportato alla ribalta nazionale dal "Family Day" che promosse qualche mese fa in piazza San Giovanni il raduno delle famiglie cattoliche.
Da allora Pezzotta sta lavorando per trasformare il "forum" in un movimento politico. "Non un partito" ha precisato in una recente intervista "ma un quasi-partito; insomma un movimento autonomo che potrà eventualmente appoggiare qualche partito di ispirazione cristiana che si batta per realizzare gli obiettivi delle famiglie. Sia nei valori che sono ad esse intrinseci sia per i concreti sostegni necessari a realizzare quei valori".
L'obiettivo è ambizioso e fa gola ai partiti di impronta cattolica, ma Pezzotta amministra con molta prudenza la sigla di cui è diventato titolare. Dico sigla perché al momento non sappiamo quale sia la sua realtà organizzativa e la sua effettiva spendibilità politica.
Sembra difficile che il nascituro movimento delle famiglie possa praticare una sorta di collateralismo rispetto ai settori cattolici militanti nel Partito democratico: la piazza di San Giovanni non sembrava molto riformista, le voci che l'hanno interpretata battevano soprattutto su rivendicazioni economiche ma non basterà riconoscergliele per acquistarne il consenso e il voto. A torto o a ragione le famiglie e le sigle che le rappresentano ritengono che quanto chiedono sia loro dovuto. Il voto elettorale è un'altra cosa e non sarà Pezzotta a guidarlo. Ancor meno i vari Bindi, Binetti, Bobba nelle loro differenze. Voteranno come a loro piacerà, seguendo altre motivazioni e inclinazioni, influenzate soprattutto dai luoghi in cui vivono e dai ceti sociali e professionali ai quali appartengono.
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Un elemento decisivo della questione cattolica e dell'anomalia che essa rappresenta è costituito dalla dimensione degli interessi economici della Santa Sede e degli enti ecclesiastici, del loro "status" giuridico e addirittura costituzionale (il Trattato del Laterano è stato recepito in blocco con l'articolo 7 della nostra Costituzione) e dei privilegi fiscali, sovvenzioni, immunità che fanno nel loro insieme un sistema di fatto inattaccabile. Basti pensare che la Santa Sede rappresenta il vertice di un'organizzazione religiosa mondiale e fruisce ovviamente d'un insediamento altrettanto mondiale attraverso la presenza dei Vescovi, delle parrocchie, degli Ordini religiosi, delle Missioni. Ma, intrecciata ad essa c'è uno Stato - sia pure in miniatura - che gode d'un tipo di immunità e di poteri propri di uno Stato e quindi di una soggettività diplomatica gestita attraverso i "nunzi" regolarmente accreditati presso tutti gli altri Stati e presso le organizzazioni internazionali.
Questa doppia elica non esiste in nessun'altra delle Chiese cristiane ed è la conseguenza della struttura piramidale di quella cattolica e della base territoriale da cui trasse origine lo Stato vaticano e il potere temporale dei Papi. Non scomoderemo Machiavelli e Guicciardini, Paolo Sarpi e Pietro Giannone per ricordare quali problemi ha sempre creato il potere temporale nella storia della nazione italiana, nell'impossibilità di realizzare l'unità nazionale quando gli altri paesi europei avevano già da secoli raggiunto la loro ed infine lo scarso senso dello Stato che gli italiani hanno avuto da sempre e continuano abbondantemente a dimostrare. Sarebbe storicamente scorretto attribuire unicamente al potere temporale dei Papi questo deficit di maturità civile degli italiani, ma certo esso ne costituisce uno dei principali elementi.
Purtroppo il temporalismo è una tentazione sempre risorgente all'interno della Chiesa; sotto forme diverse assistiamo oggi ad un tentativo di resuscitarlo che si esprime attraverso la presenza politica diretta dell'episcopato nelle materie "sensibili" il cui ventaglio si sta progressivamente ampliando.
Negli scorsi giorni l'atmosfera si è ulteriormente riscaldata a causa di una frase di Prodi che esortava i sacerdoti a sostenere la campagna del governo contro le evasioni fiscali e lamentava lo scarso contributo della Chiesa ad un tema così rilevante.
Credo che Prodi, da buon cattolico, abbia pronunciato quella frase in perfetta buonafede ma, mi permetto di dire, con una dose di sprovveduta ingenuità. Lo Stato non rappresenta un tema importante per i sacerdoti e per la Chiesa. Ancorché i preti e i Vescovi siano cittadini italiani a tutti gli effetti e con tutti i diritti e i doveri dei cittadini italiani, essi sentono di far parte di quel sistema politico-religioso che a causa della sua struttura è totalizzante. La cittadinanza diventa così un fatto marginale e puramente anagrafico; salvo eccezioni individuali, il clero si sente e di fatto risulta una comunità extraterritoriale. Pensare che una delle preoccupazioni di una siffatta comunità sia quella di esortare gli italiani a pagare le tasse è un pensiero peregrino. Li esorta - questo sì - a mettere la barra nella casella che destina l'otto per mille del reddito alla Chiesa. Un miliardo di euro ha fruttato all'episcopato italiano quell'otto per mille nel 2006. Ma esso, come sappiamo, è solo una parte del sostegno dello Stato alla gerarchia, alle diocesi, alle scuole, alle opere di assistenza.
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Come si vede la pressione cattolica sullo Stato "laico" italiano è crescente, si vale di molti mezzi, si manifesta in una pluralità di modi assai difficili da controllare e da arginare.
Le difese laiche - si è già detto - sono deboli e poco efficaci: affidate a posizioni individuali o di gruppi minoritari ed elitari contro i quali si ergono "lobbies" agguerrite e perfettamente coordinate da una strategia pensata altrove e capillarmente ramificata.
Quanto al grosso dell'opinione pubblica, essa è sostanzialmente indifferente. La questione cattolica non fa parte delle sue priorità. La gente ne ha altre, di priorità. È genericamente religiosa per tradizione battesimale; la grande maggioranza non pratica o pratica distrattamente; i precetti morali della predicazione vengono seguiti se non entrano in conflitto con i propri interessi e con la propria "felicità". In quel caso vengono deposti senza traumi particolari.
Perciò sperare che la democrazia possa diventare l'"habitus" degli italiani è arduo. Gli italiani non sono cristiani, sono cattolici anche se irreligiosi. Questo fa la differenza.
(5 agosto 2007)
da repubblica.it
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IL COMMENTO
L'ombra della crisi del '29 sui nostri risparmi
di EUGENIO SCALFARI
CI SONO state molte altre crisi finanziarie negli ultimi vent'anni del Novecento, dovute all'improvviso sgonfiarsi di bolle speculative. La crisi del rublo, quella dell'insolvenza messicana, quella dei "bonds" argentini, quella (e fu la più violenta e diffusa) che travolse i super-investimenti nell'industria informatica. E naturalmente le crisi petrolifere che portarono alle stelle i prezzi del greggio con ripercussioni non solo sulla finanza ma sull'economia reale. E tutte, ovunque fosse il loro epicentro iniziale, coinvolsero il centro finanziario del mondo: Wall Street, le grandi banche d'affari americane, l'immenso ventaglio dei loro clienti internazionali e multinazionali, chiamando in causa inevitabilmente anche la Federal Reserve, la Banca centrale americana, supremo regolatore del sistema monetario e finanziario del pianeta.
Ma nessuna di queste "fibrillazioni" somiglia a quella di questi giorni. Forse proprio perché nel caso attuale l'epicentro è nel sistema bancario americano, nei mutui immobiliari facili, nel loro piazzamento in titoli "derivati" e nella loro diffusione in molte istituzioni finanziarie internazionali.
La finanza Usa e la Fed questa volta non giocano di rimessa, ma giocano in proprio. Il sisma nasce lì, a Manhattan, nel cuore della Grande Mela e ciò aumenta la sua potenza diffusiva e le sue devastanti capacità.
C'è però un precedente cui la crisi attuale può esser confrontata ed è il terremoto finanziario del 1929. Lo si nomina poco in questi giorni, anche gli analisti che inclinano piuttosto al pessimismo fingono di dimenticarsene, forse per scaramanzia. Ma, pur nelle grandi differenze di contesto rispetto a ciò che accadde ottant'anni fa, le analogie sono impressionanti.
Consiglio ai lettori di procurarsi e di leggere un libro diventato fin dal suo primo apparire un classico in materia: "Il grande crollo" di Kenneth Galbraith. E' una lettura paurosamente affascinante. Intanto la crisi di oggi e quella del '29 cominciano allo stesso modo: una gigantesca bolla immobiliare, mutui facili, esposizione di istituti bancari specializzati in questo settore, fame di case concentrata soprattutto in California e in Florida, emissione di azioni da parte di società-fantasma, cieca fiducia dei risparmiatori, rifinanziamenti a breve da parte del sistema bancario, interventi (inutili) della Banca centrale e delle principali istituzioni finanziarie, in particolare le banche d'affari che facevano allora capo ai Rockefeller, ai Morgan, ai Rothschild.
Nel '29 vigeva il sistema aureo, non esisteva alcuna disciplina sul mercato dei cambi, New York, Londra, Berlino, Parigi erano in accesa competizione tra loro. Ciò aggravò e moltiplicò gli effetti del sisma che da una crisi di Borsa si estese al dollaro, dalla moneta americana alla sterlina e al marco tedesco e a tutto il sistema aureo, cioè a tutte le monete del mondo.
Per fortuna il sistema monetario mondiale è oggi completamente diverso, l'amplificazione dei fenomeni si verifica agevolmente ma è entro certi limiti governabile. Siamo più attrezzati di allora. Ma le analogie restano e i rischi sono tutt'altro che lievi.
Non starò ora a ripercorrere le tecniche dei mutui immobiliari, della loro cartolarizzazione in titoli, dei tassi di interesse prossimi allo zero per invogliare la clientela, dell'assenza di valide garanzie e infine nella diffusione anche fuori dal mercato Usa dei titoli - spazzatura e dei relativi rischi. Nei giorni scorsi tutto questo perverso meccanismo è stato ampiamente descritto e quindi lo do per noto.
Ricordo soltanto ai lettori che il mercato immobiliare e il suo enorme indotto coprono almeno un quarto dell'economia Usa. A loro volta i consumi privati rappresentano i due terzi della domanda interna di quel paese e gran parte di essi, specie tutta la fascia dei beni durevoli, è strettamente connessa alla costruzione di nuove abitazioni. Stiamo insomma discutendo di uno dei gangli vitali del sistema America e del "business" ad esso collegato.
Questo sensibilissimo settore è entrato in crisi di insolvenza. I clienti che hanno contratto mutui sono insolventi, non hanno soldi per pagare le rate; di conseguenza i loro creditori diventano man mano insolventi anch'essi; i risparmiatori che hanno affidato i loro risparmi a fondi d'investimento che hanno in portafoglio anche titoli immobiliari, ritirano i loro capitali; i fondi più deboli e più presi di mira cominciano a congelare le quote della clientela e creano in questo modo altri punti d'insolvenza. Purtroppo tra i fondi coinvolti ci sono anche alcuni fondi-pensione che sono tenuti dai loro statuti a corrispondere con periodica frequenza i dividendi ai pensionati. Per ora non si ha notizia di insolvenze in questo delicatissimo settore. Auguriamoci che i gestori dei fondi-pensione non siano stati troppo aggressivi nella ricerca di rendimenti superiori alla media.
Si tratta comunque di un'insolvenza abbastanza diffusa. Il governatore della Fed, in una recentissima dichiarazione, l'ha valutata a cento miliardi di dollari. Per ora le insolvenze acclarate ammontano a cifre molto minori, eppure sono state sufficienti a terremotare i mercati finanziari in Usa, in Europa, in Canada, in Australia. L'Asia, Giappone compreso, sembra al riparo dalla tempesta. Ma se e quando dovessero venire allo scoperto le insolvenze preannunciate da Bernanke, gli effetti potrebbero essere assai più micidiali.
Proprio per impedire che ciò accada e soprattutto per recuperare la fiducia dei risparmiatori e degli operatori, le Banche centrali hanno deciso di concerto di iniettare liquidità nei mercati con prestiti a breve e brevissimo termine ai sistemi bancari, accompagnando queste operazioni con inviti alla calma e solenni assicurazioni che la crisi è circoscritta, le insolvenze limitate, la liquidità comunque garantita e i "fondamentali" senza alcun contraccolpo. Non avevano altra strada, le Banche centrali, che stanno facendo egregiamente il loro lavoro. Riassorbire l'eccesso di liquidità quando non sarà più necessario non è tecnicamente difficile. Non è detto invece che il recupero di fiducia avvenga rapidamente.
Nella crisi del '29 non avvenne, anzi durò per molti mesi fino a creare effetti depressivi sulle economie reali. Abbiamo già detto che le autorità monetarie e le istituzioni finanziarie sono oggi molto più attrezzate di allora. Tuttavia la fiducia è un elemento immateriale e estremamente volatile. L'ostentata tranquillità delle Banche centrali e delle autorità monetarie può non esser sufficiente a ripristinarla.
Se poi prendesse corpo la speculazione ribassista con l'obiettivo di deprimere fortemente i listini di Borsa per poi ricoprirsi realizzando favolosi guadagni, come spesso avviene in situazioni del genere, non c'è Banca centrale che possa reggere né fiducia che possa esser recuperata. E' tuttavia difficile (o almeno così ci auguriamo) un intervento massiccio al ribasso. La situazione dei mercati si è fatta di colpo così delicata che un intervento speculativo al ribasso potrebbe produrre effetti di tale magnitudine da render poi impossibile per lungo tempo l'esito positivo per gli speculatori. C'è insomma un deterrente psicologico, e speriamo che basti a fermar la mano della speculazione.
La Borsa italiana ha preso nell'ultimo mese e in particolare negli ultimi tre giorni potenti scoppole, più o meno in misura analoga a quella degli altri mercati europei. Più per contagio che per reali insolvenze. Di queste ne sono finora venute alla luce assai poche. Quella, di circa 700 milioni, dei tre fondi della Paribas parzialmente congelati. Altre sulle quali per ora circolano soltanto voci.
Il contagio comunque si può propagare come il "venticello" della calunnia cantato da Don Basilio nel "Barbiere di Siviglia". Ma se non è sostenuto da evidenze concrete può essere rapidamente dissipato. Il caso italiano non sembra dunque particolarmente esplosivo. C'è un punto tuttavia che merita di esser considerato e riguarda i fondi pensione nei quali sono recentemente affluiti oltre un milione di pensionandi che hanno versato i loro Tfr col metodo del silenzio-assenso.
Si è fatto un gran can-can da parte della "setta" degli economisti liberali perché il collocamento del Tfr nei fondi non era stato sufficientemente incoraggiato dal governo. Era una menzogna e il risultato delle sottoscrizioni lo dimostra. Ma ora ci sarà chi rimpiangerà, tra i pensionandi che hanno scelto la previdenza complementare, di non aver versato i propri Tfr ai fondi aziendali gestiti dai sindacati o addirittura di non aver conservato il vecchio sistema della previdenza pubblica dell'Inps. Gli investimenti arrischiati di alcuni fondi - pensione americani ci dicono che anche la via della previdenza alternativa non è cosparsa di rose e fiori e che il mercato non è mai stato e mai sarà il paese di Bengodi se non per i pochi che possono manovrarlo a danno dei molti.
C'è un altro aspetto italiano che vale la pena di considerare. E' opinione diffusa che l'eventuale rallentamento della crescita della nostra economia, aggravato dai possibili effetti della crisi in atto, spingerà in alto l'onere del debito pubblico sul bilancio dello Stato. Personalmente credo sia un marchiano errore fare simili previsioni. La crisi finanziaria in atto ha aumentato e ancor più aumenterà la propensione dei risparmiatori a investire in titoli pubblici, Bot o pluriennali. Questa propensione produrrà un aumento della domanda di quei titoli e quindi un'occasione per il Tesoro di spuntare condizioni più favorevoli nel momento dell'emissione.
L'aspetto più preoccupante della situazione italiana sta invece nei possibili effetti di rallentamento sulla crescita del Pil che la crisi può esercitare. Rallentamento dovuto ad un calo nei consumi, allo sgonfiamento della bolla immobiliare che anche da noi è in corso e quindi nell'occupazione, nel reddito e negli investimenti nell'ampio indotto dell'industria edilizia.
A fronte di questi temuti effetti recessivi si ripete il suggerimento di accelerare le riforme. Ma quali?
Bisognerebbe specificare un po' di più se si vuole evitare la ripetizione giaculatoria della parola "riforme".
Le liberalizzazioni, certo. Ma non bastano, agiscono con ritardi tecnicamente inevitabili, non possono comunque essere effettuate tutte insieme in dosi massicce senza sconvolgere mercati alquanto sinistrati.
Il rallentamento nella crescita impone di concentrare l'azione del governo su quell'obiettivo. E quindi: favorire gli accordi governo-sindacati in favore della produttività; concentrare la spesa pubblica sui lavori pubblici e le infrastrutture; procedere a ulteriori sgravi fiscali sul lavoro e all'ulteriore sostegno dei bassi redditi.
Le crisi finanziarie hanno, come la loro storia ha invariabilmente dimostrato, l'effetto di accrescere la responsabilità e il ruolo dello Stato nel rilancio dell'economia. Così accadde nell'America del '29, dove la crisi spazzò via la lunga dominanza dei conservatori e aprì la stagione dei riformisti, dai tre mandati di Roosevelt, a Truman, a Johnson, a Kennedy, a Carter, a Clinton.
La ragione è evidente: le crisi determinano rallentamento nella domanda. La ripresa avviene rifinanziando la domanda. E quando è in sofferenza il settore delle costruzioni, affiancando all'investimento privato un massiccio e organico investimento pubblico. Tanto più in un paese come il nostro dove le infrastrutture sono carenti al Nord quanto al Sud. Su questa politica il governo può ritrovare compattezza ed efficacia. La situazione è già abbastanza seria per smetterla con i tiri alla fune e gli strappi per esibire una forza che isolatamente nessuno possiede.
(12 agosto 2007)
da repubblica.it
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IL VETRO SOFFIATO
Le paure di Silvio i dubbi di Walter
di Eugenio Scalfari
Berlusconi teme Veltroni e deve allargare i giochi. Ma anche il sindaco di Roma ha molti nodi da sciogliere. Commenta Tra le tante bizzarrie estive alcuni giornali hanno anche lanciato quella d'un nuovo partito che Silvio Berlusconi avrebbe in animo di fondare e del quale avrebbe già pronto il nome e il programma. Dovrebbe chiamarsi Partito delle libertà e dovrebbe radunare tutti i moderati italiani. La pseudo-notizia è stata vivacemente smentita dai diretti interessati, ma qualche cosa di vero ci deve essere.
Non un partito, che provocherebbe l'ostilità dei 'colonnelli' di Forza Italia e anche di Alleanza nazionale, ma un movimento imperniato sui Circoli della libertà, quelli promossi da Dell'Utri ma soprattutto quelli in concorrenza, promossi dalla Michela Brambilla.
Il centrodestra sente il bisogno di movimenti. È in gestazione quello di Savino Pezzotta che ha come base le famiglie cattoliche. Questo dei Circoli della Brambilla sarebbe parallelo al pezzottismo; invece che far leva sulle famiglie avrebbe riferimenti di natura economico-professionale: i commercianti, l'imprenditoria minuta, le famose partite Iva del lavoro autonomo. Lo scopo di questi movimenti ancora allo stato nascente è chiaramente rivolto a pescare nell'elettorato di An e dell'Udc convogliandone i consensi verso Forza Italia. In prospettiva, se la legge elettorale restasse quella attualmente vigente, i Circoli della libertà potrebbero dar luogo a una lista 'civetta' apparentata con Forza Italia e con quanto resterebbe dei seguaci di Fini e di Casini.
Bizzarrie estive, ma fino ad un certo punto. Perché mai Berlusconi, che è indubbiamente un uomo intuitivo, sente il bisogno di allargare il gioco e di introdurre nuovi giocatori nella partita in corso da tempo nel centrodestra? La risposta riguarda il Partito democratico e il candidato a guidarlo, Walter Veltroni. La leadership di Veltroni preoccupa Berlusconi. Stando ai sondaggi più recenti, in
uno scontro testa a testa il sindaco di Roma prevarrebbe su di lui di quattro punti, 52 contro 48 per cento. Il confronto tra le due coalizioni, sempre secondo quei sondaggi, vede ancora in testa il centrodestra, 53 a 47 per cento, ma sta di fatto che il centrosinistra con queste cifre sembra rientrato in partita. Infine il Partito democratico sarebbe in grado di raccogliere il 39 per cento dei voti contro il 29 di Forza Italia. Ecco perché Berlusconi è preoccupato. Di Casini e di Fini non si fida, la Lega è una mina vagante. Veltroni può ancora guadagnare molto terreno proprio nei settori centrali del corpo elettorale. Ma basteranno i Circoli della Brambilla ad arginare una possibile frana?
Queste considerazioni spostano l'attenzione sul Partito democratico e sulle sue dinamiche interne. Finora l'estate ha tenuto 'surplace' i vari partecipanti, ma d'ora in avanti si dovrà entrare nel merito: contenuti, strutture, liste alternative e liste collegate. Il nuovo partito è ancora una nebulosa, le elezioni del 14 ottobre configureranno la leadership nazionale, le strutture locali, la composizione dell'assemblea costituente, la consistenza numerica del partito e il bacino del suo potenziale elettorato.
Qui si pongono alcune domande. La prima: quante persone andranno a votare il 14 ottobre? Le previsioni in materia sono estremamente difficili. Si azzarda la cifra di un milione. Non è molto. Alle primarie semiplebiscitarie su Prodi, due anni fa, votarono 4 milioni e 300 mila, ma allora non si trattava di creare un partito, bensì di insediare il leader che avrebbe guidato tutto il centrosinistra nello scontro elettorale. Qui voteranno soltanto gli iscritti ai due partiti promotori e quanti nella società civile vogliono partecipare alla nascita del Pd. Un milione tuttavia supera di poco gli iscritti ai Ds e alla Margherita. Se si resta su quella cifra o addirittura se ne sta al di sotto, ciò significa che l'apporto della società civile sarebbe pressoché irrilevante. Un vero successo si avrebbe se i votanti si attestassero sul milione e mezzo. In quel casoil peso dei simpatizzanti rispetto alle strutture e alle nomenklature dei due partiti promotori sarebbe soverchiante. Un esito di questo genere è in diretto rapporto con la forza di attrazione della candidatura Veltroni.
Il sindaco di Roma è infatti il solo dotato di un carisma capace di mobilitare interessi e valori al di là delle appartenenza di partito e di corrente. Accanto a lui, specie nell'area del Centro-nord, ci sono altri sindaci, presidenti di Provincia e di Regione, che possono convogliare consensi aggiuntivi a quelli dei due partiti promotori. La dimensione di questo potenziale afflusso è il vero punto interrogativo delle cosiddette primarie del 14 ottobre.
(24 agosto 2007)
da espresso.repubblica.it
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POLITICA
La nevrosi tutta italiana delle tasse da pagare
di EUGENIO SCALFARI
Ieri ho telefonato a una decina di amici della generazione dei cinquantenni, variamente inseriti nelle professioni e in incarichi manageriali e ho fatto due domande: qual è secondo voi il tema più importante della vita pubblica italiana in questi giorni? E poi (seconda domanda): qual è - secondo voi - il tema che gli italiani ritengono più importante?
Ho posto ai miei amici queste due domande perché - dai fuochi che stanno bruciando mezza Sicilia e devastano terre e boschi in molte altre regioni, alle tasse, al Partito democratico, all'investitura berlusconiana di Michela Brambilla - gli argomenti non mancano e sentivo anch'io il bisogno di ascoltare un mio piccolo campione di fiducia.
Le risposte sono state le seguenti. Cosa pensano i miei amici:
1. Una statistica europea ha collocato il sistema sanitario italiano al secondo posto in Europa. Per noi, che in genere parliamo della nostra sanità come un sistema pessimo, questa è una notizia che dovrebbe stare nella prima pagina dei giornali e delle televisioni.
2. Le tasse. E qui non c'è bisogno di spiegarne il perché.
3. Il governo, il Partito democratico e il futuro del centrosinistra.
4. Il laicismo, i Dico, la bioetica.
Quali sono - secondo i miei amici - i temi che più appassionano in questi giorni gli italiani:
1. Il delitto di Garlasco.
2. Le tasse.
3. I piromani.
4. Michela Brambilla detta la Rossa.
Lascio ai lettori di valutare le risposte a queste due domande. Dal canto mio, poiché il tema delle tasse figura al secondo posto di tutte e due le indicazioni, dedicherò le mie osservazioni di oggi a questo argomento ringraziando gli amici per la loro collaborazione che, nella sua varietà, può stimolare l'attenzione del pubblico.
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Comincerò dalla sortita in favore dello sciopero fiscale fatta pochi giorni fa da Massimo Calearo, presidente della Federmeccanica e vicepresidente degli industriali di Vicenza. Per le due cariche che ricopre, Calearo è uno degli esponenti di primo piano della Confindustria. Non risulta che sia un leghista. La sua dichiarazione è stata dunque fatta in nome e per conto delle associazioni imprenditoriali da lui rappresentate. Perciò è assai più seria e grave dei proclami politici di Bossi e di Calderoli.
È vero che a distanza di poche ore il vicepresidente di Confindustria, Alberto Bombassei, ha vivacemente redarguito il suo collega vicentino e che quest'ultimo dal canto suo ha detto che la sua era stata una "provocazione per smuovere le acque". Ma il giorno dopo è intervenuto Montezemolo e a quel punto l'intera questione ha cambiato livello. Ha fatto, come si dice, un salto di qualità.
Che cosa ha detto Montezemolo? Nella sostanza ha detto due cose: anzitutto che la "provocazione" di Calearo rispecchia i sentimenti di gran parte degli italiani; in secondo luogo ha detto che gli industriali non pagheranno un soldo di tasse in più a meno che non vi sia in contropartita una drastica riduzione delle imposte che gravano sulle imprese.
Il tono è stato molto brusco e decisamente "radicale" nel senso che di solito si attribuisce alla sinistra massimalista che usa quel tono per affermazioni di opposto contenuto. È vero che Montezemolo, per bilanciare politicamente la sua perentoria dichiarazione, ha aggiunto che essa suona come condanna sia della politica economica del governo attuale sia di quella del precedente governo Berlusconi-Tremonti. Ma questo bilanciamento si risolve in un incitamento antipolitico che un'organizzazione semi-istituzionale come la Confindustria non dovrebbe fare se conservasse il dovuto senso di responsabilità e di misura.
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Il ministero dell'Economia ha diffuso ieri gli ultimi dati sulle entrate fiscali dello Stato dopo l'autotassazione di agosto di Irpef, Ires e Irap. Sono dati molto positivi, al di là delle aspettative. In percentuale l'aumento dei primi otto mesi dell'anno confrontati con l'analogo periodo dell'anno precedente è stato del 21 per cento. A parità di aliquote e di reddito. In cifre assolute sono entrati 4 miliardi in più di quanto previsto nel Dpef dello scorso giugno e 8 miliardi in più delle previsioni del marzo. Il risultato sarebbe stato ancora maggiore se non fosse già stata scontata la spesa di 4 miliardi per la restituzione dell'Iva sulle automobili delle imprese, decisa dalla Comunità europea.
Il presidente del Consiglio, commentando queste cifre, le attribuisce al senso civico degli italiani che smentiscono con i loro comportamenti gli irresponsabili appelli allo sciopero fiscale. E preannuncia che la prossima legge finanziaria affronterà il tema dell'alleggerimento del peso fiscale sulle imprese e sulle fasce di reddito più deboli.
Il vice ministro delle Finanze, Vincenzo Visco, dal canto suo ha liquidato la posizione di Montezemolo come "vacua retorica" ed ha aggiunto ai dati sulle entrate un'analisi della situazione che merita attenta riflessione.
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Dice Visco che il vero problema italiano è quello dell'evasione fiscale di massa che egli definisce una vera e propria "pandemia". Dice che l'aumento delle entrate fiscali - a parità di reddito e di legislazione - è interamente dovuto al recupero di evasioni ed elusioni fiscali e che il suo ammontare dall'inizio del governo Prodi è stato di 20 miliardi. Dice che la lotta all'evasione va dunque mantenuta con lo stesso rigore fin qui applicato. Dice che il governo Berlusconi-Tremonti ci aveva lasciato in eredità una finanza pubblica prossima ad una situazione Argentina. Dice che le maggiori entrate non hanno affatto accresciuto la pressione fiscale proprio perché ottenute con recuperi dell'evasione, ma che comunque è venuto il momento di abbassarla, quella pressione fiscale, in favore delle imprese, delle micro-strutture artigianali e dei redditi più deboli. Dice infine che molti dimenticano che l'Italia ha un debito pubblico enorme che ci costa ogni anno 5 punti di Pil in più di quanto avvenga negli altri paesi europei. Questo debito si formò nel decennio 1982-'92 balzando dal 57 al 120 per cento del Pil.
Vi ricordate quegli anni? Erano quelli della "nave va" e della "Milano da bere". In realtà dell'"Italia da bere", innaffiata dal debito e dall'inflazione, una Bengodi che ha scaricato l'onere sui figli e sui nipoti senza che nessuno vigilasse e desse l'allarme salvo pochissime Cassandre (tra le quali questo giornale) inascoltate e vilipese.
Queste cose ha detto il ministro Visco, anche lui come Prodi e Padoa Schioppa tra gli ultimi in classifica nell'opinione degli italiani. Ed ecco un altro tema che non figura nelle risposte dei miei amici ma figura in una mia personale classifica della disinformazione ed anche della propensione del pubblico a fermarsi alla prima osteria senza far la fatica di approfondire e di scegliere con più attenzione le vivande delle quali cibarsi.
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Io penso che il vero grave errore del governo e della maggioranza che lo sostiene (o dovrebbe sostenerlo) sia l'endemica disparità dei giudizi e la molteplicità delle ricette proposte a getto continuo da ministri, sottosegretari e capi partito, ciascuno dei quali si richiama a qualcuna delle 281 pagine di un programma elettorale in cui c'era tutto il generico dello scibile politico sciorinato con l'intento di tenere insieme una coalizione troppo lunga e strutturalmente disomogenea.
Ricordo a me stesso - come si dice per sfoggio di umiltà lessicale - d'esser stato tra i primi a segnalare questo serio anzi serissimo inconveniente dopo i primi trenta giorni dal suo insediamento parlando di "governo sciancato", il che non mi ha impedito di riconoscere i molti meriti su gran parte dei provvedimenti presi da allora ad oggi. Ma quel difetto purtroppo permane, come pure l'eccesso di annunci che sarebbe assai meglio evitare parlando soltanto dopo aver deciso e attuato le decisioni.
La rissosità governativa del resto - come ha chiarito assai bene domenica scorsa Ernesto Galli della Loggia sul "Corriere della Sera" - è stato proprio anche del centrodestra che, pur disponendo di maggioranze bulgare in Parlamento, non è riuscito a muovere neppure un piccolo passo avanti nell'attuazione del suo programma "liberale" che Berlusconi vorrebbe rilanciare oggi fondando il nuovo "Partito della libertà", anch'esso di pura plastica poggiata sulla figurina di Michela la rossa.
Queste considerazioni ci portano al tema della legge elettorale e del Partito democratico.
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Walter Veltroni, in recenti e ripetute dichiarazioni, ha detto che il Partito democratico nella sua visione dovrà rinnovare l'alleanza con gli altri partiti dell'Unione ma al tempo stesso privilegiare l'omogeneità della coalizione stilando un programma chiaro, concreto, sintetico.
Ove questi due obiettivi risultassero incompatibili tra loro, quello dell'omogeneità dovrebbe avere la meglio secondo Veltroni. In tal caso il Partito democratico sarebbe costretto a presentarsi da solo, rinviando a dopo le elezioni il problema delle alleanze.
Credo che questo modo di ragionare sia interamente condivisibile. L'antipolitica è un vizio antico degli italiani, ma non c'è dubbio che essa tragga nuovo e nutriente alimento dalle risse interne alle coalizioni, amplificate come è inevitabile dal circolo mediatico che vive anche di questi scontri adempiendo al suo compito di controllo in nome e per conto della pubblica opinione.
Naturalmente se questo modo di ragionare è giusto, esso dovrebbe essere applicato anche all'interno dei partiti. Le correnti sono inevitabili e anche utili nei partiti di ampia dimensione, a condizione che esprimano diversità di posizioni e di tonalità, compatibili tuttavia entro ambiti di condivisione di obiettivi e di principi.
Da questo punto di vista a molti osservatori - ed anche a me come ho già più volte scritto - non pare che le candidature alternative a quella di Veltroni siano portatrici di posizioni differenziate. Finora queste diversità non risultano, il che conduce a pensare che si tratti piuttosto di posizionamenti per acquisire maggior voce e presenza nel quadro dirigente del futuro partito. E' un obiettivo più che legittimo in un partito democratico, ma va chiamato per quel che è.
Ci sono però due temi specifici che il nuovo partito deve con urgenza affrontare e sui quali è opportuno richiamare l'attenzione del candidato principale: uno è quello dell'elezione dei segretari regionali, se debba esser fatta il 14 ottobre insieme a quella del leader nazionale o se debba invece avvenire successivamente, quando la Costituente del partito sarà stata insediata e dovrà appunto occuparsi anche dell'organizzazione. Si può sottrarre alla Costituente un tema così importante come è il quadro regionale e i modi della sua elezione?
Il secondo tema è quello dei partiti territoriali la cui federazione darebbe vita al partito nazionale. Finora sembra di capire che Veltroni sia favorevole a questo schema federativo. Come osservatore esterno ma interessato mi permetto di dissentire. Le istituzioni dello Stato è giusto che abbiano articolazioni federali provviste di ampie autonomie culminanti nel Senato federale e nel federalismo fiscale. Ma proprio per questo i partiti debbono avere una propria personalità nazionale. Le articolazioni territoriali sono ovvie e sempre esistite, ma non possono dare luogo a partiti autonomi di scegliere alleanze non compatibili e politiche proprie come se si trattasse di altrettanti Stati confederati.
I grandi partiti esprimono convinzioni, principi, consensi su base nazionale. L'Italia è stata e ancora in gran parte è uno spezzatino di interessi e di costumanze. Non spetta ai partiti di perpetuarle e di accentuarle. Essi anzi dovrebbero avere il compito di smussarle e ricondurle ad un concetto di unità della nazione e di visione dello Stato. Si vorrebbe conoscere in proposito l'opinione dei vari candidati alla leadership e in particolare quella di Walter Veltroni.
Post scriptum. Ho letto sui giornali di ieri che Vittorio Feltri è stato insignito dal Circolo Mario Pannunzio di Torino del premio, intitolato appunto a Pannunzio. Come vecchio collaboratore del Mondo sono molto stupito: Vittorio Feltri è senza dubbio un buon giornalista ma non ha niente a che vedere con la figura professionale morale e politica di Mario Pannunzio e del Mondo. Anzi è quanto di più lontano possa mai immaginarsi rispetto al premio dato in nome del fondatore di quell'ormai epico settimanale.
da repubblica.it
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