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Autore Discussione: GIUSEPPE PANISSIDI Signori, la politica è servita  (Letto 2068 volte)
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« inserito:: Maggio 15, 2018, 04:07:15 pm »

GIUSEPPE PANISSIDI

 Signori, la politica è servita

Il negoziato tra i due gestanti, Matteo e Luigi, sembra proseguire con buoni, o non cattivi, auspici. Finalmente. Il populismo concorde e salvifico ha digrignato i denti, mostrando di aborrire non solo le soluzioni, ma persino il termine “tecnico”, non in generale, evidentemente, ma se associato al lemma del cuore: governo. Un caso intrigante di furia iconoclasta: l’antipolitica si converte alla politica. Una politica ‘altra’, indubbiamente.

Dopo l’esperimento Monti, a torto o a ragione, la categoria “tecnica” non gode di buona stampa. “Politique d’abord”, dunque, l’invocazione di Charles Maurras, ora è poco più di un secolo. La politica “prima di tutto”, secondo il più fresco intercalare di Luigi Di Maio. E tutto, infatti, è politica, segnatamente dopo il ’68. Al pari della fede, la volontà politica sposta le montagne, parola di un altro Matteo, crea risorse, lavoro, stipendi, pensioni, redditi vari. E chissà che non finisca per vanificare anche il reddito di cittadinanza.

Al risveglio, l’amara scoperta. Il mondo dipende dalla tecnica, “destino della necessità”, in metafora speculativa, manifestazione specificamente umana, troppo umana, delle forme plurali della ragione, mai rassegnata a vivere supina di fronte alla fatalità. Vade retro.

In effetti, a seguito di chiare vittorie elettorali, appare illogico rassegnarsi a governi “di servizio” o “neutrali”. Anche perché non esistono governi neutrali. A qualsiasi compagine di un esecutivo, infatti, incombe il potere-dovere di compiere scelte, secondo precise e spesso obbligate scale di priorità e di valori. È la logica della politica.

Ebbene, proviamo a guardarla meglio, questa logica, dall’interno e rispetto alle dinamiche della prassi, vedi caso in relazione al patto di governo in itinere tra i pentastellati e la Lega.  Ovvero, non tra due vincitori, come si azzarda, bensì tra un vincitore e la metà dell’altro, visto che l’uomo di Arcore e la ferrea Meloni significativamente danno forfait, mani libere e… tese.

Un “governo politico” urgeva con una certa urgenza, caro maestro Totò. Non siamo la Spagna, dove, nel 2015, nonostante la crisi di governo durata 10 mesi, il Pil ha visto un rialzo del 3,2%). E neppure il Belgio, con i suoi 544 giorni di crisi, nel 2010, e il Pil in alto del 2%. O l’Olanda, dopo le elezioni del 2017, con uno stallo di 208 giorni, e picco di crescita negli ultimi dieci anni del 3,3%. Oppure, infine, la Germania, quasi 6 mesi di crisi, fra il 2017 e il 2018, e l’economia che continuava a filare come un treno.

Noi siamo il Bel Paese. Dove, se anche in nome dell’emergenza, sarebbe comunque uno scandalo che un esecutivo giurasse nelle mani del capo dello Stato, pur sapendo di non ottenere la fiducia. Anzi, a giudizio di una legione di intellettuali e analisti delle più disparate parrocchie, la “crisi del sistema” si aggraverebbe irreparabilmente, avvitandosi su sé stessa, a causa della sfiducia che indirettamente ricadrebbe anche sull’istituzione repubblicana più alta, sulla stessa persona del capo dello Stato. Un evento unico nella storia della democrazia repubblicana.

Nulla di più falso.  Se è vero, com’è vero, che ciò si è già verificato ben cinque volte: nel 1953, nel 1954, nel 1972, nel 1979, nel 1987. Per brevità, limitiamoci a considerare i due casi più significativi, cioè il primo e l’ultimo.

Nel mese di luglio del 1953, la Camera respingeva l’ordine del giorno Moro sulla fiducia all’ottavo governo di Alcide De Gasperi, nominato da Luigi Einaudi. Immediate le dimissioni di De Gasperi, senza nemmeno l’ombra di un vulnus al presidente Einaudi.

L’ultimo, e più recente, il terzo e ultimo della  IX legislatura, il sesto governo Fanfani, nel mese di aprile del 1987, appare ancora più significativo. Al monocolore DC, integrato con esponenti tecnici, la Camera negò la fiducia, a causa della surreale astensione democristiana, mediante un voto quasi surreale, rispetto al proprio esecutivo medesimo, e nonostante la fiducia votata da socialisti, socialdemocratici e radicali, esclusi da quel governo. Dimissioni di Fanfani e scioglimento anticipato delle Camere da parte di Francesco Cossiga, rimasto incolume.

Se non che, l’esame delle performance logico-storiche non può fermarsi qui.

Il movimento di Luigi Di Maio, dopo il voto in fibrillazione esacerbata, ha intonato il requiem alla vecchia, malandata e sconfitta “Repubblica dei partiti”, inneggiando alla nuova “Repubblica dei cittadini”. Una sommessa domanda sembra d’obbligo. La nuova Repubblica dei cittadini si identifica nello spazio privilegiato anche della lealtà e della coerenza? Se stiamo ancora incrociando nelle pur inospitali acque della logica, è giocoforza rammentare che uno dei punti più alti e qualificanti del programma politico pentastellato, sbandierato con orgoglio, lungamente e a ogni piè sospinto, sembrava riferirsi all’urgente necessità di contrastare la piaga delle crescenti diseguaglianze sociali. La soluzione prospettata prevedeva politiche finalizzate alla “redistribuzione del reddito verso il basso”. Ora, è del tutto evidente che la “flat tax”, propugnata e ribadita dalle destre, ove mai attuata – pur tacendo della neutralizzazione dei benefici per i redditi medio-bassi, in costanza del connesso e previsto aumento di numerosi altri balzelli - non potrebbe che implicare, sì, una forte redistribuzione del reddito, però verso l’alto! Ne discende che, sul piano del più elementare canone logico, etica/politica a parte, emerge l’idea, vagamente schizoide, di una Repubblica dei cittadini ancora più disuguali, irrazionalmente condivisa dal movimento dei cinque astri nascenti, in clima con l’esecrata Europa delle vertiginose disuguaglianze, singolarmente lievitate negli ultimi trent’anni – curiosa coincidenza – dopo la fine del campo socialista.

Una riflessione analoga merita la vexata quaestio del “conflitto d’interessi”. Il leader a cinque stelle si rifiuta di rispondere alla specifica domanda, ma pare che esso esuli dall’accordo di maggioranza, asseritamente ‘politico’. Ora, prescindiamo, per un momento, dalle deplorazioni del Parlamento Europeo, quando, con la risoluzione del 20 novembre 2002, registrava che l’Italia non ha ancora “adottato una normativa sul conflitto d'interessi”, a differenza di tutti gli ordinamenti giuridici democratici, i quali, proprio perché garantisti, dispongono di specifiche normative, in particolare nel caso di incarichi con rilevanza pubblica. Sorvoliamo, perché note, sulle accese intemerate di Beppe Grillo sul conflitto d’interessi, nonché sulla necessità di ridurre i privilegi, a cominciare dai suoi eletti alla Regione Sicilia, a quelli che sarebbero stati eletti al Parlamento nazionale e nei vari parlamenti regionali, oltre che sulla rinuncia ai rimborsi elettorali per milioni di euro, non gestiti dal capo del movimento, ma da soggetti esterni alla segreteria, in maniera trasparente, come usa in tutte le democrazie degne di questo nome.

Per soffermarci, invece, sulla natura e le implicazioni del conflitto di interessi, ritenuto dalla specifica letteratura politico-giuridica come una questione centrale della democrazia, di ogni democrazia, la principale questione etico-politica, concernente una micidiale fonte di corruzione e criminalità e, altresì, di una gestione dissennata delle risorse pubbliche. In aperta violazione dell'art. 97 della Costituzione, che impone alla pubblica amministrazione di agire rispettando i principi del buon andamento e della imparzialità.

In breve, dal patto giallo-verde risulterebbe escluso, ove mai confermato, non già un fenomeno politico-giuridico-sociale secondario e trascurabile, ma bensì una cruciale ipotesi di intervento e regolazione del principale strumento di corruzione diffuso in Italia. “Un cancro, secondo Ferdinando Imposimato, che affligge la politica del Governo e le nostre istituzioni da decenni. E che si aggrava nonostante le denunzie e le accuse che fioccano per gli scandali ricorrenti, e che interessano varie categorie di persone: governanti, amministratori, governatori, banchieri, imprenditori, consulenti, magistrati, soggetti nei quali spesso si uniscono le funzioni di controllori e controllati. Con il permesso o nell'assenza della legge”.

Questo l'anello debole della tangentopoli che ci sovrasta, la sua mancata disciplina come delitto autonomo, dopo la depenalizzazione “dell’interesse privato in atti di ufficio”, avvenuta nel 1990 per volontà della sinistra. Vero è che quanti dovrebbero provvedere, innanzitutto i (sedicenti) governi politici, pur di conservare il potere, non solo rinunciano ad agire, ma, anzi, si mostrano sempre supini ad intese snaturanti, esattamente come farebbe un accomodante Luigi Di Maio, in versione Gigetto La Qualunque. Esattamente. Se, poi, questo fosse il prezzo per la captatio della “benevolenza” berlusconiana, niente male.

Non si può, tuttavia, negare che Gigetto si dimostrerebbe un uomo pieno di sorprese, in concorrenza con le mattonelle dei marciapiedi, qualora e d’improvviso ci svelasse la propria “armoniosa” – Bonafede: chi era costui? - sintonia con Salvini anche sul tema dell’immigrazione, altro tema nevralgico della trattativa, o sulla passione per il potente e influente Ras-Putin, e su tante altre mefitiche ricette e specialità delle destre.

Come cambiano le cose, dopo i…bottini elettorali. L’Italia “ha altre urgenze”. In fondo, la democrazia può aspettare. Al pari, tra l’altro, di una più organica e incisiva normativa anti-corruttela? Chi vivrà, vedrà, come si suol dire.

Certo è che questo frenetico volgere di insanabili e grottesche contraddizioni, più che il post-ideologico, fa venire in mente il post-logico!

Sia consentita, conclusivamente, un’auto-obiezione. Quale alternativa restava a Luigi Di Maio, dopo lo sdegnoso diniego del PD? Lasciamo la risposta a lui medesimo: “I nostri analisti ci assicurano che, in caso di nuove elezioni, otterremmo l’8% in più!”. Ma, allora, qual è il problema? Anziché incrinare, se non seppellire, le ragioni storiche della propria esistenza, non sarebbe più coerente, ragionevole e onesto accettare, nell’immediato, il governo di servizio proposto da Mattarella, per andare, il più presto possibile, al voto anticipato e realizzare, grazie a quell’8% in più, il lungo sogno della completa autonomia? Resta, naturalmente, salva la possibilità che gli “analisti” in parola versino in delirio, specie se si considera la Caporetto friulana, ancorché regionale. In tal caso, è patente, l’esternazione di Gigetto voleva semplicemente fungere da (non troppo) velata minaccia ad hominem, allo scopo di estorcere l’assenso a un malconcio ex Cavaliere. Una delle consuete minacce – “delinquenti… traditori… la pagherete…” - sulla via e nella prospettiva della trasmutazione catartica. Purché, pietà di noi, essa non somigli alla “palingenesi” di Roger Griffin, il principale teorico del fascismo delle nuove generazioni.

Giunti, però, a tal punto di chiarezza, sarà forse il caso di emendare e tradurre, in salsa italica, la vecchia e ottimistica formula di Maurras. Diremmo meglio: le pouvoir d’abord. Il potere, prima di tutto. Certamente, entro un’ottica siffatta, la premiership varrebbe bene anche l’ipotizzata ma improbabile staffetta tra i due soci, Matteo e Gigetto, verso i quali, in ogni caso, bisogna manifestare sentimenti di sincera gratitudine, poiché ci aiutano a fissare, con sufficiente precisione, qualche data storica, un vero e proprio spartiacque ideale.

La seconda Repubblica è finita. Quando finirà anche la prima? Dimmi quando… quando… quando. Ecco, le “masse di capovolgimento” di Elias Canetti, pentastellate e non, la cui animosità – nietzschiano “ressentiment”, risentimento, profondamente altro dalla gramsciana egemonia - ormai appare ben catalizzata, incanalata e cristallizzata, provino a comprendere che la prima Repubblica finirà il giorno in cui partiti, clan, lobby e individui faranno molti passi indietro, o in avanti, rispetto alla ricerca, all’esercizio e alla spartizione del potere fine a sé stesso, alla vanità del comando, all’occupazione delle istituzioni. Onde risolversi, infine, al più rigenerante dei passaggi, appunto, ‘politici’. Stupirci con prove inaudite di dignità e coerenza morale, in forme consequenziali e anti-trasformistiche, ossia realmente fuori dalla prima Repubblica, indefettibile presupposto per “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Senza costruire, in modo subdolo e surrettizio, nuovi e, magari, più efficienti meccanismi di potere cieco e autopoietico, aderendo, con rigore e passione civile, ancor prima che ‘politica’, al dettato della Costituzione, che il (mitico) popolo sovrano, Matteo e Gigetto compresi, ha strenuamente difeso in occasione dell’ultima e decisiva battaglia referendaria.

Non è stata una burla, vero?

Giuseppe Panissidi

(11 maggio 2018)
Da - http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/?p=24978
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