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Autore Discussione: M5s, cade la maschera moderata. Di Giovanni Orsina.  (Letto 6173 volte)
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« inserito:: Maggio 07, 2018, 04:10:02 pm »


M5s, cade la maschera moderata

Pubblicato il 05/05/2018 - Ultima modifica il 05/05/2018 alle ore 11:03

Giovanni Orsina

E così, dopo aver distribuito a piene mani responsabilità e moderazione per due mesi interi, ora il Movimento 5 Stelle, fallito il tentativo di guidare il governo e spuntando nuove elezioni all’orizzonte, torna sulle barricate. Grillo riesuma il vecchio cavallo di battaglia che c’illudevamo fosse stato venduto tempo fa per carne equina: il referendum sull’euro. Mentre Di Maio attacca l’eventuale governo di tregua definendo i «partiti» nientemeno che «traditori del popolo» - e innalzando così il livello già insopportabile di violenza verbale della nostra vita pubblica, come se non avessimo bisogno d’altro. 

Quest’ultima sterzata è talmente brusca da lasciar senza parole. Ma le svolte del Movimento sono state così numerose che forse a questo punto dovremmo smetterla di sorprenderci. Il M5S non ha dei momenti di incoerenza - è strutturalmente incoerente. Meglio: è fondato sul presupposto che la coerenza non conti nulla. E poiché nella sua incoerenza assoluta è assolutamente coerente, gli elettori non lo puniscono. O almeno non lo hanno punito finora, e si può presumere che non lo puniranno fin quando non si renderanno conto che il prezzo di quell’incoerenza lo pagherà il Paese. Ma come si spiega il disinteresse per la consequenzialità che pare caratterizzare sia i pentastellati, sia i milioni italiani che li votano?

Per il Movimento, innanzitutto, il modo in cui le decisioni vengono prese conta più della sostanza di quelle decisioni. Gianroberto Casaleggio - come scrive Jacopo Iacoboni in «L’esperimento» - era solito insistere sulla necessità che il metodo fosse anteposto ai contenuti. Il metodo, ovviamente, è quello dell’iperdemocrazia diffusa (ma, quando serve, governata) che si presume la Rete abbia finalmente reso possibile. E i contenuti sono quelli che la base sceglierà con quel metodo, qualunque essi siano. Ma i contenuti - basta dare un’occhiata al programma elettorale elaborato sulla piattaforma Rousseau per rendersene conto - sono raccolti in maniera alluvionale, senza la minima attenzione per priorità e compatibilità. E questo li rende irrilevanti, in definitiva, intercambiabili a tal punto che Di Maio può cercare di allearsi con la Lega per realizzare un pezzo di programma (o, per meglio dire, non-programma), oppure col Partito democratico per realizzarne il pezzo diametralmente opposto. 

Ma la gran parte degli elettori del Movimento probabilmente nemmeno sa che cosa sia Rousseau - si obietterà. È vero, però qualcosa del messaggio dev’essere passato, evidentemente. E dove non è arrivato il messaggio, è entrato in funzione un secondo meccanismo, ancora più importante. A buona parte degli elettori del M5S non sembra interessare affatto che sia realizzato un programma, tanto meno coerente: il loro obiettivo, come per le «masse di capovolgimento» descritte da Elias Canetti, è rovesciare i «potenti». Con ogni probabilità anche il ruolo di Grillo non è quello di guidare dei seguaci, ma di catalizzarne e incanalarne l’animosità: Grillo è un «cristallo di massa», per restare nella metafora di Canetti, non un vero e proprio leader politico. L’interazione fra queste due dinamiche - «massa di capovolgimento» da un lato, iperdemocrazia diretta dall’altro - ha fatto del Movimento 5 stelle una macchina elettorale perfetta. Il che vuol dire un perfetto meccanismo di potere: cinico e trasformista come probabilmente non hanno saputo esserlo nella storia d’Italia nemmeno i più induriti ascari giolittiani o peones dorotei.
Parrebbe il colmo del paradosso che, nell’ansia di rovesciare un ceto politico considerato inetto, bugiardo e autoreferenziale, gli italiani si siano affidati a un movimento il cui unico, vero scopo è arrivare a ogni costo al potere. Ma non è affatto un paradosso: è la conseguenza logica, forse perfino necessaria, di una crisi della politica così grave da far maturare a molti elettori la convinzione non del tutto irragionevole, ma di certo assai pericolosa, che l’unico modo per uscirne non sia resistere o tornare indietro, ma assecondare fino in fondo la corrente.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/05/05/cultura/ms-cade-la-maschera-moderata-Kf9JOcSfcryt2Elb6GDY6I/pagina.html
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« Risposta #1 inserito:: Maggio 07, 2018, 05:34:53 pm »

Il Presidente Fico ha battezzato il nuovo Centrosinistra, la nuova Italia Popolare e Riformista

Il discorso di insediamento del nuovo Presidente della Camera, Roberto Fico, segna un punto di svolta fondamentale nel percorso evolutivo del Movimento Cinque Stelle. È stato un discorso eminentemente politico, un discorso rivolto all’esterno del Palazzo, un discorso con il quale la Terza carica dello Stato, all’atto del suo insediamento, ha voluto delineare l’orizzonte valoriale di una forza politica che dopo aver costruito la propria crescita sul rifiuto delle coordinate tradizionali, sulla pretesa di oltrepassare le vecchie categorie dell’appartenenza politica, sulla promessa di ribaltare il sistema, ha saputo cambiare pelle aprendosi ad un nuovo modello di rappresentanza sino ad arrivare, con la vittoria, a chiudere il cerchio istituzionalizzandosi. L’elezione di Fico ha segnato proprio il compimento di questo percorso ed il suo discorso, in qualche misura, ha aperto una fase nuova per il Movimento delineandone il perimetro valoriale, definendo un chiaro orizzonte di rappresentanza, superando ogni equivoco.

Il Movimento Cinque Stelle vuole imporsi come il nuovo Centrosinistra, come una forza progressista e di governo, che affonda le proprie radici nei valori dell’antifascismo, ovvero della Costituzione Repubblicana nata dalla Resistenza, nei valori dell’uguaglianza, della legalità, dei diritti, della ricerca ostinata di un progresso collettivo, nel dovere di non lasciare nessuno indietro, nell’idea che l’unità della comunità nazionale va coltivata attraverso la credibilità di una politica in grado, attraverso le Istituzioni, di mostrarsi nuovamente credibile.

Fico è partito dalla sacralità della Costituzione nata dalla Resistenza, dal ricordo dell’eccidio delle Fosse Ardeatine e della radice antifascista della Repubblica, quindi è passato a richiamare la necessità di riaffermare la centralità del Parlamento riequilibrando il rapporto tra potere legislativo e potere esecutivo, ripartendo dall’autonomia del Legislatore, allargando gli spazi di partecipazione democratica dei cittadini attraverso il rispetto del dettato Costituzionale, valorizzando gli istituti di democrazia diretta previsti. Quindi il dovere di rispettare la sovranità popolare anche e soprattutto in relazione agli esiti referendari - come non pensare a quelli del 2011 sui beni comuni - la necessità di tagliare i costi delle istituzioni e della politica per riaffermare il doveroso rispetto per la cosa pubblica e per ristabilire un rapporto di fiducia tra i cittadini e le Istituzioni, il dovere di ricucire la comunità nazionale muovendo da una lotta senza quartieri ad ogni forma di illegalità, dal principio per cui ogni richiesta di pizzo a un imprenditore non dovrà più essere percepita come un attacco al singolo, il principio per cui ogni ragazzo che abbandona la scuola e sceglie la via dello spaccio o della violenza sarà una sconfitta per tutti, ogni individuo che non riesce a vivere un’esistenza dignitosa sarà una vergogna e una responsabilità per tutti. Perché è dall’individuo, dunque dalla persona, che occorre ripartire.

Queste sono le radici e le ragioni di un Riformismo consapevole, capace di parlare il linguaggio della modernità nella pluralità. Questo è l’orizzonte valoriale di una forza che da Sinistra coltiva l’ambizione del cambiamento, senza tentennamenti, senza scorciatoie, senza equivoci. E sarebbe davvero miope minimizzare la portata politica del discorso del Presidente della Camera appena eletto, limitandosi a sottolineare che in fin dei conti Roberto Fico viene da quel mondo, avendo militato per anni nei movimenti per il bene comune, ovvero nel variegato universo della Sinistra movimentista partenopea. Sarebbe dannatamente miope affermare che quello è solo il suo pensiero, perchè quello è l’orizzonte che il Movimento si è dato e non da oggi: fagocitare il Pd, dare rappresentanza al Centrosinistra di questo Paese, all’Italia popolare e riformista.

Sono sulla buona strada, se è vero che il Pd lo hanno già fagocitato nelle urne, ma il percorso da compiere è ancora maledettamente lungo e intriso di ostacoli. Vedremo.

Da - http://www.orticalab.it/Il-Presidente-Fico-ha-battezzato
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« Risposta #2 inserito:: Maggio 20, 2018, 12:02:27 pm »

Umberto Minopoli @uminopoli ·
17 maggio 2018

La crisi dell’Ilva ci dice quanto sia arretrato l’M5S

Hanno irresponsabilmente deciso di agitare l’utopia velleitaria della fine della fabbrica, della produzione di massa e dell’avvento dell’economia soft, del turismo, delle produzioni leggere

Scampata l’insidia – l’impossibile e spericolato patto di governo Pd/5 Stelle – chiediamoci pacatamente: sarebbe, veramente riuscito il Pd nell’impresa, vagheggiata da alcuni, di correggere, riequilibrare, “costituzionalizzare” (come pomposamente si è detto) la natura e i propositi del movimento grillino? C’è da dubitarne.

Lo spettacolo di questi giorni ha dimostrato l’insostenibilità di questo generoso proposito. Non è bastata la sbianchettatura dei programmi elettorali, nei loro aspetti più cervellotici, per colmare il gap evidente tra il programma di governo di cui l’Italia avrebbe bisogno oggi- per consolidare la ripresa economica, irrobustirla e completare le riforme avviate dai governi del Pd- e l’allarmante agenda populista. Che realizza, purtroppo, le peggiori profezie: la paura dei mercati, la diffidenza dei nostri partners, il timore di un peggioramento di tutti gli indici, la compromissione dell’avviata ripresa dovuta all’azione dei governi del Pd.

Ma c’è un motivo più di fondo che rende poco plausibile, anzi pressoché inverosimile e velleitario, il proposito vagheggiato di una supposta funzione pedagogica e correttiva del Pd in un governo con i 5 Stelle: una parte della sinistra avrebbe contrastato questo sforzo. E avrebbe, ne sono sicuro, spalleggiato e supportato i 5 Stelle nella resistenza a non farsi cambiare e ad imporre la propria agenda. E’ allarmante dirlo. Ma il Pd farebbe bene a guardare in faccia ad un fenomeno che si va manifestando e che è parte dell’astruso dibattito, quasi una cristologia, sulla presunta natura di sinistra dei 5 Stelle.

C’è una parte di questa – politica, sindacale, di governo locale, di opinione – che, in qualche modo, si è già arresa ai paradigmi populisti, ne ha introiettato analisi, visioni, narrazioni della realtà. Ne ha sussunto i linguaggi, i codici di lettura politica, le agende. E’ qualcosa, a mio avviso, che può dividere ancora a sinistra. Ma, stavolta, in modo persino più grave della stessa sciagurata scissione del 2017. Perché tocca la prospettiva del Paese, del suo futuro economico e di potenza industriale. Stavolta è peggio. Non si tratta più, come nel caso della scissione, del vagheggiamento nostalgico e minoritario dei riti antichi, del perenne fantasticare, del consueto refrain, massimalista e conservatore, del “passato che non passa” della sinistra eterna. No. Oggi c’è qualcosa di più: un cambio culturale, una mutazione genetica, una permuta, una variazione di pelle.

C’è una posizione diffusa a sinistra che accredita l’equivoco populista, lo comprende e, in qualche caso lo sostiene. Questa posizione sopravvivrà alla sciagurata, e per fortuna abortita, ipotesi di un governo Pd/5 Stelle. E costituirà, temo, un problema – ma forse il problema – del confronto nel Pd sulla ripresa del partito.

E, speriamo di no, condizionerà la stessa condotta della nostra opposizione al governo dei populisti. Esagero? Prendiamo il caso dell’Ilva. E’ la metafora, il paradigma del cambiamento in atto in una parte della sinistra. E non solo di quella antica e nostalgica.

C’è, purtroppo, un mondo articolato – di sinistra politica, sindacale, di opinione, di ceto di governo locale – che, nella vicenda Ilva ha mostrato una sostanziale accettazione, ormai, dei valori, dei codici interpretativi, delle priorità programmatiche del populismo pentastellato. Uno su tutti: la detronizzazione del lavoro industriale, la deposizione della sua centralità, in nome di altre gerarchie (la salute, l’ambiente), la presunta incompatibilità tra industria e ambiente.

Sull’Ilva si è giocata una partita emblematica, espressione di due approcci, diversi e alternativi, al tema dell’industria, del lavoro e dell’ambiente. E in un’area del Mezzogiorno che vede crescere disoccupazione e desertificazione industriale. Da un lato, l’approccio riformista – la scommessa sul rilancio della fabbrica, il punto fermo della natura progressiva e migliorativa della presenza della grande industria, come motore di sviluppo e fattore propulsivo, la facilitazione concessa agli interventi di grandi gruppi privati che, nel caso di Ilva, garantiscono quantità e qualità degli investimenti, il risanamento ambientale dei processi produttivi attraverso le tecnologie, la tenuta dei livelli occupazionali e dei trattamenti retributivi – dall’altro un approccio di indifferenza, di fastidio e di sostanziale rigetto del rilancio industriale. Una parte di sindacato e di sinistra ha scelto di giocare un’altra partita. Che non è quella di scommettere sull’Ilva.

Il colosso siderurgico di Taranto (ma anche di Genova ed altre località) è oggi è un abisso di perdite (30 milioni al mese). Arretra progressivamente in termini competitivi. Eppure resta un settore promettente dell’export nazionale, un fattore significativo del Pil del Paese (quasi 4 miliardi nel 2013) in un comparto, quello metallurgico e siderurgico, pervasivo e pro-attivo per l’intera economia nazionale, in termini di prezzi e garanzie delle forniture. Ilva, inoltre, è il cuore di un subsistema occupazionale calcolato in 50.000 addetti collegati, in vari modi, al ciclo produttivo di Taranto. Salvare si può.

Le scelte dei due ultimi governi hanno garantito il contesto ottimale del rilancio dell’Ilva: la disponibilità di risorse per raggiungere gli standard ambientali e la gara competitiva per selezionare un grande gruppo privato in grado di realizzare gli investimenti necessari alla ricollocazione di Ilva sul mercato internazionale dell’acciaio. Quale contesto migliore, in una realtà pericolosamente compromessa, per esercitare un ruolo attivo del sindacato, della sinistra politica, dei governi locali? E, invece, una parte del sindacato, della sinistra politica e di governo locale, ha spregiudicatamente operato perché saltasse questa prospettiva. Prima agitando inesistenti, velleitarie e impossibili alternative- la nazionalizzazione dell’Ilva, la cervellotica conversione a gas (mentre si contesta il Tap) del ciclo di alimentazione del siderurgico- poi frapponendo ostacoli e resistenze alla chiusura delle trattative. Con quale alternativa? Domanda inevasa.

Per la prima volta un grande sindacato (con la lodevole eccezione della Fim Cisl) ha scelto di compromettere un disegno industriale, di salvataggio e rilancio, di un grande gruppo, di correre il rischio dell’abbandono degli investitori privati, di rinunciare a condizioni (occupazionali e di reddito) già acquisite, per un’altra prospettiva. Quale? Non è dato sapere ma si può intuire.

E’ la scommessa sull’avvento dei 5 Stelle alla guida del paese come una sorta – incredibile a dirsi – di governo amico: un esecutivo formato da un partito che considera il Mezzogiorno un’area di spreco da disciplinare e da un altro, i 5 Stelle, che considera la fabbrica siderurgica un mostro inquinante da chiudere. E che considera prioritario, nel Sud, la distribuzione di redditi da mantenimento a salari che paghino un lavoro. Una parte della sinistra e del sindacato hanno messo in conto tutto questo.

Hanno, irresponsabilmente, deciso di giocare l’alternativa all’industria (ma, vedrete il ragionamento si estenderà alle grandi opere, alle infrastrutture, ai grandi lavori), di agitare e titillare l’utopia velleitaria della fine della fabbrica, della produzione di massa e dell’avvento dell’economia soft, del turismo, delle produzioni leggere.

E’ il mito grillino della riconversione: dall’industria ai fasti (presunti) della decrescita felice. Sciocchezze. E tragiche. Si tratta di un progetto, al contrario, molto infelice. Un incubo per Taranto e il Mezzogiorno.

Senza quella grande fabbrica il motore di Taranto (e non solo di essa) si fermerà. Non ci sarà risanamento ambientale (se non trainato dagli investimenti migliorativi sui processi di Ilva). Non ci saranno risorse per reindustrializzare l’area. Che conoscerà una mortificante e prolungata agonia. Di certo il governo amico a 5 Stelle dovrà assicurare un reddito di cittadinanza, un sussidio a vita a decine di migliaia di “pensionati della storia” (Gramsci).

Non sarà poi questo il vero sogno nel cassetto, il vagheggiamento nascosto del sindacato e della sinistra della decrescita? Il sospetto è forte.

Da - https://www.democratica.com/focus/crisi-ilva-m5s-sindacati-sinistra/?utm_source=newsletter&utm_medium=testo&utm_campaign=nl28-17052018
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