Alfredo RECANATESI.

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Tremonti e la favola di Robin Hood

Franco Recanatesi


Compito di un governo non è quello di darsi un ruolo da Robin Hood, ma quello di evitare che il Paese abbia bisogno di Robin Hood. Tremonti ha una consumata abilità nell’usare l’arte dialettica come il pifferaio magico usava il suo strumento per farsi seguire da moltitudini di topolini, e così ha presentato la sua idea di una tassa straordinaria per colpire i profitti dei petrolieri con frasi del tipo «la gente che ha fame non aspetta», oppure «a profitti straordinari, prelievi straordinari». Poiché resistiamo a svolgere il ruolo del topolino, riteniamo utile scremare la posizione del ministro dalla sua immaginifica presentazione ed andare al sodo della sostanza che c’è sotto.

E quel che c'è sotto è inquietante per la concezione stessa che sottende sull'azione del governo e sulla cultura che la ispira. Vestire i panni del difensore della povera gente è una operazione di marketing politico poco credibile, ma ugualmente efficace perché quanti stanno subendo erosioni del proprio già magro tenore di vita sono tanti e non dispongono di soluzioni alternative a quella che Tremonti comunque prospetta. La risonanza che le sue idee stano riscuotendo in Italia e - seppure con maggiore cautela - in altri Paesi europei dove sono presenti problemi analoghi, dimostra la povertà di analisi e di idee sul problema globale del rincaro dell'energia e di molte derrate alimentari. Ma questo non basta per dare un giudizio positivo sulla ipotesi di una imposizione straordinaria sui profitti straordinari dei petrolieri nostrani (non quelli, ovviamente, che, in quanto produttori di petrolio, sono all'origine del rincaro). E i motivi sono più d'uno.

Si può cominciare da una considerazione di fondo che attiene i profitti da tassare. Chi è che stabilisce se i profitti sono tali, e dunque da considerare leciti, o sono sovraprofitti, e dunque da considerare illeciti? Dov'è la linea che può stabilire l'etica dalla quale Tremonti si dichiara mosso? È stupefacente come, anche tra chi professa idee liberali e di mercato, non sorga neppure il dubbio su quanto possa essere sconvolgente la affermazione di un principio in base al quale il governo si attribuisce il diritto di giudicare se è giusto o no, se è etico o no, quanto ciascuno, rispettando le regole vigenti, riesce a guadagnare. Principio al quale non deve fare ombra la circostanza che, nell'occasione, riguarda una categoria che non gode certo di grande popolarità come quella dei petrolieri. Se c'è un problema di profitti ritenuti per qualche misura eccessivi, la causa sta semmai in un difetto di concorrenza. Allora è qui che semmai un governo dovrebbe intervenire, anche perché, se così non fosse, se cioè fossimo in presenza di pratiche collusive di un qualche oligopolio, ogni imposizione fiscale aggiuntiva potrebbe essere bellamente trasferita sui prezzi ed a pagarla, alla fine, sarebbero i consumatori. Insomma, una beffa.

E poi: perché solo i petrolieri? I rincari che stanno erodendo il potere d'acquisto di tante famiglie non sono solo quelli di benzina e gasolio, ma anche, e soprattutto, quelli di pasta, pane, latte, gas, elettricità e tanti altri beni ancora più necessari dei carburanti: è immaginabile che l'impeto dirigista armato dalla clava fiscale possa trovare una soluzione per tutti? Con quale sistema economico ci ritroveremmo alla fine? Forse con un governo che decide quanto è giusto che guadagnino fornai, pastai, fino a chiunque operi nella produzione e nel commercio? Non si scherza con il funzionamento dell'economia di mercato, ed in primo luogo non si scherza con l'impoverimento che fasce sempre più numerose di popolazione stanno subendo. Se Tremonti vuole davvero fare il Robin Hood sa bene dove potrebbero essere tratte risorse per lenire l'indigenza dei più poveri senza sovvertire i principi del libero mercato ed evitando di usare il fisco per piegare al servizio di finalità politiche il comportamento di specifiche categorie di operatori economici: ripristinando l'Ici sulle case dei proprietari più abbienti che in questi anni sono raddoppiate di valore; riformando la tassazione delle rendite finanziarie vergognosamente favorite dal fisco rispetto ai redditi da lavoro; mettendo le mani nelle tasche di chi si attribuisce stock-option e premi milionari a carico anche di imprese traballanti; non vediamo l'affermazione di grandi principi etici in questi favori che il fisco, con buona pace di Robin Hood, continua incontestato a concedere.

Si potrebbe continuare, ma la finiamo qui perché anche per i Robin Hood i tempi sono cambiati. Un fisco più giusto ed efficiente è una esigenza che risponde alle istanza di equità distribuiva e di equilibrio sociale, mentre minimo è il concorso che può dare per invertire il processo di impoverimento del Paese. Questo processo è innescato da fattori geopolitici sui quali le possibilità di intervento dei singoli governi sono pressoché nulle. Di conseguenza, l'impoverimento può essere arrestato solo producendo una maggiore quantità di ricchezza, cioè - per non fermarsi a questa affermazione di stantia genericità - inducendo una profonda evoluzione del sistema produttivo perché il valore aggiunto che genera possa sostenere una più elevata remunerazione del lavoro e, così, reggere il passo dei rincari che agitano e continueranno ad agitare la scena dell'economia mondiale. Se si cominciasse ad andare in questa direzione, per quanto tempo possa volerci, potremmo sperare di diventare un Paese nel quale Robin Hood possa rimanere tranquillo tra nei libri di favole.

Pubblicato il: 05.06.08
Modificato il: 05.06.08 alle ore 8.54   
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Pessime medicine a un’economia malata, per accontentare Confindustria



Quella sociale e quella economica sono due emergenze diverse; connesse tra loro, certo, ma diverse. La prima è quella posta dalla crescente quota di popolazione che subisce un arretramento del proprio tenore di vita, che ha difficoltà ad arrivare a fine mese, che non vede alcun punto di riferimento per poter programmare il proprio futuro. La seconda è l’emergenza posta da un sistema produttivo che fatica a tener testa alla concorrenza e, conseguentemente, da una sostanziale stagnazione.

La cultura di centro-destra non ha risolto, neppure in via teorica, l'esigenza di affrontare contestualmente queste due emergenze: nell'affrontare una contraddice l'altra, e viceversa. Fermandoci all'esempio più recente di queste contraddizioni - è cosa di questi giorni -, per affrontare l'emergenza sociale si inventa la social card che, al di là del paternalismo caritatevole dello strumento scelto, implica pur sempre risorse da redistribuire a beneficio di una tra le categorie più disagiate.

Passano poi pochi giorni e, nel fissare il tasso di inflazione programmato, che costituisce il riferimento da assumere per il rinnovo dei contratti di lavoro, tira fuori quell'1,7% tanto irrealistico da rappresentare una provocazione. Che sia tale non lo dice solo l'esperienza dei milioni di italiani che ogni giorno devono fare la spesa o hanno bisogno di fare benzina o gasolio; né lo dicono i sindacati ed i partiti d'opposizione che potrebbero essere mossi da calcoli pregiudiziali o di partigiana opportunità. Lo dicono i mercati finanziari attraverso i tassi di interesse sui quali la domanda e l'offerta di capitali si incontra sulle diverse scadenze. I quali mercati finanziari sanno, come chiunque in buona fede del resto, che si, ci sarà anche la speculazione come dice il ministro Tremonti, ma questo non vuol dire che il petrolio, o il grano, il latte o il mais tornino ai prezzi di uno o due anni fa (per il petrolio - che poi significa carburanti, elettricità, gas, riscaldamento - si parla di speculazione da quando il prezzo arrivò a 80 dollari; ora siamo quasi al doppio).

Allora, delle due l'una, e da qui non si scappa: o il governo con quell'1,7 mette in conto una stretta di politica monetaria feroce per comprimere comunque, qualsiasi cosa accada, il tasso di inflazione sotto il 2%; oppure mette in conto una riduzione surrettizia del potere d'acquisto di salari e stipendi. E siccome quella stretta di politica monetaria è quanto mai improbabile, perché significherebbe mandare in recessione l'intera economia europea, delle due ipotesi rimane la seconda, ossia quella di una erosione di salari e stipendi operata non recuperando che la metà (o anche molto meno se si considerano i prezzi dei beni a più largo consumo) dell’inflazione che sarà. Insomma, non appena una mano dà, l’altra è già pronta a riprendere.

La contraddizione tra queste iniziative dalle quali il centro-destra non riesce a venir fuori si determina, per un verso, per la indisponibilità di maggiori risorse da destinare a politiche di redistribuzione, e per altro verso, per la pregiudiziale disponibilità ad assecondare la pretesa della Confindustria di recuperare competitività soprattutto attraverso la compressione dei costi e delle condizioni di utilizzo del fattore lavoro. Che la Confindustria prema in questo senso è nelle cose. Lo è molto meno che la politica l'assecondi con tanta solerzia. Che in questa direzione non possa esservi alcuna soluzione all’emergenza della crescita e, conseguentemente, all'emergenza sociale, in passato poteva essere una opinione, ma ora è un dato che si legge nella storia degli ultimi anni, nella stagnazione dei salari reali, nello scivolamento fino alle ultime posizioni nelle classifiche europee, nella stagnazione del Pil anche quando questo cresce nei Paesi più simili al nostro. Del resto, basta leggere qualche libro per apprendere che nessun sistema produttivo si è mai durevolmente affermato nel mondo aggiustando il costo del lavoro alle esigenze della competitività, mentre, all’opposto, sono numerose le esperienze di Paesi che hanno scalato le classifiche mondiali spinti dagli investimenti in innovazione e ricerca resi necessari proprio per recuperare la competitività che un costo del lavoro elevato aveva eroso.

La contraddizione tra la social card di un giorno e l'1,7 di inflazione programmata il giorno appresso è stridente e suscita le comprensibili reazioni polemiche. Ma assai peggiore è la logica dalla quale queste ondivaghe iniziative derivano perché è la logica a causa della quale, per quanto si sia fatto e si faccia entro la sua cornice, ci si deve misurare con una realtà sempre più grama, con emergenze sempre più emergenze, con un declino sociale ed economico sempre più palpabile. Difficile, di fronte a tale pervicacia, immaginare cosa mai debba accadere, perché il seme del dubbio cominci a germinare nelle menti di tanto sicuri e presuntuosi policy makers.

Pubblicato il: 23.06.08
Modificato il: 23.06.08 alle ore 9.32   
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Una tassa contro i poveri

Alfredo Recanatesi


Data la storia dell´Italia, non dovremmo temere l´inflazione più di tanto. In anni che ancora in molti possiamo ricordare l´abbiamo conosciuta anche oltre il 20%, eppure l´economia bene o male continuava a crescere e con essa il benessere di tutti o quasi gli italiani. Questa volta, però, è diverso, tanto che il quasi 4% raggiunto in giugno è ben più grave e preoccupante dei tassi a due cifre che sperimentammo anni fa.

I sostanziali cambiamenti dei quali va tenuto conto sono almeno tre: il significato dell´indice, le conseguenze che determina e le possibilità di farvi fronte. Sul primo punto, non siamo certo tra quanti se la sbrigano criticando il lavoro dell´Istat. Questo fa bene il suo mestiere, che è quello di calcolare indici dei prezzi secondo metodologie che occorre conoscere per potersi avventurare in qualche valutazione. Non è colpa dell´Istat se la media dei prezzi risulta da dati estremamente più dispersi che nel passato. Oggi questa media è la risultante di prezzi che stanno salendo con grande rapidità ed intensità, ed altri che rimangono "freddi" o addirittura diminuiscono. Il problema che si pone, mentre si poneva assai meno negli anni passati, è che questa dispersione incide profondamente nella distribuzione del reddito per il fatto che i prezzi più "caldi", con incrementi annui a due cifre, sono quelli relativi ai consumi più diffusi: soprattutto il petrolio, con tutti i suoi innumerevoli derivati dall´energia ai trasporti, e gli alimentari a base di cereali. Queste voci entrano nei bilanci di tutte le famiglie, ma in misura non proporzionale al loro reddito poiché attengono a voci il cui peso relativo è tanto maggiore quanto più quel reddito è modesto. Se - come si dice - l´inflazione è una tassa, questa specifica inflazione è una tassa regressiva in quanto la sua incidenza è inversamente proporzionale al reddito.

Le conseguenze che determina sono, dunque, dirompenti sotto il profilo non tanto economico quanto sociale. Da un punto di vista economico, dato che rincarano soprattutto i prezzi di beni importati o che hanno mercato internazionale, questa inflazione penalizza l´economia italiana nel suo complesso; penalizza il potere d´acquisto del nostro Pil più di quanto questo cresca; e siccome cresce di un quasi niente, di fatto è come se stessimo vivendo una recessione, e neppure lieve. Solo che questa penalizzazione, diciamo pure questa recessione, colpisce prevalentemente la fascia dei redditi medio-bassi, facendo dilatare l´area della povertà e del disagio travolgendo le misure redistributive adottate o annunciate dai governi passati e da quello in carica.

Quando si passi al tema delle politiche da adottare per fronteggiare questa situazione di crescente drammaticità, quindi, la prima osservazione da fare è sui limiti delle politiche redistributive che, come abbiamo già altre volte rilevato, possono tamponare una emergenza, ma non risolvere e - come si è visto - neppure lenire i termini del problema. Questa inflazione viene soprattutto da fuori, è una inflazione "globale", tutt´altra cosa da quella di venti-venticinque anni fa che, nascendo e sviluppandosi all´interno, era in qualche modo governabile al punto da consentire di far crescere l´economia e di distribuire (con un livello di equità che oggi appare invidiabile) gli incrementi della ricchezza prodotta. Venendo da fuori, e determinando un impoverimento del Paese nel suo complesso, non può essere affrontata con politiche redistributive, tanto meno a carico di bilanci pubblici che poi devono compensare gli oneri della redistribuzione comprimendo prestazioni e servizi che sono rivolti, per lo più, proprio a quelle categorie che con la redistribuzione si vorrebbero favorire.

Le politiche di redistribuzione possono essere considerate come misure sociali dall´effetto circoscritto nel tempo, ed accettate, quindi, solo quando la loro funzione sia quella di attendere il tempo necessario perché le politiche di sviluppo da avviare possano produrre i loro frutti. Finora reali politiche di sviluppo non sono state realizzate. Finora sono state adottate solo misure di contenimento dei costi di produzione, un po´ con la normativa fiscale, un po´ con quella sul lavoro. Gli effetti di queste politiche sono sotto gli occhi di tutti: rendendo meno pressante il salto di qualità, di tecnologia, di innovazione che il sistema produttivo deve compiere perché la produzione di ricchezza possa tornare davvero a crescere, anziché sviluppo finiscono per generare sottosviluppo, sperequazioni, declino economico e sociale.

Una politica di sviluppo non può essere avviata né con iniziative redistributive, né confidando esclusivamente nei meccanismi di mercato, né addossando alla collettività in genere, ed al fattore lavoro in particolare, costi che devono essere sostenuti dal valore aggiunto di quanto si produce. O si entra in questa logica, o si dovrà stringere la cinghia di molti buchi ancora.



Pubblicato il: 01.07.08
Modificato il: 01.07.08 alle ore 11.55   
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C’era una volta Robin Tax

Alfredo Recanatesi


Non c’è nessun giallo sulla Robin tax. C’è solo che nella stessa maggioranza hanno cominciato a rendersi conto che, così come Tremonti l’ha concepita, è una cosa che non sta in piedi. Ci hanno messo più di un mese, ma comunque alla fine sono arrivati alla conclusione che il trasferimento dell’onere aggiuntivo sui prezzi dei carburanti non è un rischio, ma praticamente una certezza, tanto che sarebbe stato meglio non farne niente. Naturalmente, questa soluzione è esclusa per la sconfessione che ne deriverebbe per l’estro del ministro che la inventò e l’annunciò come un San Giorgio che avesse sconfitto il drago dei petrolieri e dei banchieri.

E allora, di male in peggio: nel tentativo di impedire questo trasferimento, che per i consumatori finali, anziché la prospettata riduzione, determinerebbe un ulteriore aumento del prezzo dei carburanti, l’ipotesi ventilata è quella di affidare all’Autorità per l’Energia il compito di verificare se eventuali ulteriori rincari saranno riconducibili all’aggravio delle imposte e, nel caso, chiederne la motivazione affinché possano essere “adeguatamente motivati”.

Tutto questo suggerisce due ordini di considerazioni. Il primo riguarda il dispositivo delle norme che si delinea come una inutile (o peggio) messinscena. Infatti, non sono previste sanzioni nel caso di rincari non “adeguatamente motivati”, e non lo sono per il semplice motivo che il settore petrolifero è liberalizzato e, come tale, opera secondo le leggi del mercato. Secondo queste leggi, non ci sono prezzi motivati e prezzi che non lo sono. I prezzi ai quali avviene un libero scambio, in regime di mercato, sono motivati per definizione. Ed a limitare l’arbitrio del venditore che possa approfittarsi del fatto che del prodotto che vende non si può fare a meno deve provvedere la concorrenza. Come osservammo non appena la bislacca idea della Robin tax fu esternata, nella sua concezione c’è, infatti, una contraddizione in termini perché, se ci sono rincari dovuti alla presunzione di ulteriori rincari futuri del prezzo del petrolio, essi vanno ricondotti ad un difetto di concorrenza; ma, se c’è un difetto di concorrenza, imporre un aggravio fiscale non serve perché l'onere, malgrado tutte le Autorità che possono esserci messe di mezzo, può venire bellamente girato sui prezzi praticati. Questa considerazione può essere materia di riflessione anche per le tante sedicenti associazioni di consumatori che plaudono alla demagogia dirigista di questi maldestri tentativi di coercizione dei prezzi anziché più utilmente - e diremmo più strutturalmente - impegnarsi a favore di un rafforzamento della concorrenza nel settore dei carburanti, dei servizi bancari e di tanti altri nella macro come nella micro economia.

Il secondo ordine di considerazioni riguarda, appunto, l’intento dirigista implicito in questa vicenda della Robin tax. Ogni storia di dirigismo è sempre cominciata esponendo al pubblico ludibrio una qualche forma di bieca speculazione perpetrata da una minoranza di affamatori ai danni delle masse di consumatori e utenti. Anche il centro-destra, in particolare nella versione che emerge dall’operato di Tremonti, ora non trova di meglio che sollecitare il risentimento di tanta gente, quella alle prese con il problema di far quadrare i conti familiari, additando gli untori di turno e millantando, con spirito vendicativo e modi sarcastici, la capacità di fargliela pagare. È quel centro-destra che aveva cominciato promettendo meno Stato e più mercato, per poi passare alla fase colbertista - rimasta purtroppo alla sola teorizzazione quando, invece, in Italia un intelligente colbertismo potrebbe rimediare ai limiti dell’imprenditoria - per finire ora ad un dirigismo che pretende di poter governare determinati prezzi scelti tra i più impopolari del momento. Un dirigismo frustrante perché al tempo dei prezzi amministrati è succeduto quello delle liberalizzazioni, del mercato, della concorrenza. Ma, ancorché frustrante, l’idea di poter risolvere con un tocco di bacchetta magica un problema che affligge tanta gente genera l’irresistibile pulsione ad agire di forza brandendo il potere impositivo, e non importa se in dispregio dei principi che presiedono - o dovrebbero presiedere - all’esercizio di quel potere; è sempre più facile che impegnarsi in una politica seria ed organica che, prendendo atto del mondo in cui viviamo, anziché l’illusione di un abbattimento dei prezzi offra la prospettiva credibile di un maggiore sviluppo e, quindi, di un aumento dei redditi.

Gli uffici governativi sono ancora al lavoro per trovare le pezze con le quali rattoppare questo decreto nato male e cresciuto peggio. Ma quanto è emerso finora alimenta comunque il sospetto che il Robin Hood comparso dalle nostre parti sia un millantatore: del generoso e leale eroe scozzese ha davvero ben poco, mentre, a guardarlo più attentamente, la somiglianza che mostra è piuttosto quella con un velleitario e un po’ pasticcione Brancaleone.

Pubblicato il: 09.07.08
Modificato il: 09.07.08 alle ore 13.13   
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Pagano sempre gli stessi

Alfredo Recanatesi


I dati che con cadenza mensile descrivono lo stato e l’andamento dell’economia italiana ci dicono di una crisi che si sta avvitando lungo una spirale della quale nessuno può ancora dire dove sia il fondo. Lungo questa spirale interagiscono soprattutto consumi e produzione del reddito: la riduzione degli uni determina la contrazione dell’altra; e la contrazione di questa la riduzione di quelli. L’attualità fornisce una spiegazione comoda per tutti.

I rincari dei prezzi internazionali dell’energia, delle materie prime e delle derrate alimentari di base costituiscono una tassa alla quale dobbiamo sottostare perché di quei beni non si può fare a meno. È vero, com’è vero che nessun singolo Paese consumatore ha il potere di intervenire sul livello di quei prezzi. E siccome non c’è niente da fare, questa pesante congiuntura viene accettata quasi fatalisticamente, per cui la preoccupazione per la propagazione degli effetti fa premio su quella per le cause della crisi stessa. Come conseguenza di questo atteggiamento, la Bce innalza il costo del denaro e sollecita moderazione salariale, il che, tradotto, significa che la riduzione del potere d’acquisto di chi vive del proprio lavoro non deve essere recuperata; la Confindustria mette le mani avanti per avvertire che la competitività delle imprese non consente recuperi; il governo si limita a qualche tentativo per tamponare le conseguenze sociali più insostenibili accampando la penuria di risorse (una penuria, comunque, che non ha impedito di affrancare dall’onere dell’Ici le abitazioni di fascia più alta).

Nel suo complesso il Paese, colpito più duramente di quanto si vada dicendo, sembra attendere che passi la nottata, come se il prezzo del petrolio potesse mai ripiegare ai livelli di due o tre anni fa, come se il prezzo del pane e della pasta potesse venire calmierato dai raccolti delle nuove superfici messe a grano un po’ in tutto il mondo, come se la crisi finanziaria innescata dai mutui sub-prime potesse essere risolta nel giro di qualche mese, come se il costo del denaro (e relativo onere per i mutui) potesse tornare ai minimi di quattro-cinque anni addietro. Null’altro si sta facendo. O, almeno, null’altro si va facendo per definire e realizzare, ciascuno per la propria parte, una politica di sviluppo, intendendo per tale una politica che sia in grado di generare il reddito aggiuntivo necessario almeno per compensare quello che il resto del mondo ci sottrae attraverso i rincari dei prodotti di base. Questa è la condizione, l’unica, perché il benessere medio non abbia a ridursi ulteriormente. Poi si potrà parlare di politiche redistributive. Parlare di queste senza parlare di sviluppo, nel senso appena detto, non può portare da nessuna parte; come abbiamo osservato altre volte, significa redistribuire solo la povertà.

Questo per quanto riguarda il Paese nel suo complesso. Ma c’è di peggio. C’è chi si da da fare ma, che poi ci riesca o meno, lo fa nel proprio esclusivo ed immediato interesse. In un quadro come quello descritto dai dati, questo significa che il declino economico generale induce una contesa più accesa tra le categorie nel tentativo di salvarsi: l’obiettivo dell’impegno non è quello di combattere il declino generale, ma di costituirne una eccezione. È questo il senso di quanti, nel vuoto di idee e di iniziative, vanno chiedendo riduzioni di tasse, ben sapendo che ogni riduzione postula un contenimento possibile e certo - ripetiamo, possibile e certo - della spesa; ben sapendo, di conseguenza, che i tagli possibili e certi sono sempre quelli: pensioni, sanità, servizi, per non dire degli investimenti necessari allo sviluppo. Del resto, quando manca un disegno strategico credibile e condiviso al quale rivolgere l’impegno di singoli e categorie, è inevitabile che, chi può, pensi in primo luogo a difendere il proprio particolare. Ed è inevitabile anche che, quando questo è lo spirito prevalente, la spirale del declino continui ad avvitarsi e la forbice tra agiatezza e povertà continui ad aprirsi.

Non è questione, questa, che possa risolversi in breve tempo. Ma certo nessuna soluzione potrà venire fino a quando un governo tenderà a girare sulla "speculazione" la responsabilità di quanto sta accadendo e spaccerà come politica di sviluppo la detassazione degli straordinari e dei premi di produzione; e fino a quando il sistema produttivo non avvertirà come una debacle delle proprie capacità e del proprio ruolo la difficoltà di competere nella quale continua a dibattersi pur con salari il cui potere d’acquisto è fermo a ben quindici anni fa. Nel dar conto della flessione del 6,6% della produzione industriale nell’anno terminato a maggio, Il Sole - 24Ore di ieri ha pubblicato un grafico da cui risulta che, fatta 100 la produzione industriale del 2000, la Germania, malgrado la flessione di questi mesi, è oltre 120, la Francia se la passa peggio perché sta a 105, ma l’Italia è addirittura sotto, a 96-97. E in Francia, e ancor più in Germania, i salari negli ultimi quindici anni fa di strada ne hanno fatta; non tanta, ma ne hanno fatta.

Pubblicato il: 12.07.08
Modificato il: 12.07.08 alle ore 14.14   
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